RicercaSaggi breviSostieni la poesia Indica il Tutti i tag di AnteremIl nuovo libro di Flavio ErminiNovità editorialiSono stati pubblicati da QuiEdit gli Atti della giornata di studio dedicata dalla Biblioteca Civica di Verona e da Anterem a “Lorenzo Montano e il Novecento Europeo. Gli interventi qui riuniti sono di Giorgio Barberi Squarotti, Flavio Ermini, Gio Ferri, Claudio Gallo, Maria Pia Pagani, Tiziano Salari. Curatore degli Atti è Agostino Contò, a cui si deve l’introduzione al volume. Viaggio attraverso la gioventù di Lorenzo MontanoViaggio attraverso la gioventù di Lorenzo Montano viene edito per la prima volta da Mondadori (1923). Successivamente l’opera sarà pubblicata da Rizzoli nella collezione B.U.R. (1959), con un saggio di Aldo Camerino (1901-66). Tale saggio viene riproposto in questa terza edizione, che si presenta arricchita da una biografia e una bibliografia aggiornate, a cura di Claudio Gallo, oltre che da una riflessione interpretativa di Flavio Ermini. Premio speciale della giuria Lorenzo MontanoNell’ambito del Premio Lorenzo Montano XXVIII edizione il Premio Speciale della Giuria "Opere Scelte - Regione Veneto" è stato attribuito dalla Giuria del Premio a Luigi Reitani La poesia del pensieroIntervista con Flavio Ermini a cura di Antonio Ria Flavio Ermini è stato intervistato da Antonio Ria il 15 gennaio 2013 negli studi di Milano della RSI / Radiotelevisione svizzera – Rete 2. Nuclei centrali dell’intervista sono stati: il suo ultimo libro Il secondo bene (Moretti&Vitali, 2012) e la poetica della rivista “Anterem”. Contenuti più vistiChi è on-lineCi sono attualmente 0 utenti e 7 visitatori collegati.
|
Nietzsche e l'interpretazione di PulsoniIn questa perdita inconsapevole in questa perdita delle ultime vie lattee in questa perdita del proprio nome […] "In questa perdita"… verso l'ora del lupo. E contro il sole, in attesa dei fantasmi Alla memoria di Ferruccio Masini I. ‹‹Un pensatore moderno, condannato all'elucubrazione interiore, deve tuttavia, se davvero vuole essere razionale, sforzarsi di imitare un modo di procedere dialettico, e poiché gli mancano gli interlocutori, deve costruirseli. Gli è indispensabile quindi avere altresì un talento artistico, essere un creatore drammatico, tale da inventare i personaggi che gli possano ribattere, e un attore autentico, tale da immedesimarsi nelle voci che lo contrastano1››.
F. Nietzsche secondo Colli. Come in uno specchio. A distanza di anni, ancora un monumento. E in primo luogo, per ragione irriducibilmente "storiche", visto che sia l'Ottocento che tutto il Novecento hanno posto in maniera centrale, dalla storia alle arti, fino alla politica e alla sociologia, oltre ché alla filosofia, la figura dell'artista e pensatore tedesco. È innegabile che tutti, ma proprio tutti i più grandi che sono succeduti nel tempo al filologo di Basilea hanno provato a relazionarsi e dialogare con la sua opera: per contestarla, per integrare saperi e scoperte, per dialogare in segreto, per ammirarla. Conservatori e reazionari, progressisti e rivoluzionari. Tutti. Per plagiarla e usarla. Tutti. Nella maniera più assoluta e spesso, davvero, i più insospettabili. Fino ad arrivare a quanto giustamente dice, tralasciando però un non poco importante particolare, Aymeric Monville, nel suo bell' intervento-estratto di libro che abbiamo ospitato nella nostra Gru: ‹‹Nietzsche non è la moda: egli è la moda. Lui che voleva essere il più intempestivo dei filosofi, il più "in anticipo sui tempi", è stato il contemporaneo di tutti i suoi commentatori››. Giusto. Ma Nietzsche è diventato moda, è anche moda. Ma per quali ragioni? Per ragioni "interne" alla sua opera? O per ragioni di utilizzo? Ed è chiaro che qui si attiva un primo snodo interpretativo fondamentale, che poi Monville nel suo intervento vede bene di correggere, e indirizzare sotto il vero profilo della sua tesi, la connotazione "marxista" data, a posteriori, all'opera e al pensiero - direi quasi, per endiadi, all'opera del pensiero - del tedesco. Il divenire-moda di Nietzsche è, come in Leopardi, un chiaro sintomo di divenire-morte della figura e della lezione del filosofo-artista. E parlo di "lezione" proprio nella sua accezione etimologica più ampia, sapendo bene come spesso, un termine come questo, designa un plesso di insegnamenti, teorie, direttive, comunicazioni, logiche strettamente "pragmatiche" e "funzionali" che mal si addicono allo Ja-sagen dello Zarathustra. Analizzare alcuni dei motivi di tale "divenire", è una delle questioni più importanti, nell'orizzonte di un chiara interpretazione dei dettami nietzschiani. In primo luogo, è essenziale come l'essere "moda" di Nietzsche debba essere letto, secondo uno schema dialettico, dopo aver appurato quali assunti delle opere del filosofo siano cristallizzati in "moda", con quali elementi del suo discorso siano invece irriducibili alla "moda" e quali invece dalla "moda" non siano stati colonizzati. Aymeric Monville, in relazione al "niccianismo francese di sinistra", a questo proposito parla chiaro, individuando in tre "coordinate" significative la riabilitazione gravosa di certi temi "fascisti" dentro le teorie di un certa moda di un certa sinistra francese: ‹‹svalutazione della comprensione e della ragione, primato dell'emozione e dell'intuito sulla razionalità, battaglia contro il pensiero causale e sistematico (giudicato "piatto" o repressivo"!); differenzialismo e interpretazioni etnicistiche dei fenomeni sociali (specialmente in geopolitica); abbandono della conoscenza dei rapporti reali, ricorso al mito, sopravvivenza involontaria di riferimenti teologici››. Premettendo ora che la mia posizione è estranea all'ambiente francese, e per di più è ignorante dei suoi movimenti e delle sue rivendicazioni politiche, credo che in linea di massima queste tre "coordinate", anche se purtroppo dentro una forma mentis comune, se è vero cosa registra Monville, siano ancora una volta degli assunti che solo in parte, e in maniera del tutto travisata, vengono dall'opera di Nietzsche. Anzitutto perché si tratta di un'opera, che è bene ricordare, non è socialista e marxista, per via dello stesso rifiuto dell'autore ad avallare direttamente tali dottrine - e in fin dei conti, il suo destino verrà ripetuto in un tale isolamento che parla a sinistra anche, a suo modo, da quell'autore-opera che fu Artaud - e che però, ancora, è lontana come opera dall'essere una apologia del fascismo: oltre che per ragioni cronologiche, anche per ragioni di formulazione2, per la sua contraddizione su argomenti fondanti dell'universo conservatore e per la sua fatale forma aperta e non finita, e quindi soggetta a modifiche e travisamenti di senso ultimo. Più nello specifico: l'opera di Nietzsche, che non consta solo di singoli libri compiuti, ma anche di una mole, enormemente superiore per quantità, di aforismi e frammenti, per ragioni intrinseche di complessità eterogenee, di stile, argomenti trattati, sviluppi, contingenze biografiche, non è immune da integrazioni e derive altre. Come appunto la storia del Novecento ha dimostrato, benché le stesse resistenze nietzschiane all'ideologia del socialismo e benché le infinite contraddizioni ai presupposti del nazionalismo, letto come antesignano del fascismo, mai appoggiato come ideologia, viste le infinite contraddizioni di molte delle sue affermazioni, ma semmai scandagliato in maniera trasversale come tema da affiancare a riflessioni di più ampio respiro (gli stessi Deleuze e Guattari ruberanno, al Nietzsche di Al di là del bene e del male, nello specifico al Nietzsche del capitolo Popoli e patrie, il punto di vista "aperto" dal tedesco su una auspicabile "geofilosofia" futura… come dimostra l'ultima fatica del duo francese, Che cos' la filosofia?). Il "messianismo" o "profetismo" del tedesco, per citare le parole di Monville, non sono dati falsi: ma sono formulazioni che sono dentro una serie di varianti, giochi di senso e interpretazione che fanno della contraddizione, espressa soprattutto nella dialettica tra i frammenti e le opere compiute, un "simbolo" del pensiero nietzschiano. E inoltre, tali indicazioni di "direzione" coabitano con backgorund culturali tanto religiosi quanto politici che sono un sostrato di base nella formazione di tutti i filosofi (basti pensare al messianismo ebraico nel marxismo, latente in Marx e individuato come chiaro soltanto con Benjamin). E, da questo punto di vista, forse è meglio, se si vuole connotare la cultura del tedesco con un alone "religioso" nei modi, rimanere con il giudizio di Adorno, e delle sue Minima moralia in cui Nietzsche viene stigmatizzato come un intellettuale "luterano". Ma più chiaramente: ha buon gioco Monville nell'affermare quanto dice - che inquadrerebbe Nietzsche in maniera "chiara" dentro ad un origine "teorica" e "religiosa" del fascismo - ma questa sua interpretazione, coordinata con la pretesa extra-storicistica che assume la filosofia del tedesco, vicina secondo tale appeal a una zona d'indeterminatezza a metà strada tra la metafisica e la società dello spettacolo dei consumi (da cui perversamente parte, p.es., la lettura "silenziosa" di Nietzsche disseminata nell'opera di Baudrillard), tralascia molti dettagli e sconfina in una inesattezza travisante. Far coincidere l'uso della filosofia nietzschiana con il suo significato, questo è erroneo. E non scrupoloso nei confronti sia dei plessi del pensiero del tedesco, sia delle sue intenzioni, lontane dall'idea di una filosofia utilitaria, vicina all'idea di una filosofia della crisi. Ma la semplificazione della tesi di Monville riduce lo spessore della questione. Va verso un appiattimento molto grave, perché molto poco rispettoso delle differenze e delle variazioni insite in tale pensiero. E ripete la moda Nietzsche secondo dettami contestatari che ripetono l'unica verità che questa stessa moda dice: quella che su Nietzsche, oramai, come della moda, si può dire tutto e il contrario di tutto. La storia e l'interpretazione Nietzsche non è a-storico. E la sua verità è la sua opera. Per formazione filologica, per alcune sue idee sulla letteratura che aprono il campo alla letteratura come visione "storiografica" e campo sperimentale di forze - come poi ci ricorderà, qui in Italia, la lezione dell'indimenticato Ferruccio Masini - e per alcuni suoi testi chiave dove la "storia" è centrale (la seconda "inattuale", Sull'utilità e il danno della storia per la vita; Al di là del bene e del male; Genealogia della morale). Nietzsche non è a-storico: Nietzsche, lo ha sempre detto, è "contro" la storia, una certa idea di storia. E la sua posizione non farà sicuramente scuola, ma ha fatto "movimento". E, nello specifico, egli è contro l'idea di una storia vista come progresso dell'umanità, risoluzione dei conflitti e orizzonte umano. Di qui le critiche ai filosofi inglesi e ad una certa visione "ottimista" dell'evoluzione. Ivi compresa la fenomenologia di Hegel, l'evoluzionismo di Morgan. E la "storia" - una precisa idea di storia, dove la cronologia abbraccia l'evoluzione qualitativa dei valori - in Marx. L'anti-storicismo di Nietzsche non è una trovata e nemmeno una sua specifica creazione: viene dai tempi antichi, si sa. Dai Veda e dai greci della "sapienza", come ci ricorderà poi Colli, ma anche e soprattutto dalla lezione di certi storici, Tucidide ma soprattutto Machiavelli. Dalla concezione della storia come "cerchio", che lungi dal significare superficialmente l'espressione figurata dell'eterno ritorno significa soprattutto la "sospensione" dell'evoluzione/involuzione storica. E l'apertura alla durata dell'istante. Questo anti-storicismo, inoltre, se lo guardiamo a posteriori, non si affianca per caso - ma non è un caso - a altre forti prese di posizione, certamente vicine alla sinistra più coriacea ed eterodossa, come quella di Benjamin ("l'angelo della storia con lo sguardo rivolto al passato…") e come quella, in Italia, di Pasolini ("il progresso come falso progresso")? Ma, opere alla mano, constatiamo anche un fatto più importante: la coerenza al rispetto di questo assunto anti-storicista, in Nietzsche; al di là poi dell'adesione che poi ebbe, nello specifico, al pensiero dell'eterno ritorno, da lui "mitizzato" in scrittura in un episodio biografico. Difatti questa posizione "contro" la storia, che conserva dalla giovinezza della seconda inattuale fino alla fine, alla Genealogia della morale, apre una prospettiva di "critica" all'ideologia che non fa altro che formare uno spazio del "negativo" diverso da quello in auge nei sistemi filosofici a lui correnti e precedenti, e che anticipa, malgrado il diverso backgorund, molte ispirazioni che si celano dietro alla debordiana critica della separazione. Ma su tutto, Nietzsche fonda uno spazio del negativo diverso, diversissimo, da quello hegeliano. E dunque, per analogia disgiuntiva, diverso, per molti aspetti, da quello marxista, che nasce in buona parte dell'opera di Hegel (che forse può essere davvero visto come il vero antesignano "segreto" della moda-Nietzsche: per la sua non-immunità, ancora più preoccupante se consideriamo come invece la sua opera sia perfettamente "con-clusa" a tutte le future integrazioni e derive politiche, da sinistra a destra, dai marxisti ai teorici dello stato forte e controllato). Nello specifico allora basta un'opera come Genealogia della morale a screditare la tesi di Monville di un Nietzsche volutamente "fuori dalla storia", visto che in tale opera, tra le più importanti secondo sia l'intenzione dell'autore che secondo le influenze che avrà nel corso degli anni, è "centrale" un uso attivo della storia stessa. Dove la "critica" non si fa distruzione ma de-costruzione. Non come "oggetto" ma come, marxianamente, nei fini ma non nei modi, "strumento". Strumento di indagine, di smascheramento-scoperta della "verità" di un valore. E, ci dice Nietzsche, che cos'è la verità di un valore se non la sua "storia": da dove nasce, dove sosta, per dove prosegue? Quasi da poter aggiungere poi, che davvero la storia è il campo di sperimentazione del negativo nietzschiano, di un potere della negazione che si dà, se realizzato, come possibilità di negoziazione di "futuro", di significato, di vita (il forte potere della negazione, dal Bartleby di Melville, allo Jakob von Gunten di Walser, ne è un esempio). E tale intenzione di smascheramento è confortata non con un fantomatico irrazionalismo - solo chi non conosce la poesia e non conosce Nietzsche può scambiare lo spirito lirico del tedesco, ovvero l'integrazione della poesia con il pensiero, con una riduzione irrazionalistica! - ma con un uso preciso della… "scienza"! E della scienza tra le predilette dell'umanesimo… la filologia: attraverso un approccio critico di alcuni argomenti e in una dialettica tra linguaggio e senso che produce qualcosa che poi gli studi del Novecento, a scoppio ritardato, avranno molto a caro. La formulazione di una "genealogia". Fare una genealogia in quest'accezione significa già, fin da subito, un lavoro che guarda alla storia come campo di verità di senso di un fenomeno - la storia come processo formativo per via negationis della "cosa" che nella sua inutilità eccedente riluce la sua connotazione "positiva" - e che legge divenire e storia come due facce della stessa medaglia. Proprio nella genealogia che sposta il "valore" altrove, connotandolo come anacronismo, e cercando in questo détournement - che non è altro che una variante dell'uso poetico e spaesante del linguaggio nel pensiero che solo Nietzsche ha sdoganato su scala mondiale - un diverso filo che leghi tale valore alla suo processo formativo. Di modo che si, tale valore si mostri come prodotto e processo, assieme, della sua "storia". Ora, è proprio questo che fa del modus operandi "scoperto" da Nietzsche - certamente qualcosa di suo, originale, che si nutre di un presupposto "rovesciandolo", la genealogia come misura di valore, come si esprime nei sistemi socio-economici degli antichi, e nelle letture di antesignani notevoli, come Stirner - un motivo chiave della sua importanza "storica". L'invenzione riconosciuta di un metodo, che sarà uno degli edifici retorici fondativi del lavoro "epistemologico" di Foucault, come lui stesso riconoscerà in calce a Sorvegliare e Punire. E in seguito, tale invenzione sarà, silenziosa ma attiva, operante nelle modalità espresse da ciò che nascerà da alcuni sviluppi della stessa opera foucaultiana, e non solo: i cultural studies. Ma, ancora, si deve dare atto al tedesco di aver affrontato la questione del "valore" come problema e non come risposta all'esistenza, agendo come secondo la sua filosofia del "negativo", facendo del valore non un assunto incontestabile ma un quid da verificare nella storia, nella società, nelle culture, secondo i modi della sua filosofia del martello, tanto de-costruzionista quanto originalmente "poetica"…
Chi, come i miei lettori, comincia a questo punto a riflettere, ad approfondire il problema, non lo risolverà certo entro breve tempo - ragione sufficiente, per me, per volerlo invece risolvere, dato che da molto tempo è ormai abbastanza chiaro quello che io voglio, quello che voglio proprio con quella formula pericolosa, scritta su misura per il mio ultimo libro: ‹‹Al di là del bene e del male››… Per lo meno questo non significa, ‹‹Al di là del buono e del cattivo3›› Ecco la prospettiva-Nietzsche. Uno sguardo che non rinuncia a ciò che è (dunque alla filosofia), all'interpretazione attiva, al distinguere le differenze e le uguaglianze. Ma è uno sguardo che, anche, cambia ottica, si espande. Fino a dare una connotazione nuova a "vecchie parole", a trovarne di nuove… e a proporre, sciogliendo o complicando, nuovi nessi tra verità, senso e storia. Ferruccio Masini e l'interpretazione di Nietzsche Cominciando con queste acuminate parole: ‹‹ l'interpretazione di un Nietzsche "antidialettico" per quanto seducente possa essere, risulta, in ultima analisi, fuorviante, come potrebbe essere, all'opposto, quella di un Nietzsche "dialettico". In realtà quella di Nietzsche è un'ottica speculare del dionisiaco articolata come estasi degli estremi, per cui l'estremo, appunto in quanto tale, cioè potenziato fino a questo punto, ribalta nel suo opposto. Questo rovesciamento costituisce la modalità strutturale di una "filosofia della maschera" per la quale il gioco delle figure di pensiero resta costantemente segnato dal potere della contraddizione o - che è lo stesso - dalla "magia dell'estremo". Infatti è sempre un rovesciamento di un estremo nell'altro a moltiplicare la contraddizione, a potenziarla e a provocare l'ebbrezza di un accrescimento di potenza4››. Ferruccio Masini è stato, qui in Italia, tra le voci e le menti più fini che hanno colto spesso i risvolti inediti dell'opera di Nietzsche. Collaboratore fattivo e molto importante dell'edizione Colli-Montinari non soltanto come traduttore ma anche come interlocutore "segreto" del filosofo della sapienza5, filosofo-artista a suo modo, traduttore dal tedesco abile come pochi altri, pensatore con una formazione classica ed erudita che deve molto alle lezioni di E. Fink tanto quanto alla curiosità e all'avventura intellettuale che apre al teatro e alla poesia, a lui dobbiamo l'opera che più mette in luce lo "spazio" gnoseologico che l'opera del pensiero del filosofo tedesco ha conquistato nel Novecento, fin dentro pratiche artistiche e riflessioni critiche apparentemente a lui distanti: Lo scriba del caos, interpretazione di Nietzsche. Oggi, purtroppo, ancora non rieditato. Scrive lo stesso Masini, nell'introduzione dell'opera: è stato detto che il riesame col quale il filosofo marxista G. Lukacs riproponeva all'attenzione critica il pensiero di Nietzsche finisce per mantenere, nella definizione di questo presunto padre dell'irrazionalismo, lo stesso travisamento di fondo presente nei suoi apologeti reazionari. Sia sul piano morale che su quello gnoseologico e metafisico Nietzsche esprimerebbe - secondo Lukacs -, in tutta la sua polivalente dosatura di toni e di sfumature, il passaggio della borghesia dall'età liberale della sicurezza all'età della ‹‹grande politica››, cioè della lotta imperialistica. Quella di Nietzsche sarebbe dunque, ‹‹oggettivamente››, la copertura pseudo rivoluzionaria di una sostanziale affermazione della logica egemonica del capitalismo monopolista di cui non verrebbero in alcun modo dissimulati gli aspetti ‹‹malvagi››. Anche se queste tesi sono gravemente inficiate da una tendenza riduttiva e deformante che si sforza di circoscrivere sul piano economico-sociale quelle coscienti e tematizzate contraddizioni che hanno un peso specifico tutt'altro che univoco e una valenza tutt'altro che definita , occorre purtroppo riconoscere che la stessa ambiguità del pensiero di Nietzsche costituisce una componente di quella crisi dell'ideologia di classe alla quale la reazione antidemocratica, culminante negli anni della Repubblica di Weimar, cercherà di dare uno sbocco mediante un salto qualitativo nella pratica imperialistica dei miti politici militanti. Si spiega di qui come alla diagnosi nietzschiana del nichilismo cristiano-borghese e cristiano-socialista corrisponda un larvato progetto di superamento "politico" le cui inestricabili aporie per un verso sono connesse alla ricerca di una "nuova razionalità", per l'altro, sono la conseguenza inevitabile di una trasfigurazione delle contraddizioni reali che se anche coincide con l'auto-soppressione ideale dell'intellettuale borghese parassitario, pur tuttavia non intacca la base storico-sociale della sua esistenza. Se è giusto diffidare della schematica equazione lukacsiana di una ‹‹trasvalutazione di tutti i valori››, intesa come trasformazione di ‹‹tutti i caratteri specifici della decadenza››, in una apologia indiretta del capitalismo monopolistico, resta tuttavia da approfondire lo spessore critico di quella mediazione mitica con cui Nietzsche si rapporta alle necessità ideologiche della borghesia non già per offrire ad esse la base di una ricomposizione organica, bensì per trasferirle nella latitudine visionaria a trasgressiva della dimensione tragica nella quale soltanto è ancora possibile evocare le contraddizioni e fare di essa la struttura portante di una filosofia concepita come esperimento della conoscenza6. Qui, da subito, riusciamo a polarizzare come la distanza nietzschiana da schemi retorici di "appartenenza" politica sia sentita come motivo da indagare, spazio da visualizzare correttamente. E qui, allora, più vibrante che mai, occorre leggere in profondità l'anti-utilitarismo rivendicato ma soprattutto fortemente radicato nel tedesco, alla luce di una sua posizione mediana tra l'esposizione stilistica e argomentativa dei canoni filosofici e l'influsso della sperimentazione artistica. Già G. Deleuze, come si sa, rivendicava il dovere, del filosofo, di cercare nuove forme e nuovi simboli come "intercessori" per poter far parlare i concetti… Nietzsche, forse come nessun altro filosofo, non solo, come testimonia il francese, è stato il "primo" a inaugurare questa nuova strada - che nella pluralità di stili e forme e stata a dir la verità poco seguita - ma si è anche spostato un po' più in là, rispetto a tale dettato. Il tanto celeberrimo "addio" al sistema inteso come "armonizzazione" e "composizione" dell'universo dei contenuti - o meglio, la tanta conclamata distruzione del sistema - nelle formulazioni nietzschiane non subisce danni, ma solo "trasformazioni", perché entra a far parte, con grande prepotenza, dentro l'universo nietzschiano e la sua morfologia, lo stile: come "fattore di verità", per dirla con il Derrida lettore di Lacan. A pari importanza della morale, della nozione di spirito libero, spirito della musica, decadenza, follia, illuminismo etc. entrano nelle orbite nietzschiane anche le nozioni e i valori dello stile, i simboli, i miti, le forme, le modulazioni sperimentali etc. Di per se stesse, facendo del pensiero del tedesco quella che già Agamben definiva come una "filosofia dell'arte"… per gli artisti. Ma c'è di più, nello specifico. Il passaggio dalla mediazione mitica alla dimensione tragica nell'opus del filosofo-artista tedesco si svolge lungo un crinale che legge il mito in una chiave ambivalente, creativa ed analitica al tempo stesso. E in Nietzsche la dialettica mito/tragedia7si pone come "problema capitale", su tutti i livelli. Ma a Masini ancora la parola: Gli interpreti francesi di Nietzsche - e dico interpreti piuttosto che studiosi per sottolineare il carattere di una operazione rivolta più a stabilire un piano ermeneutico di lettura che a ricostruire, magari per découpages thematiques, una filosofia nietzschiana già consegnata alle sistemazioni storicistiche - questi interpreti (da Rey a Pautrat, da Deleuze a Klossowski, a Derrida) si sforzano di demolire qualsiasi infrastruttura dialettica del discorso nietzschiano articolato invece sul "differente" o "la differenza". […] Spiegare il rapporto tra Dioniso e Apollo attraverso la differenza, riconducendolo in questo senso a quello tra essere e apparire, può senz'altro essere illuminante ai fini di una liquidazione del presunto carattere dialettico di questo rapporto: la differenza si sostituisce in questo modo, perentoriamente, alla Aufhebung dialettica. Sotto questo punto di vista potremmo dire che il tragico si costituisce in questa differenza e ad opera di questo lavoro della differenza, ma con questo non si è forse ancora chiarita quella circolarità articolata dalla differenza o dal gioco delle dissonanze in cui si modella il tragico come autoaffermazione del divenire. Questa circolarità è interna ad un movimento fondamentale espresso dal dionisiaco come sovrabbondanza che si nega per porsi fuori di sé, per trascendersi, ed è questa, a ben vedere, la struttura originaria per cui la filosofia dell'ultimo discepolo di Dioniso coincide con quella di Zarathustra, così come la gioia tragico-dionisiaca del sì - che include in se stessa anche il supremo tormento - coincide con l'autogenerarsi della physis attraverso la distruzione. La differenza è senz'altro la categoria interna del tragico, una categoria operante in modi diversi riconducibili alla dissonanza, al piacere della dissonanza musicale, come all'insaziabile confronto agonale, come all'innocente ebbrezza del fanciullo eracliteo. Ma la differenza è sempre comunque costitutiva dell'autoaffermazione e l'autoaffermazione è sempre costitutiva della differenza, vale a dire l'una e l'altra sono articolazioni di una unica figura, quella del divenire, in cui si scompone e si ricompone continuamente il volto abissale della gioia dionisiaca: si ritorna così ancora una volta all' ottica degli estremi per la quale il divenire viene interpretato nella prospettiva del trascendimento rovesciante8.
L'estasi degli estremi, dove "mito" e "tragedia", dispositivo concettuale e lacerazione-differenza dello stesso, si danno come poli di questa tensione elettrica e come materiale per questa alchimia... che cos'è quindi se non allora questa capacità di danzare e curare il concetto, in un cammino che scivola sui poli opposti di un globo, ad ogni suo passo? Nietzsche dunque razionalista, perché illuminista, con Umano non umano e al tempo stesso polemico, "pamphlettista" - l'altro risvolto che lo apparenta al Settecento dei lumi, mentre la spiccata propensione all'aforisma lo avvicina ai moralisti francesi; Nietzsche irrazionalista perché così è letto come "moda" semplificante, perché distruttore di una sola precisa idea di ragione; Nietzsche idolo e censore. E molto altro ancora. Ma proprio questa possibilità continua di far scivolare da un polo all'altro una possibile connotazione dell'opera del tedesco che deve far riflettere sull'importanza "filosofica" degli innesti "espressivi" che il suo sistema ha preferito, a discapito della propria "auto-soppressione", diventando altro… rispetto ad una continuità che avrebbe risentito soltanto degli svantaggi della sua formazione filologica, senza possibilità di linee di fuga e di creazione. Ma proprio tale possibilità continua di scivolare sul mondo, à la slapstick, tale "dismisura" rispetto ai confini dell'esperire filosofico, non fa altro che prodursi in un eco negli innesti stilistici che guidano il movimento della ragione in Nietzsche, o lo spingono verso una sintesi tra poesia e pensiero inedita. E questa sintesi è dialogo segreto tra tono e stile: non è ornamento, non descrive, non simbolizza. Ma "allude". Colpisce, dà il segno e il ritmo. Il conatus. L'irriducibilità di Nietzsche non è però un indice di una maschera da commediante, o se lo è, si deve dare allora atto che l'attore è sincero, in una maniera tale da essere, ogni volta, nel suo monologo fatale9. Dato che maschera e volto si fondono in un'unica cosa che passa, che è l'espressione. Ma, rimanendo ancora con Masini, è chiaro che poi la kulturkritik del tedesco al mondo della borghesia e alle sue costellazioni mitiche sia simile nel tono, benché differente nella forma, rispetto al lavoro marxiano. Più vicino, ma molto più vicino a Marx però, proprio per questa affinità di tono e di "senso tragico della verità" che rispetto al caso Benn: il grande poeta tedesco che è stato oggetto di studio, non a caso, dallo stesso filosofo mancato italiano... Proprio il rovesciamento degli statuti ideologici della "verità" e quindi di un mondo "vero" contrapposto a un mondo "apparente", di uno "spirito" contrapposto a un "corpo", coincide con il ribaltamento del nichilismo, come approdo estremo di un processo storico platonico-cristiano (la metafisica occidentale, dirà Heiddegger), nella pratica critico-ermeneutica, genealogica, semiologica del "negativo". La liberazione del pensiero mitico e delle sue potenze destabilizzanti non ha quindi di per sé un senso irrazionalistico-reazionario (come vorrebbero, con Lukacs, tutti i propugnatori di un'epistemologia scientista fatalmente inchiodata al di qua della "crisi"), ma apre lo spazio problematico di una filosofia divenuta campo di sperimentazioni del possibile e quindi di tensioni eccentriche. Le corrisponde una modalità di scrittura dove si giocano i modi di articolazione significante di un discorso non sostenuto dalle clausole delle mediazioni logico-formali. Comunque questa strategia venga proseguita o anche reinventata in contesti problematici diversi ( basterebbe fare due nomi di primo piano, quello di Bataille e di Derrida), in tanto essa può far salva la lezione dei filosofo dello Zarathustra in quanto accolga una esortazione alla diffidenza, anche verso se stessi, una capacità di condanna, anche contro se stessi, e quindi di auto soppressione (tutte le cose buone vogliono - dice Nietzsche - autosopprimersi). Sta qui la testimonianza inconfondibile di come anche la stessa dissonanza possa diventare "uomo" e possa quindi darsi a conoscere come la sostanza profonda di una lotta che non cerca premi o certezze o superiori convalide, pacificazioni definitive, in nessun "paradiso", neppure in quello della ragione10. Ragione, allora… e "sragione" e come poli… opposti soltanto da un tipo dei tanti movimenti dello stile, che muove il lavorìo sotterraneo del pensiero. Solo la danza li può far rispecchiare, incontrare, tenere vicini. Irrazionale come momento del razionale, momento di fondazione della verità11 del razionale, come ombra tra le mille infinite dello "spettro della ragione". Ma più nello specifico: il canone generico della irrazionalità serve nient'altro ad evitare i distinguo, le sfumature, le "eresie" tali che riescono a rinvigorire con forza una tradizione. L'irrazionalità non è la poesia: tali accezioni non coincidono. Possono attraversarsi, ma una non si specchia perfettamente nell'altra. L'apertura che Nietzsche fa non è alla "sragione", che non ha "forme", e che non parla la stessa lingua della ragione12, benché questo avallo molti se lo possano prendere per via della fine tragica del tedesco. L'apertura nietzschiana, è chiaro, è alla poesia, come forma mentis del pensiero. Non come valore, fuori da ogni logica "neo-metafisica" che legga i poeti come i veri e soli filosofi. Ma la poesia come "soluzione" espressiva e incunabolo del concetto. Come "vizio" e inclinazione di pensiero. Per una trasfigurazione del pensiero in arte, egli ha verificato l'ipotesi di Vico, di una poesia che rende l' "impossibile credibile". Da tutto questo, con tutto questo, egli ha ringiovanito il "senso" e i sensi del pensiero13, aprendo molte strade verso l'altro assoluto. Per un pensiero dei sensi, una filosofia poetica.
‹‹Un pensatore moderno, condannato all'elucubrazione interiore, deve tuttavia, se davvero vuole essere razionale, sforzarsi di imitare un modo di procedere dialettico, e poiché gli mancano gli interlocutori, deve costruirseli. Gli è indispensabile quindi avere altresì un talento artistico, essere un creatore drammatico, tale da inventare i personaggi che gli possano ribattere, e un attore autentico, tale da immedesimarsi nelle voci che lo contrastano››.
|