"Un transito di voce" di Giorgio Bonacini

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Premessa

La poesia di Erika Crosara si presenta alla lettura con un dato lampante e inequivocabile: una perentoria forza di dislocazione che la sua scrittura attua, non solo semanticamente o nella costruzione del sintagma, ma attraverso un vero e proprio spostamento dei paradigmi concettuali e percettivi. E questo crea una forma di disequilibrio significativo, tutt’altro che negativo, che fonda e rifonda costantemente l’oscillazione del senso.

È vero che in poesia non si dà mai comunicazione ordinaria e ordinata, ma qui, grazia “alla caduta di ogni sillaba”, e senza frantumare l’impianto lessicale, ciò che si ricrea in modo vigoroso è il senso della realtà. O meglio, la convinzione e, di fatto, la possibilità, che i suoi svariati punti di vista possano essere rifondati (anche in modo oscuro o elusivo) attraverso il fare della lingua. IUS, il diritto, sta allora dentro la necessità e la volontà di assumersi la responsabilità della scrittura: dei segni e dei suoni che puntano alla concretezza, che provano a “rompere un pane e le pietre” con un aggancio, evidenziato in vari momenti, alle cose del mondo talmente forte da ren- derlo quasi impraticabile al normale sguardo, ma non a quello di una poesia capace di ri-conoscere e ri-collocare l’esperienza, fuori da ogni ingenuità o realismo.

In questi testi la consapevolezza di ciò che si può dire e di come dirlo è esemplare: “pensava in ogni occasione al marchio dell’inizio, al / marchio della fine”. E in questo percorso meditativo quello che, secondo noi, è veramente rilevante è il marchio: cioè la possibilità di imprimere un andamento, un transito alla propria voce che possa scavare e creare un solco vitale. La parola di Erika Crosara è materia che spinge e punge con un ritmo a scatti, a rotture, a frangimenti dentro il mare indistinto della vita, dove prendono rilievo “la forma del piatto”, “un suono di piccoli animali”, “un monticello di pietà” a dar corpo a un ascolto che riverbera la parola con un atto di rilevanza estrema: liberare il poema risolvendo, anche in solitudine, il suo essere contemporaneamente oggetto e soggetto del proprio farsi o frammentarsi. In tutte queste pagine si respira il diritto che la scrittura ha di costruire poesia. Non solo come mero atto materiale (seppure anche questo importante) ma, grazie al “tropo delle meraviglie”, riesce a rifinire e trasfigurare un discorso, per l’autrice, cruciale: ciò che avviene va detto dall’interno, ancorandolo alla pelle e contorcendone la linearità apparente per significarlo nuovamente e veramente.

Il suono di questa poesia, allora, non ammette filtri che ne abbassino il grado verso una normalizzazione, e l’autrice è sempre attenta a far sì che il gesto vocale e fisico continui a distinguersi, rimodulando gli echi per “dire cose” mai guastate da un significato molle o non incuneato in un’esistenza vera: non solo verosimile, non soltanto veritiera. Perché la parola in poesia può arrivare anche per caso, ma non è mai casuale dove va a situarsi. Dove il poeta cerca il sentiero, il comporsi del testo in forma di sostanza linguistica ne determina il suo divenire – infinito o sfinito, non importa – e fa sì che quella parola, quella voce, quel suono possano essere solo quelli, in quel dato luogo e in quel preciso istante. E, paradossalmente, questa precisione, che può essere anche “un’identica furia”, è ciò che nei versi di Erika Crosara disorienta, per certi richiami interni, certi riavvolgimenti linguistici che ricollocano i sensi in un’interiorità che taglia le immagini e segna le visioni, dove qualcuno può arrivare anche ad “ammalarsi per un canto di uccello”. E non è poco riuscire a dirlo così, senza patetismi o forzature, ma con fermezza e leggerezza.

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