Susanna Mati: Per Flavio Ermini, “Edeniche. Configurazioni del principio”

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Susanna Mati

Per Flavio Ermini, “Edeniche. Configurazioni del principio”

Moretti & Vitali, 2019

Edeniche di Flavio Ermini


La scommessa del rischioso dialogo tra filosofia e poesia si svolge da sempre, nell'opera di Flavio Ermini, lungo una strada impervia e ripidissima: la strada "verso la lingua primigenia dell'umanità, verso la parola originaria, ante rem" (p. 13). Ante rem è anche la parola chiave per penetrare in questa nuova raccolta di poesie, Edeniche, che procede a partire da quella forma di separazione che è l'inizio del tempo, anzi, come Ermini si esprime, il subire l'ingiustizia del tempo; o, per utilizzare invece il linguaggio della scienza, la caduta nello spazio-tempo, in questo tutt'uno al di là del quale risiede solo l'impensabile e indicibile mancanza di svolgimento e differenza. Ermini accenna dunque a questo non-luogo e non-tempo, a questa scena senza momento, con un linguaggio inflessibilmente alto, tenuto sempre sul registro massimamente elevato, e anche astratto; una poesia consapevolmente filosofica nel cui ductus s'impongono e s'imprimono con forza alcune immagini: lo zoo di pietra, l'erta del castello in aria, la rupe delle ali, l'ingannevole deserto, il giardino conteso, ma anche la terra dei petali e delle foglie e gli alberi fioriti per errore.

Una poesia, dunque, in cui l'utilizzo costante del lessico della filosofia occidentale, dei suoi lemmi fondanti, viene però sottoposto a uno straniamento poetico, nel quale insieme perde e acquista sensi. Perde la specificità tecnica, la designazione, l'attribuzione a un soggetto; acquista un'eco, una risonanza, un'ampiezza d'onda, una vasta impersonalità che si vuole quasi archetipica. Se si dovesse definire Edeniche con una sola formula, la si potrebbe chiamare una riflessione su ciò che si configura, fin dalle citazioni di Aristotele e di Simplicio che aprono il volume, come natura e come indefinito, temi cari alla poesia filosofica di sempre (basti pensare a Leopardi). Ma appunto, tutto questo riesce a rimanere qui suggestione poetica e intramatura, non discorso concatenato e dimostrativo: non logos, bensì mythos. "Quell'aurora che prende il nome antichissimo di natura" (p. 11): se la finitezza è differenza e dolore, questa poesia tenta il risalimento vertiginoso verso ciò che (perlomeno nell'immaginazione) precederebbe questo stato di separatezza. Il compito della poesia, dunque, secondo Ermini, è quello massimo possibile: "la riunificazione" (p. 12). Pur se fosse sempre mancante. Il linguaggio, infatti, è anche dolore: è il dolore della differenza, è indice di separazione; per questo Ermini cerca, "desituandoci dalle nostre abitudini cognitive" (p. 18), un linguaggio precategoriale, quel "pullulare pregerarchico delle parole possibili che premono dietro ogni parola nominante" (p. 12).

Importante è, in quest'ottica, il richiamo alla "fratellanza tra tutti gli esseri del mondo" (p. 10), di tutti i mortali. "L'essenza delle piante e del vento è la stessa" (ivi), scrive Ermini, il nostro essere è un essere-nella-natura; disoccultare significa "restituire all'indistinto ogni singolo vivente" (p. 21). La responsabilità di accorgersene e di agire in tale direzione ricade sui "figli della terra"; solo così sarà possibile superare la visione individualistica, egoistica, antropocentrica: è questo approdo di ritrovata indistinta comunanza, questo luogo d'intersezione di tutto con tutto, ciò che forse una volta è stato, nell'imperturbato pleroma divino o nel nocciolo densissimo del Big Bang, l'Eden del titolo.

Questa recensione è uscita su “L’Indice” di febbraio 2020