Italo Testa: Nota teorica e poesie edite e inedite

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Dell’etologia poetica 


1.  

L'impulso all'espressione, dapprima tensione mimetica ad assimilarsi alle cose, si arresta nella cesura formale, con un colpo all'indietro che lo riporta su se stesso. Solo di qui è possibile un ritorno alle cose, ora prossime perché estranee. Così l'adattamento non è puro conformismo, bensì tensione che trasforma, metamorfosi. In questa direzione la poesia supera la forma tradizionale delle architetture verbali, basata sull'opposizione figura/sfondo, e si riallaccia alla concezione topografica figura/figura: diventa elemento sporgente ma fuso nel terreno dell'esperienza. La figura, mentre si integra nella topografia del luogo, insieme ne deforma il profilo, escrescenza linguistica che genera nuove forme di vita, inedite morfologie linguistiche. Come un un'arte del paesaggio essa s'innesta nel terrain vague, tra i margini inselvatichiti di parole e cose, rinvigorendone gli arbusti e rendendo riconoscibile la silva dove prima si scorgeva solo un panorama di rovi e detriti.  


2.  

Così, con cura biometrica, l'ars poetica continua la sua tessitura, anche quando le strutture consolidate, le tradizioni si sfaldano. Il grado zero della cultura, che in certi momenti sembra prossimo come non mai, è forse anche un'occasione per la poesia che, come pratica istitutiva, non necessita, nel suo fare paziente, di una legittimazione esterna. In questa prevalenza dell'agire, del fare, la scrittura poetica torna alla sua qualifica di ape operaia, di silenzioso e operoso artigianato che tesse una tela mai pienamente aggiudicabile ideologicamente. Certo, vi e' anche la resistenza dai margini e la salvezza dell'esclusione: ma qui la poesia resiste proprio perche' viene meno il lungo errore dell'appartenenza piena. Quando il tutto che la teneva coesa come pratica culturale si dissolve, la poesia continua a sporgere da quel terreno guasto, facendo segno ad altro. Non piu' sorretto o puntellato da un sistema riconosciuto di valori, questo gesto, acme dell'individuazione, torna a poggiare sull'etologia poetica della specie, ma proprio in questa nudità si osserva dal futuro. 
 


Da Come non torni. Quartetti per la fine del giorno, inedito, 1990-1995


INVITO     
 

Silenzioso il cielo sussurra inviti

ad abbandonare l’arsura, lievi

le vostre voci un cristallo raccolga.

Grumo immemore attende nel tepore

di una calda palude: non ala, battito

che franga lo specchio d’acque oscure

anteriori al giorno.



*


Come non torni, che sgocciola

e fa buio, quasi si leva

dai fossi uno spicco d'urlo,

non sai che in povertà

si consumano bosco e cielo,

un ramo che nella nudità t'incarni,

come non parli, del crollo della vigna,

dove nascosto ancora pregavi,

è vuoto il cesto degli aculei

e tu non torni, la stanza è vuota

di un nulla, un’attesa vigile

che un qualche fuoco arda,

perché non mormori la condanna,

il casolare ormai deserto,

solo ombre quelli che ti cercavano,

quell'ultimo rintocco.



CONGEDO 


Come la vita che scorre intatta

e attraversa la notte: la perdita

è paglia e il silenzio è dono. 
 


Da Gli aspri inganni, Lietocolle, Como, 2004


I. 


Devi fare attenzione, orientare lo sguardo

in direzione del flusso: è bianco il velo

che lambisce i contorni, che accieca: 

tu al bianco devi cedere, muto

aderire all’indifferenza delle cose.

 


II. 

Misura il respiro, lascia aderire

alle forme dell’inganno le membra;

le ossa tenere sfiorano il suolo

a cui il peso dei giorni trattiene 

come brocche dai cieli bagnate;

raccogli, lascia variare i silenzi

di cui nel vetro dell’aria t’investi;

tu lascia vibrare ancora i colori: 

se al docile buio un’ombra t’inscrive

inarca le spalle, al vuoto confida

il resoconto terrestre, gli aspri 

inganni delle forme: tu socchiudi

il passaggio, lenta lascia pulsare

distante la peripezia del tempo.

 


III. 


Se cadi e l’ala non sorregge i passi

che nell’azzurro il corpo in volo traccia,

lascia scorrere l’inganno splendente

ogni cosa fa segno all’estraneo; 

se nel velo la pupilla si annoda,

coda di volpe l’incanto assopisce

dal manto del giorno schiuma apparenza;

chi perde il sentiero presto fiorisce, 

cadendo nel vuoto il taglio richiude

da cui insanguinato un giorno ti levi;

se al suolo un’ombra serena aderisce, 

lascia vibrare ancora i contorni:

la misura si compie, il segno traccia

una nuova voluta nell’aria. 




Da Biometrie, Manni, 2005



RETINE 


  Di ora in ora, appena scatta un allarme

da qualche parte una luce si accende

tra le tende il tuo corpo si nasconde

dalla donna che nella stanza dorme.

  Poi dal frigo un sibilo si propaga:

imbevuto di una tinta acida

il quadro luminoso della strada

sovresposto sulla pupilla dilaga.

  Se un elicottero verde veleno

sovrasta le insegne della notte

battendo ai vetri, dal decimo piano

  manda il tuo segno al profilo alieno

fondi la retina al cerchio radiante

del dio in acciaio metropolitano.

 


SEPOLTO, ASSOLTO 


nel limbo di specchi io mi addoloro

su questa pietra tatuata nel gelo

nell’abbraccio freddo della marea mi verso

se dalla schiuma del vetro riemergo: 


                                                          vedi dell’oscuro le tracce, i lembi

                                                                sfrangi, ammutolito, nel buio:

                                                  discanti il gelo, nel taglio di un mondo

                                                                  la semina dei giorni disperdi: 


nel sonno, io, sepolto assolto

dall’evento tendo il profilo

la cornea sull’incavo del giorno: 


                                                          preso nel laccio non vedi figure

                                                      nel fondo del sogno  scendi, ricadi

                                                                          frammenti di specchi:

 



KARL-MARX ALLEE


1. 


niente avrebbe detto, quell’intercalare

fatto di brevi sospiri, soffi

nel ricevitore,

alterne attese, ma non c’era

malignità in quelle parole,

anche se avevano

la durezza di un vetro,

quasi gli uscivano senza volere, niente

a che fare con le minacce,

i ricatti che erano

il tessuto di quei colloqui,

niente era

il suo intercalare, e lì, in quel tic,

potevi leggere la conferma di quello

che pensava, lamentoso

o sprezzante: niente    


2. 


camminavi con gli occhi chiusi,

o con le palpebre arrossate,

come di chi avesse pianto. 

Ma non avevi pianto.

Niente hai detto, non è stato niente

un’increspatura sull’acqua, una spirale

sulla sabbia:

ad occhi chiusi filtrava

la forma vuota delle nostre vite

in attesa

la geometria lineare della Karl–Marx

Allee

nel breve declino d’Agosto

due ombre nella fuga di vetrate

tra la polvere dei cantieri: dal niente

la selva di specchi profilava i tuoi occhi

una notte qualunque a Potsdamer Platz 
 

3. 


Inizio dell’estate sotto la nuvolaglia

della Ruhr.

Ti dibatti ancora nell’ora

del falso sentire: in proroga concedi i tuoi

giorni, come se il carico

fosse inesauribile

è ai doveri verso te stesso cui sfuggi

perché di te stesso disperi. 
 

Ti allontani, vorresti uscire dal sentiero

per incamminarti nel folto:

detriti di stelle

osano ricoprirti, come artigli

si configgono




Da Canti ostili, Lietocolle, Como, 2007



DISARMATI


ostili, sì, alla vita

sbandiamo sulla traccia

illuminata  a giorno 

intorno si dirada

il folto della macchia

sull'altopiano arioso 

ad altro è inteso il chiodo

puntato sulla tempia

nell'ora che si sfalda 

e rapinoso un volto

rimanda svelto un cenno

che al mondo ci disarma

 


IMPLACATO  
 
 

il sangue che non hai versato

alla battuta d’armi

sui calanchi franosi:                          sbanda nella luce, gira e cade

                                                                    ma la neve, dice, la neve… 
 
 

l’amore che non ha dato

frutto alla terra

in gesti netti e operosi:                      manca un giorno, un’ora, una foglia

                                                                 è il 24 aprile, ma cade, cade…



la paura che non vi ha stretto

addossati ai muri

sotto i colpi esplosi:                          così al campo, che ha arato

                                                                     offre le labbra e confida 
 


II 


qui, nei vostri poderi,

ricalcando i passi

dove la storia ha fissato

una tranquilla dimora,

prendiamo possesso, noi

di un tempo che frana,

per una traccia andiamo

che a voi ci riconduca: 

e fiutiamo, se il vento gira,

con le narici umide di brina

un sangue, implacato, nella neve:                ma canta il dolore che accomuna

                                                                        e una lepre, in fuga, sotto i gelsi 

(Monte Falcone)



SARAJEVO TAPES


VI [16 luglio, spalato: h. 9] 


un bagno d’ocra, di rocce, di scaglie t’accoglie

muri a secco e alle fermate d’autobus

murales stinti con bottiglie di pepsi 

per vie d’acqua, confluendo la macchia verde

   si penetra all’interno

il perimetro del mare ritaglia in occhi verdi

laghi cinesi, una cartolina dal mondo: 

lasciati invadere dall’inganno dei colori

lascia scorrere i profili 

gli occhi degli uomini furono fatti

per guardare: e lasciateli guardare


***


VII [per mostar: h. 16] 


mi dicono che i tuoi occhi sono vuoti

mi dicono che i tuoi occhi sono stupefatti 

segui lo sventolio dei drappi

il rosso, il bianco, il blu

distesi tra le rocce, sulle case

in costruzione a fianco della strada 

mi dicono che i tuoi occhi non vedono prati

mi dicono che i tuoi occhi s’incantano 

conta, ad uno ad uno,

i parallelepipedi bianchi

le bianche distese, da ogni lato

l’abbraccio del paesaggio

fitto di cippi, giallo di luce 

mi dicono che i tuoi occhi si dissipano

mi dicono che i tuoi occhi, i tuoi occhi 

a seguire le cave di sabbia sul fiume

dopo mostar, i mucchi di sabbia e di terra

scavati, nella luce, senza ombra,

per ogni gruppo di case una distesa

di pietre bianche, erette, immobili