Tiziano Salari, GioventĂą, con premessa di Mara Cini

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Due pagine che alludono a una qualche formazione giovanile: una vicenda situata in una sorta di terra iperletterararia dove un autore/lettore lotta, fisicamente e psicologicamente, con stratificazioni di libri, situazioni, personaggi…

Il confronto, faticoso ma non spiacevole, sembra portare ad una condizione di “messa a nudo”, di solitudine, di sfasatura: il prezzo da pagare per far convivere il percorso della vita “esposta” e il percorso dei saperi più nascosti. Mara Cini

 

 

Tiziano Salari

GIOVENTÙ

To be, or not to be- levando la faccia alle raffiche di pioggia e rinchiuso dietro di me il cancello - that is the question, e poi proseguendo tutto inzuppato e incalzato alle spalle dal vento, se sia meglio per l’anima soffrire oltraggi di fortuna, intorno non un’anima viva, solo io e la mia rabbia, o prender l’armi contro burocrati e bottegai and by opposing end them? To die, to sleep; no more? Lungo la strada che scendeva al lago, dove si formavano rivoli d’acqua che i tombini non riuscivano ad assorbire, sguazzando nelle mie scarpe rotte, quasi diretto ad aprirmi un passaggio nel mare della pavidità universale Che imbecilli ve ne sono dappertutto, biechi, ottusi ed irsuti. Quelli. Mettevo in fila le carogne. Le abbattevo ad una ad una. Infine, di fronte allo scenario annuvolato, figgendo lo sguardo nell’atmosfera plumbea, dove si scorgevano appena le sagome oscure delle isolette, il morire, dormire, sognare forse, mi alitava nella mente l’onda ipnotica dell’intimismo e dell’asserragliamento.

Era un pomeriggio buio, nessun pescatore e nessuna barca sulle rive, nessuno solitario passeggiatore con l’ombrello,e neppure cani e gatti, ma laggiù, sotto la tettoia dell’imbarcadero, gente aspettava la corriera o forse solo si era riparata dalle sventagliate della pioggia. Possiedo, possiedo.Percorsi la scala buia nel fatiscente edificio della Fondazione. Così Edipo aveva assassinato il padre senza sapere che fosse suo padre e poi impalmato la madre, ma quello era il succo che da quell’evento aveva estratto Freud, mentre la lettura di Sofocle ti trascinava nella dimensione del tragico in quelle altezze dove si respira un’aria fine e gioiosa, pensavo alzando gli occhi socchiusi per cercare di calarmi a Tebe tra i supplicanti davanti alla reggia. Fernando mi aveva lasciato le chiavi di quello scrigno di tesori dove potevo andare a rifugiarmi ogni giorno e prendere tutti i libri tutto il sapere accostandomi a uno scaffale e poi aprire un volume sul lungo tavolo nella più assoluta solitudine per qualche ora del pomeriggio e finalmente avevo un rifugio che mi consentiva di vivere la mia doppia vita.

Il mio compito era lieve. La biblioteca apriva soltanto un paio d’ore la domenica mattina e rari erano i visitatori in quelle due ore che dovevo avere a che fare con gli scarsi lettori e anche quei pochi m’infastidivano, ma era il prezzo che dovevo pagare per tenere la chiave: assumere quel servizio domenicale dalle nove a mezzogiorno e segnare su un registro i libri che uscivano e rientravano.Avevo dunque uno spazio in cui raccogliermi e leggere e meditare e tenevo le imposte chiuse perché l’ambiente fosse ancora più nascosto e dentro, in quel pomeriggio tempestoso, vi ero io, come la perla in un guscio d’ostrica, ad esplorare la sapienza antica e moderna, che allora mi sembrava dovesse essere una questione di possesso. E pensavo inorgogliendomi: ho pronunciato il discorso di Antonio sul cadavere di Cesare e sollevato i romani contro Bruto e Cassio, sfidato Creonte insieme ad Antigone passeggiato per Parigi con Rastignac e Frédéric Moreau, mi sono esaltato con Zarathustra e passato con Dante attraverso inferno e paradiso: io possiedo tutto questo tutto questo è carne della mia carne sangue del mio sangue.

Mi tolsi la camicia strizzandola come uno straccio nel lavandino del bagno, rimanendo a torso nudo. E anche i calzoni avevano bisogno di quel trattamento, e me li sdossai per asciugarli, e così le scarpe, in cui le suole si erano alzate sul davanti come lingue di una bocca sdentata, e allineai tutto bene sul ripiano di un tavolo: camicia, calzoni, mutande, scarpe.Ero rimasto così, nudo, di fronte al sapere.Quando fui certo che i miei capelli non sgocciolavano più sulle pagine del libro, ripresi la lettura.Ed infallibilmente nasceva in me l’ansia.Non c’era dolcezza, non c’era pace, e non solo la mente, anche il mio corpo non era pacificato.Lasciai cadere un fuggevole sguardo sul mio sesso. Penna, quaderno.Ma nessuna parola mi soccorreva e neppure potevo invocare che qualcuno condividesse la mia solitudine.

Immobile, attesi che scoppiasse il tuono, dopo aver visto il lampo tracciare la sua spirale in uno spiraglio di cielo tra le persiane.Il boato fece tremare gli infissi e i libri negli scaffali. Oltre le parole doveva esserci la vita. Avevo di fronte a me i cinque tomi di cui ogni giorno leggevo venti pagine in ciascuno, e anche quel giorno tenni fede al mio proposito. Quando, all’ora di cena, mi rivestii con i panni ancora umidi, e mi affacciai al portone, il diluvio era terminato. Soffiava un venticello fresco e il sole era riuscito a trapassare la densa nuvolaglia e a irraggiare, tramontando, i picchi verdi dei monti. Mi avviai verso casa sulle strade ridotte a un pantano.