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Storia del Premio
Convegno su MontanoSono stati pubblicati da QuiEdit gli Atti della giornata di studio dedicata dalla Biblioteca Civica di Verona e da Anterem a “Lorenzo Montano e il Novecento Europeo. Gli interventi qui riuniti sono di Giorgio Barberi Squarotti, Flavio Ermini, Gio Ferri, Claudio Gallo, Maria Pia Pagani, Tiziano Salari. Curatore degli Atti è Agostino Contò, a cui si deve l’introduzione al volume. Viaggio attraverso la gioventù di Lorenzo MontanoViaggio attraverso la gioventù di Lorenzo Montano viene edito per la prima volta da Mondadori (1923). Successivamente l’opera sarà pubblicata da Rizzoli nella collezione B.U.R. (1959), con un saggio di Aldo Camerino (1901-66). Tale saggio viene riproposto in questa terza edizione, che si presenta arricchita da una biografia e una bibliografia aggiornate, a cura di Claudio Gallo, oltre che da una riflessione interpretativa di Flavio Ermini. La poesia del pensieroIntervista con Flavio Ermini a cura di Antonio Ria Flavio Ermini è stato intervistato da Antonio Ria il 15 gennaio 2013 negli studi di Milano della RSI / Radiotelevisione svizzera – Rete 2. Nuclei centrali dell’intervista sono stati: il suo ultimo libro Il secondo bene (Moretti&Vitali, 2012) e la poetica della rivista “Anterem”. Contenuti più vistiChi è on-lineCi sono attualmente 0 utenti e 0 visitatori collegati.
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Giovanni Turra Zan: Nota teorica e poesie edite e inediteIn “Finders Keepers” (“Chi lo trova se lo tiene”, mia traduzione) Seamus Heaney ci offre un cocente resoconto di un attacco d’ansia di cui egli fece esperienza quando, per la prima volta, incontrò la poesia di T.S. Eliot. Ciò avvenne negli anni ’50, in un tempo in cui Eliot era considerato, dai poeti anglo-americani, la Luce e la Via: un nome sinonimo della stessa poesia moderna. Ad Heaney fu consegnata a scuola una raccolta di poesie di Eliot “come fosse un pacco di cibo”, e tuttavia, invece di procurargli un piacere tanto atteso, gli causò qualcosa di più simile ad un attacco di panico. I versi di Eliot viaggiavano ad una lunghezza d’onda così inaudita per Heaney, da sembrargli lo stridio di un pipistrello. I sintomi fisici che Heaney provò (un crescente nodo alla gola, l’irrigidirsi del diaframma, ecc.) non si attenuarono in seguito alle letture successive del testo eliotiano. Al contrario, e per anni, “Eliot mi faceva paura, mi imbarazzava e mi faceva sentire minuscolo; mi faceva venire voglia di invocare la Madre dei Lettori, affinché venisse presto e avesse pietà di me, e mi offrisse la pacificazione di un significato parafrasabile e di una struttura ferma e riconoscibile”. Stava esagerando? Non credo. Nello stesso momento in cui egli ci invita ad identificarci con la triste condizione dello scolaro, Heaney ci dice anche che l’acuta ansia che sta descrivendo non è la semplice reazione di un giovane studente di letteratura. O non solamente questo. Noi tutti apprendiamo da Eliot, così come da altri autori, che una poesia non può mai portarci completamente oltre la sua lingua, in un luogo limpido e precisamente a fuoco, come se la sua “oscurità” fosse acqua torbida che una razionale ed intelligente lettura ed interpretazione potesse rendere trasparente e chiara. “Una poesia deve resistere con successo alla razionalità” è l’affermazione schietta, e abbastanza facile da accettare, di Wallace Stevens. Ma ciò che per me è così attraente in Heaney è la franchezza con cui ammette l’ansia causata dal non comprendere. Quando W. Stevens scrive: “Un uomo e una donna/ sono uno”, lo possiamo capire senza difficoltà. Ma quando scrive: “Un uomo e una donna e un merlo/ sono uno”, questo può sconcertare il lettore. Ci incamminiamo qui in un sentiero fragile, nell’ansiosa speranza di arrivare presto o tardi ad un principale, inequivocabile significato della poesia che includa il merlo. Ma forse, perdere l’orientamento è una parte fondamentale del processo. Il campo da gioco in cui si pone il titolo della raccolta di prose di Heaney, “Finders Keepers”, ha come controparte lo smarrimento, la perdita di qualcosa. Una dichiarazione, che Heaney fa in un capitolo successivo, riesamina la mia immagine del percorso: “La poesia è più una soglia che un sentiero, qualcosa da cui costantemente ci si allontana e a cui continuamente ci si avvicina, e presso la quale lo scrittore ed il lettore si sottopongono, in modi differenti, all’esperienza di essere allo stesso tempo rilasciati e convocati”. Forse è stata l’immagine dello spazio della soglia, così come il tema dell’ansia e della perdita, che mi ha fatto venire voglia di ridare un’occhiata alla storia, raccontata da S. Freud in “Al di là del principio del piacere”, del bambino e del gioco del rocchetto. Il bimbo, nel tentativo di far fronte alla sofferenza causata dall’allarmante abilità della madre di scomparire spesso per ore dalla sua vista, inscenava un gioco ripetitivo: tenendo in mano lo spago, scagliava con consumata precisione il rocchetto dietro la spalliera a tendina del suo letto, di modo che l’aggeggio sparisse. Contemporaneamente emetteva un suo caratteristico suono, che Freud aveva intuito avere il significato di “via!”. Quindi ritirava il rocchetto dal nascondiglio e salutava la sua riapparizione con un festoso “eccolo!”. Questo gioco così ossessivo rappresentava la presenza e l’assenza della madre. Così almeno ci racconta Freud. Parte dell’attrazione che ha per me questo racconto, viene dall’identificazione che mi piace fare di tale bimbo con la figura del poeta. E’ quindi l’idea che il desiderio della presenza e l’effetto dell’assenza sono interdipendenti, si coinvolgono, si implicano e stimolano vicendevolmente ed in modo continuo. Il gioco del “via!” e del “eccolo!” è un gioco giocato dal poeta nel piccolo teatro che è ogni suo verso. Con la Madre dei Lettori a tenere la mano del poeta, le parole giocano i loro ruoli familiari con una logica rassicurante e consolatoria: lì c’è uno statico sostantivo, là il verbo attivo, più in là ancora gli spazi e le prospettive aperte dalle preposizioni, ecc.. E soprattutto, da questa parte, c’è la rigida dualità e la separazione dei soggetti e degli oggetti. Nei fatti poi, la necessaria grammatica della frase predispone il mondo ad un ordinamento da cui dipende quotidianamente la nostra salute mentale. Questo, direbbe Yeats, è “il linguaggio della sala da tè”. Improvvisamente però, nel flusso rassicurante delle frasi, si creano degli elementi di disturbo. Le parole vengono organizzate in linee, le linee in versi, la sintassi viene aggirata, con inversioni e iperbati, epifrasi a formare pattern di materia fonico-musicale. E questo menzionando solo alcune delle articolazioni possibili, delle “spaccature” che la forma poetica introduce nel linguaggio. La metafora si porta via il senso letterale e la Madre è caduta nella botola, fuori dalla vista. Ci ritroviamo così in una zona paurosa, ma vivida, che Yeats descrisse bene come Phantasmagoria, dove la nostra consapevolezza della soggettività degli oggetti e dell’oggettività dell’emozione soggettiva diviene eccezionalmente possibile. Ed è proprio qui che iniziamo a discernere il senso, ogni volta rifoggiato e ricreato, della poesia. Da Il Lavoro del luogo, Fara Editore 2007 si preferiscono certo lumi di luce gialla al ritorno, alla fatica di concorrere nei tempi: quelli dicevi allora persi. alzati di buonora il mattino che il mattino è dove le cose restano fresche nella testa e il cervello ha la temperatura del caseificio e l’uguale scambio di materie liquide in idee. non si fa tardi non serve insistevi che la notte è della morte o dei tralasciati. un grido, la lingua dei fastidi è saliva stantia, sputi, stacchi o baci raffermi: come si fa d’inverno a non vaccinarsi? con l’umido fai un’immunità e allontani il sequestro del freddo sotto un piumone; il convertitore ribalta i chilometri in pianti tra restare con la casa che si sfa e andarsene scegli ora, entrambi. l’origine riflette ogni stasi, l’opera sfuma e si lascia dietro odore di macero e carta unta. anche la camera riconta i vuoti. stai a rivelarci quel giusto mezzo se come sei procuri maremoti. ricordarti è pena o si preferisce quella foto in cui stai in cima ai concimai di fine marzo. si danno gli ordini, intanto che al macello ci sono uomini. non so infatti checcazzo si faccia ora dicevi. ridondano al fine le convinzioni e non ci sta con la testa, ed è come un vento, oggi. e c’è la disco-music dietro le carcasse di vacca e si balla, gesù. si balla come dei matti. perdona se nel conclave degli orti stavamo come gentili ad innaffiarci e crescere mettere radici nei luoghi arresi al pensiero che non più uno spostamento fosse possibile una fuga imbranata dal vizio di riaprirsi comunque considerare che sia spaesarsi del canto che qui non germoglia. basta il fatto generato vedi a farci confluire, a catturare metro su metro la collana dove infilare le liti. almeno ovunque ne riparleremo smotteranno cumuli di fango e, cielo, avremo gli anni dalla nostra. occorre morire prestino pensavi, e lasciarti erede del bene di noi nella storia, tra gli argini dove libero è il nostro fiume, raccolte le pianure. prestino, così da permetterti ogni codardia così che non lasci debiti sul contatore sullo scatto dei numeri, sul computo dei registri del pianto e non i figli come appoggio, ma i nasturzi sul terrazzo, ed il vecchio galantuomo che sa di latino e di greco, rimasto a tenerti le mani. i contorni formano l’arco dei legni, il quadrato su cui appoggiare l’ansia ha la sua rada classificazione la sistematica elencazione dei contenuti in un numero un codice per il prestito della memoria il cui interno dà sul prato, e se vedi lampade proiettare l’ombra ti fai serpe e faina per cancellare il nome dall’elenco degli esistenti, per lasciare poche tracce scarseggiando un’asse di risposte sulle leggi della quiete. Da “Stanze del viaggiatore virale” (di prossima pubblicazione con le Edizioni L’Arcolaio di Forlì) purché sia ragione il volo, siamo noi ad inquinarne il lampo: o torni o vai, o lasci l’impero nella rabbia, sfai le vesciche, gli stomaci e con questi reggi cornamuse. dove borbotti ora sei bordone al servizio d’una giga. il calvario: sul ciglio sosti a raccattare semi e gramigna, ne fai un erbario che è croce di natura, pannello di secchezze e mostra aperta ad un incerto orario la casa frena e sta su lastre di ghiaccio. all’interno fatiche si posano, appendono le attese e il sonno sulla stufa a legna dove la cura del giorno s’incaglia nei ruggiti dei transistor del dubbio. cambiano le attitudini, le anime attive e pare un cantico la vista del bollito che si affastella sul vassoio con le bisce a contorno, la scarpa nella pentola del minestrone, l’ago da cucito servito sulla trota salmonata, tuffatosi dal grembiule della sarta. ci si sta addosso a natale, come un’ossessione della generazione che non si estende, che non ha code. si celebrano qui le indecisioni le acustiche sibille, gli echi amorfi nelle miniere. eloquenti saranno i termini del virus, e il disprezzo. certo, il virus rimane a riposare per anni e gramo si rifugia sotto la parola, nella zona dorsale di questa: sa il suo anticorpo il libero radicale. come se la parola lo accogliesse serpe-in-segno, come se si dispiegasse nell’antro, sferrasse l’attacco che diviene tradimento e cancella le visioni. s’inforna per posarsi a caldo come vescica sulla pianura della lingua. il senso della capitolazione al silenzio.
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