Prima pagina/3, Per Marosia Castaldi: Marica Larocchi, “Questa cosa per Marosia Castaldi”

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L’ “oggetto” (nei primi anni Novanta il termine s’imponeva come il più consono e attuale per indicare il prodotto di un lavoro creativo) potrebbe adesso definirsi più equamente una ‘raccolta di parole e immagini ‘ realizzata in maniera casalinga nel corso di due /tre anni da una manciata di amici artisti e poeti. I quali incollano, cuciono, sigillano con tanto di ceralacca rossa l’esito delle loro conversazioni zeppe di spunti, di scambi e passaggi d’idee, di revisioni, fino a trarne il ‘quaderno’ denominato “Questa cosa”. Ma l’animatrice -l’anima-, collante e calamita, e del progetto in sé e delle numerose riunioni, distribuite a turno nell’alloggio di ciascuno dei partecipanti, quasi membri di una setta speciale; il fulcro di “Questa cosa” è stata lei, Marosia.

Un po’ titubante, se non proprio timida, sulle prime, quindi sempre più armata di volontà acuta e ardente, ci propose di riflettere sull’ ‘amicizia’, sedute/seduti intorno a un tavolo, sovente in cucina, per ricavare pensieri, colori e figure che testimoniassero del breve periodo durante il quale, noi, segreti speculatori e amanuensi segregati, dopo riflessioni, incontri e scontri, elaborammo finalmente una sorta di sinossi del nostro piacevole confinamento meditativo. Sul quaderno bene appuntato, stretto fra due fogli - bianco su nero di costellazioni caserecce ma di mallarmeana ascendenza- risaltano vocaboli che sono i capisaldi, les points de capiton lacaniani, della scrittura di Marosia Castaldi, in particolare dei suoi primi libri: ‘purga’ ‘vuoto’ ‘tempo’ ‘voglio’ ‘privazione’ ‘pienezza’.

Ora, rileggendo i suoi Piccoli Paesaggi (Verona, Anterem 1993) e Ritratto di Dora (Loggia de’ Lanzi, Firenze 1994) sono percorsa da un brivido che segnala e marca sia il dolore per la sua perdita, direi ‘precoce’, sia la scoperta sempre più sorprendente dell’originalità e della forza che si sprigionano ancora dal suo linguaggio. E’, il suo, un linguaggio paradossale che nega e afferma simultaneamente; ipergenerativo, grazie alla sua specifica abilità nell’allungare e accorciare il nastro tagliente del tempo/spazio come fosse un elastico flessibile allo scopo di fare esistere e d’insistere, nel tratto più corto di scrittura -frase, sintagma, lemma- le più numerose e puntute antitesi.

Un letto di spine. Si fa tutto nei letti. Si nasce nei letti si muore nei letti si fa l’amore nei letti ci si soffre e ci si gode ci si adagia e ci si divincola come in catene si urla si ride si sospira si geme. I letti sono di roccia di rose di spine di erba di magre lenzuola di morbide piume. I letti sono tombe. Milioni di tombe come letti sotto la volta enorme del cielo. Ognuno che dorme ignaro del suo destino e ignaro del destino dell’altro. Quando s’incontreranno tutti questi letti?’ (Paesaggio delle citazioni notturne, pag. 17, Op. cit.)

La ripresa ossessiva dei vocaboli, la predilezione per la sintassi paratattica con periodi brevi e brevissimi, nei quali passato e futuro si contraggono dentro un presente verticale, teso tra conflitti verbali inesauribili poiché fondati sulla specularità, costituiscono le caratteristiche più evidenti del suo stile. E risaltano oggi come l’esclusività della sua pratica linguistica, feroce e soave, impietosa e generosa, sempre innervata dall’impeto verso il sublime. Le sue parole si rivestono di quella sostanza immateriale che io chiamo il Femminile nell’atto poetico creativo: si tratta di materia ironica e spirituale, sottile e pungente che attraversa e compone tutte le visioni dei suoi paesaggi, quasi mattoni sganciatisi da ogni legge gravitazionale, come nel duetto interiore di Dora.

Sì, non riesco a sentire la vita del corpo ma solo la sua morte.’

E’ per questo che tendi a nasconderlo, come se potessi essere io il tuo corpo e tu farne a meno.’

Sì, potresti essere tu la madre e quindi il corpo.’

E tu stare sempre all’interno di questo corpo in una fantasia fusionale irrisolta.’

Per questo non posso staccarmi da te e io sono te e tu sei me.’ (Ritratto di Dora, pag.91)

Forse la carne della sua scrittura, muscoli, tendini, pelle e ossa, si è lentamente, senza che lei, l’Autrice, se ne avvedesse davvero, sostituita agli elementi essenziali della sua vita terrestre, senza che noi, lettori, ci accorgessimo della metamorfosi, se non apprendendo tardi la mesta notizia della sua scomparsa terrena.

Quando conversiamo è come se un immenso vuoto si facesse intorno e dentro di noi e le parole ruotassero e volassero privandosi a poco a poco della sostanza concreta di ciò che dovrebbero connotare e alla fine si equivalgono e io potrei assumere il suo ruolo e lei il mio. Tuttavia, queste parole ci servono, come il battito del cuore il rumore incessante del corpo e della vita. Così ce le diciamo anche se alle volte ci sembrano insensate. Ma è forse più insensato il battito del cuore o il fluire incessante della vita?’ (Op. cit., pag. 91/92)

Marica Larocchi, settembre 2020