Giuseppe Martella su Silvia Comoglio, Afasia, Anterem Edizioni, 2021

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Afasia di Silvia Camoglio

La scrittura di Silvia Comoglio, nel suo uso vario e accurato, di tutti i grafemi disponibili, ( -- - … ( ) [ ecc.), oltre alla normale punteggiatura, si approssima tecnicamente alla condizione dello spartito musicale e, come quello fa con le note della scala cromatica, scompone e ricompone i sintagmi, i lessemi e i fonemi, in una sorta di smembramento cerimoniale (sparagmos) del linguaggio ordinario, per ricondurlo alla base fonica e alla sua traccia grafica.

Questo procedimento viene per giunta messo a tema nel susseguirsi di epifanie e dissolvenze, assoluzioni e dissoluzioni materiche, nel duetto costante fra una voce più aerea e una più grave, fra luna e terra, anima e mondo, cantato e parlato, proprio come accade nel canto parlato (Sprechgesang) del Pierrot Lunaire di Schoenberg, per esempio, là dove “il suono cantato conserva immutata la sua altezza, mentre il suono parlato dà sì l'altezza della nota, ma la abbandona subito, scendendo o salendo.” Un canto parlato tuttavia polverizzato in frazioni di tono, ridotto a onde sonore al limite della indistinzione tra forma sonata e cantata, come accade per esempio in Lux Aeterna di Ligeti. Tale declinazione vocale viene segnalata dalla giustapposizione sulla pagina di versi scritti in caratteri minuscoli e corsivi, ad altri in caratteri tondi e più grandi.

Come ci avverte il titolo, infatti, quello della voce rappresa, contratta e fenomenologicamente ridotta alla sua traccia grafica è il tema principale della silloge, sicché la partitura “musicale” del testo si iscrive nella cesura fra scrittura e vocalità, mettendo a fuoco il difetto costitutivo sia della dizione come dell’ascolto, peccato originale del linguaggio verbale e in particolare della sua funzione poetica di battesimo del mondo: Afasia. Il peccato come carenza creaturale, dunque, piuttosto che effetto di trasgressione di una legge. Il testo custodisce dunque riverberi ontologici e teologici, come armonici lontani degli accordi musicali che simula. Le quattro parti in cui è diviso (Afasia, Antimondo, Chiaroveggenza, Luminescenza) evocano quelle della forma sonata-cantata, in senso lato, sconvolgendola però radicalmente in una continua modulazione e intreccio di motivi, in uno sviluppo aperto, atonale, micropolifonico.

La prosodia e il ritmo della versificazione, dell’andare a capo, evocano qui la cesura onto-logica tra evento e traccia, che riassume quelle tra essere e coscienza, cose e parole, suono e senso. Il testo esplora infatti le soglie dell’asemanticità senza però varcarle, evocando i profili di un antimondo onirico. Questa scrittura costituisce un mirabile esercizio di equilibrio sul filo fra segno e sintomo, senso e sensibilità organica, risolvendosi infine nel simbolo stilizzato della rinascita, “il pesce d’oro” come epifania dell’Altrove. Esso richiama anche il tema della bocca-bacio che ricorre sovente nel testo.

 

Il taglio dell’opera si concretizza dunque in quello sinuoso delle labbra che si schiudono e combaciano, nell’immagine della bocca, che si apre nel soffio e si chiude nel “bacio”, come compendio dell’esecuzione di questo spartito onirico e come dono dell’antimondo musicale.

 

Come ci avverte infatti Hanslick nell’esergo iniziale, la musica è di per sé intraducibile e poiché la traduzione è la forma elementare di ogni interpretazione, questo testo “spartito” non si può a rigore interpretare ma solo eseguire. Ma mentre l’interpretazione e il dialogo verbale rientrano nell’economia simmetrica dello scambio, l’esecuzione musicale rientra in quella asimmetrica del dono, del mana e dell’emanazione piuttosto che della creazione intenzionale di un mondo. La rottura di simmetria, la sua declinazione obliqua, costituisce perciò una costante tematico-strutturale dell’opera. La simmetria inversa, il rispecchiamento, nucleo narcisistico della coscienza e del linguaggio (logos e foné), vengono pertanto messi fuori gioco, fenomenologicamente sospesi e ridotti nella filigrana sinuosa della traccia.

Il percorso di senso che corteggia la musica, delineato all’inizio, procede poi per balzi, vuoti e pieni, si allarga in una domanda prolungata, scandita in liturgia, si inabissa in lacune radenti la superficie del suono, sfiorando il silenzio, scolpendolo a tratti. Un percorso annunciato nei frammenti iniziali che si svolge per vortici dal soffio al suono, alla parola, all’immagine e da qui vien poi sempre rigettato indietro, come in una risacca di spuma, dall’orlo della rappresentazione al pulsare sordo che la sottende. Nello spazio incalcolabile del risvolto fra suono e senso, le cose appaiono così rapprese e illuminate insieme, fuse in lampi di luce. Una serie di inizi senza seguito, albe di creazione in vuoti siderei, versi folgorati in punta di domanda. Epifanie, svelamenti, sintomi prima ancora che segni. Il discorso procede per equilibri punteggiati, per abbaglianti sinestesie, giovandosi dei grafemi di cui abbiamo detto come indicazioni armoniche, dinamiche e agogiche della sua sintassi musicale.

Occorre ora marcarne alcuni tratti strutturali e poi dipanarne alcuni fili tematici.

Il testo costituisce una microfisica del senso contrassegnata graficamente dalle avversative e dalle enclitiche in parentesi: (ma), (e), come una messa in mora (epoché) dell’universo di discorso. L’esergo da Borges per cui “l’enigma dovrebbe bastarci”, e l’inciso marginale “cubicolo di lingua/ l’incavo a pura sosta/ issato fuso in gola?” (9), insieme all’epifania del pesce d’oro alla fine, costituiscono la cornice del testo e ce ne forniscono le coordinate di lettura, accennando nel contempo alle questioni di fondo che attraversano la sua aerea e accurata tessitura, e più che strutturarlo lo tengono in una ondulata sospensione.

Il simbolo del “pesce d’oro” ha una diffusione universale e fu adottato dai primi cristiani come segno di riconoscimento. Il termine greco “ichtùs” che significa “pesce” costituisce infatti l’acronimo Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr che in italiano si può tradurre “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”. Esso si materializza poi nel testo, nella metafora ricorrente del bacio come dono delle labbra che si aprono e richiudono a ogni pronuncia dei nomi, atto eminentemente poetico che qui caratterizza la genealogia del dire, dal soffio al suono, al senso e al simbolo appunto.

Le quattro parti (Afasia, Antimondo, Chiaroveggenza, Luminescenza) in cui è diviso il testo possono essere lette come la sua impalcatura numerologica: il 4 infatti simboleggia il tetraedro, la più semplice figura solida, e il tetragramma biblico, cioè le quattro lettere che compongono il nome di Dio, nonché la concretezza e la stabilità della terra, qui ampiamente esplorata in contrapposizione alla eterea variabilità della luna. E se si vuole rinvia al concetto heideggeriano di “quadratura” (Gewiert) come unità originaria dove cielo e terra, i divini e i mortali poeticamente coabitano. E’ dunque il luogo utopico dell’incontro (del combaciare) fra spirito e materia, e fra parola e cosa. Quattro, una per sezione, sono poi anche le cascate verticali di frammenti, grappoli micropolifonici che scandiscono il discorso poetico, spazializzando il suono come accade nella musica postweberniana del secondo Novecento. Costituiscono le colonne liquide che reggono questa architettura trasparente, i vortici e i soffioni magmatici di una terra in perenne gestazione, “terra mutata bosco” (12), spazio fluido del costruire e dell’abitare, casa dell’essere, luogo della parola poetica, che custodisce nel suono “l’ultimo segreto,/ il sonante, e eterno, strisciare delle ali” (38), annunciando la palingenesi sulla soglia del silenzio “bevuto in bacio” (50)

Faremo ora qualche accenno allo sviluppo degli intricati temi dell’opera a partire da quello centrale della bocca-ferita che si apre nel soffio della vocazione e si chiude nel dono del bacio. In una sorta di percorso del respiro poetico dal conato fonico dell’auspicio iniziale, “che salpi ora dalla bocca il lungo --/ stato di paura vibrato in bella lontananza” (11) che si fa “soffio che rò-/ tola nel tempo” (19) e vocazione (in duplice senso): “dimora che sprofonda dentro il mio respiro/ questa lunga ninna che agita la lingua: eco --/ di fine insonnia a metafora di mondo” (20) Bocca che si schiude sulla soglia dell’afasia, per sillabare terra e mondo: “la terra che ripara il tempo in sua fessura, in vor-/ tice che bacia ore di cesura e il mondo” (15). Offrendo, nella diaspora sonora del senso, il dono del bacio: “tondo bacio dondolante/ è l’albero redento a diaspora di mondo”. (17) L’antimondo lunare onirico, nel delirio del logos e della foné, “il delirio di bocche che ti sfioro,/ e tu per loro ordine dissolto, viottolo nell’orto”. (27) Così si concretizza man mano, nella frattura ritmica, la figura del bacio come labile (labiale) combaciare di suono e senso, profilarsi della forma di vita: “(ma): un bacio, un bacio--/ è stato fatto! Dove ora è sopraggiunto/ questo solo cuore e-/ siliato a tempo minimo di vita?” (29) Così la Chiaroveggenza della terza parte, si annuncia in forma di bacio come torsione cosmica della bocca-cesura, “l’inarcarsi ad amen/ di questa stessa bocca rotante a gi-rasole” (36) e poi si espande in una variazione seriale del tema come nello Sprechgesang del Pierrot Lunaire di Schoemberg: “[gli occhi, mi siete-gl’ -occhi,/ del bacio che vi ho dato : cocente --/ voce abbacinata che srotola a miraggio/ l’alba nata sacra in ombre straniate mute…[i vostri scherzosi occhi bacio e vi ribacio,/ varco che mugola di fiaba…tràsudate a labbra di rosso pa-/ radiso”. (38) Si fissa nella sinestesia onirica del bacio dello sguardo: “[udii sogni che fecero degl’occhi --/ alte - e strane case : specchi in cui ti guardi…cuspide di sguardo ùnico d’amore” (43) che si apre poi come un fiore nell’ultima sezione Luminescenza: “mùrami la bocca di lumi liquidi di cielo,/ incontrati di notte per ventura” (47), annunciando un’effimera palingenesi: “nel mondo appena nato,/ sul palmo della mano, a cu-/ spide di sguardo ùnico d’amore” (52), nel fremito che “trabocca” (55) nel grido finale di richiamo all’altrove.

Il tema radice della bocca-bacio modula poi per salti in una serie fitta ramificazioni a rizoma nel costante dialogo fra terra e mondo, essere e coscienza, parlato e cantato. La terra “mutata a bosco” (12) e oniricamente “germogliata”. La terra contratta e rappresa, profonda e misconosciuta, arsa e benedetta, innamorata vacillante eco di respiro, sacrificalmente smembrata e ricomposta nel bosco sacro, nella baudeleriana foresta di simboli, sotto una folle, diffratta, magata luce lunare che assilla e avvolge il Pierrot poeta nelle molteplici pieghe del canto parlato, conducendolo sulla soglia della chiaroveggenza e del primitivo stupore. Cito qui per intero a epitome di questo persistente dialogo:

[amore di impotente chiaroveggenza l’occhio divorato

sempre dal suo mondo: chiglia rovesciata in nugoli di voci

tacite a frontiera, a profonda terra misconosciuta

*

Vacillarvi sul fondo della terra, a giusto

solo peso di un mondo senza mondo,

come se orma cresciuta inconcepita,

al limite di sponde nude di stupore – (41)

 

la terra ha tua leggenda cullata di rimbalzo,

le forme, stupite a bosco, di un tempo --

trainato a mondo (50)

 

Soglia, fioritura fra parola e cosa: “qualcosa, qualcosa, ha lo stelo della soglia” (49), soglia dell’oltremondo: “Mondo, Voi mi siete issato in trasparenza oltre” (54). Limite del visibile e dell’udibile nella traccia del soffio-voce nella partitura franta del testo: “l’immagine che traccia il minimo restare/ del fiore sopra l’acqua: linfa a voce sparsa/ rimasta in traversata dentro il tuo sospiro” (44), “luna frantumata nel tempo di parola” (45), “[terra, lieve a terra, la voce che riluce” (51)

Il tema della soglia si fonde poi con la figura ubiqua della sinestesia, scissura e congiunzione di tutti i sensi, fissandosi in versi memorabili, come la “luce a eco rivoltata” (16) e culminando nella sinestesia portante dell’intero testo, quella della Luminescenza come taglio di suono/luce che segna i vari ritorni a casa, gli a capo di una più ampia versificazione che va oltre la parola e la pagina scritta, facendoci intravvedere dietro il testo lo spartito spettrale dell’indicibile. L’evento dell’essere, il disvelamento della terra che si fa mondo sulla soglia del silenzio “bevuto in bacio” nella piega della bocca, “all’ombra curva di silenzio”, “un salto e musica e bagliore,/ e il fuoco che smaschera di pietra la terra --/ eretta dall’amore.” (50) Nel taglio di suono/luce rappreso nella piega sinuosa delle labbra: “mùrami la bocca di lumi liquidi di cielo,/ incontrati di notte per ventura” (47), annunciando la fine del “viaggio che trabocca”, (55) l’alba dell’antimondo “in fremito che urla/ la luce già ghiacciata”. (55)

Così l’esercizio dell’afasia si dispiega sulla soglia del silenzio, dalla promessa del bacio dell’inizio: “la terra traboccata a cuore”, che si schiude nella favola onirica “una terra di legenda, a taglio germogliata,/ la terra che ripara il tempo in sua fessura” (15). In frammenti di suono, lampi di luce, in contrappunto aperto atonale, in una distribuzione quantica di massa ed energia. Arcane matrici delle cose: vuoti di parole. Nell’indicibile taglio fra il verbale e il numerico: anima delle forme, geometria del visibile. Dono d’amore pieno, “a fiato misurato, in frammezzi, ciechi,/ di parole” (18) Esercizio della bella bugia poetica, “imbroglio nato dove esatto è il tempo di passaggio”. (56) Che culmina nel grido, nel richiamo finale all’altrove e si rapprende nel bacio, nell’icona labiale del pesce d’oro, simbolo di fecondità e promessa di palingenesi, compendio dello stile dell’autrice e firma in calce a questo suo testo spartito di inaudita luminosità.