Marco Furia, Recensioni

Versione stampabilePDF version

Un sentimento inabile?

Vigile fino al limite del visionario, Giorgio Bonacini, in
“ Quattro metafore ingenue “, propone immagini la cui
innegabile attrattiva muove da una versificazione intimamente
tesa, contratta, ma capace di distendersi, improvvisa,
concedendo “ biologico “ respiro, in espressioni tanto
enigmatiche, quanto liberatorie.
Non troppo “ ingenuo “, in verità , del tutto spontaneo
all’ origine del gesto poetico, il Nostro presenta esiti di
scrupolose indagini risolte in dialogo con lo stesso strumento
linguistico: dialogo, più che analisi, dato il tono garbato,
ottenuto anche grazie a melodie segrete, appena evocate,
implicite e onnipresenti.
Conscio di un ineffabile diffuso oltre confine, nonché
dei fondamenti non logici dell’ idioma, Bonacini,
con repentina sincerità, dichiara: “ non ho visto niente “.
Niente di quanto, in effetti, risulta escluso dall’ umano
campo visivo, se è vero che la vita, specie la propria, si vive,
semplicemente.
Raffinata la scansione verbale.

(Giorgio Bonacini, “Quattro metafore ingenue”, Manni editore,2005)

La piega del tempo

Memore, già allievo di Adriano Spatola, della lezione surrealista, Giacomo
Bergamini, con “ Il viaggio”, presenta immagini, sospese eppure gravide
d’ intenso impatto emotivo, suggestivi spezzoni di una storia avvertita quale
inenarrabile.
Lineari tratti di prosa, per lo più brevi, dagli stravolgenti ipnotici effetti,
ricchi di peculiare efficacia visionaria, tradiscono, così, un disarmato stupore
di fronte all’ acuta percezione dell’ esistere e degli insuperabili limiti
dell’ umano linguaggio nel renderne testimonianza: la reazione sarà poetica,
notevole senza dubbio, ma non mancheranno esiti drammatici.
Nel ricordare l’ amico Giacomo, mi chiedo da quale “piega del tempo”
comunicasse, affidando alla scrittura il compito di trasmettere, per misteriose
vie, la sua enigmatica, dolorosa, maniera di stare al mondo: domanda che,
con quel tono affabile e provocatorio, tipico di chi intende, pur affettuoso,
canzonare, avrebbe restituito, a ragione, priva di risposta, al mittente.

(Giacomo Bergamini, “Il viaggio”, “Anterem” n°71, pag. 24 e sgg.)

Possibilità del non luogo

In un contesto forse memore di certe atmosfere alla Magritte,
si susseguono, intervallate da sei disegni di gusto onirico –
surrealista, le “Egostanze” di Bruno Conte.
Stanze in cui “fremito d’ ali immobili” si accompagna a “segno
di nessuno”, o in cui lungo l’ “ennesimo corridoio” s’ incontrano
tende dal “passante assente”, secondo scansioni precise, consapevoli
del suggestivo effetto di una (apparente) noncuranza, priva di
difficoltà nell’ esibirsi in vere e proprie descrizioni, non tanto
assurde, quanto enigmatiche.
E l’ enigmaticità pare, davvero, l’ oggetto precipuo di un testo in cui,
non a caso, sul finale, si sottolinea il passaggio “da disegno cieco” a
“cieco disegno”, complice un intreccio che, a tratti quasi generatore
di claustrofobia, riesce, nondimeno, ad aprirsi ad una dimensione
offerta quale comune, proprio per il fatto di essere intimamente
vissuta.
Quasi una presa di posizione, un dichiarare, perciò, non implicante
altro all’ infuori di sé, ma capace di proporre, con quella specifica
carica di energia nascente dall’ analisi rigorosa, il risultato, poetico,
di una ricerca certo non priva di filosofiche evocazioni.
Peculiare il ritmo.

(Bruno Conte, “Egostanze”, Anterem Edizioni, Verona, 2005)

Nervature di inchiostro

Compatte partiture, veloci battiti, delimitano fulgidi spazi
dai contorni netti, come se Giulio Marzaioli, latore d’ istanze
di definizione quasi geometrica, riferisse, con immediatezza,
sorprendenti messaggi.
Sorprendenti, certo, riportati nella versificazione con lucida
eleganza, colti da occhio vigile e ritratti, nella loro suggestiva
enigmaticità, tra i cardini di uno stile asciutto, controllato.
Una misteriosa “ frase” che “ vira in bianco sul foglio “ e
“ non racchiude “ ( ma anche una “ trama del disastro “ quale
“ ricamo “, o un “ taglio “ nascosto nella lama “ ) viene
presentata, così, nella distaccata maniera tipica di chi avverte
motivi di sorpresa diffusi, in grande copia: lo stupore, insomma,
non deve stupire?

(Giulio Marzaioli, “In re ipsa”, Anterem, Verona, 2005)

Possibilità estreme

Con toni chiari, a tratti quasi divulgativi, senza nulla perdere quanto
ad intensità, Tiziano Salari e Mario Fresa, in dialogo, offrono illuminanti
spunti, indicano suggestive vie di approfondimento, non rinunciando,
tuttavia, a manifestare, in maniera decisa, militante, le proprie opinioni
sull’ arte di comporre versi.
Tanti inutili steccati, così, vengono abbattuti, tante nefaste idiosincrasie
perfino derise, a efficace difesa di un uso linguistico con evidenza
distinto da quello ordinario e ritenuto, a ragione, maggiormente capace di soddisfare ineludibili esigenze espressive.
Una “possibilità estrema”, insomma, secondo Flavio Ermini, che,
nell’ elegante saggio conclusivo, presenta un’ immagine del poeta
quale liberatore dall’ opprimente, fitta, “tela concettuale”, i cui plurimi
intrecci risultano talvolta così mortificanti da richiedere opportune
terapie.
Nulla fu più condivisibile.

(Mario Fresa, Tiziano Salari: “Il grido del vetraio”, con un saggio di
Flavio Ermini, Nuova Frontiera, Salerno, 2005)