Giorgio Bonacini: OscuritĂ  (parte terza)

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Giorgio Bonacini: Oscurità (parte terza)

III

La poesia, in questo modo, diventa una necessità della mente: una rifles- sione sul significato di un bisogno che ha a disposizione la sua materializza- zione poetica. Ciò significa che la necessità della poesia è la poesia stessa, come atto di invenzione, di trasfigurazione, di riflessione e di conoscenza

Ci si può concentrare su un oggetto e condividerne l’incomunicabilità. In ciò è il significato di un’attività pensante: una perversione formale che non rinuncia mai alla scena, e in cui la condizione stessa della sua determina- zione può portare a un malessere per troppa esattezza.

E’ un concreto andamento di vagabondaggio, ma anche un’assoluta fermezza contemplativa in cui viene rafforzato il significato di un bisogno di esistenza: ed è qui che la necessità di scrivere diventa la cosa scritta, indi- pendentemente dalla sua nascita o dalle sue conclusioni.

Certo, all’inizio è sempre una mancanza, un’ellissi soggettiva, ma tutto ciò che ne consegue non subisce né oppressioni né obblighi: nemmeno il fasci- no dell’ingenuità (che è una rete di sottigliezze innaturali e preziose) è in grado di determinare il segno della poesia.

Bisogna distinguere però fra bisogno e necessità: bisogno di una scelta, ma necessità della sua separatezza. Può essere che non esista l’uno senza l’altra, ma quale venga prima e quale dopo è un problema irrilevante, imper- tinente. E’ l’immagine di una felice (e forse eccessiva) solidarietà.

E se nessuno leggesse le mie poesie? Inutile fingere: la necessità di una corrispondenza esterna interagisce con il bisogno di scrivere. Perciò i versi alludono alla speranza di una loro lettura (forse un’appropriazione indebita): ma nessun poeta si illude che la poesia comunichi, è sufficiente che indichi.

Che cosa chiedere allora alla necessità di un bisogno? Che illumini un sapere? Che dissemini l’io? Che ricrei una realtà? Niente di tutto questo. Semplicemente che la parola sopporti la metamorfosi: l’incedere ostensivo di una voce, tra il disagio del presente e il suo clamore.

Pensare in poesia. Correggere il tiro dell’insignificanza, dove anche l’idea di vuoto non sopporta la sua uniformità. Rimbaud capì l’inutilità reale (non retorica) della poesia: ma per chi non è così visionario e sufficiente percepisco alcune cose e scriverne. Nient’altro.


 


Ribadire uno stato di necessità: la progressione immaginaria nel dinamismo o nella lentezza, nell’euforia o nell’ansia. Rifinire continuamente e di-

stribuire l’esecuzione, la soddisfazione di un senso. E’ difficile dire a chi in-

teressi tutto questo, ma credo che sia importante provarci.

Non sempre però si è in grado di capire fino in fondo se i fondamenti della poesia siano il prodotto di una conseguenza di scrittura o cos’altro. Per fortuna le scorrerie interiori disturbano i significati, i luoghi comuni, la stupidità; ma non sempre la poesia aiuta a convivere con il disinteresse.

Ancora una distinzione tra necessità e bisogno. Necessità della lette-ratura: di averla fra le mani, in modo cinico o adolescenziale, ma senza averne veramente bisogno. Dobbiamo qualcosa ai libri, possiamo anche crederci uno di loro, ma è una nuvola a inquietarci veramente.

Che tipo di immaginazione, allora, estrarre dalla tecnica di una pagina o concedere alla sua sembianza? L’incongruente (e a volte tenera) sfaccettatura dei suoni e dei pensieri ci fa credere che solo la poesia della mente sia capace di ricomporre fisicamente l’illusione.

Ma quando il bisogno di scrivere attua la sua stessa necessità, allora è giunto forse il momento di ritrarsi e concentrarsi in ciò che non si sa. Scrive Amelia Rosselli: “Se mai/ tu vivi/ estraneo// agli altri/ dona/ ricordi”.*1 E sono questi affioramenti, il loro sforzo costante, a obbligarci.