Massimo Donà
Sul mito di Atlantide
a partire da “Land under the Sea”
Note a margine, in memoria di Lorenzo Montano,
pronunciate in occasione della serata di apertura
della Terza Biennale Anterem di Poesia,
il primo ottobre 2008.
La scomparsa di un continente, tanti, tanti… tanti anni fa… forse un sogno – come scrisse Aristotele, che non avrebbe dato gran peso alla narrazione platonica.
Platone, comunque, ne parlava nel Timeo e nel Crizia.
E in ogni caso… non può esser certo un caso che fiumi e fiumi di inchiostro siano stati consumati per mantenerne viva la memoria.
Metafora di un’epoca felice, originaria e dunque innocente. Simbolo di ciò che tutti, forse, vorremmo tornare ad essere. Terra sommersa, destinata a vivere nel fondo del mare. Felicità e giustizia vivevano ‘isolate’, comunque… nella memoria degli umani, nelle loro utopie. Sarebbe stato proprio il contatto con i mortali, dunque, a corromperla e, forse… a destinarla alla sparizione.
Anche nel testo biblico e in molte altre culture si presenta un mito analogo. Si pensi al mito del diluvio – che avrebbe travolto e ricoperto d’acqua (elemento purificatore) i mali del mondo, i peccati dei mortali.
Forse… ogni bene che non rimanga nel proprio isolamento è destinato a corrompersi.
Il “bene” è l’irrelato per definizione. Platone e Plotino avrebbero rimarcato questa connotazione metafisica.
Anche Lorenzo Montano, ovvero Danilo Lebrecht – poeta, narratore e critico (Verona, 1893 – Glion-sur-Montreux, 1958)) –ritorna sulla leggenda di Atlantide. Una fantasia, la chiama (nella presentazione che ne fece negli anni cinquanta). Una fantasia che, comunque, non deve essere letta ‘tra le righe’. E’ lo stesso poeta a ricordarlo, in quella breve presentazione.
Perché, tra le righe nulla si nasconde che possa essere portato alla luce. Anche in quei versi, insomma, il ‘vero’ sta nel fondo. Nel fondo della memoria – un fondo che mai potrà riemergere, potendo essere di fatto solo ri-cor-dato’.
Ricordato come si ricorda quell’inconscio che non sta mai da un’altra parte – che ci si possa proporre di raggiungere. Ma, piuttosto, come diceva Freud, si manifesta, quale sua ‘negazione’ in ogni contenuto della coscienza.
E non altrimenti esso potrebbe essere evocato. Solo la superficie è infatti in grado di palesare ciò che essa medesima ‘non’- è.
Perché, se si trattasse di qualcosa d’altro, non sarebbe “negazione” della superficie; ma, più semplicemente un’altra sezione della medesima. Ovvero, costituirebbe una sua semplice estensione.
Erano gli anni della guerra (la Seconda Guerra Mondiale), quelli – ricorda Lorenzo Montano. Anni in cui la potenza devastante del conflitto sembrava destinata a sommergere tutto; passato, tradizione… e forse ogni altra determinazione del nomos unificante. Ogni legame – c’era da temerlo – sarebbe stato probabilmente spezzato.
Il naufragio appariva come un ‘destino’. Dice Montano “Nessun fuggire / mi scamperà dalla vostra rovina… nessuno – questa è la legge – solo / potrà perire, solo salvarsi”. O ci si salva tutti, o si perisce tutti. La potenza distruttiva travolgerà tutto.
Il ‘tutto’, dunque, sarà solo nella memoria. Ecco perché “il tutto” è il fondo, e vive solo in quella superficie che sappia dirne l’infinita irraggiungibilità. Ossia, la radicale impossibilità.
D’altronde, come potremmo abbracciarlo, il tutto ? Se potessimo de-finirlo e guadagnarlo, esso verrebbe risucchiato nel fondo del mare. Di quel mare che sembra muoversi…, ma in verità, immoto, custodisce l’impossibile. Ovvero, la terra da cui siamo fuggiti nella tenebra dell’apocalisse – perché “a ciascuno la tenebra è viaggio / e la notte dimora”.
Infatti, il sole della perfezione e del bene realizzato può esser sola mente ad-teso. E intra-visto e intuito nei bagliori della notte. Della notte della ragione, forse…. D’altro canto, la ragione stessa è un mito. Un’utopia. Che, non potendo essere ‘mai’ raggiunta, invita ad essere per lo meno immaginata quale origine perduta.
Per questo, il paradiso è sempre perduto – aveva ragione Milton. Perciò può essere atteso solo nell’impossibile infinità di un’attesa sostanzialmente melanconica.
In ogni caso, se , come dice, sempre Montano, “ogni partita è chiusa, e i totali / sommano a zero”, le “soavi catene e abitudini” sono “giù”; sommerse per sempre. Viventi, cioè, solo nella memoria di ciò che mai è stato – che, se fosse stato, non sarebbe stata di certo la “perfezione”.
Come il tutto, che se fosse, sarebbe irrimediabilmente parziale.
Ecco perché il flutto su cui navighiamo – ha ancora una volta ragione Montano – non può che essere “limpido e amaro’.
Sì, limpido, perché nulla nasconde – la sua verità è infatti tutta lì, nella sua impossibilità a farsi vera e giusta, bella e buona. Perciò vive nella superficie, ossia nella sua limpida e trasparente erranza.
Malinconica, però; e amara. Ossia, amara – perché consapevole che quella terra felice ‘deve esser stata’. D’altronde, se la cerchiamo, se la bramiamo, se la speriamo; essa c’è… anche se in nessun qui-ed-ora, ma sempre e solamente come un poi che, se non ci fosse mai appartenuto, non potremmo neppure “sperare”.
Se non sapessimo nulla di esso, come potremmo desiderarla? Cosa desidereremmo? Nulla. Eppur la cerchiamo.
Pur non avendone mai fatto davvero esperienza (in questo o quel tempo realmente vissuto). Ma allora, è proprio tale nulla che cerchiamo, molto probabilmente. Il quale, comunque, non è – insistiamo – un altro dall’essere. Da quell’essere che sempre abitiamo. Ovvero, non è un essente, l’esserci-di-un-altro. Ma sempre e solamente il “non” di quel che sempre siamo e ogni volta torneremo ad essere. Quel che, solo, dice l’isolamento perfetto. E quindi la negazione di ogni relazione.
Certo, perché la relazione (condizione intrascendibile di ogni esistere) contamina – necessariamente. È proprio la relazione con i mortali, infatti, ad aver irrimediabilmente contaminato la perfezione di Atlantide.
La relazione contamina il ‘negativo’; quello che i sopravvissuti alla distruzione del Bene, continuano a tradurre, imperterriti, in un’altra terra… da cercare, e quindi da costruire. Da cui il destino “ideologico” di ogni utopia. Che si disegna tra i flutti generati dal mare di una “erranza” (che è navigazione infinita) che copre, smemorato – per dirla ancora una volta con Lorenzo Montano – quella terra eterna.
Cioè, eternamente ricordata nella proiezione futura che anima e alimenta l’immaginazione, la creazione, la poesia, ma che troppo spesso si lascia trasfigurare nella prepotenza della tirannia. E dell’esclusione – comunque implicata da ogni delirante determinazione della stessa “perfezione”.
Massimo Donà (1957) è docente presso l’Università “Vita-Salute” del San Raffaele di Milano. Tra le sue ultime pubblicazioni: Aporie platoniche (2003), La vera mimesi (2004), Sulla negazione (2004), Arte e filosofia (2007). Suoi saggi in “Anterem” 65, 67, 70, 72.