Giovanna Cristina Vivinetto, da "Dolore minimo", Interlinea 2018, nota di Laura Caccia

L’altro da sè

Di quale sofferenza non comune è interamente impregnato il dire di Giovanna Cristina Vivinetto in Dolore minimo? E, insieme al dire, il corpo che vive realmente in sé la frattura della diversità e che nella parola riesce a trovare la possibilità di un’ulteriore nascita?

Certo, un dolore non comune, in questo trittico del pianto, della morte e della rinascita. Sperimentando nella carne, negli organi e nei desideri del proprio corpo quanto filosofi e poeti hanno assunto come paradigmi di riflessione e di versificazione: l’altro, il doppio, l’enigma che si cela dietro l’apparenza, l’invisibile, l’indicibile.

L’autrice ci mostra, in tutti i suoi dettagli fisici ed emotivi, il crescere della percezione dell’alterità che si fa concreta “nel dolore bambino / di avvertirmi a un tratto / così divisa”, nel riconoscimento dell’altro da sé, del “mistero che non si può dire”, del conflitto che ne scaturisce e quindi dell’esigenza di farsi madre dell’altra che chiede voce. In una lunga e sofferta gestazione: nella carne, nel pensiero, nella parola.

Poiché anche i nomi, che “ci scelgono / prima ancora di pronunciarli”, che “legano in nodi / di verità strette da calzare” marcano a fuoco il conflitto e poi la nuova nascita. Dopo la seconda, avvenuta nel dare vita a una figlia da sé, Giovanna Cristina Vivinetto ne mette in versi una ulteriore: portando alla luce il suo essere nascosto, dando nomi alla verità a lungo celata. Del resto, non è proprio questa tensione al vero a rendere autentico, tra indicibilità e apertura, mistero e svelamento, ogni dire poetico?

 

Da: CESPUGLI D’INFANZIA

A quel tempo ogni cosa

si spiegava con parole note.

Sillabe da contare sulle dita

scandivano il ritmo dell’invisibile.
 

Tutto era a portata di mano,

tutto comprensibile

e immediatamente dietro l’angolo

non si annidava ancora l’inganno.
 

La poesia era uno scrupolo

d’altri tempi, un muto richiamo

alla vera natura delle cose.

Così dissimulata da confondersi

con i palloni, con le bambole

dell’infanzia.
 

In quei tempi non c’erano disastri

da centellinare, difformità

da curare dentro abiti larghi,

padri da rifiutare e nomi

da pedinare in fondo agli stagni.
 

Finché non è arrivato il transito

a rivoltare le zolle su cui il passo

aveva indugiato, a rovesciare

il secchio dei giochi – richiamando

la poesia invisibile che mi circondava.
 

Non mi sono mai conosciuta

se non nel dolore bambino

di avvertirmi a un tratto

così divisa. Così tanto

parziale.
 

Da: LA TRACCIA DEL PASSAGGIO

La verità è che i nomi ci scelgono

prima ancora di pronunciarli.

Sulle pareti, a ridosso delle strade,

nei vasi di garofani e ortensie,

sulle strisce d’acqua che rigano

le finestre al mattino, sulle

scarpe allacciate, sui pulsanti

dei campanelli, nelle stazioni

in disuso. Su tutto si coagula

un nome. Tutto ne risplende.

 

E chi fugge dai nomi sappia

che non si sfugge alla nominazione

perché i nomi legano in nodi

di verità strette da calzare,

costringono in sillabe da pronunciare

a detti stretti. Da far male.

 

I nomi che mi hanno scelta

non trovarono angoli da rischiarare.

Cessarono presto i significati

mentre ero intenta a scavare in ogni

lettera. Speravo nelle eccezioni,

in costrutti arcani da indagare

per darmi un senso.

 

Ci rinunciai e con loro

all’arroganza della definizione.

All’insensatezza di attenersi

alle parole per vedere la realtà.

 

La verità è che la realtà

dormiva a un palmo dal naso

sepolta da un cumulo muto

di nomi.


Da: DOLORE MINIMO

Per acquietare il male che lo assale

il poeta lo canta. Ne fa bella

mostra nei suoi versi per sbugiardarlo,

quasi a gridargli in faccia l’infinita

piccolezza della sua minacciosità.

Il poeta ha per sé l’arma della luce

a rischiarare i vuoti d’ombra,

le fessure dove s’annida, il male.

 

Potrai dirmi che si è deboli

mettendo a nudo i vasi incrinati.

La tavola di legno che balla.

Il punto del muro che non regge.

Nessuno – mi sembra udirti – è disposto

a indossare i tuoi dolori come perle

o a portarli in giro come docili

cani al guinzaglio. Eppure è proprio

del poeta indicare col dito

la ferita. I lembi ammalati

che non chiudono. Anche se tu

non assisti, ti sussurra comunque

un segreto che non puoi avere.

 

Così il mio male si estingue

su ogni mio verso. Lo canto,

lo urlo per liberarlo dal groviglio

di pelle che ha contagiato.

 

Non voglio che tu lo colga

per salvarmi. Mi aspetto

che lo guardi crescere. E appassire.

Rannicchiarsi sfinito fino a non esigere

più nulla. Mi aspetto che il mio male

non ti faccia più male.


Giovanna Cristina Vivinetto è nata a Siracusa nel 1994. Laureata in Lettere, vive attualmente a Roma, dove è laureanda alla specialistica in Filologia moderna all’Università La Sapienza. Dolore minimo (Interlinea, 2018; Premio Cetonaverde Poesia Giovani, Premio San Domenichino, Premio Europeo Massa, Premio Lord Byron, Premio Senghor) è la sua opera prima, nonché primo testo in Italia ad affrontare in poesia la tematica della transessualità e della disforia di genere. Con prefazione di Dacia Maraini e postfazione di Alessandro Fo, il libro è apparso ed è stato recensito sulle maggiori testate giornalistiche nazionali, tra cui «Il Fatto Quotidiano», «La Repubblica», «La Stampa», «Il Messaggero», «Il manifesto» (Alias, Le Monde Diplomatique), «Il Sole 24 ORE», «Panorama», «Il Corriere della Sera», «La Sicilia» e altri.