Antonio Bux, "Trilogia dello zero", Marco Saya 2012

Versione stampabilePDF version

 

Antonio Bux, “Trilogia dello zero”

Marco Saya Edizioni 2012

 

 

da Fisica del tempo

 

***

ad Amelia

 

Nell’avvicinarci all’origine ripartiamo

dalla fine riavvolgendo ogni sguardo

 

ciascun nome e tutti i discorsi pronunciati,

ché rimane poco e molto nel limitarsi a vuoto

 

finanche le persone care sono specchi

che riflettono altri noi, al di là del vetro.

 

***

a Jacques

 

Il corpo è la chiave

di una porta chiusa

sul retrocedere futuro,

 

una serratura nera

dove volteggia l’ora

taciuta alla finestra;

 

un cristallo di giorni

che frantuma i nomi

nella spinta del tempo.

 

 

da Dall’inflessione all’inclusione

 

***

ad Arturo

 

Ancor prima del moto obliquo

delle mani, la voce non giunge

 

che al fracasso nella memoria

quale lenta porzione del futuro

 

costringendo parole ad ascoltarsi

per la medesima lingua vegetale

 

in convertito paradosso di ragione

nella complicanza di un divenire.

 

 

da Le ore nuove (Memorie dal giorno dopo)

 

Nella devianza del gesto

 

E’ movimento d’essere ora

il domani riscritto a memoria

 

(dalla devianza di un gesto futuro

il riprodursi lento della condanna)

 

-nella regressione dell’avvento-

una prigione la propria forma.

 

 

Nel poderoso volume “Trilogia dello zero”, Antonio Bux colleziona una sorta di enciclopedia perlustrando luoghi, persone, stati metereologici, concetti geometrici, cronologia temporale, e innestando in tali incongruenti materiali un ammasso di detriti riferiti al soggetto, nel tentativo di raccoglierne tutti i frammenti. L’intarsio di figure geometriche nella sfera soggettiva ci riporta alla mente l’antico sogno cartesiano: “e nel ritorno al singolo – stando in due - / (nel binomio perfetto di divisione) // che si unisce un nome al proprio nulla / come un corpo all’incerta destinazione”. La costante frizione di concetti astratti nella sfera dell’interiorità, visto che qui le persone, non sono mai descritte dal punto di vista fisico, concreto, contribuisce a creare una sorta di straniamento, perché il sé e l’altro vengono rappresentati sempre attraverso figure intermedie (i colori, i segni, le linee, il vuoto, i ricordi, l’ombra) e, oltretutto, solo nominati mai indagati nello specifico, in una sorta di impossibilità di penetrazione psicologica. Per questo le poesie dedicate a persone hanno come titolo un nome che sembra un numero. Crederemmo, dunque, alla loro interscambialità che va ad assommare al fine un’inconoscibilità. “Era l’abisso, l’attimo della nudità / il vuoto delle forme ridotte al niente // quei corpi fatti di cose di troppa materia, / eccessi sovraccarichi di prospettiva scenica”. Anche l’apertura all’inevitabile parte biologica, al funzionamento del corpo si attesta su livelli di raccolta di una nomenclatura che non penetra il segreto di ciò che è organico e meno che mai l’unione di corpo e mente: “Gli occhi tagliati, / due sfere invertite / nel cuore interrotto”. E, sempre, gli innesti col suono, col rumore, con l’elettricità, con il ritmo, con la traccia audio, quasi in una disperata ricerca dell’automatismo negli esseri ci ricorda ancora una volta Cartesio. Bux sottopone qualsiasi oggetto a questo metodo di analisi, ancora in questo modo cercando, forse inutilmente, eroicamente, l’umano: “il rifondere la terra nell’immagine / scrostando forme dalla cavità d’orma: // un precipizio di volti, e di oggetti rivolti / nell’infanzia dei gemiti, nella mutezza”. (R. P.)

 

 

Antonio Bux (pseudonimo di Fernando Antonio Buccelli) nasce a Foggia nel 1982.Sue poesie sono apparse in numerose antologie e in diverse riviste di poesia sia nazionali che internazionali. Si occupa di traduzione dallo spagnolo di scrittori e poeti sia iberici che latinoamericani. E’ autore del libro “Disgrafie” per Oédipus edizioni.