Armando Bertollo per Elegia di Mariasole Ariot

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Mariasole Ariot
ELEGIA

Anterem Edizioni - Cierre Grafica 2022

Recensione di Armando Bertollo

Elegia, il libro di Mariasole Ariot, poetessa e artista visuale vicentina, classe 1981, si è aggiudicato nella trentacinquesima edizione del Premio Letterario Lorenzo Montano, la sezione storica, dedicata alla raccolta di poesie inedita. Il titolo ci riporta alla poesia classica greca e latina, e ci fa tornare in mente nomi come Callimaco, Orazio, Properzio, che chi ha frequentato il liceo classico ha incontrato sui banchi di scuola. La parola latina ’elegia’ deriva dal greco ‘elegeia’, a sua volta derivato di ‘élegos’, l’elegos era un canto di dolore con accompagnamento di flauto. L’elegia, pertanto, come già indica l’etimologia, è un componimento poetico che tratta tematiche per lo più dolorose, o comunque nostalgiche, caratterizzato da un tono mesto e malinconico, scritto dai poeti latini e greci in versi esametri e pentametri. Il genere poetico elegiaco è stato più volte ripreso nel corso dei secoli, e nella prima metà del Novecento, nel 1922, un secolo fa, Rainer Maria Rilke completa uno dei libri fondamentali della poesia moderna, le celebri Elegie Duinesi.

È evidente che Mariasole Ariot attraverso il titolo abbia voluto dichiarare una discendenza, un’appartenenza e una continuità con la storia della poesia, in una veste formale, però, come vedremo, assolutamente originale. Ecco un esempio dove il tema elegiaco per eccellenza, la riflessione sul dolore, emerge con chiarezza:

“Imparare il dolore significa - non imparare nulla - non imparare ciò che vedi - quando cedi - e dicono attenersi alla realtà - dicono il pensiero non è un fatto - ma quali sono i fatti - se non provano il pensiero” (pag. 24).

Sfogliando il suo libro si nota subito, nella particolare disposizione grafica delle poesie, quello che ritengo sia un riferimento visivo al ‘distico’. Il ‘distico’, il ‘distico elegiaco’, nella poesia greca indicava l’alternanza delle due tipologie di versi esametri e pentametri, nel libro di Mariasole Ariot, ‘distico’ diventa, in ogni singola pagina, la presenza di due blocchi di versi brevi disposti in sequenza orizzontale, tra loro intervallati da un trattino.

Questo libro, include una interessantissima post-fazione di Giorgio Bonacini. Ne cito un passo: “Siamo di fronte ad un lavoro di materialità dell’umana natura, che riempie lo spazio anche lì dove tutto sembra un abisso vuoto (con) parole di dolorosa precisione visiva, dove nulla è più concreto è nitido di una cavità.” Ecco, nel corso della mia prima lettura di Elegia, la prima parola che mi sono appuntato è stato proprio ‘cavità’. Durante la lettura stavo provando la sensazione di un continuo fluttuare/attraversare di cavità in cavità: cavità anatomiche, cavità ambientali che il corpo fisico contatta attraverso gli organi di senso nella prassi quotidiana.
La cavità è uno spazio interno che contiene. Esserne il contenuto, in modo virtuale oppure fisico, è un’esperienza che può essere rassicurante e rilassante oppure spaventosa e terrificante. Molto dipende dal vissuto specifico e dalle conseguenti percezioni soggettive. Per dirlo in modo più esplicito: si può abitare una cavità, fluttuanti e in beata condizione prenatale, in perfetta simbiosi come nell’utero materno, oppure si può essere costretti in una cavità affetti da claustrofobia con senso di panico e di soffocamento. Alcuni esempi:

“Ancora - premere ancora - i bulbi delle cose - andare a fondo - nella notte chiara la chiara della vista - che non vedo - quando appare - e non ripara - la corda. Questo piccolo morire” (pag. 12)

“Dire la notte - quando non dormire - è un’arteria vuota - come vuota l’arteria della testa - che dice il confine - e sprofonda - sprofonda ciò che mi ha fondato” (pag.12)

In Elegia l’esperienza poetica del linguaggio sembra nominare e visualizzare cavità dove avviene uno spaventoso spaesamento, un vuoto che la coscienza dell’impermanenza della realtà dell’esistere non permette di abitare pacificamente. Elegia esprime in una successione di sequenze descrittive precise, nette, laceranti la superficie percettiva, questa dolorosa coscienza della finitudine; quasi un ‘prolassare’ della materia vivente (pensante), in un gioco di situazioni psico-fisiche sospese, miscelate spesso in dissolvenza attraverso l’uso di assonanze e ripetizioni, sempre senza soluzione.

“Ancora - non vuoto - votarsi alla voce - quando - vocifera il futuro -  non c’é ancora - futuro che regga un futuro - quando - vocifera le regole - e dice ricordare - ho prove del reale - ma questo mio reale è questo - reale allucinato - che allucina la mia vita” (pag. 30)

Eppure, forse, l’aver formalmente imbrigliato il dolore in una costruzione reticolare estetica così riuscita, l’averlo costretto, o messo ‘in riga’ nella voce, dettata sul tempo reiterato dell’ “ancòra” come àncora, diluito nel carosello di parole che si richiamano e si rincorrono nel suono, premono sospese, “per dire e per non dire”, può valere come momento-esperienziale, se non di rimedio, di lucido confronto e controllo. La poesia infatti, non cancella la ferita, ma nominandola, imbriglia il dolente dissolversi della materia sensibile. Così che l’incanto di quel soffio di parole in travaglio che escono dalla cavità psico-fisica che la genera, può essere di tale potenza nell’ardire, come ci ricorda il mito di Orfeo ed Euridice, fino a spingersi a sfidare l’ineluttabile della morte stessa.

Per concludere, se dovessi scegliere un termine in grado di connettere quest’opera di Mariasole Ariot con le citate Elegie Duinesi di Rilke, ecco, mi verrebbe da coniare il termine ’sublimen’, un neologismo fluttuante tra ’sublime’ e ’sub-limen’. Se, infatti, di per sé ’sublime’ è una parola da maneggiare con molta attenzione perché nel senso comune è fin troppo aderente ad un determinato periodo della letteratura e dell’arte.  Per semplificare cito la sua presenza imprescindibile nel dibattito tra Classicismo e Romanticismo, (anche se è importante però puntualizzare che sul finire del secolo scorso il concetto di ‘sublime’ è stato ripreso e riattualizzato da Massimo Carboni nel suo saggio “Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee”, Castelvecchi 1993), il neologismo ’sublimen’, parola di derivazione latina composta dal prefisso ’sub’, sotto, e ‘limen’, soglia, ci offre la possibilità di aprirci a spazi di significato inaspettati, nonché appropriati, perché in grado di contenere sia quelle altezze vertiginose tradizionalmente inerenti alla parola sublime, sia il concreto, a tutti imminente, interno/esterno di essere in prossimità di una ‘soglia’ come può essere la bocca, la cavità orale, la casa della parola veicolata dall’aria, cassa di risonanza del suono umano della vita e delle sue gravità, espresse e alleggerite in poesia:

“Mostragli quanto una cosa può essere felice, quanto / innocente e nostra, / e come financo il dolore che piange, puro, s’induce a / forma / serve da cosa o muore in farsi cosa”, ha scritto Rilke nella Nona delle sue Elegie Duinesi.

“Ancora - forare il grido - di un fiore che mi sboccia nel cervello - e vive, impara i mondi - non ripara, non spreca il non sprecare - se le parole - non sono una bocca”, scrive Mariasole Ariot

Schio, 16 Maggio 2023