In questa speciale parte del sito trovano spazio le autrici e gli autori premiati con “Menzione d’onore”, con "Segnalazione" e "Finalisti" al Premio di poesia e prosa Lorenzo Montano, a partire dalla trentaduesima edizione del 2018.
L’intento è di costituire, anno dopo anno, un archivio permanente di scritture contemporanee.
Abbiamo volutamente inteso allestire un luogo agile, di veloce consultazione, dedicato al piacere della lettura. Un luogo dove ogni tanto ritornare.
Giorgio G.Adami è nato a Verona il 7.8.1935.
Autodidatta , dipinge dal 1950. Ha seguito stages tenuti da qualificati maestri: A.Tavella, G. Celada, R Licata, R. Da Lozzo, N. Sene, per verificare e perfezionare le tecniche personali già acquisite.
Dopo l'esordio consueto m mostre provinciali, partecipa a varie rassegne nazJonah e mternazionati:
Roma, Venezia, Milano.Trento, Bolzano, Salisburgo, lnnsbruck, Rosario-Argenuna, Mexico, Parigi, Osaka, Monaco m Baviera, Sao Paulo(Brasllc), WashingtOn (USA).
Mostre personali in ltaha e all'estero.
Nel 1992 è invitato alla 3" edJZ1one di " Pittura a Verona" ( 1975-1991 ), curata da A.Mozzamban1 e L. Meneghelli, a Sona (Vr)
Il Comune di Verona,Assess.alla Cultura gli dedica nel 2006 una vasta antologica presso il Palazzo della Gran Guardia a Verona, a cura di Luigi Mencghclli . E' il riconoscimento di una attività durata oltre 50 anni, segnata dalla continua ricerca di purificazione dei mezzi e delle intenzioni.
Parallelamente alla pittura ha compiuto lo studio del canto, perfezionandosi nel repertorio classico antico, che lo ba portato a collaborare con diversi art1st1 e istituzioni mus1cal1
Segue Biografia di Giorgio G.Adami:
Sue opere in collezioni pubbliche:
Galleria d’Arte Moderna A.Forti,Verona - Young Museum, Revere (MN)
P
Sue grafiche sono state inserite nelle seguenti pubblicazioni:
ANTEREM – Rivista di ricerca letteraria n.42-1991 – Verona
ELDORADO – Romanzo di Nereo E.Condini, ed.Anterem, 1991
LETRAS ABIERTAS, Rivista de Comunicacion Creativa, Madrid, n.2 e n.3 – 1992
BOUQUET – 110 frammenti in prosa di Marco Furia, ed.Anterem, 1992
CODICI - Poesie di Aldo Ferraris, ed.Anterem, 1993
IMPROVVISO E DOPO – Poesie di Giuliano Mesa, ed.Anterem, 1997
GRAMMI – 40 disegni di G.G.Adami, ed.Anterem-Verona 1997
MM’S Revolution, a Menippean Satire - di Madison Morrison. Ed.East & West,1998
VENTAGLIO, Poesie di Cinzia Ferro, ed.Cierregrafica, Verona, 1999
SCENES FROM THE PLANET, Prose di Madison Morrison, ed.Sterling Publisher ltd -New Delhi, 2001
CONTRASTI D’AMORE – poesie di Gilberto Antonioli – 2012
METROPOLIS –303 incisioni di 303 artisti, in un libro rilegato a leporello – ed.Centro Internaz.della Grafica, Venezia,2014. Il volume è stato esposto in musei e biblioteche pubbliche in Italia,Germania, USA, Brasile.
VARIE – Opera Prima, poesie di Massimo Stirneri - Ed.Cierre Grafica/Anterem, Verona
Dall'alto in basso, le opere sono "Piccolo racconto", "Due paesaggi", "Racconto d'autunno". La tecnica dei dipinti è olio e smalti su carta, solo "Due paesaggi" è un olio su tela, cm 70x50.
L’essere umano ha umiliato il suo simile, degradandolo a mera cosa da possedere, sacrificandolo al profitto.
La fabbrica, così come si è rivelata nel Novecento, con le sue rigide, militaresche gerarchie, è ancora una realtà. Così com’è ancora una realtà la divisione in classi che impone agli ultimi di essere marchiati a fuoco come animali e incatenati l’uno all’altro.
Nadia Agustoni ci ricorda che vi possono essere luoghi in cui l’umano si estingue completamente, poiché nell’uomo c’è anche la possibilità di non risvegliarsi all’altro; c’è anche la possibilità del male più profondo.
Ecco una poesia che finalmente sottrae le umane esperienze all’aridità emotiva, all’indifferenza coscienziale, alla vacuità dell’estetico. Una poesia che ci invita a rifuggire da una comunità ridotta a mercato, dove gli individui sono degradati a un groviglio di interessi. Una poesia che si affida a una parola che non ha patria, né professione, né potere.
L’alba è coniglio
1
le parole sono l’alba. l’alba è coniglio. corre davanti all’auto. bestiola impaurita. manda avanti le gambe e il muso. tutto questo è qui. sono sveglio da tanto. prima le maniche del maglione alla bocca. il caffellatte. i biscotti. a volte il pane. mi arrangio l’uscita per il giorno. l’alba fredda a metà ottobre. ai morti avremo nebbia. senz’altro il vento delle montagne a tagliare il volto. 5,50 timbrato il cartellino. il cancello alle spalle. il corridoio al buio. luci si accendono di colpo. giacca e borsa nello spogliatoio. mi muovo. il corridoio al freddo. il reparto e le macchine. macchie scure cadono dal soffitto. dieci minuti. parte il rumore. il giorno è giorno tra tanti. succede in fretta quel vuoto senza parole. i gesti nel significato. non arriva nulla più in là di noi.
2
muovo da terra le casse. casse coi pezzi di ferro. diventano il ferro di altre macchine. pezzi lavorati. subito limati. il braccio fa gavetta da tanti anni. si impara a resistere. non più in là. la prima ora veloce. la seconda uguale. alle 8 il controllo. passano parole grosse. ingrosseranno di più. durante la mattina bisogna bollire col caffè.
3
le braccia abbiamo ferite. bruciature portate con magliette. siamo una pelle che ci sta dentro. alle 9 mi ricordo i mandarini la mela. il caffè lungo. o il the. nel the tanto zucchero. le macchinette del liofilizzato e quelle coi dolci. brioche a 60 centesimi di euro. al supermercato 6 con 1 euro e 20. oppure cioccolato. 1,50 il fondente di 100 grammi. la pausa dai 5 ai 7 minuti. la ritirata al gabinetto.
4
alle 10 le ossa. più o meno dolore. scricchiolo. il ritmo sale. calcolo dei pezzi appena fatti. il momento di accelerare. da una macchina all’altra. la fretta stringe il corpo a qualcosa. carichi e togli. ricarichi e limare. 4 per volta su una macchina. 8 su due macchine. le orecchie capiscono i rumori. le voci alte. arrivano a colpi. sentire parole intere no.
5
alcuni siamo italiani. gli altri non si sa sempre tutto. il pakistano non parla. si volta da un’altra parte. le ragazze berciano. alcune coi diplomi. lavorano qui contando di andarsene. una da 9 anni. veterana di tuta blu. i suoi capelli biondi. ci guardiamo. deboli per vivere. passa fino all’orlo della voce. passa e non si ferma.
Nadia Agustoni (1964) scrive poesie e saggi. Suoi testi sono apparsi su riviste, antologie, lit-blog. Del 2017 sono I Necrologi, del 2016 è Racconto Aragno, del 2015 Lettere della fine Vidya e la silloge [Mittente sconosciuto] Isola Edizioni; del 2013 è il libro-poemetto Il mondo nelle cose (LietoColle). Una silloge di testi poetici è nell’almanacco di poesia Quadernario (LietoColle 2013). Nel 2011 sono usciti Il peso di pianura ancora per LietoColle, Il giorno era luce, per i tipi del Pulcinoelefante, e la plaquette Le parole non salvano le parole, per i libri d’arte di Seregn de la memoria. Del 2009 la raccolta Taccuino nero (Le voci della luna). Altri suoi libri di poesie, usciti per Gazebo, sono: Il libro degli haiku bianchi (2007), Dettato sulla geometria degli spazi (2006), Quaderno di San Francisco (2004), Poesia di corpi e di parole (2002), Icara o dell’aria (1998), Miss blues e altre poesie (1995), Grammatica tempo (1994). Vive a Bergamo.
Da “Epica della normalità”
non e` nulla
non e` nulla
e` il mondo che finisce
la terra che gira senza senso
il vivere inquieto delle cose
non e` nulla
e` il dolore del parto
la vita che nasce dalla morte
quella magnificenza assurda del sentire
non e` nulla
e` soltanto la ferita
del corpo inquieto, il cancro e la cancrena
che portiamo con noi senza sapere
non e` nulla
un piacere leggero
la consapevolezza intensa di un momento
un istante fugace di saggezza
non e` nulla
ma e` piu` di qualche cosa
il derelitto abbandono di chi cede
la comprensione tenue di chi sa
o non sa
sente
Biografia di Stefano Allievi: Non mi occupo di poesia: ne sono occupato. Ne leggo quel che posso, ne scrivo quel che devo.
Ho pubblicato due brevi sillogi: Il giorno dopo, Edizioni La Gru, 2012 e Pubblico e privato. Poesie civili e incivili, stesse edizioni, stesso anno. Alcune poesie di carattere politico le ho pubblicate all’interno del saggio Chi ha ucciso il PD (e cosa si può fare per salvare quel che ne resta), Mimesis, 2013. Più recentemente ho pubblicato la raccolta Nel mondo dei qualsiasi, Manni, 2016, per la quale, poco prima di morire, Giorgio Barberi Squarotti aveva voluto manifestarmi una qualche attenzione. Più recentemente ho deciso di chiudere con una poesia il mio saggio Immigrazione. Cambiare tutto, Laterza, 2018, e lo spettacolo che ne ho tratto, che sto portando in vari festival e teatri. Notizie ulteriori in www.stefanoallievi.it
Per il resto, sono professore di sociologia all’Università di Padova, studioso di mutamento sociale e culturale, esperto di islam in occidente e migrazioni: temi ai quali ho dedicato oltre un quarto di secolo di interesse ed energie, una trentina di libri e un centinaio abbondante di pubblicazioni, alcune tradotte in varie lingue occidentali e non (anche arabo e turco), varie altre pubblicate solo altrove. Mi occupo anche di attualità politica e sociale come editorialista. Tra i miei libri più noti, credo: Le parole della Lega, Garzanti, 1992, Islam italiano, Einaudi, 2003, La guerra delle moschee, Marsilio, 2010, Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (con G. Dalla Zuanna), Laterza, 2016, e Immigrazione. Cambiare tutto, ancora per Laterza, 2018.
Una scheda più dettagliata e la lista completa dei libri pubblicati si trova qui: www.stefanoallievi.it/scheda/
L’impossibilità di mettere a fuoco le cose, e definirne i contorni e i particolari, si rivela come luogo d’incontro con il sé.
Si esplicita in un peculiare gioco di specchi e di cornici mobili. Impone al lettore di abbandonare lo stato d’immobilità e di lanciarsi in avanti, perché la chiave del pensiero va sempre trovata nella fluidità dell’erranza.
Quella che Viola Amarelli propone è una poetica che ha trovato la sua filosofia in quelle forme che, proprio per la loro indeterminatezza, richiedono parole assolutamente precise.
Sono parole su cui si fonda un poema scandito in due momenti: uno sguardo sull’esterno che preannuncia lo sguardo verso il proprio interno; e uno sguardo sull’estraneo che anticipa lo sguardo sul familiare.
Dalla sezione “Cronache”
***
le belle parole
le giuste
le sufficienti
quelle necessarie
finiscono nello stesso
punto dove nascono.
il silenzio – sipario
Dalla sezione “Dèmoni”
***
vi vedo dietro il vetro,
non vi tocco, un lucido delirio
l’urlo muto, pesci:
chi è il morto
morto morto morto
fare il morto sull’acqua
vivo
passa il sale
sale le scale avvolge il suono
emette e squaglia
gioia
per poco
siate siate
gioiosi
l’intento tenace
non s’ulcera più
lo sbrego, diruto
l’io spiritato,
arso, scomparso
***
aveva cuore, il sufficiente
ma l’anima, oh
quella, era venduta
e ne avvertivi
perfino in bocca
perfino tra le cosce
pallida l’evanescenza,
ammalorata.
***
uno sciame di mediocrità
ronzanti sulla polpa - quel che resta –
sull’osso, ma
il cadavere - dicono - felice
Viola Amarelli, campana, ha esordito con la raccolta di poesie “Fuorigioco” (2007, Joker), seguita dal monologo “Morgana” (2008, Vico Acitillo e-book), dal poemetto “Notizie dalla Pizia” (2009, Lietocolle), “Le nudecrudecose e altre faccende” (2011, L’arcolaio), i racconti di “Cartografie” (2013, Zona), le poesie di “L’ambasciatrice” (2015, autoprodotto) e di “Il cadavere felice” (2017, Sartoria Utopia), le prose in prosa di “Singoli plurali “(2016, Terra d’ulivi) e, in veste di co-autrice, “La deriva del continente” (2014, Transeuropa) e “La disarmata”(2014, CFR). È presente in numerose antologie, riviste cartacee e on line, suoi testi sono stati tradotti in Germania.
La chiglia
La tua presenza, la mia memoria esterna,
il mio coraggio finito in esilio.
ci sarà sempre un foro nella stiva
un occhio di luce, uno spiraglio di vita.
Ci sarà anche quando la chiglia incagliata
mi ricorderà che tutto diviene,
che il fermarsi è un’illusione.
Evaristo Seghetta Andreoli è nato nel 1953 a Montegabbione (TR) dove vive. Ha pubblicato: I semi del poeta (prefazione di Patrizia Fazzi, Firenze, Polistampa, 2013), Inquietudine da imperfezione (presentazione di Franco Manescalchi e prefazione di Giuseppe Panella, Passigli, Bagno a Ripoli, 2015 – Premio Firenze Fiorino D’Oro, Premio Pascoli, Premio La Locanda Del Doge, Premio Tagete), Morfologia del dolore ( presentazione di Carlo Fini, Interlinea, Novara, 2015 –Premio Unicorno Confindustria Treviso), Paradigma di esse (presentazione di Franco Manescalchi e prefazione di Carlo Fini, Passigli, Bagno a Ripoli, 2017). Alcune sue poesie sono apparse su riviste letterarie tra cui: Pioggia Obliqua, Erba d’Arno, Retroguardia, Feeria e La Lettura-Corriere della Sera.
Il nuovo libro di Angelo Andreotti ha per titolo A tempo e luogo. Un luogo dove sono accatastate ombre di parole; un tempo che ci condanna a una solitudine per cui tutto è sempre di più o di meno.
L’essere dell’uomo diventa centro di esperienza vissuta. Esperienza non propria dell’individuo, ma dell’esistenza stessa.
Il poeta ci porta al cospetto di una storia della quale noi tutti siamo protagonisti, perché la natura diventa in noi visibile.
La natura è la grande unità dell’essere, rivela Andreotti.
Accettandone le leggi veniamo coinvolti in un movimento dello sguardo e del pensiero che si fanno forti di una logica che presiede all’insieme del mondo.
Divergenze
I
A oriente nuvole livide e gonfie
prese a pugni da un sole infuocato
sfondano l’aria montando sul vento.
Per ogni nuvola un passaggio di ombre
un variare di luci e colori
tutto un discorrere
un disegnare inesausto il paesaggio
questa casa
un risuonare di tempo eveniente
che sconfina dai bordi di ogni istante.
III
Le fondamenta sanno della terra
quello che il susseguirsi dei giorni ignora
ma di quell’enigma
che la forma di una crepa nasconde
niente viene svelato
e d’improvviso si fa inesplorato
qualsiasi luogo
anche quel sentiero
che mille volte abbiamo camminato.
Angelo Andreotti è nato nel 1960 a Ferrara, dove dirige i Musei d’Arte Antica e Storico Scientifici. Scrive narrativa, poesia, saggi su arti visive e letteratura.
Tra gli ultimi libri, le raccolte Parole come dita (Mobydick, 2011) e Dell’ombra la luce (L’Arcolaio, 2014), L’attenzione (Puntoacapo, 2019) alle quali fa da corollario la riflessione Il silenzio non è detto. Frammenti da una poetica (Mimesis, 2014), e i racconti Il guardante e il guardato (Book Salad, 2015).
Da “Disarmare il nome”
neanche la lucidità per cogliere i tratti minimi
i piccoli passi da compiere negli avanzi del tempo
quando si è lasciati soli: hai sempre perso di vista
ogni destinazione, eppure la sopravvivenza,
è chiaro, è soprattutto restare avvinti
farsi fanatico, conoscere di ciò che si è scelto
ogni infinitesima parte, ripetersela e continuare a scrutare
con occhi incontentabili, numerare e archiviare,
(e arginare, lo vedi in tutti loro,
mentre sospeso o disattento ti lasci portare
con più o meno rassegnazione, calmato dal rollio,
a volte fiero del colpo di reni che ti ha alluso
un’evenienza, altre andando più lontano
consapevole o reticente, nella scontata direzione
Roberto Ariagno è nato a Torino nel 1969.
A partire dal 1993 ha partecipato a iniziative del Comune di Torino aventi per oggetto la poesia e il racconto breve, pubblicando testi e presenziando a letture ed eventi in luoghi e contesti diversi.
Nel 1994 una sua silloge di inediti è stata segnalata al premio Montale.
Nel 1997 ha pubblicato, presso l’editore Book, La sposa boreale, una raccolta di poesie con una nota di Giorgio Luzzi.
Nel 2002 un intervento e alcuni inediti sono stati pubblicati sulla rivista Atelier.
Disarmare il nome, pubblicato nel 2017 dall'editore di Ancona ItalicPequod, è stato segnalato alla IV edizione del Premio Dislivelli organizzato da Bologna in Lettere.
Dino Azzalin svolge i suoi testi poetici sulla falsariga di parabole in cui ogni cosa viene ordinata “ciascuno secondo la sua specie: “ove l’amore è l’ordine superiore che tutto ammanta e lega”, che dona un legante simbiotico e fulminante: la corolla, dietro la vela, dove irrompe il lampo che illumina e scuote il largo, tutto riunendo nella medesima sorte.
Se non tutto si compie, resta comunque la speranza che la perfezione si possa raggiungere. Credere che il male si fermi sulla soglia ove fascio di spighe è il viso dell’amata al sole.
L’analogia si dimostra strumento con cui decifrare le differenze esclusivamente apparenti e lacerare il velo che cela il medesimo respiro (afflato) delle cose nel mondo. Lirico e raffinato, il testo poetico di Azzalin sfiora e unisce con una parola, offrendosi in dono.
***
La corolla si aprí al riparo
della gomena, dietro la vela,
dove irruppe all’improvviso
il lampo che illuminò il dono,
scosse il lago, ne respirò la sorte.
***
L’assenza è quasi sempre una scelta precisa.
Misura la distanza del ritorno, l’assoluta stasi
di una parola o di un niente che tace.
Matura un cielo da preda o una radice
piú fertile del nostro fragile esistere,
e ci nutre con la sua ombra, che ci aiuta
a sopportare l’attesa di una stella dal mare.
***
E tana fu la voce, densa a fondersi
nel cuore dove l’uno era anche
l’altro per l’imminenza dei gesti,
per la pioggia dei campi che disfa
e dissolve i corpi con odore di fango
senza piú ossa né carne, né alibi o singhiozzi.
Dino Azzalin (Pontelongo, PD, 1953) ha pubblicato I disordini del ritmo, introduzione di Cesare Viviani (Crocetti, Milano 1985), Deserti, prefazione di Mario Santagostini (ivi 1994), Prove di memoria, prefazione di Andrea Zanzotto, (ivi 2006). Del 2010 è la plaquette di testi in forma poetica Guardie ai fuochi, Edizioni del Laboratorio (Modena).
Nel 1999 ha pubblicato il libro di racconti Via dei consumati (Edizioni Ulivo di Balerna, Svizzera); nel 2001 il volume di report-viaggi Diario d’Africa, con introduzione di Alex Zanotelli (NEM, Nuova Editrice Magenta; nel 2007 Mani Padamadan (Viaggi di sola andata), (NEM, Nuova Edi- trice Magenta. Nel 2016, ha pubblicato i racconti Nel Segreto di Lei (Storie d’amore e di buio) (Edizioni ES, Milano).
Vive a Varese, dove esercita la libera professione di medico.
La poesia e l’amore da sempre intrecciano i loro cammini e si potrebbe anche pensare che siano nati insieme: quando la parola ha sentito che quel sommovimento psicofisico ha avuto necessità di dirsi. E da qui, il sovvertimento del comune senso di intelletto ed emozione, verso una trasformazione mai fissata e spesso sfuggente, si è legato alla sua pronuncia significante. Così, leggere in queste pagine versi come “voglio restare acquattato/nelle pieghe del tuo amore” come una mistica tenia/che si nutre di dolore”, non può non far scattare nella mente del lettore, la sensazione di essere dentro una meravigliosa turbolenza. Nella scrittura di Daniele Barbieri il dibattersi dei turbamenti produce un andamento ritmico punteggiato da scansioni sillabiche che risuonano al ritmo di un’ondulazione, che si inarca verso se stessa e allo stesso modo dentro una dissoluzione del senso, non mortificante ma rigenerante in “nome dell’amore”. La lingua poetica è gesto vocale fatto di una sostanza che, nella dimensione del sentimento, si fa materia: esistenza che configura lo stupore anche nella perdita d’amore, con una tensione netta, lì dove “il cuore piange nero grida bianco”. Dunque nessun sentimentalismo, neanche il più lucido o freddo. L’autore muove i suoi testi dentro un reale divorante: esattamente così com’è. Non tutto però, nell’impeto d’amore, può dirsi. C’è una pronuncia che resta lì, chiusa, nemmeno balbettante, più che muta. Per poi improvvisamente esplodere e trascinare con sé la trappola della passione: con una versificazione stringente, battente a rima alternata, in un galoppo fluido e spedito. Fino al paradosso più doloroso, dove “l’assenza di qualsiasi patire/è il patire più vero”.
Dalla sezione “Fiore”
è quello che voglio dire
è quello che voglio fare
è così che voglio incidere
è così che voglio amare
come un silenzio che grida
voglio entrare nel tuo cuore
come un grido nel rumore
voglio restarci invisibile
voglio restare acquattato
nelle pieghe del tuo amore
come una mistica tenia
che si nutre di dolore
Dalla sezione “Calore”
niente magia niente fate in questa storia, solo un grande
deus-ex-machina a sancire questa impossibilità
di separarli, e la tragica necessità di unirli
nel loro ultimo viaggio, ma, santo dio, e se avessero
continuato da lontano a vagheggiarsi, e lungo tempo ancora,
non sarebbe stato meglio, o è proprio l’amore quello
che consuma sino in fondo?
Dalla sezione “Rumore”
il frastuono della moto entra in mezzo alle note di
John Coltrane, passi giganti e le mie cose preferite,
quasi i Pink Floyd della madre atomo cuore, non l’ascolto
quasi la musica forse quasi la guardo composta
com’è di frammenti di memoria, frammenti di cose
che si chiamano tra loro, o si chiamano come me
hanno il mio nome, lo giocano in mezzo alle note di
qualsiasi musica, come un modulato ritornello
dove i fatti della vita sono voci di una fuga
di cui il pianista da molto tempo ha perduto il controllo
Daniele Barbieri vive quasi da sempre a Bologna, pur essendo nato non molto lontano, e insegna presso l’Accademia di Belle Arti.
Ha pubblicato, oltre a tanti articoli, diversi libri di carattere teorico sulla semiotica, sul fumetto e la comunicazione visiva, sulla musica e anche sulla poesia: Valvoforme valvocolori (Idea Books 1990), I linguaggi del fumetto (Bompiani 1991), Questioni di ritmo. L’analisi tensiva dei testi televisivi (Eri/Rai 1996), Nel corso del testo. Una teoria della tensione e del ritmo (Bompiani 2004), Tensioni, interpretazione, protonarratività (a cura di, numero monografico di VS, 98-99, 2004), L’ascolto musicale. Condotte, pratiche, grammatiche (a cura di, LIM 2008), Breve storia della letteratura a fumetti (Carocci 2009), Il pensiero disegnato. Saggi sulla letteratura a fumetti europea (Coniglio 2010), Guardare e leggere. La comunicazione visiva dalla pittura alla tipografia (Carocci 2011), Il linguaggio della poesia (Bompiani 2011), Maestri del fumetto (Tunuè 2012), Semiotica del fumetto (Carocci 2017). Ha pubblicato due raccolte di poesie: La nostra vita, e altro (Campanotto 2004) e Distonia (Kurumuny, 2018). Un’altra silloge, Canzonette, è apparsa nel volume collettivo Emozioni in marcia (Fara Editore 2015). Le sue poesie si possono leggere settimanalmente sul blog ancoraunaltrome.wordpress.com.
Altre info su di lui, e sue riflessioni sul mondo, all’indirizzo www.guardareleggere.net.
La parola madre
Muscolo involontario
la parola madre
automatismo di scarto
a copertura di altri moventi
quando bastava scoprire un seno
e l‘infanzia del mondo era ai tuoi piedi
Lea Barletti: attrice e performer, è salita su un palcoscenico la prima volta a 15 anni, quando, cercando un corso di scenografia, si è ritrovata a farne uno di recitazione.
Attualmente vive e lavora a Berlino insieme a Werner Waas, con il nome “Barletti/Waas”. Le loro ultime produzioni, “Selbstbezichtigung/Autodiffamazione” di P. Handke, in versione bilingue italo/tedesca, e Kaspar (in tedesco), sempre di P. Handke, sono tuttora in tour in Italia e Germania. Barletti/Waas insieme all‘associazione ITZ Berlin sono partner tedeschi di „Fabula Mundi-Playwriting Europe“, un progetto per la circolazione di testi di drammaturgia contemporanea che vede coinvolti 11 paesi europei.
Quando circa 6 anni fa si è trasferita a Berlino, ha cominciato a scrivere, per ritrovare la lingua e in questa ritrovarsi. Scrive soprattutto racconti brevi, poesie e testi teatrali. Suoi racconti sono stati pubblicati su riviste e siti online (tra cui „Il primo amore“, „Oblique“, „Zest“). Il testo teatrale „Monologo della buona madre“ è andato in scena come lettura scenica al Teatro I di Milano (marzo 2018) e sarà al festival Shortheatre di Roma nel settembre 2018. Una sua piccola raccolta di racconti, „Libro dei dispersi e dei ritornati“, è stato pubblicato da Musicaos editore.
Da poco ha iniziato a scrivere anche in tedesco, un tedesco „sporco“ e molto personale.
La Terra
Dalla terra nasce la storia. I nostri piedi si appoggiano per iniziare il cammino. La terra è confine, arrivo e partenza, gioco e contemplazione, è spazio e mutamento.
***
Intro
La luce si concentra
Prima di espandersi
è giovane il giorno fino
al confine della sera
Quando tutto tornerà alla bellezza
La madre che unisce due mondi
Affini al cielo
Gabriella Becherelli è nata ad Arezzo, si è diplomata al Liceo Artistico e in seguito in pittura all'Accademia di Belle Arti di Firenze, seguendo il corso tenuto dal maestro Silvio Loffredo. Si è specializzata in tecnica dell’incisione a Urbino, ha fatto mostre collettive e personali. Da anni si interessa di psicologia della percezione visiva, di filosofia e psicologia Junghiana. Ha elaborato un tipo di lettura dell'opera d'arte in forma poetica, ha scritto brevi racconti e poesie cercando sempre di “raccontare per immagini”. Ha pubblicato il libro: “L'Età dell'Acquario”, la storia si svolge nella campagna fra Firenze e Siena durante la seconda guerra mondiale. La narrazione è strutturata con l'intenzione di sviluppare un linguaggio sinergico fra immagine e parola. Nel suo ultimo libro: “La Terra del silenzio”, ha cercato di approfondire questi temi, raccontando una storia che lega le problematiche esistenziali del protagonista, con il concetto di tempo, prendendo spunto dal pensiero di Leibniz. Ha vinto il premio di poesia, prima edizione 2015, indetto dal Caffè Letterario Le Murate di Firenze. Ha partecipato a una serata di poesia dedicata alle donne al Caffè Letterario,e ad un evento sulla Beat Generation, quest’estate ha fatto parte di un evento a San Salvi dedicato alla presentazione dell’antologia “Affluenti”. Ha pubblicato le sue poesie nella rivista americana California Quarterly. Iscritta al gruppo Ewwa prende parte al Pisa Book Festival, per presentare i suoi libri. Ha partecipato ultimamente a un convegno sulle donne che scrivono organizzato dalla scrittrice Anna Bertini a Fauglia ( Pisa) con il gruppo Ewwa., e al reading sulla poesia al femminile al caffè letterario Le Murate a Firenze.
Ha insegnato Disegno e Storia dell'Arte, vive a Firenze e attualmente insegna Discipline Grafiche e Pittoriche al Liceo Artistico di Porta Romana a Firenze.
da “Quindici quadri di quartiere”, Consulta 2018
I pilastri della Certosa di Sthendal
Al principio di una strada malmessa
i pilastri affogano nella citta`
esplosa dentro la pianura. Lo sguardo
s’incunea nel rettilineo, al fondo
la Certosa. Prima asilo di suore,
d’angeli, demoni e malsani amori
e poi carcere di bambini. Un’arnia
di parole, arcana patria del poeta.
Il fiore sdrucito dell’autunno
muta in rosa canina, aspra dimora
del miele prezioso, indicibile orma.
Mi chiamo Daniele Beghè sono nato a Parma, dove vivo da 54 anni. Ho frequentato il Liceo scientifico e mi sono laureato in Economia e Commercio. Dopo alcuni anni di lavoro presso un ‘impresa privata, svolgo dal 1994 la professione di Dottore commercialista, anche se la mia attività è rivolta prevalentemente alla formazione in ambito economico e giuridico. Pur essendo da sempre appassionato lettore di poesia, ho cominciato a scrivere solo nel 2007
La mia biografia letteraria può annoverare, solo pochi episodi. Un paio di brevi brani sono stati pubblicati, con recensione positiva, da parte di Maurizio Cucchi, sulla rubrica da Lui curata ( Dialoghi in versi ), nella pagina culturale della Stampa nel 2011. Sempre nel 2011 alcune brevi poesie sono state pubblicate sul blog di poesia di rainews a cura di Luigia Sorrentino. Una mia poesia è stata pubblicata sul diario poetico “ Segreto delle fragole” a cura di Guido Oldani, pubblicato da Lieto Colle nel 2015. Ho partecipato a diverse edizioni del premio letterario Tapirulan indetto dalla omonima associazione culturale di Cremona, nel quale sono stato selezionato per la pubblicazione nelle antologie del 2012 ( Kona ) e del 2014 (Mevoj), mentre nel 2015, sempre nel medesimo concorso di Tapirulan mi sono classificato terzo nella sezione per poesie singole inedite. Nel 2016 sono risultato vincitore della sezione per sillogi inedite, con conseguente pubblicazione a cura delle Edizioni Tapirulan, della mia opera prima “ Galateo dell’abbandono “. Sempre nel 2016 mi sono classificato al quarto posto nel 2° concorso nazionale di Prosa lirica inedita indetto in occasione del Centenario “ del viaggio chiamato amore “ di Dino Campana e Sibilla Aleramo, organizzato dall’associazione “ Centro studi campaniani “ di Marradi (FI). Nel 2017 “Galateo dell’abbandono” ha vinto il “Premio Speciale del Presidente della Giuria” al concorso INTERFERENZE istituito dal comitato organizzatore del festival BOLOGNA IN LETTERE, è stato premiato con menzione alla XXXI edizione del premio Montano, è risultato finalista al “Premio Solstizio” per opere prime , organizzato a Fondi dall'associazione Libero de Libero.
Nel gennaio del 2018 col presente testo “ QUINDICI QUADRI DI QUARTIERE ED ALTRI VERSI” ho vinto il concorso per sillogi inedite intitolato all'intellettuale e poeta Luciano Serra a Reggio Emilia. Il premio per la vittoria del concorso è stato la pubblicazione del libro da parte dell'editore Consulta, libri e progetti di Reggio Emilia.
Il poemetto di Nicoletta Bidoia, incentrato sulla figura di Vaslav Nijinsky, è un esempio eccellente di come si possa far poesia intorno alla biografia interiore e alla dimensione estetica di un artista, che ha disincarnato l’umano sentire arrivando a guardare fin là dove solo una poesia vivente può arrivare: a vedere “il dolore che si imbosca nelle parole”. Dunque provare il segreto dell’oscurità attraverso un patimento reso muto dalla lingua, ma con la forza di una visione impetuosa. La voce di questo poemetto ha il suono che parte non dalla musica, ma dalla visività della danza: da un corpo e un sentimento irrefrenabili, dove il sollevarsi da terra è fatto della stessa sostanza che ha un prodigio: non il balzo, ma l’ascesa verso una forma d’esistenza fisicamente e cognitivamente sempre sospesa. Ed è questa la materia che la scrittura dell’autrice riesce a far aderire a una vita, che viene resa annullando il racconto, in favore di una moltitudine di sensi che ritmano nell’intimo del linguaggio; e lì si intersecano e danno alla significazione propria della poesia il cammino plurimo che potremmo definire biografia di una danza. Arte che opera non solo con l’evidenza del movimento, ma, più profondamente, cura il silenzio come suprema forma di parola e figura. Così il senso è messo a nudo, perdendo se stesso ma ottenendo, superando il significante della fisicità, di sciogliersi in quel niente che, come precisa Nicoletta Bidoia, “resta l’enigma dolente che strema”. Perché l’essere, come la poesia, non può interpretare se stesso, non è un personaggio. Può solo (ma con grandissimo valore) mostrare ciò che è in ciò che è: senza intermediazione alcuna.
***
Sono in corsivo nel testo le frasi di Vaslav Nijinsky tratte dai suoi Diari, nelle traduzioni di Gabriella Luzzani e Maurizia Calusio (entrambe per Adelphi).
I
ho la semplicità che hanno i cieli (Osip Mandel’štam)
C’era mia madre e la dura fame
e Bronja e Stasik, fratello folle,
in anticipo di poco sulla mia pazzia.
E c’erano i miei occhi tartari ‘giapponesi’,
i miei zigomi derisi, le carni isolate
dai compagni che staccavano dalle loro
le mie trepidazioni. Io piango tanto.
Io piango in maniera
da non dar fastidio a nessuno.
Già da allievo miracolavo nel salto,
perché se parto alla volta del cielo
è per restarvi a lungo a mezz’aria.
Non conosco altro azzurro
se non quando prolungo l’incontro
là in alto
e mi sospendo, vi penso, mi calmo.
E dopo ogni indugio
ritorno a quel fuoco, plano,
scendo in me
come un perdono.
(…)
Cupo, ottuso, dicevano, spaesato.
Non parla, non sa parlare,
balbetta. Ed è vero,
tacevo e in ogni tacere scandivo
la cantilena dei timidi,
i monosillabi di Dio.
II
Sono accusato di un crimine contro la grazia. Credo di poter ballare ‘graziosamente’ in balletti altrui se la grazia è richiesta, e potrei comporre balletti graziosi io stesso se volessi. Il fatto è che detesto la poesia convenzionale “dell’usignolo e della rosa”; le mie inclinazioni sono primitive.
Vaslav Nijinksy in ‘Daily Mail’ del 12 luglio 1913
In tanti cercano di scoprire il segreto dei miei salti, non si capacitano, parlano perfino di levitazione. “Vive in aria” dice di me il basso Šaljapin, “del tutto libero dai vincoli della gravità”, insiste Cocteau, che dietro le quinte cerca una meccanica nascosta dentro le mie scarpette che spieghi l’arcano e metta il cuore in pace.
A chi mi chiede come io riesca a saltare in quel modo rispondo: “Non è difficile, basta fermarsi un po’ in aria”. Vorrei però che fosse chiaro: io non sono un saltatore, sono un artista.
Poi mi vedono in Petruška, il burattino che si sente oppresso e che soccombe. Quando muoio in scena il mio spirito si libera sopra il teatrino della fiera e tormenta il mio aguzzino. Petruška è uno come me, non può far altro. Così per Stravinsky sono “la maschera d’attore più potente” e per Charlie Chaplin sono “ipnotico, divino”. Dio della danza infatti mi chiamano, ma non mi piacciono le lodi, non sono mica un ragazzino.
(…)
Nicoletta Bidoia è nata a Treviso nel 1968 e ha pubblicato i libri di poesia Alla fontana che dà albe, quasi una preghiera ad Alda Merini (2002), Verso il tuo nome (2005, con prefazione di Alda Merini), L’obbedienza (2008, con prefazione di Isabella Panfido) editi da Lietocolle, e Come i coralli (2014) con Edizioni La Vita Felice.
Nel 2013 è uscito per Edizioni La Gru il racconto Vivi. Ultime notizie di Luciano D.
Sue poesie, apparse anche in raccolte e riviste e più volte trasmesse a Rai Radio3, sono state tradotte in spagnolo in Jardines secretos, Joven Poesìa Italiana, a cura di E. Coco (Sial, Madrid, 2008).
Con la cantautrice Laura Mars Rebuttini ha realizzato lo spettacolo Un piccolo miracolo, partecipando ad alcuni festival italiani di poesia.
Compone anche collages e teatrini di carta (reperibili in rete su youtube o instagram): con alcuni di questi ha illustrato il numero 41 di “Carte nel vento” https://www.anteremedizioni.it/gennaio_2019_anno_xvi_numero_41
Marco Boietti, da “La voce arcana”, Edizioni Polistampa, 2017
La voce arcana
La follia stellata
compone la lingua della fantasia,
che sia un che di impercepito
o elemento insensato
sfuggono parole appena nate
dalle barriere più opache.
L’ombra più erudita vigila sul tesoro
sfrondato da superflui aggregati.
Anni celesti
Dal rumore nell’oscurità
giungo alla tua porta,
“Eccomi, sono tornato”.
Dai labirinti della nostalgia
divento polvere per risorgere
così bevo aria
mentre nei polmoni
divampano campane
si spiegano i venti.
Marco Boietti è nato e vive a Milano. Dalla passione per la musica sono nate molte·delle emozioni trasfuse nelle sue liriche, riportate anche da varie antologie.
Dall'incontro con Danilo Boiettl (1932~2016), pittore affermato in Italia e all'estero, derivano una stretta collaborazione artistica e una consolidata amicizia. In molti dei libri di Marco, le pagine sono intercalate dai dipinti del Maestro.
La sua bibliografia comprende le seguenti raccolte: Moti e maree, Gruppo Albatros, 2008; Kismet, AltroMondo Editore, 2009; Amaranta, AltroMondo Editore, 2010;. Dalibor, Edizioni Il Grappolo, 2011; 6.25, un conflitto dimenticato, Blu di Prussia, 2012; Loro, Blu di Prussia, 2013; Hypothesis, Blu di Prussia, 2013; La coda del pavone, L'arcolaio, 2014; Cigni di Giada, L'arcolaio, 2014; I1 gioco delle parole, Giuliano Ladolfi Editore, 2015; Oltre le isole felici, Vitale Edizioni, 2015; Oxana Giuliano Ladolfi Editore, 2015; Un uomo qualunque, Blu di Prussia, 2016; Meta, Blu di Prussia, 2016, premiato con menzione al Premio Lorenzoo Montano, 20a edizione; Paso Doble, Blu di Prussia, 2016. Oltre a La voce arcana, con Polistampa ha pubblicato nello stesso anno la silloge ll sole velato, cui è stata riconosciuta la menzione alla 30a edizione del Premio Lorenzo Montano.
Marco Boietti è anche autore dl testi musicali.
Simone Maria Bonin ci parla di un cammino ignaro del principio e della fine, tanto da celebrare – grazie alla parola poetica – l’incompletezza.
Tale produzione non si collega a dispositivi gerarchici, alla figura della legge, bensì viene colta come il vero e proprio continuum dell’esistenza.
È un commercio intimo quello che intercorre tra l’avventura umana e la lingua che la custodisce, un po’ come fa la macchina fotografica con i suoi scatti.
Insomma, nell’avventura della vita non si tratta tanto di commuoversi, di gioire o di addolorarsi; quanto di capire, di consentire a ognuno di noi di attribuire una cifra – la nostra – all’intimità e alla verità delle nostre vite.
***
Chissà poi cosa mai saprai di noi
tesi sottopelle ed elettrici di sangue
i bronchi a pezzi per ragioni esenti
da qualsiasi stasi di se stessi
Dalla sezione “Voyages”
(Uno)
I
A riva è il nostro posto
in questa colla di salmastro
dove
il mare aperto è corpo
distante dallo sguardo
Dalla sezione “Biopsie”
***
Da neurone a neurone
corre un filo elettrogeno
di fame
colpiscimi
se puoi, fammi male
prega altro dolore
un colpo di esistenza
tra le vertebre delle parole
***
Sei parole senza nome, senza
soluzione
impara la posizione del corpo
le cose
non torneranno più
Simone Maria Bonin è nato a Venezia nel 1993. È laureato in Matematica ed Economia all’Università di Warwick, nel Regno Unito, e prosegue gli studi specialistici ad Aarhus, in Danimarca. Ha vissuto diversi mesi, nel 2009, in Costa Rica.
Assieme a Gerardo De Stefano ha curato la collana di poesia "Rigor Mortis" di Thauma Edizioni pubblicando Atlantide: Poesie, Prose e Corrispondenze di Hart Crane, prima traduzione italiana dell’opera completa del poeta americano.
Collabora come traduttore con la rivista letteraria online 'Inkroci'. Suoi testi sono apparsi su "Nazione Indiana" e su "Poesia" (qui, con nota critica di Maria Grazia Calandrone).
Da “Con la promessa di dire”, Book Editore, 2016
***
… e se rimane una sottile complicità
che tradisce le voci e muore
sarà tempo di dire
addio silenzi infecondi
misurano le ore gli anni.
… è giunto il tempo di lasciare
la realtà dove fissiamo il centro della vita
da fuori l’ombra più non risponde.
***
L’inverno è la stagione dei poeti ombra
sempre più necessari quando
il tempo è mancanza per cui si muore.
Quando il tempo interiore si spezza
siamo naufraghi senza altrove …
A sera avverto l’assenza
come un residuo di tempo che tace.
Stefania Bortoli è nata a Thiene (VI). Si è laureata in Pedagogia con una tesi di Estetica e Psicoanalisi. Sue poesie sono state presentate in occasione di reading e sono presenti su siti web. Figura nell’antologia “Blanc de ta nuque”, volume secondo.
È stata segnalata alla Premio Lorenzo Montano, edizioni XXI, XXIV, per la sezione “Una poesia inedita” e nell’edizione XXV, per la sezione “Una raccolta inedita”.
Il libro Voci d’assenza (ed. Editrice Artistica Bassano, 2012,) è stato segnalato con Menzione di merito alla XVII edizione del Premio Nazionale di Poesia Achille Marazza - Opera prima.
Insegna lettere al Liceo Artistico di Nove e vive a Pove del Grappa.
Zero di apnea e l’uno e l’uno, e l’uno e
Quando la luce è radente il campo si tinge di rosso
e figure caudate scambiano attimi di sé in controluce
senza intaccare la densità dell’ora; questi grumi d’intesa
svaniscono a un tratto e fanno ritorno come singoli –
ombrelloni aperti dalla festa hanno lasciato scuri esantemi
a bordo vasca, sul corpo rosso del giorno che sugge.
Sulla piscina traspare un segno residente nell’inclinazione
dei vari oggetti luminosi. E’ una figura tatuata sul fondo,
un uomo che tiene l’apnea; e mi dice sia possibile
contando a pelo del numero Uno infinitamente, poiché
nelle altre cifre matura la data della fine o l’inizio
dell’opera, che non distingue ogni essere della natura.
Salvatore Bossa nasce a Napoli nel 1990, un suo racconto è stato pubblicato su una rivista letteraria. E’ indotto a scrivere da una fervida immaginazione associata al bisogno costante di esperire se stesso, di aprirsi a nuove forme.
In sette versi Doris Emilia Bragagnini ci dimostra che la poesia, tra le sue varie rappresentazioni, può essere l’istante del pensiero, quel momento colto apparentemente a bruciapelo e che vive per sempre. L’autrice è nella scena, ma in secondo piano: “io” non domina, diventa un “me” quasi accennato. Come ricordare un sogno. Nella brevità del testo, la fase onirica iniziale, tra falco e ballerina, svettare e passo, becco e labbro, introduce l’abisso cui può spingersi la poesia: verso l’insaputo, attraverso “un fiore reclinato sull’eterno”. Come ha scritto Karl Kraus, la poesia è la via più breve per andare da un rigagnolo alla Via Lattea.
determinismo verticale
del falco che t’incideva il passo, lo svettare sulle circostanze
fermo sulle - punte - con la grazia di una ballerina di Doisneau
non ho più sentito il grido lo strappo di becco il varco
che mi sapevi togliere dal labbro
come un fiore reclinato sull’eterno, versato
goccia a goccia disanimata glossia all’orecchio del mondo
il tuo dentro insaputo, il baleno di un cielo inciampato
Doris Emilia Bragagnini: ”nata nel nordest vive da sempre a due passi da sé, qualche volta v’inciampa e ne scrive”. Compare con suoi testi in varie antologie (tra cui Il Giardino dei Poeti ed. Historica e Fragmenta premio Ulteriora Mirari ed. Smasher), in blog e siti letterari come Neobar (cui collabora come redattrice), Il Giardino Dei Poeti (vi ha collaborato), Filosofi Per Caso, Torno Giovedì, Linea Carsica, Carte Sensibili, Words Social Forum, Via Delle Belle Donne, La Poesia e lo Spirito, La Dimora del Tempo Sospeso, Poetarum Silva. Ha partecipato ai poemetti collettivi “La Versione di Giuseppe. Poeti per don Tonino Bello” e “Un sandalo per Rut” (ed. Accademia di Terra d’Otranto, Neobar 2011). Menzione speciale per il testo “Claustrofonia” sezione “Una poesia inedita” premio Lorenzo Montano 2013 e per il testo “di fuga Soluta” nel 2016. Premiata con segnalazione la silloge inedita “Claustrofonia” al Premio Lorenzo Montano 2017. Il primo libro edito: OLTREVERSO il latte sulla porta ed. Zona 2012. Presente in alcuni periodici on line e cartacei tra cui Carte nel Vento a cura di Ranieri Teti, EspressoSud a cura di Augusto Benemeglio. Recentissima la pubblicazione di “Claustrofonia” per Ladolfi Editore (dicembre 2018) con prefazione di Plinio Perilli e postfazione di Laura Caccia.
Fabrizio Bregoli presentando la sua raccolta all’insegna della disputa verbale, indirizza fin da subito il lettore dentro un solco metapoetico, fervido di implicazioni significanti, che portano senso emozionale e intellettivo contemporaneamente. E la lettera scientifica, che ne punteggia il percorso, è sostanza in più, intrinseca a una precisa e vasta modulazione poetica. Il dire si riempie di una voce che fa brillare “elettrodi”; portare a modulazione scelte lessicali di un sapere senza cesure; “frequenze interferenti” liberano il sintagma in una corrente che dà alla voce poetica “la pienezza del fulmine”. Ma il linguaggio è materia misteriosa, riesce a potenziare i mille canali di un significato, che vorrebbe essere univoco, anche inabissandosi nel silenzio, ma senza, per questo, annullarsi. Però ciò non toglie, rileva l’autore, che nello spazio e nel tempo del poema ci si possa perdere: in sommovimenti magmatici o scavi carsici che potrebbero far collassare la concettualità e l’ immaginazione. Ma in questi testi ciò non accade, perché il pensiero è tenuto insieme da una natura concreta: scarnificata e visionaria. E il tutto dentro un corpo che più che fare poesia della scienza, si fa scienza di poesia: dunque lingua materica. Lì dove l’andamento produce i suoi limiti e li supera in continuazione, con un moto “denso” in “compiuta curvatura”. Dentro queste poesie i numeri accadono: e così le rime e le assonanze che intrecciano visibilità, ritmo e geometria. Fabrizio Bregoli non chiede alla poesia il disvelamento di sé, ma lascia che il suo cammino errabondo inciampi, per poter scoprire anche la precisione “di ciò che non si compie.”
***
Sempre e solo un’ipotesi, un respingere
laterale, come fosse un intruso
a porgere la mano, osare spazio.
Esige questo, uno scendere a patti,
la sua sintassi opaca, risoluta.
Basta poco sai, quella macchia sghemba
che s’arremba alla pelle, come un fiordo
buio appeso alle labbra. O un affiorare
lento, come da una radice antica,
di un conto che non torna,
un ammutinamento delle cellule.
Perché in fondo sai, siamo quest’estrudersi
del corpo, ambire a senso, direzione
a una misura che si compie.
Ardire un passo in più, un verso oltre.
Dalla sezione “Apostasia di Nikola Tesla”
I.
Differenze di potenziali, elettrodi
come baratri tra parola e buio.
Servirebbe forse crederli grumo
materico, qualcosa
di elementare, una tavola pitagorica
un’acqua di Talete. Verbo
che solo nel non dirsi si sa dire.
III.
Eludere lo spazio. Ed abusarne
farne mezzo, ricettacolo d’onde.
Plasma. Elettroni come arche, globuli
minimi di campo. Eppure lo pensi
ordine questo accrescersi di formule,
quest’ambire a norma, a processo ergodico
reticolo di geometrie variabili.
Vi potresti smarrire. Potresti dirlo Dio.
IV.
Sinusoidi. Modulate armoniche,
frequenze interferenti in fase, fronti
d’onda che propagandosi s’assommano,
eludono zeri e vuoto. Forzieri
d’energia, vettori di significato.
Nοῦς. Limes d’un sapere antico, prossimo.
Fabrizio Bregoli, nato nella bassa bresciana, risiede da vent’anni in Brianza. Laureato con lode in Ingegneria Elettronica, master in Marketing, lavora a Seregno nel settore delle telecomunicazioni.
Ha pubblicato alcuni percorsi poetici fra cui “Cronache Provvisorie” (VJ Edizioni, 2015 – Finalista al Premio Caproni) e “Il senso della neve” (puntoacapo, 2016 - Premio Rodolfo Valentino 2016 e Premio Biennale di Poesia Campagnola 2017, Premio della Critica al Dino Campana 2017, Finalista ai Premio Gozzano, Merini, Caput Gauri). Ha inoltre realizzato per i tipi di Pulcinoelefante la plaquette “Grandi poeti” (2012).
Sue opere sono incluse in Lezioni di Poesia (Arcipelago Itaca, 2015) di Tomaso Kemeny e in numerose altre antologie. Con il poemetto ENIAC è inoltre incluso in iPoet Lunario in versi (Lietocolle, 2018).
Il suo ultimo lavoro è "Zero al quoto" (puntoacapo, 2018) con prefazione di Vincenzo Guarracino.
Partecipa a letture poetiche, dibattiti culturali e blog di poesia. Ha preso parte ad alcuni eventi di azione poetica mito-modernista e alcune sue poesie sono state esposte congiuntamente a opere pittoriche in eventi organizzati dall’associazione Civico32 a Bologna.
Ha conseguito numerosi riconoscimenti per la poesia inedita, fra i quali gli sono stati assegnati i Premi San Domenichino, Marietta Baderna, Lino Molinario, Daniela Cairoli, Giovanni Descalzo, Eridanos, Piemonte Letteratura, Terre di Liguria, Il Giardino di Babuk, il Premio “Dante d’Oro” dell’Università Bocconi di Milano, il Premio della Stampa al Città di Acqui Terme.
Sulla sua poesia hanno scritto Giuseppe Conte, Tomaso Kemeny, Ivan Fedeli, Mauro Ferrari, Sebastiano Aglieco, Vincenzo Guarracino, Laura Caccia, Laura Cantelmo, Eleonora Rimolo, Paolo Gera, Alessandro Ramberti, Gian Piero Stefanoni, Alfredo Rienzi.
Questo libro rappresenta un uscire sbattendo la porta. Un piegare con la forza i propri pensieri nel tempo e nel luogo della poesia, così distante dall’autismo omologato che caratterizza l’età moderna fin dal suo inizio.
È necessario un sempre più vigile senso di responsabilità nei confronti dell’essere umano.
Ma, attenzione, da questo lavoro non nasce un’astratta opera concettuale, bensì una casa imponente che consente un abitare che tanto assomiglia a un vivere poetico; un’acquisizione che non pone termine a una ricerca, ma al contrario le dà un senso e un impulso nuovi: descrivere quelle modalità della vita che rendono vivibile il nostro percorso terreno.
Quarti della notte
1.
Il cielo deve essere nuvoloso. Per il resto, può accadere in un momento qualsiasi della giornata. Lo sguardo si fissa su un punto imprecisato e le voci non sono piú importanti.
Allora c’è un salto nel tempo, e ci si ritrova già lungo la strada. Il passo è solenne e trascinato. Si procede a testa bassa, sotto un cielo minaccioso, nascondendosi il lampo negli occhi.
2.
In camera, sulla scrivania, il cervello si espande. Sotto la lampada si esibiscono le mani bianche. I polpastrelli provano il vetro del bicchiere, punto di ancoraggio di tutto il corpo; gli occhi si stringono con una sofferenza.
Ogni qualche minuto lo si porta alle labbra con la giusta, calibrata trascuratezza. Il liquido scivola lungo il sangue, fa rovesciare la testa all’indietro: in questo modo è possibile stiracchiare il collo e, nello stesso tempo, interrogare il soffitto.
3.
Voglia di uscire a cercare la notte. L’inquadratura si allontana, rivelando una spalla contro la colonna, mentre si resta attoniti col naso all’insú: il cielo si è liberato.
L’odore degli alberi, le stelle fisse: tutto torna a significare qualcosa. Ci si sente di nuovo bambini e si immaginano cose.
In a Landscape
Il cielo si trasforma sotto gli occhi di chi guarda,
è piú veloce degli alberi che crescono,
piú lento dello sguardo che lo passa in rassegna
cercando qualcos’altro, ma che sia sempre al di qua,
da questa parte concava del cielo,
e quindi facce, progetti, ombre, ricordi
di appuntamenti persi con il tempo, e ancora sagome,
aerei, dita puntate, sogni, proiezioni – nuvole:
la piú insulsa forma d’intrattenimento,
perché il cielo si trasforma continuamente,
e si spegne, di regola, e delude
come sempre le cose che si amano.
True Ending
È una mattina dopo un temporale senza tracce – un balcone troppo in basso, un’incapacità di intenti, una catastrofe avvertita e mai avvenuta. O forse qualcosa è avvenuto ma solo una mattina dopo l’altra, dietro le tapparelle degli occhi, lo stesso di quando i piedi hanno sentito il materasso troppo corto, e poi troppo usurato, e poi nessuna mamma o donna è piú comparsa sulla soglia della stanza, come un presentimento che si avvera. Comunque c’è il sole. Fili invisibili si tracciano e riflettono nella luce entro il paesaggio di una casa, un cortile, un appartamento residenziale collocato al limite con la campagna. L’uomo sorride con disinvoltura. In certi momenti la sua vita è stata come una cascata, adesso i lineamenti sono rilassati e netti, espressioni trattenute sul viso molto a lungo. Nessuna sensazione, nessuna paura umana, soltanto una presenza fuoricampo. Fuoco: una di quelle cose di cui non sente la mancanza. L’azione perduta di chi non rientra nell’inquadratura, di chi è già andato altrove, eclissando la memoria, senza lasciare altro che un’espressione di rimando, una storia o un’immagine. Nessuna sensazione, nessuna paura umana, soltanto una mancanza fuoricampo. C’è il sole, co- me se niente fosse. S. lo nasconde con l’icona del Cestino.
Simone Burratti (1990) studia e vive a Padova. È stato redattore del sito formavera. Sue poesie e traduzioni dall’inglese sono uscite su vari blog e riviste. Questa è la sua Opera Prima.
Il dio della metropoli non si cura delle apparenze, come il poeta che racconta la profonda vita di una reale città trasfigurandone gli abituali connotati.
Le vetrine, alle ore ventidue, sono poesia dell’abbandono, “maglie disabitate”. Con tutto quello che nel giorno è passato, tutto quello che “sembra”, come ciglia finte, o foglie che cadono. Il dio della metropoli, di notte, è sul marciapiede di una città che dopo essersi inchinata al crepuscolo riesce a essere accogliente. Perché “in noi è chi respira”. Non è vero che siamo tutti stati vinti, ci dice Giusi Busceti, dal "sempregiorno".
Vetrine
A vetrine serrate amo i ricami
maglie disabitate scialli spille
richiami strass su sagome, scintille,
micromosse di vacue finte ciglia
vanno sospese alle ventidue
col vento, ora imprevisto il corso taglia
sciame di foglie scontrini sollevati
fogli sperduti al mondo noi in quest’ora
sostiamo, è l’inazione: e l’invenzione
degli occhi trova fine, svela volto
del nulla una corrente che afa oscura
argina ai visi erosi della nausea,
dei condizionatori, mentre avanza
un minuto ogni giorno la stagione
il crepuscolo invade e la città
s’inchina, stoppia secca che si estingue
Europa sotto il velo che non sa
di corpi nuovi d’altro mondo avvolti
ma sorgi, sera di nessuno scopo
munificente frutto ora discendi
arancio verde azzurro gelatina
rosa dai cieli a grappoli nel bianco
firmamento che in noi è chi respira
qui ora dove ha centro il sempregiorno
e la città che scende s’inginocchia
sotto la gemma immobile che veglia
ogni vetrina tacco ritmo tace
e polvere ritorna, torna amore.
Giusi Busceti è nata a Milano, dove risiede. Ha pubblicato Sèstile (Corpo 10, Milano 1991), le plaquette L’innaffiatoio (Signum Edizioni d’Arte, Bollate 2001) e Due Scatti (Madam Web, Milano 2005) e la raccolta A nucleo perso (LietoColle, Faloppio 2007). Suoi testi sono apparsi su riviste italiane e straniere, tra cui: Alfabeta, Anterem, Manocomete, Hebenon, Gradiva, BlocNotes, Chelsea, Il Segnale, Qui, Il Monte Analogo, La Mosca di Milano. E’ presente nell’Antologia “Italian Poetry 1950-1990”, Dante University Press, Boston, 1996; “Nottetempo”, Ed. Di Latta, Milano 2007; finalista al Premio di Poesia “Lorenzo Montano” 2005, ha collaborato all’Antologia Poesia Contro Guerra, a cura di Antonella Doria, Ed. Punto Rosso, Milano 2000-2007; è tra gli autori dell’opera critica Vertigine e Misura, appunti sulla poesia contemporanea, a cura di Marco Ercolani, La Vita Felice 2008 e dell'Antologia Chi ha paura della Bellezza, a cura di Tomaso Kemeny, Arcipelago Edizioni 2010. Nell'Antologia "La poesia del lavoro" compare tra i vincitori del Primo Premio di Poesia bandito nel 2014 dal Sindacato CISL. Del 2017 sono l'antologia Perturbamento, per le Ed. Joker a cura di Marco Ercolani, che include una scelta di suoi testi per la sezione dedicata ai poeti contemporanei, e la plaquette Buio Selvatico, in coppia con un’opera dell’artista Andrea Capucci, per le edizioni Pulcino Elefante di Alberto Casiraghi. E’ in uscita per la collana de Il Verri la sua ultima raccolta, Ufficio del sole, con prefazione di Angelo Lumelli.
Nella redazione della collana di poesia Niebo, diretta da Milo de Angelis, dal 1999 al 2002, è Presidente dell’Associazione Casa della Poesia al Trotter di Milano, che opera dal marzo 2004 per la diffusione della poesia nei suoi più diversi registri, anche nelle periferie multiculturali e nella scuola; da ottobre 2017 è Art director dello Spazio 57events nel quartiere NoLo (North Loreto), Milano.
Da “Sativi”, Marco Saya Edizioni, 2017
Dalla sezione “Claustrofobiche”
3.
Per etimo si annida negli anni il metodo
accavallando masse d’odio e radio onde
fin dentro un mare che è la mente rame
mentre offende il cuore d’osso assente
in noi di frusta come rabbia delinquente
calunnia orale che si ottiene nell’inerzia
4.
È caduta la conoscenza e mentre cadeva
siamo nati come estinti in mezzo andare
lenti appena eppure pieni di così niente
che veramente pare l’essere somigliante
al vuoto stare delle attese immaginando
ciascun perpetuo di più estinto nell’avere
5.
Per puro astratto di malessere giace
la presenza in più come a procedere
per assenze nel divario tradendo il fine
tranquillamente senza cogliere dicerie
sulla prossimità del limite dove diventa
storia al limite o fandonia che millanta
Antonio Bux (Foggia, 1982) ha pubblicato vari libri, sia in italiano, tra i quali Trilogia dello zero (finalista premio Lorenzo Monta- no; vincintore premio Città di Minturno), Kevlar (vincitore premio Alinari), Naturario (selezione premio Viareggio), che in spa- gnolo (23 - fragmentos de alguien, El hombre comido, Saga familiar de un lobo estepario).
Sue poesie sono state tradotte in varie lingue e antologizzate in lavori collettivi come In- Verse: Italian poets in translation, a cura della John Cabot University.
Ha tradotto vari au- tori di lingua spagnola, su tutti Leopoldo María Panero. Ha fondato e dirige il blog Disgrafie (antoniobux.wordpress.com) e, per le Marco Saya Edizioni, due collane di poesia e prosa.
Da Del silenzio che resta
***
Di fatto una diacronia
pensarsi giovani
in un corpo che non è d’accordo
convalescenza della giovinezza
-chi pensava di doverla scontare?-
la vita si fa fuga e destino
nessun verso viene più in pace
la nostalgia
è una luce dimenticata accesa
come il raggio di marzo
orientato a finestre e balconi aperti
saremo tutti Lee Masters
parleremo anche noi con la voce dei morti
***
S’impattano parole
qualcosa si rompe
o si salda -del resto
è solo un foglio a reggere
Angela Caccia (http://ilciottolo.blogspot.it/ ) risiede a Crotone.
Studi: maturità classica e laurea in scienze giuridiche.
Dal 2006 al 2011 ho coordinato l’Ass. Culturale Le Madie.
Dopo un fermo di sette anni, ho ripreso la partecipazione a concorsi letterari.
Tra i premi conseguiti tempo fa, da cui sono esclusi menzioni e segnalazioni, ne ricordo alcuni:
Inedito:
Edito: (“Il canto del silenzio” edito nel luglio 2004 dall’Istit. di Cultura italiana-Napoli)
Inedito 2011
Inedito 2012
Edito 2013
(“Nel fruscio feroce degli ulivi” edito nel marzo 2013 dalla Fara di Alessandro Ramberti, prefato da Davide Rondoni)
Inedito 2013 – tutte liriche inserite poi nell’ultima pubblicazione
Edito e inedito 2014
Inedito 2015
Edito 2015
(“Il tocco abarico del dubbio” edito nell’aprile 2015 dalla Fara di Alessandro Ramberti, prefato da Anna Maria Bonfiglio)
Inedito 2016
Edito 2017
Inedito 2017
Edito 2018
Miei contributi mensili sulla rivista culturale on line Versante ripido di cui ho coordinato il lavoro di recensione a libri di poesia, elenco alcuni blog siti e riviste che hanno scritto sulla mia poesia:
Oubliette magazine, Patria Letteratura, Altritaliani, La Recherche, Blog RAI poesia di Luigia Sorrentino, Sololibri.net, Via Cialdini, Estroverso, LetterMagazine, Liberolibro, Kult Virtual press, Chronicalibri, Blog Letteratura e Cultura, La stanza di Erato, Circumnavigare, Il paradiso degli Orchi, Versante ripido, Satura, il blog Poesia de Il Corriere della sera. Presente in molte antologie: Cinque Terre 1998 (La Spezia); Il Golfo 1998 (La Spezia);Poesie d'Italia - Club Letterario Italiano (Latina 1998);“Scritture poetiche di fine millennio”(Striano 1999); “Voci dell’anima” (Rapolano Terme 1999); “Cinque Terre” (1999 La Spezia); Antologia Premio lett. Inter. “Siracusa”; Antologia Premio Feile Filiochta; Antologia Premio Casa Editrice Perrone, Antologia Poeti e poesia di Elio Pecora.
Quando il poeta entra nella storia, da poeta, con tutti i sensi aperti, con tutte le parole portatrici di pensiero, con la conoscenza, riesce in un sussurro penetrante a dire con forza di tremendi silenzi.
Quasi sottovoce, in un lascito testamentario.
All’attenzione di questo coinvolgente saggio breve c’è il silenzio, qui analizzato e sviscerato come effetto del contatto con il puro male dell’esistenza. A questo proposito Rinaldo Caddeo inizia e chiude il suo testo con riferimento alle drammatiche testimonianze di Liliana Segre; e ne coglie inedite analogie (letterarie) e differenze (storiche, antropologiche, morali) con i versi inerenti Ugolino della Divina Commedia dantesca e con quelli delle poesie del periodo bellico di Ungaretti.
Il silenzio dei deportati
È dagli anni ‘90 che Liliana Segre fornisce una testimonianza orale della persecuzione degli ebrei (dopo l’emanazione delle leggi razziali fasciste) e dell’internamento nei lager nazisti dopo l’8 settembre ’43. Nel 2018 questa testimonianza ha trovato un’articolazione biografica scritta con La memoria rende liberi (BUR) e con Fino a quando la mia stella brillerà (PIEMME).
Fin da subito la sua testimonianza di tredicenne sopravvissuta ad Auschwitz risulta nitida e puntuale, aderente a un vissuto unico ed esemplare. Sul numero del 4-5-94 del quotidiano La Repubblica, nella rubrica milanese la città della memoria (p.VII), questa testimonianza offre un angolo visuale interno su di una fase, la deportazione, di solito trascurata.
Dice nell’intervista: “I vagoni vennero sprangati e piombati. Ci guardammo intorno, c' era solo un po' di paglia per terra e un secchio per gli escrementi, che ben presto si riempì debordando. All'inizio si sentiva piangere, gridare, alcuni chiedevano aiuto, i più fortunati pregavano. Nei giorni seguenti, invece, ci fu un silenzio solenne, si sentiva soltanto il rumore del treno, che implacabile ci avvicinava all' inferno a cui eravamo destinati e che ci allontanava sempre di più dalle nostre vite. Io e mio padre trovammo un angolino di parete a cui appoggiarci e, stretti una all'altro, non avevamo più bisogno di parlare: fu silenzio per sei giorni, gli ultimi della nostra vita insieme.
La mattina del 6 febbraio, il treno si fermò definitivamente alla rampa di arrivo di Auschwitz”.
Consegnata a Dante e a noi da Ugolino stesso, la "straordinaria umanità ed inumanità della storia di Ugolino", (Attilio Momigliano), non ha perso di intensità. Anzi, dopo sette secoli, riverbera un nuovo stigma euristico paradigmatico.
Entrambi i testi scandiscono le tappe di un viaggio nell’aldilà nella dimensione di una discesa agli inferi. Sia nella narrazione dantesca, sia in quella di Segre, si possono riconoscere quattro fasi: 1) l’atto della reclusione definitiva, 2) lo sguardo della fine, 3) il pianto, 4) il silenzio:
1) l'atto di una separazione ermetica e reclusione definitiva dal consorzio umano civile. In Segre: "i vagoni vennero sprangati e piombati".
In Ugolino: "e io senti' chiavar l'uscio di sotto/ a l'orribile torre".
2) L'atto di un guardare-guardarsi che identifica l’irreparabile.
In Segre: "Ci guardammo intorno".
In Ugolino: "ond' io guardai/ nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto".
3) il pianto della disperazione, l'invocazione dell'aiuto:
In Segre: "All'inizio si sentiva piangere, gridare, alcuni chiedevano aiuto, i più fortunati pregavano."
In Ugolino: "Io non piangea, sì dentro impetrai:/ piangevan elli”.
4) il silenzio. In Segre: "Nei giorni seguenti, invece, ci fu un silenzio solenne, si sentiva soltanto il rumore del treno, che implacabile ci avvicinava all'inferno a cui eravamo destinati e che ci allontanava sempre di più dalle nostre vite."
In Ugolino: "Queta'mi allor per non farli più tristi;/ lo dì e l'altro stemmo tutti muti;/ Ahi dura terra, perché non t'apristi?"
Silenzio sillabato dal rintocco meccanico delle rotaie nel carcere mobile del vagone piombato. Scandito, nella torre della muda, dall'alternarsi impassibile del giorno e della notte. Non è soltanto un silenzio provocato dall'esaurimento delle forze, c’è un silenzio più profondo. Un silenzio abissale che avvolge tutto e tutti. Un silenzio che toglie l'ultima parola rimasta in gola. Il silenzio dell'implacabile. Dante, con la bocca di Ugolino, dice: stemmo tutti muti. Nel mutismo c'è il sigillo di una chiusura senza scampo. Nella testimonianza della Segre il silenzio assume un senso ulteriore, che apre un'altra possibilità: “Io e mio padre trovammo un angolino di parete a cui appoggiarci e, stretti una all'altro, non avevamo più bisogno di parlare: fu silenzio per sei giorni, gli ultimi della nostra vita insieme”. Un silenzio ambivalente. Quando tutto diventa segno di morte e annuncia morte, ogni grido o parola consumati, non resta che la rinuncia a ogni segnale, il ritrarsi in un guscio interiore, in un ultimo, concavo, ricettacolo di sopravvivenza: il silenzio di un risparmio vitale, avvolto da un tutto fatto di morte, ultimo barlume di speranza. Silenzio della soglia tra vita e morte. Sigillo dell'assoluto, da salvaguardare nello scrigno più remoto e profondo di sé. Silenzio solenne, lo definisce la Segre. Silenzio auto-difensivo e sacro-rituale, rito di passaggio da un mondo a un altro mondo, con altre regole, altre segnaletiche, altri significati. Ne parla anche De Benedetti: "Il treno si mosse alle 14. Una giovane che veniva da Milano per raggiungere i suoi parenti a Roma, racconta che a Fara Sabina (ma più probabilmente a Orte) incrociò il «treno piombato», da cui uscivano voci di purgatorio. Di là dalla grata di uno dei carri, le parve di riconoscere il viso di una bambina sua parente. Tentò di chiamarla, ma un altro viso si avvicinò alla grata, e le accennò di tacere. Questo invito al silenzio, a non tentare più di rimetterli nel consorzio umano, è l'ultima parola, l'ultimo segno di vita che ci sia giunto da loro." (Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, Sellerio, Pa. 1993, p.63).
Di silenzio ci parlano altri capitoli della testimonianza di Liliana Segre sia in La memoria rende liberi, sia in Fino a quando la mia stella brillerà. C’è il silenzio dell’indifferenza degli spettatori, di chi si volta dall’altra parte, c’è il silenzio dell’angoscia senza scampo degli internati nei lager. È il silenzio nullificante degli uomini fantasma di cui si parla nel film Shoah di Claude Lanzmann e di cui parla Levi, all’arrivo ad Auschwitz: “Tutto era silenzioso come in un acquario e come in certe scene di sogni. “ (Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, To. 1958, p.26).
C’è il silenzio, dopo la fine della guerra, di chi non vuole più sentir parlare di atrocità.
C’è il silenzio dell’ebreo errante come un tacere, di cui Celan in Conversazione nella montagna dice: “nessuna parola è stata soppressa e nessuna frase, è semplicemente una pausa, è una lacuna di parole, è un vuoto, tu vedi tutte le sillabe sparse intorno” (Paul Celan, La verità della poesia, Einaudi, To. 1993, p.43).
C’è il silenzio di Ungaretti.
Poesia: "[...] Quando io trovo/ in questo mio silenzio/ una parola/ scavata è nella mia vita/ come un abisso". Veglia: "Un'intera nottata/ buttato vicino/ a un compagno/ massacrato/ con la sua bocca/ digrignata/ volta al plenilunio/ con la congestione/ delle sue mani/ penetrata/ nel mio silenzio/ ho scritto/ lettere piene d' amore// Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita": è nel silenzio interiore che la parola poetica attinge nuova linfa di amore e vita.
Ugolino è un personaggio della Commedia, collocato da Dante-autore nel lago di Cocito dei traditori a divorare per l’eternità il cranio del suo carnefice, l'arcivescovo Ruggieri. Davanti al Dante-attore del viaggio nell' oltretomba, Ugolino racconta, mosso da pietà e da vendetta, la sua storia che termina con l’ambiguo endecasillabo: "poscia, più che 'l dolor, potè 'l digiuno”. La vivida testimonianza di Liliana Segre, invece, risarcisce anni e anni di silenzio, con carità, senza spirito di vendetta.
Rinaldo Caddeo ha pubblicato quattro raccolte di poesie (Le fionde del gioco e del vuoto, Narciso, Calendario di sabbia, Dialogo con l’ombra), una raccolta di racconti (La lingua del camaleonte) e una di aforismi (Etimologie del caos). Ha inoltre pubblicato Siren’s Song, selected poetry and prose 1989-2009, una raccolta antologica di testi in italiano con testo a fronte in inglese.
I suoi aforismi sono apparsi sulle antologie: Nuove declinazioni (2005) e, tradotti in inglese con testo a fronte, The new italian aphorists (2013).
Ha pubblicato saggi critici, recensioni, racconti, aforismi, traduzioni e poesie su diverse riviste.
I suoi due saggi più lunghi sono stati Ombre e impronte intertestuali in Buzzati e Gli animali e il mimetismo in Giampiero Neri, apparsi in due volumi di critica: L’attesa e l’ignoto su Buzzati, e Memoria, mimetismo e informazione su Neri.
Quanta terra c’è sotto
questo sottile strato di terra
per terra, sotto i miei piedi
quante foglie sotto le soglie.
E quanto azzurro, quanto sale
dentro l’acqua del mare
sotto goccia che goccia, quanto mare.
E quanto, tanto cielo
oltre il confine del cielo
quanto spazio aperto che diventa cielo.
E quanto rosso nel rosso del sangue
quante celle che si tingono
per aggiungere colore al dolore.
E quanta pelle, sotto la scorza della pelle
quanta pelle, quanti strati ci vogliono
per formare un tessuto, un pensiero compiuto.
Francesco Cagnetta, nato nel 1982, avvocato, vive a Terlizzi (Ba).
Alcuni suoi testi sono stati pubblicati e recensiti in rete su Neobar (Abele Longo, Pasquale Vitagliano, Roberta De Luca), Zona di disagio (Nicola Vacca), Poetarum Silva (Anna Maria Curci) e sulla Rivista letteraria il ClanDestino (Davide Rondoni, Anita Piscazzi).
Altri testi sono apparsi nelle seguenti antologie: “Trittico d’esordio” a cura di Anna Maria Curci, Cofine Edizione (2017), e “Come una mezzaluna nel sole di maggio – ricognizione della poesia pugliese 1975- 1994”, Fallone Editore (2017), “Dalla fine del mondo – Poesie per Francesco”, Luce e Vita Edizioni (2018).
Tra i finalisti del “Premio Internazionale Alda Merini 2017”, Lietocolle Editore, e “Talento da Poeta 2017”, Secop Edizioni.
Un ago che serra i bordi di cose distanti come il “cuore molto bianco che in realtà rimanda alla nostra mente” lavora alacremente nei testi poetici di Maria Grazia Calandrone per ricondurre ciò che è sparso disordinatamente in un medesimo insieme. L’unione è nel cuore delle cose, ecco dunque che bisogna cercare l’essenza di ogni oggetto naturale per trapassare, tramite analogia, al corpo umano e in tal modo inserirlo - non più dunque visto come corpo estraneo alla natura - nel ritmo pulsante di un onnicomprensivo elemento. La ruggine diviene “scia emorragica”, “l’arancione” diviene sole, alla ricerca dell’unità perduta. Per tale via il corpo stesso diviene altro, si fa ombra, “un minerale bianco” o, ancora, “superficie”. La Calandrone cerca dovunque l’unità, anche nei forni crematori, a Fukushima, a L’Aquila: cerca ovunque vi sia dolore, poiché l’unità non ne viene distrutta, ma anzi insegna a reclamare ancora più fortemente il bene.
Le metafore dell’amor perduto
Io avevo solo detto: tagliami i rovi e quello mi ha buttato davanti alla casa tutti quei tronchi decapitati, una scena di muscoli combusti, l’ossario nero e contorto dell’abbandono. Ma ogni volta tutto il mondo va a capo dopo la morte, è cosí che succede.
1. Frutti dell’abbandono
Questo è il mio corpo
un minerale bianco
illuminato – vera
misericordia della materia
accesa come un cero
che ricorda soltanto la tua bocca.
Questa è la luce cieca del frutto
una esalazione di particelle
indispensabili alle sequenze di sole
su ovari bianchi.
La materia celeste della scomparsa
tra i fiori del giardino.
Qui tutto è colmo di benevolenza e le turbine
ronzano a mezzacosta.
Questa è la vigna delle mie ossa
la colonna che torna
alla calma iniziale,
ma uno sguardo
non ha ancora la pace della maceria,
nell’oggetto qualcosa si apre: un filo
di silenzio, una passione, l’ultima
esitazione.
L’idiozia o lo splendore della bellezza
Adesso credo necessario un ottuso atto di fiducia nella bellezza. Agire come non fossimo mai stati. Come non fossimo mai stati traditi. Come se non avessimo visto i nostri cari morire. Agire come se fosse la prima volta. Con la stessa innocenza di Cristo. Con la medesima mortalità elettiva. Abbandoniamo tutta la speranza e tutta la sapienza come il Cristo di Hans Holbein – radice appunto immaginaria de L’idiota dostoevskiano – che nemmeno ha interesse a risorgere, che non ha piú interesse a essere divino. Che non ha piú interesse. Ma che, compiuto il dovere di riaprire una strada a suo modo esemplare tra i rovi del mondo, abbandona se stesso – non il suo corpo: se stesso – alla manomissione che una morte completamente umana farà della sua carne. Diventiamo la bellezza perfetta del dio morto, perché solo la fine è infinita e su di essa sola la bellezza si accampa. Assumiamo la bellezza campale del dio morto. Ovvero del perfetto idiota dostoevskiano, che non ha piú la ferita e la nostalgia del risorto di Rilke per l’esperienza regale della finitudine che, nonostante tutto, costruisce imperi di parole. L’idiota agisce come agirà il Cavaliere di Hughes. Egli è il suo stendardo e di quello stracci. Essere stracci della propria gloria. Essere coscienziosamente carne. Carne mortale. Niente. Dante che sviene continuamente. Mostrare la bellezza di una fine che non scavalca e non trascende se stessa. Carne fatta serena come pietra. Carne completa. L’idiozia della pietra e dell’osso, l’idiozia della cosa, ovvero la piú acuta tra le intelligenze, la piú radicale bellezza e la bontà piú radiante, la bontà idiota che Dostoevskij definiva appunto attraverso la parola prekrasnyj, a dire “lo splendore della bellezza”.
luglio 2011
Maria Grazia Calandrone (Milano, 1964) vive a Roma. Poe- tessa, drammaturga, artista visiva, autrice e conduttrice per RaiRadio3, scrive per “Corriere della Sera” e cura una rubrica di inediti per il mensile internazionale “Poesia”. Tiene labora- tori di poesia in scuole, carceri, DSM, con i migranti e presta servizio volontario nella scuola di lettura per ragazzi “Piccoli Maestri”. Libri: La scimmia randagia (Crocetti 2003, premio Pasolini Opera Prima), Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier 2005), La macchina responsabile (Crocetti 2007), Sul- la bocca di tutti (Crocetti 2010, premio Napoli), Atto di vita nascente (LietoColle 2010), L’infinito mélo, pseudoromanzo con Vivavox, cd di sue letture (sossella 2011), La vita chiara (transeuropa 2011), Serie fossile (Crocetti 2015, premi Marazza e Tassoni, rosa Viareggio), Per voce sola (ChiPiúNeArt 2016), raccolta di monologhi teatrali, disegni e fotografie, con cd allegato di Sonia Bergamasco e Gli Scomparsi – storie da “Chi l’ha visto?” (pordenonelegge 2016, premio Dessì); è in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi 2012). Dal 2009 porta in scena in Europa il videoconcerto Senza bagaglio. Nel 2012 vince il premio “Haiku in Italia” dell’Istituto Giapponese di Cultura e nel 2017 è nel docufilm di Donatella Baglivo “Il futuro in una poesia” e nel progetto “Poems With a View” del regista israeliano Omri Lior. Ha collaborato con Rai Letteratura e Cult Book. Sue sillogi compaiono in antologie e riviste di nu- merosi Paesi. Il suo sito è www.mariagraziacalandrone.it.
Spartito liquido
Se cercassimo le parole per dare suono al silenzio, farne parti in musica, orchestrarne i battiti, potremmo seguire la voce di Martina Campi che in Partitura su riga bianca porta l’oralità a confrontarsi con l’assenza sonora. Nell’insieme di parti e di riga, di silenzio e di suono, in un contrappunto poetico dove la sonorità viene intensificata dalle citazioni del cantautorato, soprattutto di lingua inglese, e l’interruzione acustica da pagine bianche e parentesi mute. Anche se, di fatto, musicare il silenzio pare impresa ardua.
Già J.Cage, nella sua famosa composizione 4′33″, aveva evidenziato come la stessa opera non potesse costituirsi come silenzio assoluto, poiché, durante l’assenza di esecuzione strumentale, altri suoni venivano evidenziati, fossero il battito del cuore degli ascoltatori, il loro respiro o i rumori esterni.
C’è un suono nel canto, ma anche nell’assenza di suono, pare dirci l’autrice, “una / modulazione” oppure anche “solo un grido / se mai in cuffia / spacca silenzio / in pezzi / abitati”. E c’è un’inquietudine che chiede sia il nutrimento della voce, per “questo malessere / (dì le) lame nell’essere // una madressere poi, / non accudire… / nutrire”, sia il respiro del silenzio, tra i “nomi che vanno al rumore / del discorrere, a me il silenzio / del dispiacere”.
La sensazione complessiva è che si sia in presenza di una poesia liquida, fortemente sonora e altrettanto intensamente inquieta e sofferente, tale per cui “qui / c’è / l’affogare (/affiorare)”. Dove la frammentazione, la reiterazione e l’uso sospensivo delle parentesi conducono il linguaggio e il pensiero in uno stato di immersione, che assume andamenti oscillanti e onirici, in cui sonorità e sensi si stemperano nello stesso stato fluido in cui si dissolvono assenze sonore e vuoti di senso.
Quasi che l’alternanza suono-silenzio diventi anche corrispettiva di quella tra lo stato di veglia e il sonno-sogno: “ascolto il mondo / svegliarsi / così non disturbo / le scale dei sonni”, così che anche i sonni e i sogni si possano distribuire lungo scale musicali, nelle loro partiture scritte su righe invisibili.
Come il linguaggio poetico, che ha i suoi spartiti inconsci, le sue righe bianche, le sue parole mute. E che riesce per questo, quando emerge nelle parti sonore e nel frammentarsi del dire, a dare risonanza al sommerso. Martina Campi ne ha piena consapevolezza quando esprime “la gratitudine come / attore linguistico / accenno a scelte / non espresse, / attraverso / il frammento riscosso / per linguaggio”.
Una scrittura per frammenti la sua, intensamente sonora anche quando è spezzettata, anche quando è silenziosa. Dove il nome trova spazio nel canto come nell’assenza di nome. Poiché ciò che più conta, in poesia, è “Tenere il nome / nel luogo più caro”.
Dalla sezione “Riga – Suono”
***
nei giorni del vento
ai cambi di stagione
della brezza
che apre la porta
viene a fermarsi
viene a guardare
quel lontano
(piccolo) vibrare
che poi sono i resti
delle foglie smesse
o forse sono s(p)ecchi
per congiunzione addestrati
picchi all’attraversamento
I've been to a minor place*
* Will Oldham
Dalla sezione “Riga – Suono III”
***
s’è tentato con le spezie
a fare come si deve
e una cartolina è sopravvissuta
dallo Sri Lanka
qui, mentre pioveva forte
nel lasciarsi c’era tutta
la neve di gennaio
la musica in macchina
solo anziani che scivolavano
per la via, niente da mangiare
say something once, why say it again?*
*Talking Heads
Dalla sezione “Parti – Silenzio IV”
***
un buio pianura e notte allarga
grovigli di macerie gialle rifiuti e lenzuola
ascolto il mondo
svegliarsi
così non disturbo
le scale dei sonni
Martina Campi autrice e performer, ha pubblicato: La saggezza dei corpi (L’arcolaio, 2016), Cotone (Buonesiepi Libri 2014), Estensioni del tempo (Le Voci della Luna Poesia, 2012 – Vincitore Premio Giorgi), e la plaquette È così l’addio di ogni giorno (Corraino Edizioni 2015), con il poeta V. Masciullo e opere grafiche di C. Pozzati.
Curatrice, con A. Brusa e V. Grutt, di Centrale di Transito (Perrone Editore 2016).
È stata giurata per alcuni concorsi e membro di redazione della rivista Le Voci della Luna, fa parte del Comitato Bologna in Lettere B.I.L dalla prima edizione.
Da giugno 2017 partecipo a Il banchetto di Rosaspina – Di virtù e maledizioni, Spettacolo di Teatro, Poesia e Favola, di e con Alessandra Gabriela Baldoni; con Giancarlo Sissa, Luna Marie, Mario Sborina.
Co-fondatrice, con il compositore e musicista Mario Sboarina, del progetto Memorie dal SottoSuono – The poetry music experience, nel quale si fondono reading poetico, elettronica, jazz/ambient, contaminazioni afro e accenni di musica popolare; di Marzo 2016 l’omonimo album. Del 2010 il cd Mani e qualcos’altro. Il progetto Memorie dal SottoSuono è oggi un vero e proprio collettivo di artisti di diversa formazione.
È nata a Verona nel 1978. Vive a Bologna, dove ha studiato e si è laureata in Scienze della Comunicazione. Vincitrice del Premio Renato Giorgi 2012 con Estensioni del tempo (Edizioni Le Voci della Luna Poesia, 2012). Tra gli autori finalisti al Premio Lorenzo Montano 2014, con la raccolta inedita Manuale d’estinzione, tra segnalati nel 2012 con La saggezza dei corpi (L’arcolaio, 2016) al medesimo premio e menzione d’onore, l’anno successivo, con la raccolta Le metamorfosi della gioia, ora divenuta Cotone (Buonesiepi Libri 2014) e nel 2015 con la silloge inedita Quasi radiante.
3
Mi è dato un corpo, che ne farò io
di questo dono così unico e mio?
(O.Mandelístam)
UNICO,
ma è la cosa più astratta che ci sia,
l'ultima in cui io posso credere.
Qualche volta ho amato un altro corpo
un'estasi, l'ho avuto ed era mio,
due che si fanno uno,
ma nulla è più irreale della carne.
Non è la mente, sono i corpi a dire
come si è soli.
Anna Maria Carpi, milanese, ha pubblicato negli ultimi tre anni: "L'animato porto", Vitafelice, Milano 2015 e il complessivo "E io che intanto parlo", Marcos y Marcos, Milano 2016, seguito all'edizione complessiva tedesca "Entweder bin ich unsterblich", Hanser, Monaco 2015.
Ha insegnato letteratura tedesca all'Università di Macerata, di Venezia e di Milano. E' anche autrice di saggi e di narrativa da "Racconto di gioia e di nebbia (Il Saggiatore, 1992) a "il principe scarlatto" (Tartaruga 2002) ai racconti "Uomini ultimo atto", Moretti e Vitali, 2015.
Per una bibliografia completa vedi www.annamariacarpi.wordpress.com
da “Letti bianchi”, Edizioni ETS, 2017
Letto n° 7
Il diabete non scherza – dice –
e racconta il calvario d’un rene
ormai finito
avanti e indietro
dalla dialisi
Poi l’amputazione
prima il piede e su ancora… ancora
Cosa mi potranno poi tagliare?
Portami pizza, dolce e molta birra
ordina alla madre
confusa da un figlio
che divora la vita
per morire
prima di morire
***
Rigettato l’ultimo visitatore, le porte finalmente si serrano…
Cala l’ombra di luci agoniche sui lunghi corridoi.
Calano i lamenti, inutili di consolazioni.
I letti bianchi tacciono, esausti di sangue, urina, odore, dolore.
Nessun oggetto più di loro è umano.
Mariagrazia Carraroli, nata a Verona, risiede a Campi Bisenzio (FI) Insegnante di Scuola Primaria, ha cercato di comunicare agli alunni il suo amore per la poesia aiutandoli ad esprimersi in tale forma d'arte con esiti sorprendenti, coronati anche da premi per i giovani autori.
Cofondatrice e collaboratrice della Cooperativa di solidarietà sociale EOS sorta a Montebelluna (TV) per iniziativa del servizio psichiatrico, s'è potuta avvicinare empaticamente al dolore mentale. Da quell'esperienza sono nate sillogi poetiche Parolamare (Edizioni Tamari, Bologna 1994) e N.O.F.4 Centottantadue metri di follia (Le Voci della Luna, Sasso Marconi 2010), vincitrici di numerosi premi; la seconda, con prefazione di Davide Rondoni, è stata scelta dal Sole 24 Ore nel 2010 come libro dell'anno (sezione Poesia), Letti Bianchi è la sua quattordicesima pubblicazione di poesia.
Si sono occupati della sua produzione letteraria qutidiani, settimanali e riviste specializzate a larga diffusione e sue poesie sono state lette in radio e TV nazionali e private. Attualmente collabora con Pianeta Poesia di Franco Manescalchi, presentando autori nella città di Firenze.
Quale elemento di un testo porta più con sé il piacere di leggerlo, ma soprattutto di rileggerlo?
Il senso, il ritmo, quel sapiente enjambement, la musicalità dei versi ogni tanto interrotta da voluti inciampi, l’architettura verbale, una filigrana di narrato che innerva la materia poetica, la visione, l’esattezza e l’accostamento dei termini, il “tu” che pervade l’opera dal primo verso “Sei inseparabile dai giorni freddi” all’ultimo “lucina fioca io, e tu, candela”, alcune dissonanze, l’uso del monologo?
Me lo chiedo perché sono tutte caratteristiche che ho trovato in “Domantė”.
L’uso del monologo, nella qualità del testo, è impreziosito dal passaggio da “io” a “tu”, evidenziato nella terza parte da un distico superiore, quel “lo so benissimo / che mi hai vista guardarti”: qui parla Domantė e la sua libera affabulazione corrisponde a un’ideale risposta, indiretta, alle prime due parti in cui parla l’autore.
A questa tripartita poesia di Davide Castiglione si continua a tornare volentieri; a ogni ritorno il testo offre qualcosa di inedito, come, ascolto dopo ascolto, un brano musicale.
Sembra invece cinema, con la tecnica del flashback, l’inizio della seconda parte: la neve di un oggi che ricorda la neve di un allora, con i passaggi verbali tra presente e passato che rappresentano i cambi di scena della macchina da presa.
Tutto è così tangibile e insieme così toccato da un’idea compositiva precisa: c’è una sorta di traccia narrativa, ci sono elementi quasi dialogici, scarti temporali, emergono frammenti di memoria, le situazioni sono allo stesso tempo verosimili e trasfigurate, con gli strumenti e dalla sensibilità dell’autore. Ma soprattutto non c’è manierismo, manca completamente il già sentito, la riproduzione di stilemi già conosciuti: l’evoluzione poetica di Castiglione gli ha fatto prendere le distanze dai suoi riferimenti iniziali. Ci troviamo dentro un’apertura, in un nuovo territorio.
Domantė
I
Sei inseparabile dai giorni freddi,
dal demone del modello che grava
di un rimprovero per sempre le labbra
inesplose. No, hai sorriso, ridi,
questa risacca amara la ricacci
indietro come uno scialle. Ti ho chiesto
copri gli occhi, così, scoprili adesso,
fai lo stesso con la bocca, si affacciano
a ogni giravolta del sipario
il pieno e lo stelo, la carne e il suo contrario.
II
Ci sono questi fiocchi in adunata,
lenti, distanziati. Come il cugino
quando spianava ai parenti la strada
che all’estero lo raggiunsero uno
per uno, s’incendiano sul cappotto,
uno scheletro ciascuno e risplende
immortale, incistato nelle pieghe,
primeggiando sul feltro che sta intorno.
Come faccio a tenerti viva se
t’investo così. Come fai, a disfarti
dei violini svenevoli di noi altri –
e di mio, dello sporco dominio di una frase.
III
nulla tu nulla tu nulla tu nulla
leggilo come vuoi cioè a tuo favore
questo mio osceno equilibrio il ponte
è crollato e certo, certo che sulla
questione ci hai preso, la storia dello
squarcio prospettico mentre tenevi
banco insegnando e con un pennarello
difendevo quel paesaggio di stevens
in un cuore acceso. Lo so benissimo
che mi hai vista guardarti, gli occhi fissi,
ma chi te lo dice che non ti stessi
soppesando i difetti, i compromessi
dell’aiutarsi a vicenda, ridicolo,
continua a pensarti questa radiosa
potenza nella mia vita, no dico,
calmo apollo, lucina fioca fioca,
perlina stavi per, volevi dirmi,
di una luuunga collana come la
sistemiamo ormai? forse, se ti fermi,
lucina fioca io, e tu, candela.
Davide Castiglione (Alessandria, 1985) è attualmente docente di materie letterarie e linguistiche all’Università di Vilnius in Lituania. Si è laureato a Pavia con una tesi su Vittorio Sereni traduttore da William Carlos Williams, e dottorato a Nottingham (Inghilterra) con una tesi sulla difficoltà linguistica e cognitiva nella poesia angloamericana. Ha pubblicato articoli scientifici su riviste accademiche internazionali (K. Ladygos street 5, flat 61 LT082-35, Vilnius Lithuania Semantics» e «Language and Literature»), gestisce un sito personale che ospita letture di altri «Strumenti critici», «Journal of Literary poeti e ha co-fondato il progetto collettivo di critica poetica In realtà, la poesia. Sue poesie sono state pubblicate su varie antologie e riviste, tra cui «Poesia» (con una nota di Maria Grazia Calandrone). È inoltre autore di due raccolte poetiche: Per ogni frazione (Campanotto, 2010; segnalata al Premio Lorenzo Montano 2011), e Non di fortuna (Italic Pequod 2017).
Paola Casulli si produce in una prosa apertissima, ricca di parole ora evocative ora forti, priva di punteggiatura, a parte gli indizi depistanti di alcune lettere maiuscole. Una prosa priva di ritmi prefissati o di altri ancoraggi che ne facilitino la lettura e la fruizione. Il risultato è un continuo senso di equilibrio e spaesamento, che accompagna la lettura come un viaggio in mare tempestoso.
In questo viaggio nell’accidia l’autrice si muove attraverso l’oscurità verso una luce.
Per compierlo mediante un’imbarcazione di parole, Paola Casulli opera costantemente pressione su di esse, come per addensarle, ispessirle e renderle ancora più risonanti nella caduta sulla pagina.
Akedia
Nessuno resta inerti come siamo nella bufera Nessuno ha parole in mezzo ai campi inseguiti come siamo dai lupi dai loro artigli rossi una zampa davanti all’altra raggiunti oltre il legno e il ruscello odori teneri noi E subito dopo caprioli di sangue ché il lampo a ferirci è senza pietà che muove i perdonati Nessun suono o rumore separa le ombre restiamo sulle zolle distesi relegati nella storia di esseri invisibili in mezzo a tanta dissacrazione siamo le foglie sopra l’erba La metamorfosi concessa ai fiori che imputridiscono nutriti dal vento torturati dal fango nell’istante dell’ubbidienza restiamo sulle pianure fissi e immobili a conoscere un solo Creato senza spirito che di carne ne abbia il riflesso senza corpo che abbia un residuo flebile tra le mascelle sulle pianure restiamo infiniti nel pianto È la mia calma che ha man- dato via tutti O il mio odio lento di altre piogge Come goccia sull’orlo di una tazza l’ho vi- sta scivolare via Non c’è spiegazione della sua gravità della goccia Essa scivola e basta E così fanno tutti solcando la piaga che non assolve Questa è la carezza del nulla La materia in cui l’attimo freme e si concede all’occhio del meridiano spaventoso quella che (volendo trionfare) si arrampica sulla parete impervia di ogni anticipo e cade nel supplizio di ciò che tutto scorre Noi abbiamo lo stesso supplizio La stessa preghiera ripida linea sonora caduta pesantemente al suolo Qui si spengono tutte le pareti le elegie i mormorii e poi le urla La triplice specie che si chiama - Padre - e dice << prega >> tacendo i salici nel petto più di- stante il Figlio che dice << sii cauto>> flagellandosi nella gloria del ritorno e infine il legge- ro turchino Spirito a sussurrare <<voi siete me>> o forse più esattamente con stizza a chie- dere nella molle grazia di qualche scirocco << voi siete me?>> Ebbene questa piratesca forma di ogni cosa ha molte stanze e tra poco farà buio si sentono sbattere porte cigolii ra- gnatele che pronunciano esili Tu fasciato nella benedizione dell’ametista hai tutto questo nella testa vero? Anche tu incline al gioco dei cenobiti prima del punto bendato sei nel petto della Vergine lo stupore delle pupille riverse ecco siamo simili a Lei la ruga del lungo asse- dio vittime di lunghi balzi nel mondo a rovescio a frantumare le uova molli del demonio Nessuno resta nell’intervallo di attese senza muri a scambiarsi una morte con un’altra bardo sfuggiti di mano A questa prima morte senza peso ho dato pietre per la chiocciola del dive- nire Alla seconda morte senza forma soltanto strazio che è meno di niente Alla terza morte senza storia ho dato scaglie grigie di una devozione di rami Alla quarta morte che dicesse appartenenza o invocasse il frastuono dell’onda che aggredisce la roccia che raggela la rena che si ammassa sugli scogli e li rende lividi di afflizione ho dato ginocchia allentate dalle redini a misurare il sonno e le rose e le ortensie e i gelsomini svanenti Io assolto dalle consonanti di un abbandono Io battezzato nell’incandescenza delle tue costole costretto a sentire la tua voce a dirmi c’è ancora un Est sopra le cascate Ma la bellezza che nessuno comprende una specie di intimità è andarsene all’improvviso come fuco o lombrico e porge- re il buio alla chioma delle candele Creare quel bianco uguale alla mia chiarezza il peso istintivo del Perfetto Nessuno resta in questa aurora obliqua Nessuno ha parole nei solchi della terra dove pure le formiche ci somigliano con i neri dorsi sui crinali e insetti fosforescenti rilucono sui fondali al di là delle foreste Tenere d’occhio la strada ecco questo è l’importante Quel desiderio e l’intelligenza nella spietata nudità di deserto ciò in cui io posso scivolarci dentro e Tu patire il mio sguardo Io torturato gelido fisso nel perdere ogni cosa una preistoria di cancelli aperti sul tuo giardino di liquirizie così oscuro perverso e perduto Esattamente cos’è che voglio vedere? In questo luogo perfetto emisfero? Ha smesso di pio- vere Tu sei geniale quando dici vado a vedere fuori non corri il minimo rischio in tal senso tremi così tanto tu che sembri così veramente vero Nessuno resta in questo paradiso che aggrega la pelle alla velocità trattenuta del tempo e della terra all’affondo di una spada e Io la vedo fuoriuscire dalle maniche troppo larghe a tradirmi a colpirmi polvere fine di gesso Non temere sopravvivi alle poche cose alle storie e agli addii ai polpacci di tessuto alla carnagione di acero a renderti lieve al vento e al declino E così ora conto fino a dieci prima di entrare nella penombra nel crepuscolo color fumo dei miei gomiti dei miei fianchi delle mie mani in quel vento australe arrendevole quasi in quel fioco esserci in quella colomba da poterla tenere nel palmo di una mano sola l'unica che mi è rimasta L'altra è sulla corteccia di un albero a scolpire il grido degli agnelli Nessuno resta È questo sedersi come nuvola spazio che coincide sulle nostre schiene impure le ali sui cardini sospese Questo è ciò che affama in quell’aria scolorita dal sole un orlo scucito in una vicinanza apparente E non lo sai mai con certezza se saltare lo steccato o andare a salti giù per il ripido sentiero semplicemente con la testa piena di stupore restare avvinghiato al fruscio delle foglie sentire sotto i piedi l’erba che circonda le caviglie che risale placida sul tuo ventre mentre tutto ciò a cui tieni siede nel vecchio inverno spento delle litanie di una voce che imita la pioggia con quel cadere giù confusa prima del risveglio sono i sogni che annegano con le narici piene di muschio azzurrate in grigio-verdi una notte dopo l’altra in avvelenamento progressivo assumiamo ridicole ali da cornacchia indossiamo maldestri sguardi da combattere e dirci catene ho visto quel filo grigio appeso al collo una sfilza di croci tra le mani a chiederti Con la bocca chiusa perlopiù Senza mai smettere di pensare certe cose non sembrano vita mentre le fai.
Paola Casulli nasce a Ischia ma vive da poco più di un anno tra le colline del Monferrato. Poetessa, fotografa, giornalista, pubblica 4 raccolte di poesie, “Mundus Novus” ed. Del leone, “Pithekoussai, racconti di un’isola”, ed. Kairos, “Di là dagli alberi e per stagioni om- brose”, ed.Kolibris, “Sartie, lune e altri bastimenti” ed. La Vita Felice. Pubblica anche 2 poemetti brevi, “Lontano da Itaca” e “MitoGrafie”. Il poemetto "Lontano da Itaca", è stato portato a teatro con successo a Verona, con coreografia della stessa Casulli.
Una raccolta di racconti, “7 racconti del vento immobile”, è in editing.
Si avvicina alla fotografia tanti anni fa con una Nikon reflex analogica e poi con una D3100 e solo un paio di obiettivi. Con questo piccolo bagaglio comincia la sua avventura artistica e spirituale. Inizia infatti a viaggiare in tutto il mondo cercando di catturare volti, colori e impressioni di quei luoghi lontani. I ritratti e il colore sono la sua ricerca artistica. Nei gesti, negli sguardi di persone lontane migliaia di km dal suo vissuto quotidiano, Paola ritrova un’umanità fatta di grazia e di bellezza. Ora le fotocamere e gli obiettivi sono ben altri, ma rimane intatta la sua voglia di scoprire e viaggiare. Organizza eventi culturali che uniscano la poesia con la fotografia e scrive reportage di viaggio su riviste culturali.
Il suo blog, "Incanto Errante”, é il suo blog di poesia e fotografia, reportage e racconti di viaggio.
www.incantoerrante.com
da “I segni della violenza”, LietoColle, 2018
Dalla sezione “In attesa di essere altro”
***
Memoria tra la statua e il niente,
come argilla svuotata,
l’attesa è anche questo:
vergogna del non detto,
moneta stretta in bocca per il viaggio.
***
Il tempo maturato in libri letti,
in gesti persi e ritrovati sempre
nei posti più impensati.
Tra le macerie di giorni e persone
ti ho lasciata invecchiare
senza guardarti abbastanza e ora
c’è una violenza nelle strade vuote
che non è solitudine ma attesa.
Dalla sezione “I segni della violenza”
Il luogo. L’ora. La voce impostata.
Tutto detto e fatto a tempo debito.
Qui, nella retroguardia,
dietro la tenda l’urlo di Polonio,
sul terreno spianato dagli anfibi
i corpi di Rosencrantz e Guildenstern,
e nelle mani, fossile e muto,
il teschio di Amleto.
Simone Cattaneo Martini (Gallarate, 1981), è professore a contratto di Letteratura spagnola e Lingua e letteratura catalana presso l’Università di Milano. Ha pubblicato contributi in riviste e volumi collettanei nazionali e internazionali. Traduce dallo spagnolo e dal catalano. Ha pubblicato il romanzo “I tuoi capelli fermi come il lago” presso le Edizioni Robin, Torino, nel 2018.
Ci sono saggi che impongono al lettore non un semplice ascolto, ma un coinvolgimento intellettuale ed emotivo tale da spingerlo verso ulteriori, inedite riflessioni.
Questo è il caso del testo filosofico “I miti e la Dichtung heideggeriana”.
L’autrice, Rossella Cerniglia pone – con Heidegger – una domanda fondamentale: «Che cosa ci chiama al pensiero?», inducendoci in tal modo a formulare una seconda domanda: «Che cosa fa a noi appello, inducendoci a pensare e, così, in quanto pensanti diventare quello che siamo?».
Porsi queste domande significa mettersi di fronte alle intemperie del linguaggio; significa portarsi in mezzo ai flutti e lì, tra le righe, rischiare il naufragio; vuol dire prendere atto che l’alfabeto non è una scialuppa sufficiente se si lascia addomesticare dalla cronaca.
Rossella Cerniglia ci invita a restituire alla parola il suo albale vigore, affinché torni in grado di nominare e farci apprendere qualcosa del mistero che circonda l’umana esistenza, della nostra sete di verità. Non assegna alla sola filosofia il compito di una costruzione necessaria del mito d’origine, bensì rimette nell’inseparabilità il compito del poetico e il dovere del pensiero filosofico.
Non basta che l’uomo apostrofi le cose con il loro nome perché esse siano afferrate nel processo della rivelazione. È necessario che il nome sia attinto dal sottosuolo della storia – dove ancora sono presenti le archai – affinché l’essenza delle cose giunga a espressione. E cosa ci dicono questi nomi? È esplicita, a questo proposito Rossella Cerniglia. In questi nomi c’è «l’essenza del linguaggio e della realtà che esso esprime, e pertanto dell’essenza stessa». Non c’è un prima – in sé uno e unitario – e poi un uscire da sé, e riversarsi nel molteplice. L’essere resta uno e unitario, fondamento dell’esserci di tutte le cose.
I miti e la Dichtung heideggeriana
I miti dell'antichità classica esprimono una condensazione di significati in immagini di rara forza e bellezza e danno testimonianza del momento aurorale della nostra riflessione in cui pensiero e canto, filosofia e poesia, vivevano un'unica vita.
É stato Martin Heidegger a prospettare l'esistenza di una struttura archetipica del nostro linguaggio, di un'archelingua, che costituirebbe la radice comune del Pensiero e del Canto. Essa ci appare come un sostrato nel quale, appunto, pensiero e canto - come avviene in qualche misura nel mito- convivono e si intrecciano tra loro inscindibilmente. In altri termini una struttura portante della nostra esistenza dalla quale dipende la nostra interrelazione e interazione col mondo.
Nella postulazione heideggeriana, Pensiero e Canto, vale a dire filosofia e poesia, si condensano in questa originaria matrice che è la Dichtung, e in essa coabitano, hanno un rapporto intrinseco, dialogante, che si esplica nel linguaggio. Nella Dichtung i due elementi vivono non scissi, e solo a posteriori sarà possibile considerarli separatamente.
Tale concetto è parte di quell'evoluzione del pensiero di Heidegger dopo Essere e Tempo, che è insieme svolta ontologica e tentativo di sostituzione di quel linguaggio con cui la metafisica aveva impostato la questione dell'essere, la Seinfrage. Ed è nel saggio Holderlin e l'essenza della poesia, pubblicato nel 1937, che Heidegger formula una nuova concezione dell'essere connessa ad una precedente impostazione del problema della verità: la concezione dell'essere come evento cui si collega il ruolo ontologico del linguaggio.
Per Heidegger, infatti, “ciò che prima di tutto è, è l'essere”. La parola evento, viene in tal modo a designare l'originaria reciproca appartenenza dell'uomo e dell'essere: l'uomo infatti non è senza l'essere e l'essere non di dà senza l'uomo. All'interno di tale originario evento sono possibili, poi, tutti gli altri accadimenti della storia umana che è, manifestazione dell'essere, storia attraverso cui l'essere, storicizzandosi, si manifesta.
“Nella dimora dell'essere abita l'uomo- dice Heidegger - e i pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è portare a compimento la manifestatività dell'essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono.”
Nel pensiero originario, cioè nel mito, i due poli della dell'archelingua heideggeriana vi si riscontrano - come abbiamo detto - intimamente connessi, e in essi si realizza quell'aprimento dell'essere che non appare mai in una luce costante. Il suo disvelarsi è, infatti, analogo a una istantanea illuminazione che subito torna a nascondere ciò che ha mostrato perché il mostrarsi della verità, quello che gli antichi greci chiamavano aletheia, si dà in un continuo nascondersi e rivelarsi che non ha fine. Per quel che concerne più propriamente la poesia, essa permette l'aprimento dell'ente “in ciò che esso è, e nel come è; e nell'opera (d'arte) è in opera l'Evento (Geschehen) della
verità. In essa, la verità dell'essere opera attraverso il linguaggio per il suo disvelamento.
In altre parole, in questa lingua originaria, archetipica, la filosofia viene a coincidere con la poesia poiché entrambe, unitamente, operano per svelare, attraverso la parola, il senso dell'essere, la sua verità. Ma tale svelamento, secondo Heidegger, non dipende dalla volontà dell'uomo. Non è, infatti l'uomo a parlare, ma il linguaggio stesso -e per suo tramite l'essere- che parla attraverso
l'uomo.
Tuttavia, nel suo stare a fondamento di pensiero e canto, filosofia e poesia, che si esplicano nel
linguaggio, la Dichtung li trascende entrambi poiché ogni pensiero e ogni canto non potranno mai ricomprenderla e riaffermarla interamente. Essa rimane – come si è detto - nel pensiero/canto e nel linguaggio che li esprime, in un Nascondimento che mostra o in un Mostrarsi che nasconde. Ed è qui l'essenza del linguaggio e della realtà che esso esprime, e pertanto dell'esistenza intera: essa vive nell'ombra di questo Nascondimento che accenna a se stesso senza mai interamente svelarsi nella sua Luce. E in tal modo ci si presenta come inesorabilità del trascendente - ma non nel senso che Heidegger aveva combattuto, di quel metafisico che apre allo sviluppo incontrastato della téchne, bensì come distanza e diversità dall'ente, cioè per la sua natura ontologica e non ontica. In tali termini esso ci appare come connaturato alle modalità di essere dell'esistenza e riconfigura il problema dell'Origine dove l'aporia insormontabile è costituita dal fatto che qualunque tentativo facciamo per raggiungerla vede l'Origine arretrare nel suo Nascondimento e porsi Oltre, sempre al di là dell'umano orizzonte.
Le grandi interrogazioni degli scienziati, al giorno d'oggi, mi pare vertano proprio su questo punto nodale, il primo e il solo punto indagato nelle lontanissime origini del pensiero stesso. Ed è questa la riprova dell'impronta teleologica che mi pare rinvenire nell'universo, come se un logos interno, un pensiero immanente ad esso ci indirizzasse all'Oltre, in un processo di Immanenza/Trascendenza che rimane la radice dell'Universo stesso. Infatti, comunque si attui questa ricerca, sia che parta da un'indagine sul suo fondamento, sia che parta dalle cose stesse, dall'essere o dall'ente, essa conduce sempre ad additare un Oltre, che si colloca, irrimediabilmente, al di là delle coordinate esistenziali, come se il fondamento dell'esistenza di fatto, e delle facoltà interpretative con le quali ci orientiamo in seno ad essa, fosse quel limite dal quale l'Essere-nascosto accenna a se stesso senza mai rivelarsi.
Inevitabile torna, perciò, il parallelismo tra Immanenza/Trascendenza e tra il linguaggio umano e l'archelingua heideggeriana, la Dichtung. Infatti, nel pensiero di Heidegger, essa appare come sostrato immanente sia al Pensiero che alla Poesia, e d'altra parte, vivendo essi nella sua luce senza mai identificarsi con essa (che rimane inattingibile e nascosta), la Dichtung sembrerebbe additare la sua stessa trascendenza.
Il rapporto Immanenza/Trascendenza, sarebbe poi, tradotto in altri termini, il rapporto che lega parallelamente e dialetticamente l'Esistenza all'elemento che la trascende e che ad essa si impone,
che per quanto ci adoperiamo a negarlo, sempre risorge, sempre accenna a se stesso in quel Nascondimento/Disvelamento che gli è proprio. Ma tale rapporto, che a noi si mostra come parallelo e dialettico, verrebbe ad esprimere una Identità, una eguaglianza fondamentale poiché, solo nello iato che è l'esistenza, l'Immanenza/Trascendenza, -ovvero il Nascondimento che si disvela e il Disvelamento che in se stesso si ritrae nascondendosi- si mostrano come distinti.
Rossella Cerniglia è nata a Palermo, dove vive. Laureata in Filosofia è stata a lungo docente di materia letterarie nei Licei della stessa città. La sua attività letteraria ha inizio con la pubblicazione di Allusioni del Tempo (con presentazione di Pietro Mazzamuto), ed. ASLA – Palermo 1980; seguono Io sono il Negativo (con prefazione di Nicola Caputo), ed. Circolo Pitrè – Palermo 1983; Ypokeimenon (con introduzione di Elio Giunta), ed. La Centona – Palermo 1991; Oscuro viaggio, ed. Forum/Quinta Generazione – Forlì 1992; Fragmenta (con introduzione di Giulio Palumbo), Edizioni del Leone – Venezia 1994; Sehnsucht (con prefazione di Maria Grazia Lenisa), ed. Bastogi – Foggia 1995; Il Canto della Notte (con nota critica di Ferruccio Ulivi), ed. Bastogi – Foggia 1997; D’Amore e morte, stampato a Palermo nell’anno 2000; L’inarrivabile meta (con prefazione di Elio Giunta), ed. Ila Palma – Palermo 2002; Tra luce ed ombra il canto si dispiega (antologia e studio critico comprendente anche i testi di altri quattro autori palermitani, a cura da Ester Monachino), ed. Ila Palma – Palermo 2002; Mentre cadeva il giorno (con introduzione di Giorgio Barberi Squarotti), ed. Piero Manni – Lecce 2003; Aporia (con prefazione di Salvo Zarcone), ed. Piero Manni – Lecce 2006; Penelope e altre poesie (con prefazione di Pietro Civitareale), ed. Campanotto – Pasian di Prato 2009. Nel giugno del 2013, per l’Editore Guido Miano di Milano, ha pubblicato un’Antologia che propone un breve saggio delle prime dodici sillogi poetiche, con disamina di Enzo Concardi. Infine, essendo risultata vincitrice, per l'inedito, al Premio “I Murazzii” di Torino, nel 2017, le è stata stampata l'ultima sua raccolta di versi Mito ed Eros – Antenore e Teseo con altre poesie.
Per quel che riguarda la narrativa, nel 1999 ha pubblicato il romanzo Edonè...edonè, ed. La Zisa di Palermo; nel 2007, ancora per l’editore Piero Manni di Lecce, viene stampato il suo secondo romanzo dal titolo Adolescenza infinita e infine, per l’Editore Aletti di Villalba di Guidonia, il libro di racconti Il tessuto dell’anima. L'ultima pubblicazione è il saggio “Riflessioni, temi e autori”, tra le tre opere premiate a “I Murazzi” 2018 “con dignità di stampa”
Collabora o ha collaborato con alcune riviste, tra cui“Vernice”, Alcyone 2000 e a giornali on line LinkSicilia, Palermomania, meridionews, e attualmente con la Casa editrice Guido Miano di Milano ed altre rivista ancora. Ha ricevuto favorevoli riconoscimenti e attestazioni da parte di numerosi critici e letterati ed è stata premiata in diversi altri concorsi letterari. Suoi versi e profili critici sono presenti in antologie e riviste
letterarie, tra cui L’Altro Novecento (vol. II e III) a cura di Vittoriano Esposito edito da Bastogi, 1997; nella rivista Poesia dell’editore Crocetti di Milano; in Poeti scelti per il terzo millennio (2008),in Storia della Letteratura italiana (vol. IV, (2009) e in Poeti italiani scelti di livello europeo ( 2012), dell’Editore Guido Miano di Milano; più recentemente in Il rumore delle parole ed. Edilet, 2014, e in Come è finita la guerra di Troia non ricordo, ed. Progetto Cultura, Roma, a cura, entrambi, di G. Linguaglossa, e più volte sulla rivista telematica L'Ombra delle parole, diretta dallo stesso G. Linguaglossa.
L’esercizio della riduzione al precategoriale per giungere al primo principio è alla base della ricerca poetica di Maria Benedetta Cerro.
Inevitabili, dunque, l’abbandono dell’opinabile e la liberazione dall’incantesimo dell’ovvio.
Diciamolo: qui si tratta di superare la crisi di astinenza dalla verità.
Ci hanno fatto credere che un secondo principio non fosse fattibile.
Ebbene, Lo sguardo inverso contraddice questa credenza.
E dall’oltre di un dire sorgivo ci parla della perfezione di un incontro.
Della sacralità di un colloquio che si trasforma in canto.
Dalla sezione “Il dire sorgivo”
***
Ci ordinò di corrispondere
perché eravamo inconsolati.
E riprese a pulsare la vena
dell’abbandono.
Il cielo neutro della parola
manifestò il suo dire sorgivo
e il lutto
fu animato dalla meraviglia.
Lui – il nodo del fenomeno
e del tutto – ci concesse il dettaglio
capitale che mutò lo sguardo.
***
La cucitrice di bocche
siede nel frastuono.
Il remoto e ciò che spera di venire
attraversano il filo che infilza le parole.
Tolto il senso
il suono
il sussurro
non resta che togliere il pensiero.
Allora ti sarà ridata la bocca
la cantilenante nenia dei pazzi.
***
Tu mi dici “terrifica e infelice”
io sono schiuma che brulica sui rovi.
Mi fu dato il conoscere
e il ritorno.
Dico il muto abisso
di cui posseggo chiave e profezia.
Maria Benedetta Cerro è nata a Pontecorvo e risiede a Castrocielo - Frosinone
Ha pubblicato: Licenza di viaggio (Premio pubblicazione “Edizioni dei Dioscuri” 1984); Ipotesi di vita (Premio pubblicazione “Carducci – Pietrasanta”, Lacaita 1987), nella terna dei finalisti al “Premio Città di Penne”; Nel sigillo della parola (Piovan 1991); Lettera a una pietra (Premio pubblicazione “Libero de Libero”, Confronto 1992); Il segno del gelo (Perosini 1997); Allegorie d’inverno (Manni 2003), nella terna dei finalisti al Premio Frascati “Antonio Seccareccia”); Regalità della luce (Sciascia 2009); La congiura degli opposti (LietoColle 2012), Premio “Città di Arce”; Lo sguardo inverso (LietoColle 2018); La soglia e l'incontro (Edizioni Eva 2018).
LAND ART:
IL PUNTO ESATTO D’EQUILIBRIO
(sull’opera di Pontus Jansson)
A volte cerchiamo
equilibri impossibili
ma non c’è niente di impossibile
se guardi come certe masse
rimangono sospese
su quell’unico punto
di bilanciamento perfetto
in cui il peso svanisce
e i sassi non restano
che eteree forme
ieratiche sculture
Si fanno incanto, bellezza
fiducia che si sostiene
per donarsi all’aria tremula
all’impalpabilità del colore
e a chi ne coglie la meraviglia
con occhi grati di stupore.
Alessandra Chiavegatti è nata a Verona. È cresciuta in un paese sul Po in provincia di Mantova e ha esercitato la professione di magistrato in diverse città di Italia: dalla Lombardia alla Calabria alla Sicilia alla Toscana. Dietro agli occhi, in fondo all’anima, Gilgamesh Edizioni, costituita da quasi 200 poesie scelte, rappresenta la sua prima e importante tappa poetica.
anima sottile
non sarà per un tempo infinito
dunque non economizzare
lascia che solo il limite
fra il giorno e la notte segni
la fioritura fra te e il mondo
tutti i sorrisi che vuoi donare
l’apertura delle tue mani
il dono illimitato di te
così sarai eterno
più che nelle pagine nei colori
nelle oreficerie delle note
sarai nei ricordi di quel sorriso
quel giorno quel momento
le parole come linimento
dell’anima sola ecco per questo
avrai pagato ogni costo
vinci il cordoglio carezzando
il battito del cuore
il suono che sia come i pensieri
fra le ali di un passero
che annunci primavera
semplice il passare dell’aria
fra le prime erbe e le gemme
e quelle note che gemono
raccogli a mani nude
baciale come inermi bambini
niente merita dolore
e dunque è ingrato il seme
che feconda spine
nel riverbero tardo della sera
Alda Cicognani è nata e vive a Bologna. Ha pubblicato “Vulneraria” nel 1999 con prefazione di Davide Rondoni; “Assonanze” nel 2002 con prefazione di Gianfranco Lauretano; “Posti di ristoro” nel 2004 con nota introduttiva di Tolmino Baldassari. Nel novembre 2010, con Ibiskos Ed. Risolo, ha pubblicato il libro di racconti “Le splendide età” e il libro di poesie “Le Poesie dell’Amore e dintorni” con Manni, cui è seguito “Voci di notte e altre poesie”, Puntoacapo, 2012.
Immaginare come si dia il passaggio dal nulla a qualcosa, come da esso si formino le prime note, le prime forme, larvali, ma poi sempre più tenaci, le quali, attraverso metamorfosi, si sviluppano fino a comporre un tema musicale. Sì, perché è questo il tema della prosa di Gabriella Colletti “Il paesaggio è lo sfondo”: la musica. La scrittrice indaga tale formazione, ma per far questo deve creare visivamente lo stato antecedente, quel nulla abissale che tutto sembra inghiottire. Quel nero nel quale tutto sparisce e che ci minaccia. La musica, però, la sua eternità, non si contrappone solo al nulla, ma anche alla storia umana, tanto precaria quanto infarcita di orrori. In tal senso, la storia, con il suo tempo e la morte, si contrappone anch’essa a tale sfondo infinito. Si viene, però, a formare un interregno tra la storia e lo sfondo, che l’autrice denomina ‘regno intermedio dell’armonia”, regno dell’arte, il quale consente all’umano uno sguardo neutro, privo di paura, come quello animale. Per la Colletti, l’arte è il regno della soluzione delle contraddizioni. Ecco la ragione della felicità che nasce dell’armonia.
(…) nel rumore, percepito distintamente, d’ogni
singola onda che si frangeva, nella sua nitida
dolcezza, c’era qualcosa di sublime.
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, volume IV
“Giustizia è tutto,” disse “giustizia è la prima cosa,
giustizia è l’ultima. Chi non lo comprende morrà”.
Hugo Von Hofmannsthal, La mela d’oro e altri racconti
Ci sono fili che vanno e tornano, elementi affini
che devono incontrarsi. Chi separa commette un'ingiustizia.
Chi sceglie una sola parte dimentica che da essa sempre
si ode imprevisto il suono del tutto.
Ci sono gruppi di fronte a gruppi, i congiunti sono separati,
i separati congiunti. Tutti appartengono l'uno all'altro,
e ciò che di loro è il meglio si trova tra l'uno e l'altro:
ed è istantaneo ed eterno, e qui è il luogo della musica.
Hugo Von Hofmannsthal, Il Cavaliere della Rosa
Già, "il suono del tutto"… come l'eterno fragore delle onde che s'infrangono sugli scogli, l'eterno mormorare del mare, il suono della conchiglia appoggiata all'orecchio. Una voce indistinta in cui si fondono altre voci, da sempre, da quando è nato l'universo, e forse prima, dal momento in cui esso era solo progetto, ipotesi, possibilità nella mente di Dio. Antico suono primordiale, respiro, ritmo, palpito sempre simile a se stesso da quando è nata la Terra. Voce di amanti in un amplesso senza tempo che continua a ripetersi. Gli amanti cambiano; l'atto, il suono, l'armonia rimangono identici. Solo la declinazione, la sfumatura, cambia. Come nella melodia, gli infiniti sviluppi del tema musicale. La dimensione fluida della musica assomiglia forse all’Eterno, indicibile a parole, eppure percepibile come suono, in certi rari istanti di grazia. L'arte della musica proviene dall’Eterno. E l’Eterno è lo sfondo. Che la musica sia, forse, il respiro che lo sfondo emana? Esso è orizzonte imprendibile, vasto, infinito per l'occhio dell'uomo, di un bianco abbagliante. Insostenibile, dolorosa, accecante, quella luce. E’ come se si fissasse il sole. Spaventato, l'uomo chiude gli occhi. Li ritrae dall'orrido baratro di quel nulla, ma esso li inghiotte da dentro. E in luogo della luce abbacinante spalanca il desolato velluto buio della notte. Così smisuratamente grande deve essere lo spazio cosmico interstellare. Silenzioso, gelido, senza tempo né Storia. Non è così per l'animale, il cui sguardo innocente e a-morale guarda nell'Aperto spazio bianco, quello sfondo musicale, e non c'è paura in lui, né gioia. Solo neutro e muto guardare. Guarda e niente si domanda, nessun perché lo arrovella. Guarda, l’animale, e cosa vede? Forse, il compenetrarsi di cose le une nelle altre senza interruzione. Cose che, se separate, potrebbero fare paura, ferire, uccidere. Cose che si compenetrano senza spazi definiti, senza contorni netti. Le disarmonie diventano armonie. Le forme si fanno sempre più fluide e mosse, fino a divenire informi, ectoplasmi, fantasmi di forme, simulacri. Figure in perenne metamorfosi. Possibilità come sviluppo di un tema musicale in molteplici, inesauribili sfumature, come solo la melodia sa fare.
L'arte della musica unisce ciò che alla ragione umana sembra opposto e inconciliabile. Davanti allo sfondo dell'Eterno, proprio lì davanti, in primo piano, scorre la Storia. E’ un corteo di orrori, di violenze e ingiustizie, la Storia. Nessuna mano d'uomo o d'angelo può fermarla. Lei prosegue, avanza da sola, e pare danzare. Esegue la propria danza brutale che è guerra. Una guerra in nome della felicità, cui spesso si è dato l’epiteto di “santa”. E si continua così ancora oggi, con gli inganni dei nomi, mentre quello esatto sarebbe solo uno: egoismo.
Lo sfondo si intuisce fuori di noi, quando non si è immersi nella routine della vita. Quando ci si ferma a riflettere su se stessi, lo spazio, il tempo e l'anima, sul passato e il suo fondamento, sul futuro e la sua meta, sul presente che ciascuno è con la propria identità. È in quegli istanti di confusione e smarrimento che lo sfondo riappare come potenza che impaurisce. Riappare dentro di noi, assumendo la forma fluida di un non-colore che in sé tutti li contiene e li annulla: il nero. Nero velluto dello sfondo, eterno nero di un'interminabile notte senza inizio né fine, senza Storia, senza il familiare susseguirsi del giorno alla notte. Lo sfondo sta dentro di noi, povere creature della Storia, che portiamo dentro l'eterno sfondo senza tempo. Esso ci appare come la morte. Quella fessura che lascia passare l'Eterno, ma in verità, come lui, essa è già tutta dentro di noi. E abbiamo un bel tapparci occhi e orecchi per non vederla, non sentirla. Allontaniamo la morte, correndo via da lei con distrazioni. Poveri illusi. Noi, che non vorremmo sentirla, le apparteniamo, e lei ci appartiene custodendoci. Occultiamo la morte e occultiamo lo sfondo. Poveri illusi.
Tanto più il paesaggio del nostro mondo e della nostra storia è piccolo quanto più ci sentiamo al sicuro, tranquilli nel nostro adorabile, meschino guscio di lumaca. Tra il paesaggio dai contorni netti in primo piano, che è la Storia, e lo sfondo infinito ed eterno che sta dietro, proprio in mezzo, si estende il regno intermedio dell’armonia. Tra il paesaggio in primo piano e lo sfondo c'è l'arte, ogni arte. Dimensione fluida in cui l'artista, come l'animale, esce da sé e guarda con occhio puro e neutro, non umano, dritto nell'Aperto. Egli non ha paura. Rapito e assente da sé, è dentro le cose. Si sente schiacciare dal peso della natura e tuttavia si percepisce leggero. Nuvola informe e cangiante, egli assume ogni parvenza. Possiede e gode di tutte le forme: onda e nuvola insieme, acqua e aria. L’artista entra con l'arte nella dimensione dell'armonia. Qui, i contrasti non sono più stridenti ma fusi insieme misteriosamente. Le contraddizioni si accordano fra loro. I separati ingiustamente dalla Storia, gli assolutamente inconciliabili, si ricongiungono nel giusto accordo. Il risultato di tale prodigio, a chi sa guardare e ascoltare, è solo felicità.
Gabriella Colletti è nata a Milano l’11 marzo 1967 e vive a Trecate (Novara). Nel '98 ha pubblicato il saggio Piccola Guida al Broletto di Novara (Millenia Edizioni, Novara). Nel 2004 ha pubblicato il volume Cento poesie del cuore (Nuove Scritture, Milano). Nel 2014 ha pubblicato il suo primo romanzo La nostalgia dei girasoli (Manni Editori, San Cesario di Lecce), grazie al quale ha ottenuto svariati riconoscimenti, tra cui: Finalista del Premio Internazionale Mario Luzi 2014/2015 – Sezione “Premio Italia”; Premiata, nella Sezione narrativa edita al Premio “Poesia, Prosa e arti figurative” Accademia Internazionale “Il Convivio” Castiglione di Sicilia (CT) 2015; Menzione di merito al Premio Letterario Sirmione Lugana 2015 Sezione narrativa. Menzione d’onore alla 41° Edizione del Premio Letterario Casentino "Sezione Giuseppe Frunzi" – Editi. Prima classificata al Premio Letterario di poesia e narrativa “Città di Arcore” – Anno 2016.
Nel 2016 ha pubblicato la raccolta di poesie L’occhio al papavero (C.A.SA. Edizioni, Saronno-Gallarate).
Il lucore dovrebbe essere la condizione di possibilità di un vedere diverso. Che cosa è possibile osservare in tale rarefatta condizione di visibilità? Che cosa si possa intravedere in una flebile luce, quando sia questione tutta affidata alle parole, è impresa da far tremare i polsi: la traduzione di due incertezze o, meglio, il passaggio da un’incertezza a un’altra. Il sogno, l’eco non sono tanto la marca dell’irrealtà, quanto di una dimensione altra, in cui la percezione è fluttuante, non può fissare nulla in maniera definitiva, è mobile come uno stormo. e lo stormo a sua volta “divora l’occhio / col suo mondo”. Nel testo, Comoglio opera un capovolgimento che riguarda anche la struttura sintattica. La visione trasforma radicalmente le cose e le loro relazioni: una piuma la si può vedere come un contrafforte, l’impronta può mostrarsi più integra dell’essere che l’ha generata. Il linguaggio non corre dietro alle parole, ma lo presentifica, fondendosi con uno sguardo che sprofonda.
Lucore
preséntami il prodigio,
il lucore ferito al mondo
dell’ultimo cristallo
a zú-folo d’argento
*
lucore ―
in meta di fluttuante
eco a primo sogno
è l’imbocco, a umana casa,
dove, lo stormo, divora l’occhio
col suo mondo, veloce,
di leggenda : asterso contrappunto
in cordata a finta luna
dove, è piuma, schiusa a contrafforte
l’impronta voltata intatta, rá-
strellata a fiore
Silvia Comoglio (1969) è laureata in filosofia e ha pubblicato le raccolte di poesia Ervinca (LietoColle Editore, 2005), Canti onirici (L’arcolaio, 2009), Bubo bubo (L’arcolaio, 2010), Silhouette (Anterem Edizioni, 2013), Via Crucis (puntoacapo Editrice, 2014), Il vogatore (Anterem Edizioni, 2015 – Premio Lorenzo Montano – XXIX Edizione - Sezione raccolta inedita), scacciamosche (nugae) (puntoacapo Editrice, 2017).
Nel 2016 ha scritto per The small outside di Gian Paolo Guerini Piccole variazioni, concerto apparso a puntate sulla rivista on-line Tellusfolio e pubblicato nel 2017 su L’almanaccone impertinente (LABOS Editrice, 2017)
Per Il vogatore è stata composta nel 2015 una partitura dal compositore e pianista Francesco Bellomi e per Via Crucis nel 2016 sono stati realizzati quindici disegni dall’artista Gian Paolo Guerini.
Suoi testi sono apparsi nei blog “Blanc de ta nuque” di Stefano Guglielmin e “La dimora del tempo sospeso” di Francesco Marotta; nei siti www.nannicagnone.eu, www.gianpaologuerini.it e www.apuntozeta.name, sulle riviste “Arte Incontro”, “Il Monte Analogo”, “Le voci della luna”, “La Clessidra”, “Italian Poetry Review”, sulla rivista giapponese “δ” e nelle riviste on-line Carte nel vento, Tellusfolio e Fili d’aquilone.
E’ presente nei saggi di Stefano Guglielmin Senza riparo. Poesia e Finitezza (La Vita Felice, 2009) e Blanc de ta nuque, primo e secondo volume (Le Voci della Luna, 2011 e 2016), nell’antologia Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta (puntoacapo Editrice, 2012) e nell’opera di Marco Ercolani Annotando (La Biblioteca di Rebstein, 2016)
Una turbolenta scrittura riesce a esprimere compiutamente ciò che resta non detto.
Evoca l’arrivo di un ospite inatteso che ci permette di fare esperienza del rumore dei passi dell’essere stesso, seguendolo nella sua peregrinazione.
Il luogo è il sacro paesaggio nella patria stessa del linguaggio.
Il passo è di colui che è più prossimo alle origini e, dunque, all’orizzonte del destino umano: il poeta.
La cadenza del passo si ode nella fugacità del tempo, nell’angustia dello spazio, nella limitatezza delle forze.
Ci parla del futuro, delle sue possibilità e dei suoi pericoli.
Abacuc portava un cappello di rame
Abacuc portava un cappello di rame
All'inverno ossidava nel verde
poi, allo sguardo del caldo,
Riprendeva il rossore.
Timidezza furiosa del santo.
Thòlos
Uno scuro aleggia
fra tempi e e colonne
Buio compensa i vuoti
rastrema il niente verso il nulla
e discolora il Nihil.
Nell'arenaria il Bruno accattone s'incanala
Manca luce nel tempio
e sul monte la meteora spupilla.
Parabola del Cranio o del Dodecaedro
Testa sul tavolo
scisso corpo lasciato in ormeggio
Non trasuda la Medusa
e pure ne mangia la murena.
In atelier Giacometti
mette zampe alla testa,
la scanna nel bronzo e poi dice
Pater!
Ha cercato dodici facce
dai contorni biaccati
per tendere l'arco dell'angolo acumen: il Sogno di una Testa.
Post acuzie selvatica dentro la testa
Morena Coppola vive a Roma. Si interessa di scritture non convenzionali e di arte contemporanea. Sul crinale verbo-visuale, sperimenta linguaggi innestati nel visivo, accomunandone sguardo e lingua. Un suo testo accompagna l'immagine xilografica dell'artista Andreas Kramer per le Edizioni PulcinoElefante [2008]. Segnalata più volte al Premio Lorenzo Montano, [2013 sezione Una poesia inedita; 2014 sezione Una prosa inedita; 2017 sezione Raccolta inedita; 2018 sezione Raccolta edita]. Alcuni testi sono pubblicati in raccolte antologiche [Empiria 2013, 2014, 2016, 2017 e 2018]. Nel 2016, in occasione della pubblicazione di Avrei fatto la fine di Turing, di Franco Buffoni, uno scritto critico relativo alla raccolta è stato pubblicato sul sito del poeta. Ha curato la post- fazione de Il criterio dell'ortica di Stefano Mura, edito dall'Editore Manni nel 2016. La raccolta poetica Sgorbie e Misericordie di Fratelli Elettrici, finalista al Premio Bologna in Lettere, edizione 2017, segnalata alla XXXI edizione del Premio Lorenzo Montano, è risultata vincitrice del Premio letterario Formebrevi Edizioni, 2017. Finalista al Premio letterario Bologna in lettere edizione 2018. La raccolta Psychopompï è stata selezionata alla IV edizione del Premio Elio Pagliarani, sezione Inediti, edizione 2018.
Un ciak dell’autrice-regista fa azionare la macchina da presa, tutta linguistica, come se fosse in presa diretta con un pensiero: un primo piano di sibilanti e di “o” introduce il set, lo spazio generativo verbale in cui agisce l’”Homo videoludens”, dove “la sostanza non è reale”.
La sapiente regia passa a un piano americano quando introduce, in francese, l’elemento ludico del titolo. Anche se a ben guardare il testo è tutto un piano sequenza che continua a tornare su se stesso, in loop, dove a ogni ripresa o ritorno d’immagine emergono nuovi particolari.
E così si coglie nel terzo verso quel “si” insistito “sì simile simulacro” come se fosse un’invocazione o un successo del videoludens, e, in un successivo, ulteriore sguardo, quel “s’annuvola” che “s’avvolge in voluta”: da un totale a un frammento, dal celeste a una spirale di fumo; un rovesciamento di sineddoche. Anna Maria Dall’Olio produce un testo che coniuga inestricabilmente senso e linguaggi.
Homo videoludens
Sspazio
steso lungo tempo che gocciola denso
sì simile simulacro librasi
libero liberamente
anema e core
(torna a terra!)
la sostanza non è reale
è visivo/virtuale
pure il sistema è particolare
reticolare!
Fuor da sé jouer non fa per tre
s’allontana
si discorsivizza
si banalizza
ruolo è dato
il gioco si gioca il jouer
mondo è mutato
loop s’avvita s’avvince loop
natoperfetto ora s’annuvola
s’avvolge in voluta di riflesso
pianto di luci fatto liquido
fiore petroso schiuso al dentro
Anna Maria Dall’Olio è laureata in Lingue e in Lettere, esperantista, si è dedicata alla narrativa, alla poesia e alla scrittura drammaturgica.
Ha curato una rubrica sul mondo esperantista per “Incontrosaperi” e ha collaborato al periodico “Kontakto”, con una recensione su Il dolore di Giuseppe Ungaretti.
Ha partecipato a 4 edizioni della Fiera “Più libri più liberi” di Roma e alla 1a edizione del “Festival internazionale delle Letterature” di Milano. Nel 2018 ha vinto il 3o premio del Concorso internazionale “FEI” per la traduzione in esperanto di “Su una sostanza infetta” di Valerio Magrelli. Nel 2005 ha vinto il 2o premio del Concorso internazionale "Hanojo-via Rendevuo", patrocinato dal governo vietnamita, accanto a molti altri riconoscimenti ottenuti in Italia nel corso della sua carriera.
La sua pubblicazione più recente è Segreti (Robin, 2018), preceduta da: Sì shabby chic (La Vita Felice, 2018), L’acqua opprime (Il Convivio, 2017), Fruttorto sperimentale (La Vita Felice, 2016); Latte & limoni (La Vita Felice, 2014), L’angoscia del pane (LietoColle, 2010), 20 poesie nella rivista “Calamaio” (Book editore, anni 2009 e 2011) e Tabelo (Edistudio, 2006), dramma in lingua esperanto. Recensioni e articoli di critica sono stati raccolti in Le sirene di cartone di Anna Maria Dall’Olio (Editrice Totem, 2017).
Rosario laico
Si snoda per tappe di memoria e di pensiero, nel suo percorso dedicato a persone e luoghi cari, la raccolta Anacoretico cartiglio di Enrico De Lea. Un percorso intriso di meditazioni e di cammino, attento all’alterità e alla pluralità del sentire, poiché “Ci sono versi, / Ed anche versi della bocca, / Che vogliono il sentiero / La pietra che si tocca e il passo / Ed un "noi" sempre, / Almeno sottinteso”. Dove la parola cerca, nello sgranarsi del pensiero, di riprendere la rotta di un dire in movimento verso il proprio senso.
Quasi un rosario laico, in cui brevi testi datati scandiscono ricordi familiari, paesaggi, figure poetiche e letterarie incontrate realmente o vissute attraverso intense letture, nello scorrere della ghirlanda dei nomi di Raboni, Sciascia, Cattafi, Sereni, Carducci e nel susseguirsi di passi e ancora passi, come grani, orazioni.
Che si tratti di sgranare il movimento in piccole parti, quasi una necessità di concentrazione chiaramente espressa dalla brevità dei testi, come viene esplicitato anche da un titolo interno ripetuto “tre passi sgranati di un rosario”, o che si tratti di un atteggiamento di devozione e contemplazione che accompagna la memoria di paesaggi e di affetti, come indica l’autore: “mi recito e dico, invano / forse, per le mie mute, inesauribili orazioni”, la raccolta ci mostra le due azioni complementari, di cui necessita il pensiero: l’erranza e la meditazione, il moto e la riflessione.
Il verso è già, in sé, movimento, vertigine di suono e di senso. E questi versi in rima, spesso endecasillabi, mettono a fuoco, nell’illuminare ogni tappa del cammino, il loro moto inesausto in cerca di senso. Forse un senso che è stato sottratto, celato. Forse il mistero che si cela nell’esistere. Che richiede un percorso di riflessione su come possa la parola, quella poetica soprattutto, essere in grado di avvicinarne l’enigma, di arrivare all’essenza del tutto.
Da un lato, per l’autore, la parola resta all’estremità, sul ciglio della sua solitudine: “A margine freddamente si tratteggia / La parola che c'è, il finto foglio, / La rinuncia schizzata, in una scheggia / Di estremo anacoretico cartiglio”. Dall’altro, è forse nell’astenersi dal pronunciare i nomi dell’apparenza, nel rinunciare a nominare la molteplicità che le è possibile giungere all’essenza delle cose: “Così, senza nominare, senza evocare, scendere / alla dimensione dei muri a secco, con le mani”.
Dove si trovino allora i nomi del vero, possiamo chiederci con l’autore, che, insieme alla ricerca del senso esistenziale, non cessa di farne inesausta domanda. E in quale luogo straniero o sommerso, in quale significato maiuscolo o minuscolo si nasconda il loro segreto. Forse possiamo dire che il mistero che racchiude il rosario laico di Enrico De Lea consista proprio nell’ignoto che li cela, come emerge dalla potente interrogazione: “e se tutto in minuscolo il mondo / tutti celasse i Nomi, in fondo in fondo?”
(amabili mezze)
dire a metà l'intero
della vita, a misura del vero
fino a metà saperla definire,
la mezza birra o la mezza
con panna, per la granita,
arrivo di magi, ma senza
oro incenso mirra
(26 Dicembre 2015)
(prova per silenzio)
il silenzio di mio padre nascondeva la diserzione –
dal mondo, dalla vita quotidiana, financo
dalla storia, con una battuta al solito banco
del caffè – una sorta di vittoria per omissione,
una passeggiata per lenta sottrazione
(6 Luglio 2016)
(palinsesti filiali)
giorni che resteranno palinsesti da raschiare
ove scoprire riscrivere i padri andati
i loro nomi le loro parole nel camminare
da un versante all’altro delle contrade;
sarà sempre un’opera filiale, si voglia o no,
una parola sfuggita, un detto sfuggito all’oblìo,
ovunque ci sia tempo e lentezza dell’occhio,
sulla terra dei loro passi, nel resto che non è addìo
(28 Marzo 2017)
(a margine)
A margine freddamente si tratteggia
La parola che c'è, il finto foglio,
La rinuncia schizzata, in una scheggia
Di estremo anacoretico cartiglio.
(07 novembre 2017)
Enrico De Lea (Messina, 1958), originario del territorio tra Casalvecchio Siculo, nella Valle d’Agrò, la riviera jonica, Messina e lo Stretto, vive e lavora in Lombardia.
Ha pubblicato le raccolte di poesia Pause (1992, Edizioni del Leone), Ruderi del Tauro (2009, L'arcolaio ed.), Dall'intramata tessitura (2011, Ed. Smasher), la sequenza- poemetto Da un'urgenza della terra-luce (2012, Ass. La Luna, nella collana diretta da Eugenio De Signoribus) e la raccolta La furia refurtiva (2016, Vydia editore).
Suoi testi sono apparsi sulle riviste Wimbledon, Specchio (de La Stampa), Sud, Atelier, Tuttolibri, Registro di Poesia (Editore D'If), Caffé Michelangiolo.
E’ presente nell’antologia “Poesia di strada 2010- Licenze Poetiche” – Vydia editore, 2011, Macerata, e nel volume collettaneo Parabol(ich)e dell’ultimo giorno – per Emilio Villa – a cura di Enzo Campi – DotCom Press edizioni, 2013.
E' stato finalista o segnalato al Premio Licenze Poetiche- Poesia di strada – Città di Macerata (vinto nel 2010), al Premio Miosotis-D'If editore (Napoli), al Premio Lorenzo Montano (Verona), al Premio Tirinnanzi (Legnano), al Premio Interferenze – Bologna in Lettere.
Ha pubblicato in rete in vari siti e blog, tra cui Rebstein, Nazione Indiana, La poesia e lo spirito, Compitu re vivi, Poetarum silva, Carteggi Letterari, Arcipelago Itaca, Atelier, Carte nel vento- Anterem, pubblicando anche su un proprio blog, da presso e nei dintorni.
Se il bianco è il colore che li contiene tutti, allora il nome eponimo che agisce in queste pagine, non può non contenere in sé tutte le moltitudini di senso che la poesia riverbera in una voce. Infatti, nella dichiarazione di poetica che apre il poemetto, Lella De Marchi ci informa su tutto ciò che Bianca è e non è, riassumendo ogni metamorfosi nel progetto e nel desiderio di un’opera che “parla come parla un’intenzione, al fondo di tutto le cose, prima di tutte le cose”. Ecco, una lingua che dà corpo al suo significato, non con un movimento o una direzione stabiliti da un principio, ma costruendo con la sua vocalità una struttura mossa, dalle fondamenta foniche, sempre imprevedibili. Perché la parola dell’autrice svolge i suoi tratti distintivi nel mare di una sonorità concreta che fa della poesia una materia fluente, che scava se stessa con lacerazione o accarezza il sentimento del reale e del vero. Lì dove non basta trasgredire norme consumate, ordinarietà comunicative svuotate di significanza “se poi il mondo/ non lo inventi”, scrive con un cenno di giusto ammonimento. Bianca smonta le consuetudini con una scrittura che dice come sia inafferrabile e molteplice la natura della poesia: che è natura umana intonata in una melodia. Anche nell’errore, anche nel dolore il centro propulsivo deve sviare dal conforme, fino all’estremo della dissomiglianza verso ciò da cui prende o dà vita: “il mio cuore è/l’unica cosa che non mi assomiglia”. Così parla Bianca: dal fondo della sua presenza di corpo in essere, quale libertà e unicità di poesia con poesia. Perché questo è il passo, distorto ma necessario e incomparabile, del poema che oltrepassando se stesso e la pagina bianca si avvia prima dell’inizio per terminare dopo la fine.
Incipit
Bianca è la pagina bianca, che fa paura e che seduce chi sa che deve o che può provare a riempirla, chi si trova a giocare o lottare col vuoto, senza bucarlo o ferirlo.
Bianca è la somma di tutti i colori, il colore che non esiste che non vedi ma c’è, prima di ogni colore. Bianca è un’aspirazione al contrario, il sentimento in ogni contrario.
Bianca non ha una forma predefinita, è un po’ dappertutto è in tutte le cose, Bianca ha la forma che nel mondo hanno le cose, prima di tutte le forme prima di tutte le pose.
Bianca non è una donna perché il suo nome finisce per a.
Bianca, se la trovi, la trovi soltanto ad Ibiza, in questa terra c’è solo una terra che possiamo che dobbiamo abitare, che sia solo la nostra, che ci concede il diritto di cittadinanza, nel breve spazio tra l’inizio e la fine.
Bianca non è una poesia, non è un romanzo, non è una canzone, Bianca è un’intenzione, e parla come parla un’intenzione, al fondo di tutte le cose, prima di tutte le cose.
Bianca non sono io.
Bianca non è un santo, non lo è stato
Bianca non è un santo non lo è stato,
Bianca fa l’amore o forse sesso un po’
con tutti, Bianca è tipo-indipendente,
un po’ ricordi di classe operaia un po’
aperitivo trendy post-lavoro, un po’
nullafacente un po’ sé stessa-facente,
Bianca non è un santo non lo è
stato, Bianca fa l’amore o forse sesso
un po’ con tutti e pensa, Bianca
pensa che un cuore solo non ha occhi per
vedere e gli occhi non hanno un
cuore solo per vedere la nostalgia
Bianca volentieri cederebbe alla tentazione di parlare senza dire niente
Bianca pensa che in ogni tempo volentieri
cederebbe alla tentazione di ritrovarsi
immutata superando l’effetto serra e
il tempo più ostinato, Bianca
pensa che in ogni tempo volentieri
cederebbe alla tentazione di riuscire a
non pensare per poter parlare senza
dire niente, senza aggiungere
al rumore altro rumore, senza
diventare una spiegazione, senza
diventare necessaria, necessaria
come una spiegazione
Lella De Marchi è poeta, scrittrice, performer.
E' laureata in Lettere Moderne indirizzo storia dell'arte contemporanea all'Università di Bologna. Ha seguito laboratori di scrittura creativa e sceneggiatura cinematografica con Andrea Camilleri, Ugo Pirro, Tonino Guerra, corsi di lettura ad alta voce e teatro. E' diplomata al CET, la scuola di Mogol, come autrice di testi.
Ha pubblicato tre libri di poesia: "La spugna" (Raffaelli, 2010, prefazione di Renato Martinoni, "Stati d'Amnesia" (LietoColle, 2013) con un saggio di Enzo Campi, "Paesaggio con ossa" (Arcipelago Itaca, 2017) postfazione di Caterina Davinio e finalista al Premio Pagliarani 2016 ed un libro di racconti "Tutte le cose sono uno" (Prospettiva Editrice, 2015), vincitore del Premio Braingnu 2013.
Ha ottenuto molteplici riconoscimenti, nazionali ed internazionali, sia con l'edito che con l'inedito. Suoi testi compaiono in antologie di poesia contemporanea, riviste e blog su internet.
Unisce alla scrittura un'intensa attività performativa, partecipando con suoi testi e come attrice a festival, reading, poetry slam, eventi teatrali, in collaborazione con poeti, artisti, musicisti.
Collabora come recensionista di libri di poesia contemporanea con la rivista "Versante Ripido".
Madre
Madre
E se non fossi tu a dare la vita / altrimenti / perché tanto dolore. / In quella vita che non fu mai veramente mia / tu entrasti con forza / crescesti dentro / malamente / per stillicidio.
E se non fossi tu a chiedere / ma io a dare incondizionatamente / per puro e deviato amore / come Clizia / costretta a girare / attorno alla più grande delle stelle? / Diversamente io / fanciulla piangente / senza le sembianze di madre / non divenni mai girasole.
Terra-Madre
E se fossero le nostre lacrime / a far scorrere i fiumi / ora dai letti asciutti. / O i nostri occhi / a fissare a terra le pietre / o i nostri cuori senza più battiti / a far palpitare le montagne. / Fossimo noi quelle vette / che il Tempo ossessivamente trasmuta / da uomo ad albero / da fiore a uccello. / Materia sempre in movimento / dalle sembianze mai uguali. / Nostalgico è il ricordo / di un dolce sguardo / che ora in fredda pietra / è immobile montagna.
Terra-Madre
Rimane ora un flebile ricordo / di quando brucianti / come candele nella notte / attraversammo il fiume / senza paura un giorno / di diventare mare. / In un perenne viaggio / d’amore e di follia / attraversammo strade / imparammo a piangere. / Col battere del tempo / spartimmo e patimmo / contenitori di parole / nomadi / di vita e di versi.
Madre-Terra
Preservi dentro di te le tante vite / da poter vivere / i mille racconti da abitare / dentro libri sfogliati / annusando le carte. / Non so più qual è il tempo / nel miliardo di stelle / e nel viaggio del tempo / ripercorro il futuro / di infinite esistenze. / Resistenze / nello straccio di un presente / morente. / Ultime pagine. / In ritiro / cerco un tempo sospeso / di relativa eternità.
Madre-Terra-Madre
Col tempo mi ricompongo in te / distinguo l’essenza di pause scandite. / Col tempo quel tempo / non è che una linea che muove un angusto quadrante. / Adulta io / inseguo forme circolari / assaporando parole consolatorie / nel breve spazio di una ruga inattesa. / Come noi la parola vola / in perpetuo divenire.
Patrizia De Vita coltiva da anni la passione per le arti, la poesia e la scultura.
Ha partecipato a numerosi reading poetici (Poetica al femminile, Voci di donna).
Molte sue poesie sono pubblicate in Riviste letterarie e raccolte antologiche con attestazioni di merito, tra cui: Rivista Poeti e Poesia a cura di Elio Pecora, Il Portico, Aped, Cavallari di Pizzoli, Les fleurs du mal–Ducas, Accademia delle Arti “Città di Castrovillari, antologie su I grandi temi della Poesia a cura di Giulio Perrone Editore, Il sé, la poesia, il mondo. A scuola di scrittura da Dante, a cura di Letizia Leone per Giulio Perrone Editore, Il Federiciano, Arbor poetica per Lieto Colle, Premio dei premi per Progetto Cultura Roma, Premio Internazionale Kerouac.
La raccolta “Le stagioni dell’anima femmina” è pubblicata da G. Perrone editore, 2011, vincitrice al concorso “PENSIERI D’INCHIOSTRO” PerroneLab, 2010, prima classificata al Premio “Creativa” VI° edizione 2012 per Poesia Edita.
La raccolta “Parole svenute e di versi ordite” è pubblicata da edizioni Progetto Cultura Roma, 2016, seconda classificata al Premio Internazionale Città di Castrovillari.
La raccolta “Pensieri in viaggio a quattro mani”, scritta con Costantino Quarta, è pubblicata da Youcanprint editore, 2017.
La prosa poetica “Colmi di crucci e sogni” è finalista con segnalazione, per Prosa poetica inedita, al Premio “Lorenzo Montano”- Anterem, 2013.
A distanza d’amore
Si muovono tra la leggerezza e il dolore i versi della raccolta La bellissima fanciulla e altre poesie di Riccardo Deiana. Tra armonia e ustione, incanto e strazio, bellezza e pena.
Sono versi interlocutori, la maggior parte rivolti alla persona cara, menomata dall’infermità, racchiusi tra i due testi riflessivi di apertura e di chiusura, in cui la parola si fa interrogante sul senso del vivere e del dire, come a contenere, nella distanza emotiva, tutta la sofferenza che viene invece, all’interno della raccolta, sempre più ravvicinata, in una lenta e inesorabile messa a fuoco sulla malattia “osservata per non morire, / e per la forza che da sola è venuta”.
Una leggerezza inattesa muove ogni verso: nel trattare una materia dolorosa, l’autore si pone, da un lato, a distanza, come a osservare dall’alto e a spostarsi lontano nel tempo, dall’altro, invece, vicinissimo alla sofferenza, alla rabbia e alla fatica quotidiana, in entrambi i casi proteso a far sbocciare motivi di tenerezza e di incanto.
E in tale lievità emergono figure potenti, che non riusciamo a considerare solo metafore: la madre che del frutto ha “la grandezza / la misura / per stare nel palmo aperto di un figlio”, il pupazzo di neve dal sorriso storto, simile a quello deturpato dalla malattia, da raddrizzare poiché “ridere allinea la bocca, / fa vivere di più la felicità”.
Una lievità che riguarda anche il buio, accolto nel suo respiro universale, nel battito che affratella: “Non è il buio il colore del dubbio / perché di notte è uno il respiro di tutti / più del giorno… / Il colore del dubbio è il colore del mondo”. E, se il mondo riserva crudeltà e amarezze, vi è altro in cui cercare note di pacificazione e di vero: “Sei: in attesa che volgano le stelle a inverare / tutto, come solo si può: / a puntini / dal buio”.
E in tutto questo la parola? Come può riuscire a sorvolare il dolore per avere uno sguardo più ampio e, nello stesso tempo, a immergersi profondamente in esso, toccarne il respiro?
La distanza, evocata più volte dall’autore, appare come il desiderio personale di trovare, attraverso una visione più ampia, i contatti con le cose e con le vicende terrene, attraverso una parola in grado di mostrare ciò che non si palesa facilmente.
Una visione utile soprattutto a creare vicinanza e cura, per la terra e per le sue creature, per la persona cara e per l’umanità, e che, da un punto di vista sociale, si pone come esigenza di osservare con più lucidità il mondo e la vita e di farne oggetto di condivisione: “perché laggiù distanti, così distanti dalla riva / (sono molte miglia in / miglia, ma neppure un anno luce in anni / luce) / sussurreremo agli amici che si vede il mondo, / la nostra natura dissolta”, come scrive Riccardo Deiana. Che, come poeta, si sente emarginato da chi non tiene conto del valore dei versi, ma eticamente chiamato, insieme alla comunità dei poeti, a invitare tutti, anche chi inganna, anche chi commette atrocità, a confrontarsi sul senso e sull’enigma del vivere.
- L'armonia -
... Certo, lo capisco il discorso
dell'equilibrio eterno dei classici,
ma solo al modo in cui sette stelle appaiono
all'occhio seminudo uno scorpione;
ho un dubbio di precedenze, un cruccio
di forma, e zodiacale: è frutto
l'animale del tuo mitico indicare che illumina
in questa notte spudorata la figura,
o è da prima nella mente ma timido a brillare?
(L'armonia ce la inculcano a scuola
e mai un delatore che ne spifferi l'anima storica:
non è innocuo, abbiamo le ustioni
dei loro freddi alari,
abbiamo storpiato i ventanni a furia di imitare,
senza inventare mai formine
per la nostra dismisura).
Come si può dimenticare l'uncino velenoso
che limita la costellazione e
sbucando furtivo becca intimorisce uccide?
Se puoi, non girare le pagine con l'indice ma
lascia che il vento le sbrighi,
e quando non ti verranno la voglia le parole
santifica il giorno come la pasqua o il natale,
e dopo
soltanto dopo torna a allineare le stelle.
Ci assomiglieremo
soltanto nel giorno in cui ci vedremo diversi,
finalmente, tutti,
ghignando in un pieno di pietà.
XI.
Guardatemi tutta, pensavi
ché tutta sono
anche se una spalla mi pende come avessi uno zaino,
anche se il mio saluto è sempre a metà
se striscio le scarpe.
Tutta, vi dico, guardatela
come di notte dall’alto l’autostrada di Orte:
dove le macchine sono
un unico fluido che luccica bianco
luccica forte.
Riccardo Deiana, etrusco del 1988, si è laureato a pieni voti e con diritto di pubblicazione all’Università di Torino nel novembre del 2016 con una tesi di ricerca sulla storia delle pubblicazioni di poesia dell’Einaudi dal 1938 al 1964. I suoi interessi sono rivolti principalmente alla poesia italiana contemporanea e alla storia dell’editoria. Si è occupato di Vincenzo Cardarelli e di Amelia Rosselli. Nel 2017 ha partecipato in qualità di relatore ai convegni «Franco Fortini: leggere e scrivere poesia (1917-2017)» tenuto all’Università degli Studi di Torino e «Sandro Penna (1977-2017): quarant’anni dopo» tenuto all’Università degli Studi di Perugia (presto il suo intervento verrà pubblicato da San Marco dei Giustiniani). Suoi articoli sono usciti sulla rivista viterbese «Biblioteca & Società» e sull’ «Indice dei Libri». Contemporaneamente all’attività letteraria, ha lavorato con i disabili, come corriere in bicicletta e come operatore notturno presso un dormitorio per senza tetto. Si diletta come cantautore.
Sono in preparazione dei suoi studi sull’attività di Franco Fortini e di Angelo Maria Ripellino come consulenti dell’Einaudi.
Alchimie d’inciampo
Quasi seguendo le orme del dio della rigenerazione, nella raccolta Gli anelli di Saturno Fernando Della Posta pare mosso dall’esigenza di uscire da asfissie e indifferenze, di trovare altri spazi oltre le apparenze, come dichiara nel testo di apertura, fino ad “ascoltare lo scroscio di cascate che non si vedono … / erodere il contrafforte / con la discesa al baratro… / Incontrare i folli / di queste vastità… / dimenticare i sunti dei sentieri più battuti”.
Una rigenerazione che prevede il superamento dei confini e delle limitazioni e che richiede l’assunzione della sofferenza quale modo di possibile rinascita. E che necessita, all’interno di una raccolta molto concentrata sulle vicende terrene, di fare i conti con il senso del dire, chiedendosi cosa sia poetico e cosa sottenda confrontarsi con la ricerca estetica, rispetto alle connesse connotazioni etiche.
Per cui se, da un lato, “si deve fare / dell’impoetico il poeticissimo, / estrarre la bellezza da tutte le cose”, dall’altro è forte la tensione tra il senso del bello e lo stato di pena: “quella bellezza / che a notarla ci vuole una certa noncuranza / per la sofferenza / che pochi dimostrano di avere / e che spesso può sapere / d'impietoso guardare”.
Allora, come si colloca la parola poetica? Fino a che punto può portarci a seguire le meraviglie del cosmo e della natura e fino a che punto costringerci a fare i conti con le esperienze terrene dell’umano?
Scrive l’autore: “Il gioco del poeta è saltellare / da una nuvola all'altra del cielo / cercando l’inciampo dell’ingiuria / che riporta a terra”, dove, nell’insieme di stati onirici e di dura realtà, può trovare “quella voce / come unica, incandescente luna di salvezza”.
Vi è come un girare intorno al reale rimanendo in sospensione, quasi a ricordarci gli anelli di Saturno, quando leggiamo come per l’autore vi siano “imprevedibili alchimie / che tengono salde le cose” e come gli sia necessario porsi “nei luoghi dei passaggi di stato / non appartenere né all’uno né all’altro / per fare di tutte le fioriture / un’epifania”.
Vi sono, però, anche l’urto, l’inciampo, l’esigenza di rovesciare le certezze, di capovolgere le apparenze. Siano esse legate alla realtà o agli assiomi del pensiero. Siano esse legate alla percezione di sé o all’idea dell’altro in una rifrazione continua che mette in evidenza gli opposti, poiché “spesso noi non siamo altro / che l’altro di noi stessi”.
“Scrivere è ritrovarsi in una casa altra” allora, possiamo affermare con l’autore, soprattutto uscire da noi stessi, urtare negli ostacoli e negli impedimenti che possono rendere autentica ogni parola poetica: “Poesia non fa sconti.”, come ci indica Fernando Della Posta, “Il noi che resta imprigionato / dentro poche pennellate / si avvale soprattutto / del diritto d’inciampare”.
Dalla sezione “Spazio profondo”
***
Stare nei luoghi dei passaggi di stato
non appartenere né all’uno né all’altro
per fare di tutte le fioriture
un’epifania. Un gioco pericoloso:
le corsie preferenziali possono tradire
e i trivi possono fare da falsa prigione,
ma si può scoprire
che non esiste un tradimento più dolce.
Dalla sezione “Gli anelli di Saturno”
***
Essenza del punk (trick or treat?)
Il punk non è poesia
ma la poesia contiene il punk.
Il punk vero non è punk. Solo quando è vero, è poesia.
La sua motivazione è un grande inganno
ma un inganno assestato col cuore.
***
marcoPolo con scrittura cammellare
cercò di attraversare
il fiume alla chetichella
ma vi cadde con un tonfo sonoro.
Tu, come tuo solito
non ti voltasti in tempo.
Poesia non fa sconti.
Il noi che resta imprigionato
dentro poche pennellate
si avvale soprattutto
del diritto d’inciampare.
Fernando Della Posta è nato nel 1984 a Pontecorvo in provincia di Frosinone, è laureato in Scienze Statistiche, vive a Roma e lavora nel settore informatico. Si interessa di poesia e fotografia. La poesia per lui è il manifestarsi di un pensiero vitale comune che, immancabilmente, si fa spazio nelle destrezze quotidiane degli uomini, in ogni luogo e in ogni epoca. Tra i tanti riconoscimenti ottenuti nel 2011 è arrivato tra i finalisti al concorso di poesia “Ulteriora Mirari” nella sezione silloge poetica inedita; nel 2014 ha ricevuto una menzione d’onore al premio di poesia e teatro “Città di Valenzano” e si è classificato secondo al premio nazionale di poesia “L’incontro – Salice d’oro”; nel 2015 è stata selezionato per la pubblicazione al concorso “Pubblica con noi 2015” di Fara Editore ed è risultato tra i finalisti del concorso letterario "Sistemi d'Attrazione", legato al festival "Bologna in lettere 2015", nella sezione dedicata a Pier Paolo Pasolini; nel 2016 si classifica tra i segnalati al premio letterario “Ponte Vecchio” nella sezione “Saggistica”, vince il concorso “Stratificazioni: Arte-fatti Contemporanei” legato al festival letterario di Bologna in Lettere 2016 nella sezione B poesia inedita a tema libero, ottiene una menzione al XXX premio Montano per la silloge inedita e ottiene il secondo posto nella poesia inedita al premio letterario “L’albero di Rose” di Accettura in provincia di Matera. Nel 2017 si è classificato secondo nella sezione poesia a tema sulla città di Roma e ha ottenuto la menzione d’onore nella sezione poesia a tema libero al premio “Divagazioni D’Arte”, ha ottenuto una menzione speciale al XXXI premio Lorenzo Montano nella silloge inedita e ha vinto il Premio Nazionale Poetika nella sezione silloge inedita. Numerose solo le sue recensioni e le sue sillogi reperibili su diversi blog letterari come Neobar, di cui è redattore, Words Social Forum, Viadellebelledonne, Poetarum Silva e Il Giardino dei Poeti. Nel 2011 ha pubblicato la raccolta di poesie “L’anno, la notte, il viaggio” per Edizioni Progetto Cultura e, sempre in poesia, nel 2015 "Gli aloni del vapore d'Inverno" per Divinafollia Edizioni e nel 2017 “Cronache dall’Armistizio” per Onirica Edizioni.
“Gli anelli di Saturno” è diventato libro nel 2018, presso Ensemble Edizioni.
Da “Lampi di verità”, I Quaderni del Bardo Edizioni, 2017
Omaggio a Ray Johnson
Rinnovi e ispiri ogni giorno nel mondo
Antichi riti di condivisione delle arti
Youtube e Internet sembrano nati dalla mail art.
Javascript e download magici come collages
Ossimori di solitudini digitali e segreti, indecifrati alfabeti
Hanno liberato conoscenze ma non ancora creatività
Nidi di parole e sogni alleviamo nel vento
Silenzi clandestini pronti a partire
Oasi di libertà da vivere in due mentre
Nei muri oggi dipingiamo segni, moticos che parlano di te.
Donato Di Poce (Nato a Sora – FR – nel 1958 ma residente dal 1982 a Milano). Poeta, Critico d’Arte, Scrittore di Aforismi, Fotografo. Artista poliedrico ed ironico ma dotato di grande umanità, si è imposto all’attenzione del pubblico e della critica con la pubblicazione di una collana di 5 portfolio dal titolo: TACCUINO BERLINESE -East Side Gallery, Félix Fénéon Edizioni, Ruvo di Puglia (BA), 2009 dedicata al muro di Berlino. In un suo celebre aforisma ha scritto:
”Il Poeta vede l’invisibile/Il Fotografo fornisce le prove”
Tra le numerose pubblicazioni di Poesie ricordiamo:
VINCOLO TESTUALE, Lietocollelibri, Como, 1998 “opera prima” in versi che era in realtà un’accuratissima scelta antologica, con testi critici di Roberto Roversi, e Gianni D’Elia,.
L’ORIGINE DU MONDE, Lietocollelibri, 2004. Poemetto Erotico.
LA ZATTERA DELLE PAROLE” Campanotto Editore, Udine, 2005 e nel 2006 è stato ristampato e tradotto con testo inglese a fronte, con traduzioni di Daniela Caldaroni e Donaldo Speranza, sempre per la Campanotto Editore, Udine.
LABIRINTO D’AMORE, Lietocollelibri, Como, 2013.
Ha curato l’Antologia “CLANDESTINI, Lietocollelibri”. E’ presente in numerose Antologie tra cui “DESAPARECIDOS”, ED. STAMPA ALTERNATIVA,2002; L’IMPOETICO MAFIOSO, CFR Edizioni, Sondrio, 2011; AFORISMUL IN ITALIA, editura Focus, Romania con alcuni suoi aforismi tradotti in Rumeno; VARIACIONES DE TINTAS a cura di Fernando Menendez, Spagna, 2012; La MOSCA di Milano “Sguardo e Visione”, nr. 24, Milano, Giugno 2011 con suo testo critico e fotografie.
Ha pubblicato diversi libri di Aforismi tra cui: Opposti Pensieri, I Frutti dell’Albero Edizioni, Milano, 1999; Negativo/Positivo, Il mestiere delle Arti, Vimodrone (Mi) 1999; Aforismi Satanici, Lietocollelibri, Como, 2000; Taccuino Zen, I Frutti dell’Albero Edizioni, Milano, 2002; Nuvole d’Inchiostro, Lietocollelibri, Como, 2010; Poesismi, Onirica Edizioni, Milano, 2012; Scintille di CreAttività, CFR Edizioni, Sondrio, 2012.
In diverse occasioni sue poesie sono state lette a Radio Rai 1 – Zapping. E’ stato direttore Editoriale della casa editrice EDIS, Presidente dell’Associazione dei micro editori A.M.E.
È presente in diverse Antologie di Poesia Contemporanea, tra cui le due sulla BELLEZZA (Arcipelago Edizioni – MI-) a cura di Tomaso Kemeny.
Ha pubblicato diversi e-book e taccuini d’artista.
Lungo una mediterranea mappa ideale, lungo meridiani del disincanto, vivono e si affollano similitudini e forse solitudini imperlate dai colori del mare e del cielo.
In questa poesia tutti gli elementi sono compresi: acqua, aria, terra e anche fuoco, rappresentato dal sangue, dai corpi caldi.
Al di qua dell’orizzonte qualcosa rimane sospeso nella temporalità, lungo una rotta percorribile nei due sensi: il viaggio di andata dei “corpi clandestini” incrocia quello di ritorno di un “uccello migratore”, tra acqua e aria, tra paradiso e inferno, mentre tutti probabilmente cercano solo il purgatorio di “tante affioranti terre”.
Nel dolente canto del poeta, nella “pietà dei giorni”, Antonella Doria ci propone una ballata tristemente civile, linguisticamente felice.
Capita a volte
in un agosto come questo
con il cielo azzurro
corpi clandestini in
vortici di verdiblu cristalli
danzano una danza circolare
per strade d’acque poi si
perdono del grido dimentichi
di gabbiani da terre di promesse
d’esilio lontani … lontani
da corpi caldi a la deriva
dove dolore dove speranza
è spazio di paura nella
consistenza dei giorni
Capita a molti in questa
estate che non finisce sempre
più spesso accade a chi
portapeso di sogni assordanti
libertà infinite lascia che
lo porti un mare d’orizzonti
o una fatamorgana
sicuro s’allontana … ma
non è mare di deserto non
suono di terre d’arenaria
di pianure odorose rose
o melodia candida di
ciliegi … accade a chi
affiora a la fine dei giorni
Capita sempre più spesso
in questa fine d’agosto a chi
incerto dello sfolgorio del mare
sotto un cielo volubile va …
(la luna è testimone )
uccello migratore in cerca
di parole terre utili che
l’acqua muove sulla scia
di sogni … servono idee
a guadagnare il paradiso
tutto tutto l’inferno fra
le tante affioranti terre
sopra i luoghi e le cose
nella pietà dei giorni
Capita a volte accade
nell’assoluta evidenza di questa
estate che finisce … una via
improvvisa s’apre sanguigna
a ovest … a chi … dimentico
di quel che tiene nuvole
accese una capriola fece
leggera come da bambino
e … (lo prese al volo al petto
sua madre …) nella casablu con
la sua onda più profonda così
per ogni giorno che nasce nell’alba …
(Una corrente sottomarina
Gli spolpò le ossa in sussurri. )*
Domani – 31 Agosto - giorno normale
È previsto - pioverà sul mare
***
Milano – Giugno / Agosto 2013
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*T.S. Eliot, La Terra Desolata, Einaudi 1998
Antonella Doria, siciliana di Palermo, formatasi per studi a Siracusa, è laureata in Scienze Sociali. Dal 1970 è a Milano dove lavora ed elabora il suo progetto poetico. Oggi vive fra Milano e la Liguria.
Presente in riviste italiane e straniere e in diverse antologie fra cui Poeti per Milano-una città in versi, a cura di Angelo Gaccione (viennepierre ed. 2002) e Poesia a Comizio, a cura di Marcello Carlino e Francesco Muzzioli (ed. Empirìa 2008), è statavincitrice, finalista e segnalata in alcuni premi letterari, fra cui il Lorenzo Montano di Verona.
Ha pubblicato: Altreacque (Book Ed. 1998); medi terraneo (1995 -1999),Primo Premio per l’Inedito Il Porticciolo, Sestri Levante 2004 (Ibiskos Ed. 2005); Parole in Gioco (AA.VV. s.i.p. 2005); Metro Pólis (ExCogita Ed. 2008); Millantanni (edizioni del verri 2015). Il 30/4 e il Primo Maggio 1999 organizza a Milano, presso la Tenda Bianca del Comitato per la Pace, una due-
giorni di Concerto di Poesia contro la Guerra, e cura quindi l’antologia -Poesia contro Guerra - (Ed. Punto Rosso 2000, 2007 ampl.) con nota di Dario Fo.
È curatrice della sezione di Poesia della Mostra Internazionale d’Arte: Per una “Carta” visiva dei diritti civili (cat. viennepierre, 2001) organizzata da “LIBERA, associazioni nomi e numeri contro le mafie”. Condirettrice/redattrice della rivista Il Segnale – percorsi di ricerca letteraria; è stata redattrice di Inoltre (JacaBook ed.), rivista di antropologia, società e cultura.
Nell’ottobre 2005 è a Lisbona con la delegazione di poeti italiani, insieme con Alberto Mori e Andrea Rompianesi, in occasione della Settimana della Cultura Italiana nel Mondo.
Nel 2015 è invitata dalla Dott.ssa Jennifer Scappettone del Dipartimento di Letteratura Italiana Contemporanea presso l’ Università della Pennsylvania (USA) a partecipare alla PennSound Italiana - Archivio della Poesia Italiana Contemporanea.
Fa parte dell’Associazione Casa della Poesia al Trotter di Milano.
Il titolo di una raccolta di poesie dice molto di più della sua evidenza letterale, e Sensibili all’oblio, di Patrizia Dughero, non è solo l’ indicazione di un percorso, ma è esso stesso un cammino di ricettività e conoscenza, di richiamo a un gesto linguistico che unisce delicatezza e graffio, quando “il sussurro si trasforma in urlo”. Una scrittura che scava negli eventi che sembrano scomparire dalla memoria o che si perdono nel silenzio o che vengono oscurati da una dimenticanza. Così la lingua di questa poesia cerca di dare parola a bocche ammutolite; di trovare pensiero nell’umiltà del verbo imbiancato; di riportare al senso l’ultima foglia. E tutto questo senza descrizioni o didascalie del dramma, ma solo attraverso la voce poetica: unica in grado di superare, e forse anche di richiudere, il varco tra oblio e perdono. E’ di grande valore una scrittura che pone al centro delle sue diramazioni il recupero delle “parole delle lacrime”: per evitare che il dire vada perso in quell’amnesia duratura che appanna la mente e i sensi. Perché le figure umane, che hanno vita in questi testi, soffrono la crudeltà di un potere che maltratta e uccide, non solo corpo e mente, ma vuole annientare nell’oblio una memoria esistenziale che, precisa l’autrice, è in se stessa sconfinata. Patrizia Dughero, con grande lucidità di pensiero, voce e sentimento, ci rende partecipi di una perdita del significato: una sottrazione violenta, uno smarrimento strappato, una perdita a favore di un significante, che avrebbe consistenza di senso, se non fosse dilapidato e reso fantasma. Perché (ci dice con parole che non hanno bisogno di commento) “non c’è madre se non c’è figlio:/è il figlio che significa la madre;/.../la madre il cui figlio viene fatto desaparecido./Si getta dal significante, si trasforma/nello spettro di ciò che fu...”.
I Passaggio
QUESTO È UN VERO MOVIMENTO
I giornata
Si disse di un manipolo di persone tra poeti e artisti,
qualcuno lo può ancora raccontare, se crede; già si può
scrivere della bottega dove s’avverano trasformazioni.
Qualcuno ha visto bisturi e cazzuole, pennelli d’ogni misura
ordinati come i barattoli e le tele, accantonate dalla cartavana
ridipinta in bianconero, nella resa che accende la poetica stabilità.
Qualcuno ha deciso di non dire niente, godendo la serata come uno
spettacolo, mentre qualcuno imbraccia la propria arma, foss’anche
un cellulare spento, adattato a richiamare la memoria ai posteri
che forse saranno, mentre qualcuno vede già quel che è il ricordo
e vorrebbe decifrarlo, e lo fonde con quel muro crollato, all’angolo
della via che non riconosciamo più. Il falso movimento
porta pagine vuote, quelle di chi ci vuole bene e di chi
ce ne ha voluto. Non le accartocciamo, sostituite da tavole rosa
di legno buono, non consentiranno di cincischiare con la morte.
II giornata
Qualcuno decida di spargere una polvere più che cinerina, che sappia
di fumo più che di nebbia nella notte. Iniziamo dall’altalena, basterà
un po’ di polvere per intervenire. I contorni delle figure di luce, incatenate,
chiedono sia soave paesaggio a intervenire, coi grigi che sappiamo,
si staglierà nel sogno, un paesaggio lieve che liberi, posato con la grazia
di chi inforna il pane, dispensata la lievitazione come si conviene.
La delicatezza è la polverizzazione che accorre dopo i graffi dalle spatole,
a pulire, sempre pulire il senso, insieme alle grida garrule, che non ci
stupiscono più, ci vuol ben altro, quando il sussurro si trasforma in urlo e
risuona nella via. Dove andiamo pittore? Dove stanno andando
le tue figure divergendo dalla luce, non precipitate, ma accolte,
attendono un movimento vero, che pure la nebbia diradi.
Patrizia Dughero, di origine friulana, è nata a Trento e si è laureata in Arti visive all’ateneo di Bologna, dove tuttora risiede. È presente in numerose antologie, di racconti, di poesie e con testi di prosa poetica in cataloghi d’arte. Sette le sillogi poetiche pubblicate: nel 2010 Luci di Ljubljana e Le stanze del sale, nel 2011 Canto di sonno in tre tempi, nel 2013 Reaparecidas, nel 2015 Filare i versi, nel 2016 Canto del sale, nel 2017 L’ultima foglia. Attualmente la sua attività si concentra su articoli e progetti editoriali. Da qualche anno sta svolgendo studi sul linguaggio poetico dello haiku, culminati in articoli, progetti didattici e nella raccolta Filare i versi / Presti verze, tradotta in sloveno da Jolka Milič. È stata capo redattrice della rivista “Le voci della Luna” e collabora con l’associazione per il “Premio Giorgi”. È responsabile editoriale di 24marzo Onlus, associazione attiva sui diritti umani, sul tema dei desaparecidos e la Rete per l’Identità. Nel 2012 ha fondato con Simone Cuva la casa editrice qudulibri.
Retrofuturo presente
Ti fermi Lucy sul bordo del tempo,
il passato assente sulle rive della palude.
Fiotti di calore, insetti mortiferi,
umido nella foresta prima del deserto,
levigate rocce nascoste, resti di armi,
rotule sparse, mandibole.
Piccola Lucy dal femore intatto,
protesa verso il retrofuturo,
morta, rinata, tangente il cronotopo,
panorama di tutti i prima e i poi,
sfera illimitata d'istanti,
Lucy ti spegni sulla palude spenta.
Retrofuturo sull'acropoli,
imperi, dèi, dispensiere fedeli,
iniziazioni nei templi dell'amore.
Etèra dagli occhi bistrati,
liscia pelle di letterata infida,
scorta dalle altre come una domanda,
nei fugaci momenti fuori dai ginecei.
Retrofuturo nell' accesso all'agone,
il coro monta, vaglio dei possibili,
voci ritmanti in coda alle svolte,
disvelamenti lungo le ore mediterranee.
Sulla punta delle dita di seta,
interiezioni di agile mondanità,
godibile fascino di una parte del vero,
ladra di incanti, finchè ti perdi.
Ancora muori e ancora,
retrofuturo di ingenui abbagli,
tessere d'universo a comporre.
Con una cloche a Manhattan,
vicina al rituale compianto sulle Torri,
per quel cimento spettacolare dell'imprevisto,
svuota teste, amputazione di sguardo,
sequestro d'idee ma per altro, in nome d'altro.
Retrofuturo, se non si ha futuro nel presente,
sbagliando chi aveva previsto la fine.
È la non-fine, nell'eterno presente, la fine.
Il futuro estinto, che noia in grande!
Lucy ti addormenti sulla palude virtuale.
Dinqinesh
Paolo Durando, La Spezia 1963, insegna italiano e storia al liceo artistico di Treviglio.
Di solito scrive narrativa, fantascientifica e weird.
Il suo primo riconoscimento importante è stata la pubblicazione, propugnata da Ugo Malaguti, del racconto “La missione di Xeres” sul numero 37 di Futuro Europa, la rivista della Perseo libri.
Nel 2013 ha vinto il premio Short Kipple con “I transmortali” e, nel 2015, è stato tra i finalisti del Premio Hypnos per racconti weird, con “Vettore Eden”, pubblicato poi nella raccolta “Strane storie”(2016) dalle Edizioni Hypnos.
Presso le Edizioni Scudo sono disponibili numerosi racconti, nonché i romanzi brevi “Prospettiva Avadhi” (2015), “Gli eletti di Scantigliano” (2016), “Dorian Hertz” (2017).
Partendo dalla fine di questo libro, di questo volume che è molto più di una nuova e precisa analisi a più voci, molto più di un atto d’amore collettivo per due autori che sono fondamenta e architrave del ‘900, Celan e Char, non si può non notare come l’epilogo non ne sia in realtà la chiusura, rappresentando invece un’apertura, racchiusa in una domanda che rimane sospesa. Questa domanda finale corrisponde a un ideale frammento di dialogo, convoca il pensare, chiede un sentire ulteriore, come tutto il libro. L’opera riprende, in nuove traduzioni, non solo testi esemplari dei due autori e alcune lettere, ma anche prove di saggisti che hanno scritto pagine decisive sulla loro poetica: notevole il recupero di questi materiali, per la maggior parte irreperibili, che Maurice Blanchot, Jacques Derrida, Peter Handke e Peter Szondi hanno dedicato ai due poeti.
Marco Ercolani immagina coordinate inedite con un affiatato gruppo di visionari, saggisti (Antonio Devicienti, Giuseppe Zuccarino) e traduttori (Mario Ajazzi Mancini, Viviane Ciampi, Anna Maria Curci, Lucetta Frisa, Francesco Marotta, Pasko Simone) nella costruzione a specchio del volume, tracciando con paralleli e meridiani la mappa di un mondo irripetibile colto nel suo apice. Come scrive in premessa, “Due poeti, due amici, per i quali la percezione poetica è scheggia luminosa e disastro oscuro…”. Ecco, quando sembrava che tutto fosse stato detto e scritto su questi fondamentali poeti del novecento, una nuova luce illumina la scheggia e il disastro da diverse, e nuove, angolature.
Ranieri Teti
Il treno della sera
questa sera
davanti agli occhi improvvisa
la donna che parlava da sola.
L'oscurità uniforma le cose
io gioco
questa sera
a provocare l'inconscio
***
è tempo che ricordo come in gioco
gli amussis buris ravis sitis tussis
non le cose da fare dette prima
di averle tutte in mente ma non quella
e a un guardare aggiornato non capire
queste parti di aratro o la livella
Giancarlo Fascendini, valtellinese, vive e lavora ad Ardenno in provincia di Sondrio.
Più volte segnalato al “Montano” e in altri Premi, ha preso parte negli anni al Forum Anterem.
Francesca Favaro, dottore di ricerca in Filologia ed Ermeneutica italiana, nel 2014 ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale (seconda fascia) per il S.S.D. 10/F1: Letteratura italiana, Critica letteraria e Letterature comparate. Collabora regolarmente, anche come docente a contratto, con il Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università degli Studi di Padova. Particolarmente interessata, come studiosa, al rapporto fra la letteratura italiana e le letterature classiche, ha pubblicato numerosi volumi e saggi su autori del Sette-Ottocento (Alessandro Verri, Monti, Cesarotti e Barbieri, Foscolo); si è inoltre occupata della fortuna di Saffo e di Anacreonte nei secoli; più di recente, ha esteso i suoi interessi di ricerca anche ad alcuni autori del Seicento e del Novecento. Collabora assiduamente con varie riviste letterarie.
In un pensiero di Leopardi: il fiore, purissimo, della giovinezza
Palabras y fronteras
Dietro le parole di odio
ci sono politici che vogliono spaventarti
dietro la maschera di odio
c'è solo la paura del confronto
dietro un gesto di odio
c'è solo povertà intellettuale.
Non ascoltare le bugie!
Non ti celare dietro una maschera!
Non dimenticare la tua umanità!
I confini sono solo
linee immaginarie di potere
storia casuale,
belli grazie ai cartografi.
C'è solo da ascoltare
il sacro diritto alla vita.
Francesco Fedele è nato nel 1981 a Reggio Calabria.
Cresciuto a Bagnara Calabra (RC), scrive e dipinge dall’età di quindici anni.
Dopo essersi diplomato nel liceo del suo paese, si iscrive alla facoltà di lettere moderne dell’Università degli Studi di Messina. È stato assegnatario di una borsa di studio Erasmus alla UAB di Barcellona nel 2006.
Laureatosi nel 2007 con il massimo dei voti, ritorna in Spagna con uno stage retribuito del progetto Leonardo, lavorando presso la Biblioteca Provincial di La Coruña.
Tornato in Italia si è abilitato nel 2009 alla Scuola Interuniversitaria Siciliana di Specializzazione per l'Insegnamento Secondario di Messina classe 43/50.
Dal settembre dello stesso anno ha lavorato ad Asti, dove ha insegnato in numerose scuole della provincia partecipando nel 2010 al progetto europeo Comenius promosso dall’istituto comprensivo di Rocchetta Tanaro (AT) in Andalusia e Francia.
D’estate per più anni ha lavorato come GL (group leader, accompagnatore/animatore) per l’ Ih, Accademia Britannica, presso la sede dell’Anglia Ruskin College di Chelmsford (Essex, UK).
Ѐ stato tra i relatori del Salone del Libro di Torino 2013 e ha collaborato con un reading musicale/poetico da lui ideato alla manifestazione astigiana A sud di nessun nord.
Ha partecipato a mostre collettive e personali nei luoghi in cui ha vissuto. Vicolo Cielo, la sua prima silloge pubblicata nel 2012, ha vinto diversi premi in concorsi letterari nazionali. Da settembre 2014 vive a Siracusa.
Il profumo dell’ombra
Se potessimo sospendere il tempo, di fronte alle perdite di stagioni e di affetti, quando mancano le leggerezze che in passato spalancavano la vita in una profusione di profumi e colori, potremmo tentare di fare delle parole il cielo che manca, seguendo Raffaele Floris in Senza margini d’azzurro.
Sia nei temi che nell’attenzione formale, lungo i versi che si distendono nei loro endecasillabi, la raccolta appare mossa dall’esigenza di ritrovare quei margini spaziali e temporali, confinati ora nella lontananza, che hanno segnato il vissuto dell’autore.
Sono margini di cielo, legati all’infanzia e alla presenza degli affetti familiari, che mancano. E sono margini di un tempo che resta come sospeso, trattenuto nel tentativo di far permanere e rivivere quanto è stato emotivamente significativo ed ha cessato di esistere.
Nel chiedersi “Che ne sarà di noi, del nostro cielo? / Non ci è rimasto niente fra le dita”, nell’ombra che pervade ogni cosa e nel buio dell’assenza della persona cara, l’autore è consapevole che non si tratti tanto di ritornare indietro nel tempo, seguendo le tracce della memoria, quanto di percorrere dolorosamente la strada della mancanza che si è spalancata; così, scrive, ripensare “non è sfogliare il libro dei ricordi / ma spingere anche il cuore in fondo al nulla”.
Così in fondo che il dolore ne viene quasi deterso, purificato: simile ad un bucato fatto con la cenere, anche la scrittura ne esce come mondata, dopo il contatto con il fuoco della sofferenza e con i residui di ciò che prima ardeva. Riuscendo, in questo modo, a mantenerne intatta una parte, a trattenere qualcosa, a profumare l’ombra rimasta: “Il paradiso / dei lini ripiegati nei cassetti / racconta di un giardino che non muore”.
Restano così memorie sensoriali, soprattutto olfattive, legate dell’assenza: profumi di bucato e di teli negli armadi, di fiori e di giardini, di mirto e di rugiada: “Lenzuola che profumano i cortili / gonfie di primavera. A mani piene / lavanda per il lino dei bauli, / e la cenere spenta è come neve”.
E come tra il bucato appeso ai fili l’autore fa comparire la persona cara scomparsa a cui si rivolge, “Vorrei vederti, quel giorno, tra i panni / stesi in cortile”, così ci rammentano visivamente i panni stesi anche le due serie di haiku, ispirati ad opere artistiche, che separano e chiudono le parti della raccolta e che sembrano costituire, nei loro lampi di ombra e di luce, un modo per trattenere e lasciare vagare in essi l’assenza. I teli come le pagine sono impregnati di ciò che manca: come in quel “Conserva un foglio bianco: / ti lascio l’ombra delle mie parole”, con cui Raffaele Floris ci ricorda che anche le parole possono vivere d’ombra. E che l’assenza è il cuore pulsante della poesia.
La porta
“Signore: è tempo. Grande era l’arsura.
deponi l’ombra sulle meridiane,
libera il vento sopra la pianura”.
(Rainer Maria Rilke, Giorno d’autunno)
Le tenebre mai più, non più l’abisso
dell’ora nona e il cielo che si oscura:
la porta è spalancata e sulla soglia
la luce irrompe ai margini del tempo.
Marchio potente, vita che ha bruciato
il sudario, spezzando le catene
della notte. La porta è spalancata:
libera il vento che ravviva il fuoco.
XXII maggio
Nel solaio dei giorni ho rovistato
a lungo: oggi cercavo una rosa.
Era nei Malavoglia! Tra le pagine
gonfie di spine e l’ombra del silenzio,
polvere amara che ha graffiato il tempo.
L’incenso di una sera. Poi l’estate
nel bicchiere, e la fragranza svaniva
tra le pagine e i roghi di novembre.
Haiku ispirati alle opere artistiche di Mario Fallini (1947, Alessandria)
(Sempre)
mesi e stagioni
nel vortice del tempo:
sempre è per sempre.
(La quinta stagione)
stagione amara
scoria di un tempo ostile,
vita non-vita.
(Corda d’arco e di lira)
tenebre e luce
nell’arco che dispensa
l’arte e la guerra.
Raffaele Floris. Pubblicazioni: Il tempo è slavina, ed. Lo Faro (Roma) 1991 – silloge poetica; L’ultima chiusa, ed. Joker (Novi Ligure) 2007 – silloge poetica; La croce di Malta, puntoacapo ed. (Novi Ligure) 2013 – romanzo breve; L’òm, l’aşi e ‘r pulóu, PiM ediz. 2016 – detti, proverbi e filastrocche in dialetto pontecuronese; Mattoni a vista, puntoacapo ed. (Novi Ligure) 2017 – silloge poetica
Questa scrittura si sviluppa come una continua corrente di parole che mirabilmente dispiega la coscienza del nostro comune destino: il vuoto, la dissoluzione, la fine, mediante tutti i simboli che ne caratterizzano la percezione e il pensiero. La prosa poetica di Ettore Fobo ha il dono di unire la precisione della scrittura in versi con le possibilità narrative della prosa, in un ritmo incalzante che rende ancora più intenso il senso di tutta l'operazione. Per mezzo "di una parola che illumina, moltiplica, ama il silenzio", dice l'autore. Tra distanze percorse e vicinanze del sentire, possiamo camminare al fianco di sogni e segni, tra citazioni chiare e crittate, tra conoscenza e idealità. In una scrittura che si rinnova a ogni passo del vagare nomade su questa terra.
La sapienza degli erranti
I
Per ora siamo coloro che abbinano il deserto alla sua eco ma quando saremo polvere, chi agiterà i nostri nomi, come gli stracci di un’antica gloria, troppo nascosta per suscitare invidia, ma fiabesca e cara agli dei, che nessuna lingua più nomina? Quando il nostro passo avrà esaurito il suo viaggio e la nostra voce sfiorato la danza fino a dissolversi in essa, chi saprà evocare un sogno dai nostri zeri e vedrà cifrato l’urlo che un verso paziente ha tessuto? Vittoria dionisiaca o squarcio di Munch, riecheggiante vastità; ora chi disseppellisce il canto, vanto del vuoto? Da quale anima sarò sfiorato quando la mia voce di polvere avrà detto il suo ultimo, e dunque più intimo, deserto? Quale sguardo congelerà le mie ossessioni in materia incandescente da spartire con le notti più enigmatiche?
Non potrò mai sapere quanta luce avrò sparso dentro il buio secolare, dove una magia maledetta dispone il suo caos, nel cuore disumano dell’ordine, io sveglio eternità dissolte nel tempo e celebro il vento che onora la pelle arsa dal sole e la sapienza dei vagabondi. La loro meta è la sfida della libertà, talvolta l’incantesimo di una parola che illumina, moltiplica, ama il silenzio, venera la notte che ti nomina poeta, il signore del labirinto, che sogna le lacrime di un dio che cadono nel mare di tutti gli attimi. Perché poesia è il nostro modo di sentici eterni, perché poesia è il nostro modo di sentirci, perché poesia è il nostro modo.
Vagare sì in cerca dell’attimo, in cerca del sogno o del segno; sotto un sole infernale che ci benedice, nell’atmosfera che riecheggia il fiume che stupì Eraclito.
II
Così se tutto scorre e non ritorna, il mare saprà accogliere anche la sorgente del nostro primo grido nella fase rem di questa esplosione, quando feti si galleggiava nell’enorme, apeiron di galassie vegetali, minerali, nimbo di un fulmine inespresso, sobillando attimi senza aggettivi, esplorando vertigini, monopolio del Tempo, si scavava in cerca del fiume carsico di tutta l’ebrezza, lontanando spazi, evacuando memorie quantiche di impressioni e misteriosa filogenesi di anfibi, illuminati da dentro da una forza cosmica abissale, formulando frattaliche epopee e chissà cosa; si navigava oltre le colonne d’Ercole dell’ Io sono io.
Molto prima che il pensiero imprimesse le sue orbite e la parola immaginasse il mondo ma non prima del tempo, del divenire e di tutta la cenciosa apparenza, la Maya dei tumulti e la paura. Prima che Dio unificasse il corpo e il pensiero ci esiliasse nella Dualità e la paranoia scrivesse il suo elogio funebre alla vitalità e alla gioia, prima che il carnefice umiliasse la nostra infanzia e la Grande Macchina imponesse il suo Tempo senza speranza. Prima che la parola dettasse la Legge dell’Automa e configurasse il labirinto di Babele e prima che il Programma Uomo fosse installato.
Cosa si era? Se non la grandiosa frase non scritta nel libro del destino, il maestoso silenzio che nella cattedrale sfida i ghiacci, il monologo senza pensiero di un viandante che segue solo il movimento di una musica terrestre, il vulcano segreto del sangue e dei nervi, il basalto inviolabile di un’ombra senza codici, un niente, soprattutto, impossibile da raccontare. Così, sarà stato come udire una musica e il frastuono d’acciaio dell’epoca.
Dentro la carezza senza mano il tuono che fortifica. Dentro l’incomprensibile tutte le risposte.
III
Ora che la fugacità insegna a tramontare, tramontiamo con un’ebrezza in fondo nuova.
Noi, che abbiamo ereditato la luna, non sappiamo più ritrovare là la nostra follia.
Lo specchio dove ci inoltriamo è una terra deserta. Il deserto è uno specchio che raddoppia il vuoto. La nostra maschera tradisce un volto assente. Dove non c’è più volto, il deserto regna. È il momento di disfarsi di maschere che troppo hanno atteso. È ora che il grido che gettammo alla nascita trafigga il cielo. È ora che il cielo si accorga di noi che siamo il suo specchio. La solitudine riconquistata è la prova che non hai sognato.
Sia fatta la volontà degli specchi!
IV
Soffio via i marosi del sentimento, mentre sbuffa il vento della redenzione, secco come terra arsa, lucido come la mezzanotte in cui l’altro ci appare in tutta la sua estraneità di sfinge. Poi scavo, forme esatte, le parole, per un teorema da scagliare nel tempo. Divengo la pietra e miagolo di notti mal spese, di rotte inclini al naufragio esistenziale, di attimi di sangue sparsi nel fango, di suole arroventate dall’asfalto.
In questa periferia in cui il mondo si decanta, per un momento sembra che ai margini della visione l’occhio mappi una strada non tortuosa, che le sillabe rincorrano aquiloni, proprio in questo cielo di seconda mano, intravisto danzare tuttavia al metro giambico, al sussulto dell’endecasillabo. Nella sfarzosa metropoli, la vita continua ad accadere, incerta; ora fragile, ora brutale, sempre contradditoria, mentre la spazzatura della Storia si riempie di idoli di plastica, farmaci scaduti, cieli vuoti, dei dal profilo di fuoco, ombre di vaghi e sognanti crepuscoli. La mezzanotte è irta di nascite, è il momento in cui la solitudine diventa sacra e il silenzio apre la mente per accogliere la musica esaltante dell’universo in espansione.
Siamo tra sogni e tra segni in quel luogo dove lo specchio ha mille occhi. Attendo la rivelazione che muove il mondo e so che ogni stella è una ferita di luce e che ogni ombra è un inno in cui il lamento degli esseri viventi è dissolto come l’essenza di un profumo.
Così ho abbandonato la mia faccia e sono maschera. Me stesso rimane sullo sfondo a interpretare sul palco la parte assegnata dell’assente.
Lo specchio sa che mi rifletto in lui per conoscere il mondo delle ombre. E con questo? Non sarò mai ombra abbastanza per partorire un dio, un labirinto, o una stella danzante. Torniamo allora all’oggettività della musica, alla sua ritmata odissea in cerca dell’origine riconquistata a ciò che smisurato ci eccede.
Ettore Fobo è nato a Milano nel 1976. Ha pubblicato tre libri di poesia con Kipple Officina Libraria: “La Maya dei notturni “ (2006), “Sotto una luna in polvere” (2010), “Diario di Casoli” (2015). Alcune sue poesie sono apparse in diverse antologie, fra le quali la raccolta connettivista “SuperNeXT”(Kipple Officina Libraria, 2011). Dal 2008 gestisce un blog di letteratura “Strani giorni” (www.ettorefobo.it). Collabora con la rivista multilingue “Orizont literar contemporan” e con il portale di critica letteraria e dello spettacolo “Lankenauta”. Una sua silloge, “Musiche per l’oblio”, è stata tradotta in romeno, in francese e in inglese.
La parola è l’immagine che si stacca dalle cose vere.
La parola è essa stessa una cosa, naturalmente. Il segno alfabetico, con la sua pelle di grafite, d’inchiostro, di pixel, ha una sua storia in ambito estetico. Tutte quelle modalità di lavoro sulla parola che si riappropriano del circuito mano-pensiero (o voce-pensiero) trovano le loro motivazioni nella consapevolezza che la parola è luogo privilegiato della produzione ideologica e simbolica ma consiste anche di autonomi valori visuali o fonetici.
Fusé si sofferma sull’ambiguità dei significati: la parola designa, la parola allude, la parola “osserva”. E quando nella sosta osserva e indugia lo scarto cresce.
Fusé dice che si può scrivere (di qualcosa) dopo molto, quando le cose sono ombre.
O molto prima, quando ancora fa buio. Come Emily Dickinson possiamo scrivere Buongiorno – Mezzanotte.
La parola è l'immagine che si stacca dalle cose
(dai Taccuini di Aldous Canti)
Talvolta penso di sopprimerla. Lei sa quello che mi passa per la testa. è la prima a saperlo. Rinuncia allora a inseguirsi. Si arresta e contempla le poche parole, sue consanguinee, sparse fra buffi segni che non coprono mai abbastanza. Il misfatto non si cancella.
Lei – la parola – simula la vittima che nel gioco implora il carnefice. Ne ha uno tutto personale. E lo sfida in una terra esposta ai venti, dal clima mutevole. Cerca una via di fuga e si camuffa, forse meschina, forse scaltra. Tutto questo per salvarsi la pelle. “Ma quanto vale la tua pelle?” le chiedo. “E la tua?” mi fa lei, pronta. L'autore è in sua balia.
Desiderare le prove peggiori pur di avere materia prima per la mano che sgrezza e tritura. Sei cinica, o parola. Insensibile alle ragioni. Perché raccontare questi avvenimenti e non altri? Qui o là, io o un altro. Non ti curi delle differenze. Qualità alta o melmosa, personaggi virtuosi o assassini, autore zelante o inaffidabile. Il tuo stomaco ospita qualunque cosa e chiunque e il suo contrario. Lì dentro ha casa la coincidenza degli opposti. Affamata come sei, reclami nutrimento. Il resto è chiacchiera, neppure da servire come stuzzichino.
La parola che si fa scrittura è porto franco o discarica?
Ma con quali parole sfamare – sfamarmi? La mia dispensa è senza provviste. Sì, c’è scatolame, poca roba, quasi niente. Cristo, siamo oltre la soglia del consumo. Cibo alla partenza già deprezzato, ora avariato.
Sempre la domanda, oziosa: “Che ne è delle cose?” Le cose sono laggiù, lontane. Fingo di non sapere e proseguo. La regola del gioco è questa e io la rispetto. Ma la scrittura, lei, viaggia separata dalle cose. E quando nella sosta osserva e indugia lo scarto cresce.
La parola è l'immagine che si stacca dalle cose vere.
Dovrei raccontare. Il racconto come dovere n. 16.790 (non ridete: ho conteggiato con scrupolo). Le parole, narcise onaniste, aprono la bocca e si divorano. Sanno come mangiarsi. In mancanza di cibo la bocca si fa cibo.
Fare presto. Le cose si scrivono hic et nunc o partono con il loro saluto (bye-bye: vedi – proprio tu, che sei l'autore –, come agitano delicate manine e candidi fazzoletti?). Anzi, neppure ti inviano un segnale. Non ne hanno il tempo. E tu alzi le spalle. Che sia pure così. Sai che puoi poco. Si perdono comunque, le cose. Forse che ritornano? Andiamo, signore e signori, siamo gente di mondo. Il nostro uovo si è schiuso parecchio tempo fa, e parecchio tempo fa la nostra testolina, chiedendo al collo lo sforzo massimo, ha fatto la sua capatina fuori. Come recuperare la prima occasione? Non recuperandola. Non ci sono macchine del tempo. Le occasioni svanite hanno il sesso degli angeli. E le parole, soverchiate dal mistero, annaspano spente.
Puoi odiare l’orologio, caro autore. Non curartene. Non possederne uno. Metterlo fuori uso. Spedirlo alla gogna. Quello ha modelli simili: fratelli, cugini, un largo parentado. Puoi fare incetta di ogni modello in commercio, distruggere tutti i depositi, tutte le fabbriche. Avrai pur sempre l’orologio che è il tuo corpo. In forma di segnatempo interiore o bene in vista sulla tua pelle. (Anche noi abbiamo i nostri anelli, come gli alberi.) O In forma di mano che scrive, certo. C’è sempre una lancetta che scatta in avanti, anche se il tuo orologio susperstite non la prevede. In ogni caso il tempo balza in là. E a ogni suo balzo, visibile oppure occulto, tu rimani al palo. Scrivi, presto, se non vuoi regredire all’alba del mondo, mentre il mondo va oltre. Oh, si può scrivere dopo molto, quando le cose sono ombre. Ma come restituire spessore, sapore? La polvere compromette la visione e ti fa tossire. Croste sommate a croste e il tuo raschiare che non si arrende. Quando ti spiani la strada, risaltano le cicatrici. E le residue parti ancora intatte sono spaiate: i compagni di vita sono ormai di morte. Nessuna sostanza per il gusto, solo i danni del rimpianto.
Adelio Fusé (1958) vive a Milano e lavora nell’editoria. Ha pubblicato saggi su Sade, Kafka, Sartre, Handke, Eno (Materiali Sonori-Auditorium, 1999), i romanzi North Rocks (Campanotto, 2001) e L'astrazione non è la mia passione principale (Manni, 2018), i libri di poesia Il boomerang non torna, Orizzonti della clessidra distesa, Canti dello specchio bifronte, L’obliqua scacchiera (Book Editore, 2003, 2005, 2009, 2012, segnalati al Premio “Lorenzo Montano”), La veglia del sonnambulo(Book Editore, 2016; candidato al Premio “Camaiore” e finalista al Premio “Lorenzo Montano”, 2016). Scritti critici, testi in prosa e in versi sono apparsi su riviste (“alfabeta”, “auditorium”, “Atelier”, “Il Segnale”, “La Ginestra”, “Legenda”, “Lengua”, “Sonus”, “Tratti”) e online in siti letterari (“Carte nel Vento/Anterem”, “Poetarum Silva”, “Vico Acitillo 124-Poetry Wave”). Ha fatto parte della direzione di “Legenda” (Tranchida, 1988-1995). Collabora con artisti e musicisti. Ha ottenuto un riconoscimento al Premio “Riccione per il teatro” (1981). Cura una rubrica di musica e poesia sul sito altremusiche.it.
L’annuncio di Maria Grazia Galatà coincide con il portare allo scoperto l’essere, ma non più al modo della metafisica, bensì come un cammino che chiama ed esige un dire finito, esiliato nella sua finitezza; anche e soprattutto quando progetta col pensiero il tratto di fondo del mondo abitabile.
Poesia come comprensione della vita, quella di Galatà. Poesia che implica una forma di vita e dà forma alla vita. Una migranza che impone una capillare analisi del mondo contemporaneo con un preciso riferimento al presente e a una sua lettura, diciamo così, socio-politica.
L’annuncio di Maria Grazia Galatà si affida qui al diario di bordo di un approdo dopo il naufragio.
***
che il silenzio rimanga
tra la porta della quinta
essenza o un tramite
dell’incandescente
la mira delle speranze
nella ripetizione di un
singolo respiro
***
la migranza dei nostri sogni
o l’affaticamento
di un silenzio ambrato
all’ora giunta
quando il ricordo era più forte
di un improbabile ritorno forse
il luogo delle ombre e un grammo
di vana fertile coscienza
la traccia silenziosa
di una città sospesa
***
Sospensione
non era che svilimento
del vuoto e il senso tattile
dell’abbandono
nello sradicamento del se
diverso
o tempo inverso
misericordia
ha cecità ataviche
aldilà della muraglia
Maria Grazia Galatà, nata a Palermo, da molti anni vive ed opera a Mestre Venezia; presente in numerosi siti web e cataloghi d’arte internazionali; fotografa da diversi anni sempre nella ricerca; 2002 partecipazione ad “underwood”, ad Ascona insieme ad altri nomi illustri della poesia contemporanea: Mario Luzi, Fernanda Pivano, Edoardo Sanguineti; 2003 ha editato il libro “Congiunzioni”, con fotografie di Costantino Spatafora, presentato da Francesca Brandes al “Bistrot de Venice” in Venezia; lo stesso libro è stato presentato in videoproiezione nel 2004 da Marco Nereo Rotelli all’Accademia di Belle Arti “Santa Giulia” di Brescia: Liliana Ugolioni e il Prof. Brunelli all’antico caffè “Giubbe Rosse” di Firenze: Gio Ferri alla galleria “DARS” di Milano; 2005 all’Istituto Romeno di Cultura di Venezia, propone una raccolta di tredici poesie “La struttura dell’ansia” accompagnata da due strumentisti, Luca Callice e Marco Agostini rispettivamente al Bendhir al Didyeridoo, con l’intento di avvicinare i giovani alla poesia; 2005 ha preso parte, in occasione della 51° Biennale di Venezia, all’evento “La notte dei Poeti” di Marco Nereo Rotelli con Ana Blandiana ed altri poeti di fama internazionale; 2005 partecipa con un’opera in collaborazione con Costantino Spatafora all’evento “Padiglione Italia” 13x17 curata da Philippe Daverio ed edito alla fine del 2007 da Rizzoli; 2006 è stata segnalata, tra le opere edite, al "Premio di Poesia Lorenzo Montano"; 2007 a giugno reading presso la fondazione Querini Stampalia di Venezia presentata da Marco Nereo Rotelli e con l’intervento di Achille Bonito Oliva; 2009 53° Biennale di Venezia, “Notte di Luce” di Marco Nereo Rotelli; 2010 con un’opera fotografico-poetica in “The last book” installazione di Luis. Camnitzer alla biblioteca di Zurigo, Svizzera; 2010 -Edita “L’altro”, poesie e fotografie con prefazione di Gio Ferri e videoproiezione; 2012 edita “Contrasti” scritture e fotografie con prefazione di Gio Ferri; video proiezione in collaborazione con Angelo Secondini; 2012 “Osservazioni Minimali” Mostra fotografica personale; video proiezioni con musica di Angelo Secondini; 2013 “Dice il vero chi parla di ombre” personale fotografica; presso la Galleria d’Arte dell’Istituto Romeno di Venezia. 2015 crea e cura “Congiunzioni Festival di poesia” 2015 “Venezia e luce” in antologia poetica di M.Nereo Rotelli 2016 “Simmetria di un’apparenza” Personale fotografica presso la Galleria d’arte dell’Istituto Romeno di Venezia; 2017 “Congiunzioni Festival Internazionale di poesia” 2° edizione.
Apparentemente una narrazione oggettiva, asettica, se non fosse per alcuni segnali che aprono squarci nella carena poetica. Azioni spesso compiute da personaggi silenziosi, che hanno il raggiungimento della staticità come scopo: i personaggi sono non in attesa, ma volontariamente isolati, ritagliano in realtà uno spazio impenetrabile intorno a loro. A volte, le azioni risultano paradossali: "donne si infilano lettere" una a una "nella bocca", sollevano il soffitto. Ma sempre c'è la misurazione della distanza tra i rispettivi vuoti. Irrompono però i ricordi a rompere la continuità spaziale con salti temporali. Nello spazio, il tempo va avanti e indietro, ma il soggetto è capace anche di diventare "incrostazioni sull'intonaco". A dimostrazione che nulla può essere mai veramente oggettivo.
***
La donna bianca annuisce o trema.
Vista di profilo annuncia
tempesta, giudizio, concordanza
difficile della parola al senso.
Le donne si alzano e la guardano.
Si appannano vetri dietro respiri.
Noi spegniamo la luce perché ora è notte.
***
L'uomo si sveglia sul balcone
e preferisce non guardare
dietro i vetri che gli fanno da schienale.
Il buio intorno è alto. L'uomo si tiene le ginocchia
misura con gli occhi la resistenza all'urto
in base alla distanza.
La donna nella parete di fronte dorme.
Solo le labbra continuano a guardarci e a domandare.
***
L'uomo in tangenziale fissa il vuoto
e l'auto rovesciata. La gente intorno
è agitata. Le donne sono arrivate
a raccogliere le sue cose.
Ogni tanto qualcuna è stanca
si ferma e fuma, seduta sul guardrail.
***
L'uomo in tangenziale si guarda intorno
e comincia a camminare. Fa pochi passi
barcolla, si stende sull'asfalto.
Le donne intorno all'auto adesso
dimenano le braccia, fanno cenni
ai fanali inchiodati. Noi ci mettiamo in fila
con gli occhi degli altri a guardare.
***
Da quando siamo finiti nella stanza più lontana abbiamo
cominciato a sparire, uno a uno. Se non possiamo guardarla
non siamo più sicuri di esistere. Alcuni non ce la fanno, hanno
paura, scompaiono. L'uomo che vive con lei ogni tanto apre la
porta e prova a farci uscire. Ci chiede di nascosto di tornare, ma
noi siamo soltanto incrostazioni nell'intonaco e non sappiamo
come fare. Se lei non viene qui scompariremo. Ad aspettarla
siamo rimasti solo in due. Non so se ci siamo scelti, so soltanto
che mi somiglia. L'altro sente quello che sento io, vede quello
che vedo io. Presto diventeremo una cosa sola e spariremo.
Carmen Gallo vive a Napoli dove insegna Letteratura inglese. Nel 2014 ha pubblicato Paura degli occhi, per L'Arcolaio, Forlì, tradotto in parte in francese da Clement Lévy per Remue.net, già finalista Premio Montano 2015. Nel 2016 è uscito Appartamenti o stanze (Edizioni D'If), una parte del quale sarà tradotto in Germania nell'ambito del progetto "Poesie der Nachbarn. Poets translated by poets" diretto da Hans Thill. Alcuni testi e sue traduzioni sono stati pubblicati su blog (tra gli altri Poetarum Silva, Formavera, Nazione Indiana, Nuovi Argomenti, Leparoleelecose ), in antologie e su rivista (Argo, Smerilliana, L'Ulisse).
Dal 2015 cura, con altri colleghi, il Seminario di poesia comparata presso l'Università di Napoli "Federico II", e nel 2016 ha partecipato al Laboratorio di poesia in carcere promosso dalla Fondazione Premio Napoli. Ha curato la nuova edizione e traduzione di Tutto è vero, o Enrico Vili di Shakespeare e Fletcher (Bompiani 2017) e ha da poco pubblicato un saggio dedicato ai poeti metafisici inglesi, L'altra natura. Eucarestia e poesia nel primo seicento inglese (ETS 2018).
Leggere, e soprattutto rileggere questa poesia di Fabia Ghenzovich tocca in profondità. Tocca le corde più sensibili dell’agire in versi: infatti Nudità non è solo una poesia ma anche una dichiarazione di poetica. Nudi, come veniamo al mondo, scriviamo; anche se la nostra voce aurorale nasce sotto “strati e strati” di deteriorate parole rese vane e vassalle da un uso sempre più strumentale e utilitaristico. La poesia, quando è tale, è voce dal fondo che per contrasto illumina le tenebre.
Nudità
Dico - la nudità -
qualcosa di integro insomma
come alba o natale ma corporale
dico ecco la voce pulita sotto strati e strati
la voce dal fondo che spiazza
ogni parola vassalla che non suona
che non filtra più la luce.
Fabia Ghenzovich è nata a Venezia dove vive. Ha pubblicato “Giro di boa” (Joker edizioni 2007), “Il cielo aperto del corpo” (Kolibris 2011- menzione speciale al premio Astrolabio 2013), riproposto in ebook su La Recherche, “Totem”( Puntoacapo Editrice 2015 – II° premio nazionale Anna Osti 2016, finalista al premio internazionale “Sulle orme di Leopold Sèdar Senghor” 2015, finalista al premio nazionale “Tra Secchia e Panaro” 2016, menzione speciale al premio Lorenzo Montano 2016 ). Ha avuto premi a concorsi di poesia: secondo premio per la silloge inedita al concorso Guido Gozzano 2009, terzo premio al concorso nazionale poesia scientifica Charles Darwin 2014. È inserita in numerose antologie tra le quali: “Blanc de ta Nuque” – uno sguardo dalla rete sulla poesia italiana contemporanea – a cura di Stefano Guglielmin (edizioni Le Voci della luna 2016) e nel Tomo II° “Il Fiore della poesia contemporanea” (Puntoacapo editrice 2016). Ha partecipato a numerosi festival tra i quali: Festival Internacional Palabra en el Mundo (Venezia 2013 e 2016). E diverse sono state, nel corso degli anni, le adesioni e partecipazioni a eventi di Milanocosa, tra le quali Menti e Mondi della Giornata Mondiale della Poesia del 2005, e Quintocortile del 2007.
Fra le due parti
Fra le due parti
la decisione
il facile
relativo apparente
è terribilmente difficile
la vita
ci abita dentro
armi chimiche
atomiche
la fionda che abbatte il gigante
tutto è un rebus
forse
facile da sciogliere
se siamo vivi.
Lino Giarrusso ha pubblicato quattro libri di poesia, tra cui: Cocktail, La tegola sul capo, Nel tempo (2006). Finalista in molti premi letterari come il “Montano” 2009. Nel 2017 è stato finalista al concorso letterario “500 parole per la narrativa” e inserito nell’antologia omonima. Nel 2018 è stato selezionato per l’enciclopedia “I poeti italiani contemporanei”
Partenze
Nel luogo dove riposa la ragione,
ci guardiamo l’un l’altro smarriti.
Là, nel punto dove s’alza
la polvere soffiata dal vento.
Gli uccelli sui fili decidono la rotta.
Resteremo ancora per poco.
Col vento che da ponente arriva,
s’attende lo strappo della fune.
Il lento sciabordare delle barche, ancorate
al molo, esegue la sinfonia dolente del distacco.
Lei dalla scogliera guarda. Un ultimo saluto
col rosario che la mano stringe, sul nero vestito.
S’alzano le vele, s’aspetta l’aire dai gravati
remi, mentre le campane giocano a festa.
Sonia Giovannetti è poetessa e scrittrice. Vive a Roma, dove è nata nel 1963.
Si dedica alla scrittura di poesie, racconti, saggi ed articoli letterari.
Recensisce libri, fa parte di molte associazioni promotrici di arte e letteratura, è membro e Presidente di Giuria a Premi letterari nazionali e internazionali; collabora con importanti riviste letterarie ed è collaboratrice di “Alla volta di Leucade”, blog letterario del Prof. Nazario Pardini.
Nel suo percorso associa la cultura con l’impegno civile, umanitario e ambientale.
Ha seguito un progetto di scrittura e lettura creativa "scrivere fa bene", prima con la Redazione Laboratorio Rai Eri, poi per l'Associazione Civita, seguendo la "scuola del racconto" e affrontando temi della narrazione e del linguaggio della comunicazione con Paola Gaglianone, nonché con Mimmo Liguoro per il giornalismo.
Su “Il Nuovo”(giornale d’area Roma nord) ha curato la rubrica letteraria “In punta di penna” con la pubblicazione dei suoi componimenti (poesie, racconti e riflessioni) tesi alla valorizzazione del territorio e delle tradizioni.
Le è stato attribuito il Premio Scriveredonna 2012 al Concorso indetto dalle Edizioni Tracce di Pescara, presieduto dalla poetessa candidata al premio Nobel per la letteratura Maria Luisa Spaziani.
Ha ricevuto la stella alla Carriera Letteraria dal Club dei Cento di Milano (2013).
Le è stato conferito dal Premio Internazionale Spoleto Festival Art Letteratura 2014 il Premio “Per i grandi meriti e gli importanti risultati ottenuti come scrittore e letterato”.
Le è stata assegnata la segnalazione per meriti letterari come donna scrittrice all’iniziativa “Noi sì - la forza positiva delle donne nella costruzione della società” da Roma Capitale I Municipio in occasione della festa della donna 2014.
Ha ricevuto il Premio Accademico per il 2016 e il 2017 dall’Accademia Internazionale di Significazione Poesia e Arte Contemporanea con le sue poesie a concorso.
Ha ottenuto il Diploma di “Poeta della Città ideale” dal Centro Lunigianese Di Studi Danteschi, in occasione del Premio “Frate Ilaro del Corvo 2017”.
Ha partecipato a diverse Rassegne di Letteratura e Festival, nelle ultime edizioni anche al Festival Musicale delle Nazioni di Roma, Teatro di Marcello, con lettura delle sue poesie.
Una sua poesia dedicata al “viaggio” è stata esposta a Torino, presso l'atrio della stazione della metropolitana Porta Nuova.
Partecipa a numerosi “reading” di poesia, tra i più ambiti nel panorama romano. Tra gli altri:
Le sue opere sono state recensite e presentate da illustri critici letterari.
Numerose poesie, racconti e saggi sono stati pubblicati da testate giornalistiche, Riviste e Antologie Letterarie.
Tra le raccolte poetiche, oltre alle Antologie dei premi letterari, si ricordano:
Premi letterari
1^ classificata:
2^ classificata:
3^ classificata:
4^ classificata:
Premio Giuria:
Menzioni d’eccellenza e d’onore:
È risultata tra i dieci premiati di poesia e narrativa al Premio Letterario Internazionale “Juan Montalvo” di Poesia, Racconto e Fotografia ispirato al tema: “Storie, geografie, paesaggi migranti e tutela dell’ambiente” indetto dal Consolato Generale dell’Ecuador a Milano in collaborazione con l’Università Bicocca, in due edizioni: anno 2014 e 2015.
Premio Speciale della Critica al Premio Internazionale di Poesia per la Pace Universale ‘Frate Ilaro del Corvo‘ XXXIII ed. dal Centro Lunigianese di Studi Danteschi (2015) con la poesia “Il tempo”.
Premio Speciale della Critica al Premio Internazionale di Poesia per la Pace Universale ‘Frate Ilaro del Corvo‘ XXXIV edizione dal Centro Lunigianese di Studi Danteschi con libro edito “Un altro inverno (2016).
Pubblicazioni:
Poesia:
Narrativa/racconti:
Itinerarium mentis in Deum
I
I sogni, sottili e densi, sono un insieme di moti effimeri che chiamiamo “la nostra esistenza”. “Nostra”? La vecchiaia toglie tutto e lascia tutto. Ci sono una panchina, prati, alberi, il cibo, la musica, l’incenso; e non c’è nulla. Il desiderio non ha fondamenta. Che cosa resta da sapere o da dire quando se ne va? Eppure l’Ineffabile è bello e amorevole. Si lascia godere completamente. Condividere. È completamente gratuito. Non richiede nemmeno che si presti attenzione alle trappole retoriche.
La poesia è l’incedere claudicante dell’umano. Va centellinata, studiata, celebrata. Redime dalla cecità. Il poeta non è una carcassa adagiata nell’avello; egli vive la bellezza e in simile godimento sublima l’apatia in gioia. Cammina verso nord, seguendo il fiat lux nel semestre favorevole. Ma subito dopo osserva l’animo incupire lo scenario. E per il sole inizia il viaggio a meridione.
Che la biancheria stesa nell’aria mattutina asciughi pure. Sono magliette, lenzuoli, teli gialli bordati da greche rosse e verdi. Gli occhi si avvicinano al mare. Se ne allontanano. La luna sorge e tramonta. Possiamo persino abbracciarla. Due anime nei corpi si toccano. Ci sono tenerezza, gratitudine… mistero. E silenzio. Si staranno riconoscendo dopo essersi cercate a lungo? Bah, non ha la minima importanza. Le anime cadono qua e la.
Talvolta compare una cinghialessa o un merlo canta tra le fronde del frassino maggiore dilatatosi a ombrello. In uno sbuffo sparisce persino il celeste impero. Una nuvola muta in continuazione e parla. Dice Essere, Essere o Shiva, Shiva. Esattamente quello che hai dentro. Questi piedi hanno calpestato l’India. Hanno levigato i sentieri sulle montagne, mentre i sambuchi si seccavano nel futuro e si rigenereranno nel passato. Ora conversano con il trifoglio sotto il salice. Persuadono le rose a rasserenare il viandante.
II
L’ingenuo pomposamente avanza a proclamare proposizioni assennate. Che ci mostri la differenza tra l’adesso e il dopo, tra passato e futuro, tra la rosa lì o la rosa là. S’aggrappa alla fisica travestita da metafisica, peggio ancora, alla psicologia declinata in chiave evolutiva. L’innato trascende con l’assolutezza della sua immanenza le approssimazioni del sapere. Quale sciupio l’attardarsi nell’“assennatezza”.
Possiamo nuotare insieme per l’intera durata della notte. Alle note di tale canzone nacquero i Cavalieri del Sole: briciola su spiagge immense. Quelli che elogiavano l’estatica bellezza del nuotare, i Lindisfarne, sono già spariti. Tra i nuovi arrivati ve ne sono alcuni ansiosi di riformulare il sapere. Eppure ogni pretesa di aggiungere o togliere è vana: buon Dio, c’è solo il Sé, l’Atman-Brahman! Quelli aggressivi e sgradevoli urlano alcuni minuti, poi si gettano nella fornace. Affermano angosciosamente di star male. Che prestidigitatori! Altri si lasciano guardare un po’ più a lungo. Pur non possedendo Conoscenza, irradiano bellezza. Per esempio, una bambina minuta coglie margherite nell’aura protettiva dello sguardo materno. La madre la difende dal mostro che eleva i balbettii della ragione a dogmi e scioglie il suo fardello in amore. È il dharma al quale non può sottrarsi. Il padre in disparte, tuttavia, va convertito all’unione. Altrimenti attraverso fratture e incompiutezze l’armonia si esaurisce.
III
Come potremmo godere qualsiasi cosa, se innanzitutto non “godessimo” l’Ineffabile? Il linguaggio è tutto sbagliato, ovviamente. L’Ineffabile non è res extensa, perciò non vi è alcuna sostanza pensante che lo possa godere. L’Ineffabile in nuce è meraviglia e stupore, ma nel contempo va benissimo “pregiarlo” quando l’accento devia sulla prosaicità. Include noia, irritazione, stanchezza. Per molti è Ishvara. Quello che si rende accessibile al pensiero e che Swami Karapatri chiama “Il Principio Shiva”, Shivatattva, un tutt’uno con Parameshvara, Mahakala, il Grande Tempo.
A ben considerare, quante stupidaggini si dicono e si vivono sullo sfondo della Conoscenza. Il più delle volte l’attività cela voglie inappagabili o il terrore del silenzio. Non importa, non lascia traccia. Tutte le aspettative non lasciano traccia. Gli esseri palpitano pochi istanti e spariscono. Lo stesso vale per il volto in cui si specchia lo sprovveduto innamorato. Lo si chieda agli insetti, ai giganti, agli astri. È il samsara.
Non si procede oltre il sole se non immergendosi in esso. Così i discorsi tacciono. Compreso quello sul procedere oltre. Albeggia la poesia, l’apparentemente insensato. In realtà significato eminente, intelligenza, bellezza. Foglia e profumo d’erba, giovinezza, vecchiaia, distruzione creatrice. Poiesis porge il cielo più sereno, il mare più azzurro, la falce sibilante. Strappa via la solitudine. Soffoca le lagnanze. Per ogni spirito poetico c’è una siepe alla cui ombra “naufragare”.
IV
Plaudire la forza nel sussurro, il sussurro nella forza, il conoscitore di entrambi. In una piuma d’anatra innalzare uno tsunami capace di abbattere mura ciclopiche e nella possanza del macrantropo inchinarsi al tocco del neonato. Illazioni se ne possono trarre: tutte errate o quantomeno incomplete. Se la notte è illune per la presenza di fitte nubi, non è lecito dire che la luna non ci sia. Trascese le antinomie, abbandonate le preoccupazioni accidentali, si liberi la letizia. Che il facile trionfi sul difficile. In tal modo non resta nulla su cui mercanteggiare.
Frotte di cacciatori con segugi setacciano le macchie rinselvatichite; passano accanto alla contemplazione e non si fermano. Urlano, s’azzuffano circa la corretta formulazione di definizioni che non hanno alcuna importanza, ma riguardo all’essenziale sprofondano in pantani malsani, oltraggiano l’intelligenza. Hanno la mente altrove. Sostengono di perseguire la contentezza e la cercano nel composto di “carne, sangue, pus, feci, urina, tendini, midollo e ossa”*, pregiato quale unica realtà da difendere ad oltranza o da divorare. Non avvertono l’odore immondo, o lo ritengono inevitabile scotto da pagare. Non fuggono, né si avvicinano. Inutile chiedersene le ragioni.
Per contro, nel qui brahmanico, l’aere sereno non pretende aggiunte o sottrazioni. Nessun commento lo turba. Se non ci sono scale o appigli, chi allora potrà accedere alle parole mai vergate dai rishi assisi al riparo d’alberi vetusti? C’è un altro Veda oltre i Veda. In esso le domande perpetue trovano soddisfazione. Il Maestro potrà ben esigere che l’aspirante gli allevî il fastidio delle mosche. Parrà che la differenza giganteggi ed arda. Il giovane faticherà a tener sollevate le palpebre. Sarà però soltanto mera sovrapposizione. La rosa si introdurrà tra i due, risolvendoli nell’Uno senza secondo. E la divina marea della Ganga custodirà, ponendolo sull’altra riva, lo sguardo dei Sadhu immobili da millenni.
*Visnupurana, cit. in Vidyaranya, Jivanmuktiviveka, p. 176, Mi 1995.
V
Il suono “albero” non rimanda di necessità all’albero. C’è un verbo impossibile da enunciare. Sfugge alla loquacità e al silenzio. Lo si rivolge al Mistero per propiziare albe e tramonti, mentre le stagioni corrono, sfiorando foreste. È il sovra-umano, l’inintelligibile. Quel che resta del cielo si china e osserva con interesse. Rimira il lago in cui la luce trascina. Vede ogni istante raccogliersi in se stesso. Ascolta con cautela. Carezza con grazia. Esige l’abbraccio. Convince.
Quel che difetta e quel che eccede si equivalgono. Non sono necessari istanti speciali. Il dire o il tacere spontanei aborrono l’untuoso celebrare genetliaci. Diversamente, perché dovrebbero occultarsi agli occhi delle folle? E palesarsi al folle, al baul vestito di stracci che procede scalzo, ricco più dei ricchissimi, poverissimo tra i poveri, generoso, incondizionato?
Sorge spontaneo l’amore per il dire che si trasfigura in musica, per la musica che indugia tra le alghe. Potrebbe sembrare che nel banale pervaso d’inenarrabile il non sapere prevalga. E invece siamo intrisi d’onniscienza, di fronte alla quale non c’è alcun Adamo che nasconda alcunché.
Il tedio si allontana dal kouros indifferente alle incongruenze. Che un’era trascorra in pochi battiti di ciglia non lo turba. È puntualmente il momento giusto per accomodarsi nel camminare o nello scrivere o nel morire, assediati da nugoli di sensazioni tacitabili. Per ringraziare la Cuoca che ogni giorno ci delizia o il Maestro dalle cui braccia pendono i lacci recisi. Nella prima sembra che prevalga la condiscendenza al sensibile, nel secondo, severità, distacco. In realtà non irretiscono nella contrapposizione. Ambedue lodano l’Ineffabile.
Giuseppe Gorlani è nato a Longhena (Bs) nel 1946. Dai venti ai trent'anni ha viaggiato a lungo in Oriente e nel Sud dell’Italia, soggiornando in Afghanistan, Nepal e alcuni anni in India.
È poeta, grafico, saggista e musicofilo.
Suoi interventi sono apparsi in varie riviste letterarie e di studi tradizionali, tra le quali: Convivium, Paramita, Poiesis, I Quaderni di Avalon, Viàtor, Conoscenza, Atrium, Letteratura-Tradizione, Spiritualità e Letteratura, Quaderni dell’Associazione Eco-Filosofica Trevigiana, Vidya.
Suoi articoli e saggi compaiono in siti online quali: Centro Studi Opifice, La nube e la rupe, Est Ovest, Rassegna Stampa di Arianna, Per una Nuova Oggettività, Corriere Metapolitico, Centro Studi La Runa, Centro Paradesha, Vidya Bharata, Fondazione Julius Evola, Politicainrete, PoliticaMente, Heliopolis, ecc.
Presso Il Cerchio Iniziative Editoriali ha pubblicato tre raccolte di poesie e disegni (Radici e Sorgenti, 1989; La Porta del Sole, 1990, Premio Letterario “Città di Roma” 1991; Nel Giardino del Cuore, 1994, con Prefazione di Emilio Servadio), una traduzione dall’inglese dell’opera Nan Yar di Sri Ramana Maharshi col titolo Chi Sono Io? (1995) e la raccolta di saggi Il Segno del Cigno - Sulle Tracce dell’Ineffabile (1999), con Prefazione di Adolfo Morganti.
Un suo saggio, Hippie: sadhu d’Occidente, compare nel volume antologico L’immaginazione al podere – Che cosa resta delle eresie psichedeliche, a c. di A. Castronuovo e W. Catalano, Stampa Alternativa, Vt 2005.
Con la prosa La parola ha ottenuto il riconoscimento di “autore finalista” al XXIX Premio Lorenzo Montano, 2015.
Presso La Finestra Editrice (Lavis-TN) ha pubblicato: Anatema (2000), una raccolta di prose poetiche; Uomo e Natura (2006), una raccolta di saggi, con una testimonianza di Guido Ceronetti; Visioni del Soma (2010), una raccolta di prose poetiche e disegni; Il Filo Aureo (2012), una raccolta di saggi con Prefazione di Giovanni Sessa.
Il meccanismo linguistico che l’autrice mostra in questa prosa è straordinario: sale in superficie una scrittura che fa delle visibilità il suo centro d’ampiezza, e lo mette in evidenza senza pudore. Nello stesso tempo però, ciò che sta al fondo e che fa da propulsore, non rimane nascosto nelle profondità sorgive, ma si manifesta in quella che è la sua scrittura. Un amalgama contratto, nervoso, altamente significante nella percettività dell’esperienza di un viaggio (nelle terre dell’est europeo e turche) e di un incontro (il Ghoul: il mostruoso). Ma questo, che potremmo considerare l’aneddoto (molto interiormente e validamente dislocato) è molto di più di una scena descritta: è un dire visionario che richiama il testo alla sua funzione specifica e originale: spingere la dimensione del senso là dove il sentimento dell’esserci prova un benefico attrito concettuale ed emotivo. Infatti l’apparente slegatura (e slogatura) delle frasi ne è un esempio che avvolge tutta la tela sintagmatica delle immagini e del racconto. Dunque il “mostro” (il Ghoul del titolo) che è, nelle parole dell’autrice, “meccanismo fuori controllo, schizzato via”, è sostanzialmente la narrazione stessa, beneficata da un linguaggio che è “masnada infernale” “che si insinua nelle fibre”. Dunque un caos, per sua natura inordinato, di folgorazioni e condensazioni, che diventa però matrice vitale di apparizioni umane e bestiali.
Ghoul
Da Vienna ritorno più a est, appena prima della città, grandi occhi cerulei, li ho di fronte, aperti al cielo, fissi nello shock, l’uomo di Bratislava, quello steso a terra, buttato giù, come un birillo da una Lada, il suo cane pezzato, piccolo di taglia, fuggire terrorizzato, trascinarsi dietro il guinzaglio legato al collare. Sullo sfondo le baracche di legno degli operai, non ci sono più, la città è nuova. Riordinata, pavimentata, sfiora l’efficiente modello occidentale. Dal costone, a picco sul Danubio Dowina, dall’alto della sua postazione, ricorda ogni cosa, dai Celti a quel giorno, forse anche di me.
Dalla finestra la sera è subito blu, ricco freddo vellutato lunare, distante più in là, il confine ucraino in linea d’area, aleggia su di noi, come una nebbia mistica, nella cappa di cenere la Foresta Rossa l’immagino, navigare immersa ancora, nel pulviscolo radioattivo dell’ottantasei.
Da Budapest a Oradea, lungo il percorso gente a piedi, un carrozzone coperto, tirato dai cavalli. Zingari romanizzati, tarchiati, capelli stoppa, occhi da fiere, come voragini le bocche. Rallento, ci fermiamo. Vorremmo fare una foto, loro si mostrano aggressivi, muovono verso di noi, correndo.
Hanno degli orsi, al seguito, al ferro, l’anello al naso pesa, la catena breve li costringe a camminare in piedi, accanto agli aguzzini. Sono due, ne ricordo solo uno, quello a sinistra, ho fissato il suo occhio liquido che nel mio, guardava il sole velato dal pallore freddo del giorno, appena iniziato. Quando non serviranno più, li mangeranno. Inferno. E io zitta. Un buio attraversato, un mare sopra l’apnea un gioco duro. Non ho agito, non ho fatto nulla, riappare l’orso, mentre quasi sto sorridendo mi spegne sulla faccia la sua sofferenza.
Per riparare, muoio, rinasco, mostro anch’io. Non è nulla di comune un mostro, se sa di esserlo, la solitudine lo tempera, si lascia una scia, smeriglio, la mina aguzza è pronta a incidere la faccia ridisegnare i tratti, ridiventare. Intanto assente, resta distante, lasciarsi avvicinare, un lusso a cui non cedere, può precedere il tocco. Chi manca, non può essere toccato, solo avvertito, appena.
L’inferno come un ago si insinua nelle fibre, dove fa squarci, ricuce. E, se è la luce ad attrarlo, lavora meglio al buio, mi è stato accanto, poggiato sulla spalla sinistra. Installa visioni crude, si apre un varco, fa vuoto all’interno, deforma il cuore, consegna all’ossessione, rende irriconoscibile ciò che è bello, innocente, integro, ne fa scoria, e l’abbandona poi, sotto gli occhi di tutti, mostrandone la buccia impietosamente aperta, a sostenere, che era soltanto, cartapesta pitturata.
La ferrovia tagliava il bosco, balenava un’ombra, dicevano. Ingoia, quell’ombra a volte rigurgita. Stava lì accosciata, a divorarsi il conformismo, scienza dal travestimento rozzo teso all’apollineo per assicurare fedeltà, a una perfezione solo riflessa, una finzione. Un uomo funzione del regime robotico, nel subbuglio, tra un treno e l’altro, l’uomo del momento, curvo nel caos, mangiava.
La collettivizzazione delle campagne ucraine, era già stata, morte per fame inflitta, masse indefinite all’inferno. Legione il potere di contare, identificare numeri, e di numeri si nutre, il Ghoul.
Solo un meccanismo singolo, fuori controllo, schizzato via, come chiamato in causa messaggero sterminatore, preludio di nuova catastrofe, l’annientamento imminente a est. L’ingranaggio statale, non cederà per questo, ma poi andrà dritto verso il casino, in ogni bordello a ovest molte ragazze ingannate, dal mito del progresso.
Tragedia, nessuna colpa, il demone protagonista, sotto l’impalcatura della fronte, vive il suo film muto. In gabbia, libero nella camicia a scacchi, senza la moretta sembra servire, solo se stesso.
Al processo la verità, è che, non c’è uomo che riesca a sostenerlo quello sguardo, qualcosa incombe nel gregge recintato dai burocrati del diritto. L’ombra antica del mondo forse, chiede il suo conto al sostituto di Dio, che a leggi naturali, ha contrapposto il piano tracotante, sagomare materiale umano senza respiro, divino.
Deve aver visto, la masnada infernale passargli accanto, gli arde negli occhi, è rotto, è in luce, ampia la bocca come uno sbadiglio osceno il sorriso assoluto ebete girovaga per la sala caos dionisiaco quasi, sfiora il sublime quella primordiale terrificante faccia di stella accesa brucia, l’area oscura del tribunale ipocrita, che giudica un’altra identità soggetto in metamorfosi, ormai estraneo all’unione, lupo, figlio perfetto della Terra. Non resta che servire l’ultimo atto, stabilito il confine del lecito, il colpo è alla nuca. L’orchestra grida forte che è finita la strage. Dicono, andrà a occidente, Andrej, studiato dai fisiologi. Gli psichiatri smonteranno il suo cupo universo, i chimici ne estrarranno un farmaco, forse anche l’antidoto.
Da Brela a Varna, in auto sulla chiatta, il tratto d’acqua è breve, siamo diretti a Istanbul
Ai ristoranti servono gli uomini prima delle donne. Il lakké, solerte, spazza briciole al cambio dei piatti che il cameriere serve, e se chiamato per una comanda, non risponde, non è il suo ruolo.
Bambini ai semafori, puliscono i parabrezza alle auto, lire, fiorini, sorridono accettano ogni moneta, non solo marchi e dollari.
Senza identità dentro una divisa, qualcuno in una traversa, si fa capire, un mix di anglo francese bisbigliato, condito da abili ammiccamenti, procura ogni cosa dice, documenti, armi, donne al bisogno, droghe per tutti i gusti.
Al Gran Bazar, ricco di ori, spezie, veri falsi d’autore, i mercanti, sparano alto sul prezzo, mentre trattiamo, alle spalle gorgogliante dal pendio, una cascata d’acqua scorre e quasi ci investe. Riparati all’interno di una bottega, fra sacchi di curcuma, l’onda era forse ciò che aspettavo. Superato il primo stupore, ridono i turisti e le signore che hanno già fatto spese, dopo questa emozione subito ne vorrebbero un altra, e da bere, navigare il Bosforo, visitare il Topkapi. Solo dettagli sostano intorno.
Del viaggio, dei luoghi del tempo che trattengo, niente trapela da me, neanche una goccia fuori.
Iria Gorran (1957) ha origini croate e formazione classica. Fa esperienze teatrali in Sicilia; segue studi di Architettura a Roma. A Firenze frequenta l’Università Inter- nazionale d’Arte e l’Atelier di Paola Bracco. A Genova lavora al restauro degli affreschi della chiesa della San tissima Annunziata, con interventi di ancoraggio e con- solidamento. A Milano frequenta la scuola di Pinin Bram- billa Barcilon e si occupa del Cenacolo di Leonardo. A Montalto Pavese lavora al restauro di tele del Seicento nella pieve di Sant’Antonino Martire. Testi di riferimento: Il corvo e i racconti del mistero di Poe, la Commedia di Dante. Ancoraggi filosofici: la scuola ionica di Mileto e Parmenide. Risiede per lunghi periodi a Vienna e a Londra. Attualmente vive a Torre d’Isola (PV). Vince “Opera Prima”2018 Anterem edizioni con la raccolta “Corpo di Guerra”.
La pelle sbucciata
La pelle sbucciata,
nudo sulla strada
del mondo,
dove s’incontra
nessuno.
La parola cede
in un attimo,
sillaba soltanto,
lo sguardo rabbercia
l’attorno.
Il vento arriva
dall’infinito,
arcuando i fiori
che sbocciano
ai bordi, ai confini
della nostra proiezione.
Le caditoie del nulla
presto inghiottiranno
le sostanze dei sensi
nei gorghi orari
degli emisferi boreali
Dopo studi in giurisprudenza ed incarichi in aziende multinazionali, Danilo Grossi attualmente lavora in ambito Istituzionale e si occupa di problematiche sindacali, con particolare riferimento alle dinamiche contrattuali ed alle relazioni pubbliche. Ha partecipato a concorsi letterari ottenendo premi, riconoscimenti e segnalazioni. Numerose sue opere sono inserite in antologie poetiche. Ha pubblicato con la casa editrice il Filo una raccolta di poesie intitolata “Le conseguenze” e con Edizioni Associate un racconto nel libro “Writhink”.
Se tutto non è analogo a tutto, ciò che appare particolare lo è solo perché estratto dall’insieme, allora bisogna minimizzare le differenze per ricondurre anche il particolare nell’albero di un fenomeno originale, che possa situarsi nel luogo in cui tutto era, appunto, indistinto. Cogliere l’epifania dell’evento e collezionarne la serie. Il testo asciuttissimo si svolge in parallelo al dispiegamento di immagini fotografiche che non si devono interpretare come un commento, ma, appunto, come un discorso visivo complementare. All’interno di questa dinamica vige sempre equilibrio perché vi è equivalenza: “Le modalità di rinuncia: “l’abolizione delle modalità umane”, oltre che trasformazione: “un punto: ferma e continua”. È abolito così, almeno nel passaggio dall’individuale all’universale, anche ciò che arresta l’azione: la morte. La memoria non deve ostacolare e il raffinatissimo dialogo tra bianco e nero rende la calma una durata senza scansione cronologica.
Il balbettio del senso
Tra visivo e sonoro, senso e non senso, apparenza ed equivoco, la costruzione poetica Chiunque di Gian Paolo Guerini appare pensata appositamente per depistare. O, meglio, per lasciare che qualcosa riesca a manifestarsi nel semplice accadere del testo.
“Testimoni di un originale disperso, forse mai stato”, ci indica l’autore, sono Chiunque, che “non è detto che sia”, e Nessuno, che “non è detto che non sia”, che si rispecchiano, lungo i sedici duplici scritti che compongono la raccolta, di volta in volta in una stessa trama poetica, diversamente interrotta da cesure nei due testi bifronte e resa irriconoscibile nelle sue strutture grammaticali, sintattiche e semantiche.
Una rifrazione simmetrica e asimmetrica nello stesso tempo, tra le tante contraddizioni disseminate: poesie apparentemente illeggibili nel loro balbettio sonoro, una lingua franta e spezzettata non parlata da nessuno, l’originale che è e, insieme, non è disperso.
L’originale sarebbe infatti facilmente ricomponibile: basterebbero atti di paziente razionalità per rendere leggibili e comprensibili i testi, ma, seguendo le indicazioni dell’autore che richiede “un lettore che rinunci, fin dall’inizio, alla propria capacità di intendere. Accettante l’incompiutezza e abbandonato alla résonance de la langue e alla magia del terzo suono di Tartini”, è proprio nel lasciarci cullare dalla duplicità del balbettio sonoro che potremmo essere in grado di percepirne uno ulteriore. Come nel captare gli armonici sonori, dove nell’ascolto di due suoni ad un determinato intervallo, si produce la percezione di un terzo suono, che in realtà non esiste, così l’autore ci chiede di muoverci nelle duplici sonorità, contrapposte e sovrapponibili, al fine di cogliere quanto di assente e di oltre si celi.
Salvo poi farci scoprire, nel glossario al termine della raccolta, che l’originale in realtà non è disperso e che una nuova contraddizione ci attende al varco: poiché la trama poetica è colma non solo di risonanze, ma di un senso specifico che ci conduce ai testi sanscriti, ai loro principi e ai termini che li caratterizzano. Sono termini che fanno riferimento al principio e al trascendente, alle divinità vediche e alle realtà sensibili, al respiro e alla forza vitale. Così come alla sillaba sacra, alla parola creatrice.
Allora pare che Gian Paolo Guerini nella sua raccolta, insieme strutturata e colma di contraddizioni, lacerata e assetata di senso, non intenda tanto mettere in atto una ricerca sull’incompiutezza della lingua e sul valore dell’abbandono alla risonanza sonora, quanto piuttosto, diremmo, una narrazione inconscia dell’assoluto per suono e cesure. Protesa a far emergere quanto di unitario nasconda la frammentazione, quanto di profondo si celi nell’indicibile.
Del resto, cosa sarebbe la poesia se non accogliesse la contraddizione che la anima? E cosa se non contenesse in sé l’indicibile, l’inconscio, l'assente, riuscendo a parlare per frammenti, a fronte dei nostri vani tentativi di ricostruzione, e tentando di condurci, se pur umanamente votati allo scacco, verso il principio?
Nota dell’Autore: CHIUNQUE (voce a sinistra) e NESSUNO (voce a destra) sono i due testimoni di un originale disperso, forse mai stato. Si atteggiano a sordidi e adiafori personaggi di una commedia che tradisce le mute parole intese dall’occhio, per ridarcele in un balbettio implacabilmente e irrimediabilmente coniato e revocato. Non si può rimanere fedeli all’originale (in quanto disperso) né accontentarsi dell’ultima stesura (in quanto difficilmente decifrabile). Incurante delle attese della filologia, la commedia inarca una desinenza equivoca a sostegno di una cattedrale ormai in rovina: chiede un lettore che rinunci, fin dall’inizio, alla propria capacità di intendere. Accettante l’incompiutezza e abbandonato alla résonance de la langue e alla magia del terzo suono di Tartini.
1 CHIUNQUE
ciso no trat
tidina tura lezza
chen onposson o
esse reequi voca ti
si spe gneu nastel
lasi scuri sceuns ole
maun pas soè unpas so
chesi aav antiche
siaindi etro
no nhalas tessa
im portan zad
isa pere do
veanda re
mipo trai
trova requi
sene vica osene
vicaf orte
an cheinven tar
sidire mare
con troven tonel
labo naccia
1 NESSUNO
cis onot rattidi
natura lezza
cheno npos sono
esse re e
qui voca tisi
speg neu nastel
la si scuri sce un sol
e ma unp as soè unp
as soches ia avan
ti ches ia
indi e trono
nha las te ssai
mporta nzadi sa
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Gian Paolo Guerini è nato toro verso la metà del XX secolo in una piccola città equidistante da Milano, Bergamo, Brescia, Cremona, Pavia. Dopo studi disordinatissimi, non ha voluto laurearsi in teologia con una tesi su Þe Clowde of Vnknowyng. Si batte da sempre, estenuamene, per liberare l’arte dalla cultura. Non ha mai ufficialmente pubblicato, tranne sporadici quaderni autoprodotti destinati ad amici, per la maggior parte in 10 copie (ma alcuni, in un impeto di presunzione, fino a 30 copie). Qui si trova tutto: www.gianpaologuerini.it (o quasi).
Da “Sulla soglia”, Samuele Editore, 2017
4 luglio 2016
la paura è un morire piano
calma piatta nella gola
un arto alla volta
l’acqua che sale.
25 giugno 2016
qui è un filare anche il carezzare
tra ferite allineate
che non sono trama di parole
o la danza dell’ossigeno
che misura le presenze.
22 giugno 2016
grida distanza la valigia chiusa
sentieri stellari dietro lo spigolo quotidiano
perché morire
è solo vivere a rovescio.
***
vivere a prova di qualunque
garanzia – morire
sgombra tutte le stanze
Monica Guerra è nata a Faenza il 4 ottobre 1972.
Raggi di luce nel sottosuolo, pubblicata nel 2013, è la sua prima silloge monografica, con cui vince il primo premio al “Concorso Biennale dei Monti Lepini XVI edizione”, un diploma d’onore al concorso “San Domenichino, 55a edizione” ed è finalista al concorso “Insieme nel mondo 2014”.
Nel 2014 pubblica il saggio, con il sociologo Daniele Callini, Il respiro dei luoghi, edito da Il Vicolo. Nel 2014, 2015 e 2016 riceve la menzione speciale al concorso Dino Campana, La poesia ci salverà.
Nel 2015 pubblica una seconda silloge monografica Semi di sé, con la casa editrice il Ponte Vecchio, finalista al premio Giovane Holden 2015 e menzione speciale Premio Salvatore Quasimodo 2015. Nel 2016 è terza classificata per la poesia edita Premio Città di Martinsicuro.
Nel dicembre 2016 pubblica Sotto Vuoto, con la casa editrice Il Vicolo, che vince il primo premio Giovane Holden 2017.
Nel 2017 vince il primo premio, poesia inedita, del concorso Gutenberg, con giuria presieduta da Maria Grazia Calandrone.
Nel 2017 pubblica Sulla Soglia (Samuele Editore, 2017), silloge auto tradotta in inglese con la collaborazione del poeta Patrick Williamson.
Articoli e poesie sono presenti nella rivista Graphie, nel sito della Libera officina per la crescita umana e sociale e all’interno di antologie contemporanee.
Collabora con enti e associazioni a sostegno di iniziative culturali e letterarie sul territorio, è inoltre presidente dell’associazione IndependentPOETRY. L’associazione, che si occupa della divulgazione della Poesia, organizza la rassegna poetica POETRY, il Festival di Poesia Tres Dotes e IndependentPOETRY in collaborazione con il MEI (meeting etichette indipendenti) oltre ad altre manifestazioni poetiche.
Da “Turbative siderali”, Terra d’ulivi Edizioni, 2017
Genealogia di un’assenza
I
“Dimmi, che voce ha il dio dei deserti?”
“Cosa ti rimane di quella notte?”
I temporali negli specchi
e nessuno spazio vitale
oltre la curva del sonno.
“Muta la tua pelle che non torno”.
II
Tu la chiami deriva
io dico che non c’è preghiera
più grande del mare.
Giovanni Ibello è nato a Napoli l’8 febbraio 1989. Laureato in giurisprudenza alla Federico II, lavora presso uno studio legale che si occupa di diritto civile. Da gennaio 2012 è iscritto all’ordine dei giornalisti della Campania (categoria pubblicisti). In tale veste, scrive regolarmente di calcio. Segue come inviato e “match analyst” le vicende sportive della SSC Napoli. Ha pubblicato sul web poesie e approfondimenti critici sulla poesia contemporanea, facilmente reperibili sui principali lit-blog italiani. “Turbative siderali” è la sua opera prima.
Stefano Iori dedica un omaggio a Giuseppe Ungaretti, prendendo spunto da uno dei suoi testi più rappresentativi, tratto da La terra promessa.
Sembra una mimesi stilistica, un omaggio che richiama in maniera naturale il pre-testo.
I “Cori descrittivi di stati d’animo di Didone” sono in tutto 19, e Iori, con il suo gesto fedelissimo ci consegna il ventesimo, l’ultimo: l’”Ultimo stato d’animo di Didone”, che comprende i precedenti, talora quasi citandoli, pensato come un riassunto, l’appendice a un capolavoro.
Il distico finale di Ungaretti “Deposto hai la superbia negli orrori, / Nei desolati errori” viene ripreso da Iori in “Lascia la terra dei desolati errori / Cerca novizie gemme di stupore”.
L’omaggio è ardito e risolto dal poeta contemporaneo con un verso finale di notevole intensità: tutto rinviene e si sospende, dove le cose “aspettano, là dove non ti trovi”.
Sottesa al testo ungarettiano c’è la nitida presenza di Virgilio, conterraneo e sicuramente amato da Iori (tanto che gli ha dedicato un festival): possiamo pensare a un doppio omaggio.
Ultimo stato d'animo di Didone
Omaggio a Giuseppe Ungaretti
Nella tenebra, attonita e muta
traversi campi vuoti d'ogni grano
Al tuo fianco più nessuno aspetti
Tremore sottile in vele d'indugio
t'accoglie e avvolge, antica notte
dove vagheggi con occhi opachi
senza più nebbia a soffiar sogni
Incerta, furtiva, in dormiveglia
trarresti dal buio un'ala enorme
a ricoprirti di quiete sperduta
È città desolata la tua memoria
macerie perdute, fetori d'ansia
pronti a svanire nell'ultima viltà
Lascia la terra dei desolati errori
Cerca novizie gemme di stupore
Chiamano il nome tuo, le senti?
Aspettano, là dove non ti trovi
Stefano Iori è nato a Mantova nel 1951 e ha studiato Giurisprudenza all'Università di Parma. Dal 1979 al 1985 ha svolto un'intensa attività teatrale e televisiva, in Italia e all'estero, come attore e regista. Debuttò come saggista nel 1992, firmando il volume Scritture del teatro (edizioni Provincia di Mantova). Iscritto all'Albo dei Giornalisti Professionisti, è stato redattore del quotidiano La Voce di Mantova dal 1992 al 1999. Si è rivelato al pubblico e alla critica con la filmografia ragionata I Grandi del cinema - Tinto Brass (Gremese Editore, Roma 2000). Ha collaborato con vari editori in qualità di curatore, fra questi anche Editoriale Giorgio Mondadori. Ha firmato quattro libri di poesia: Gocce scalze (Albatros Il Filo, Roma 2011), Sottopelle (Kolibris, Ferrara 2013, con prefazione di Gio Ferri) e L'anima aggiunta (Edizioni SEAM, Roma 2014, con prefazione di Beppe Costa e traduzione in inglese a fronte – ristampa per i tipi Pellicano, Roma 2017), Lascia la tua terra – Sinfonia del congedo (Fara Editore, Rimini 2017), con brevi note di lettura di Flavio Ermini, Giò Ferri, Rosa Pierno, Ida Travi). Nel 2015 ha pubblicato il romanzo La giovinezza di Shlomo (Gilgamesh Edizioni, Mantova). È direttore responsabile della rivista di poesia Versante Ripido e dei Quaderni del Premio Letterario Giuseppe Acerbi. È direttore artistico del Festival Internazionale di Poesia Virgilio e del Sirmio International Poetry Festival, nonché coordinatore del Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio. È studioso di cultura ebraica.
Visioni d’altrove
Si nutre delle suggestioni delle opere di Salvador Dalì, in dialogo poetico con le stesse, la raccolta Dalìrium (In Dalì’s rooms) di Vincenzo Lauria. Propriamente in comunicazione diretta con l’artista, considerato dall’autore, in uno dei tanti giochi linguistici sparsi tra i testi, “mia Salvazione”, nel sentirsi parte delle visioni, o meglio delle ultra-visioni, che i suoi lavori spalancano sull’altro e sull’oltre, come leggiamo nei quattro testi bilingue che aprono la raccolta, a lui dedicati, nel colloquio con i suoi mondi e con le sue parole: “Attraverso la porta delle tue Visioni / la mente amplifica mondi…./ proiezioni multiple attendono / il non dove…/ immagini di altri Noi”. Così le immagini, multiple e in continua rifrazione, costellano i testi, nel loro intensificarsi, senza schemi razionali, in una erranza fluttuante: “Perché ti cerchi / se non c’è approdo? / E’ nel perdersi / - magico - un delirio”.
E se delirare è propriamente, dal suo significato etimologico, uscire dal solco, non è altro che a questo che veniamo condotti: nei fuori-immagine, nei fuori-cornice, nei fuori-confine, oltre l’apparenza, in quello che, per l’autore, è “il viver mio in un altrove”. Questo andare oltre appare caratterizzare la poetica di tutta la raccolta, in tensione continua verso una diversa realtà: “Accolti nell’inverosimile / sappiamo di un’altra dimensione / evocazione di un essere oltre misura”.
Ed è la dismisura a connotare la molteplicità delle proiezioni a cui assistiamo, in una tensione inarrestabile verso “l’estremo oltre”, protesa, nelle sue immagini vertiginose, ad un altrove collocato al di fuori della realtà e insieme nell’interiorità più profonda.
“Il surreale sta dentro / nel forse capovolto / che sa di certezze altre”, dichiara l’autore, alla ricerca di ciò che appare inconoscibile e oscuro, per il quale occorre uscire dal controllo della ragione e tendere a livelli di pensiero e linguaggio più profondi e più veri: “Eppure basterebbe perdersi nell’imperdibile / e carpire l’incompreso / del non senso / andando a senso. / Lì in quel punto dell’impossibile / sta l’abbandono / il precipizio buono”. E proprio in questo la parola poetica, come l’arte, può riuscire ad esprimere la sua massima tensione: nella ricerca del vero oltre la realtà visibile.
“In mano d’arte / sta la Poesia”, ci indica l’autore, nel cogliere quanto le due modalità tendano allo stesso fine: fare delle immagini e delle parole l’atto creativo che consenta di accedere all’impensabile, di avvicinarsi al senso delle cose, per quella, come scrive, “verità che è il ritrovarsi in arte”.
Una verità che Vincenzo Lauria ricerca, attraverso i suoi versi, nel delirio che conduce oltre, nella fluttuazione che non conosce confine, come dichiara: “Non poter immaginarsi diversamente / perché è in questo non confine / che giace / la meraviglia tutta / dell’essenza / essenza”.
Cieli
Esterrefatto all’abbandono
non batter ciglio
la fissità dello sguardo
rammenta
il viver mio in un altrove.
Tremante
ravvicinarsi
per un incontro nuovo
un toccarsi
per dita in punte,
un dir di parole mute
m’avvolge in quadro
e sono raffigurazione esterna
per quel che di me
è dato di( )svelarmi
sussurro a porte chiuse
intorno al cielo.
Gusci
In guscio
l’incubazione di un nuovo dove
traspare,
liquida costellazione
a farsi fissità stellare
un mangiarsi le carni
in autoriproduzione.
E’ nell’anelito la salvazione
un varcar la soglia
per non sapere dove.
Bruciano i tempi dell’infinito
e nel non bastarsi
si crepano le protezioni
viver d’altro di sé
in proiezioni.
Poesia
In coda al destino
è un’unica parola
a dir della magnificenza
del gioco.
Né mai vidi a sufficienza
per dir di tua grandezza
ché pure il tempo
si scioglie in alcunché
per passar dell'oltre.
In mano d’arte
sta la Poesia
e sedendo in te
l’ascolto
di pura voce
seduce.
Vincenzo Lauria, nato nel 1970, inizia la condivisione del suo percorso nel 2001 all’interno di “Stanzevolute” gruppo di 11 poeti selezionati da Domenico De Martino (collaboratore storico dell'Accademia della Crusca e docente universitario di Filologia Dantesca a Udine).
Dal 2010 collabora con Liliana Ugolini ai progetti multimediali Oltre Infinito, Oltre Infinito 2.0, OL3 Infinito, Oltre Infinito 4 (Le stanze della mente). Dal 2012 Collabora con l’Associazione Multimedia91- Archivio Voce dei Poeti.
Ha partecipato a più di 40 reading e stampato in proprio 4 sillogi.
“Teatr/azioni” è stata pubblicata, con prefazione di Laura Caccia, da Puntoacapo nel 2018.
Riconoscimenti:
Mar 18: Premio “I Murazzi” 7° edizione è tra i 26 selezionati con la raccolta inedita “L’In/cubo di Rubik”
Lug 17: Premio Lorenzo Montano 31° edizione è tra i 5 finalisti con la raccolta inedita “Teatr/azioni”
Giu 17: Premio Letterario Casentino 42° edizione è tra i finalisti e riceve il Premio Speciale della Giuria con la raccolta inedita “Alberi Improbabili”
Set 16: Premio Casa Museo Alda Merini I edizione è tra i 20 finalisti con la raccolta inedita "INF – INFernità IN Fieri”
Lug 16: Premio Lorenzo Montano 30° edizione segnalazione per la raccolta inedita "Oltre Infinito” scritta con Liliana Ugolini
Giu 16: Premio Nazionale Elio Pagliarani II Edizione - la silloge inedita “Teatr/azioni” è tra le 9 semifinaliste.
Giu 16: Premio Internazionale Città di Como – III Edizione: la videopoesia “FEDRA” (in 3 minuti) è tra le 3 selezionate (video: Vincenzo Lauria, musiche: Tommaso Pedani, testi: Liliana Ugolini, voce: Gaia Nanni)
Mag 16: Festival Visioni Shakespeariane 2016 selezione e proiezione del video blob “OFELIA – (Rilettura)”, testi poetici di Liliana Ugolini, Montaggio video: Vincenzo Lauria.
Nov 15: Premio Lorenzo Montano 29° edizione segnalazione ricevuta per la raccolta inedita "Le stanze della mente” scritta con Liliana Ugolini
Da “Angina d’amour”, Arcipelago Itaca 2018
Nessun amore è un amore
se non ha almeno un’intercapedine
Ci persegue una domanda
- ma come fare
come fare a riconoscere l’amore? –
Poi alla fine succede un fulmine
dietro resta il coro dei paurosi
Ci siamo amati una volta sola
in questa vita e forse in un’altra
sopra l’abito della domenica
ci siamo indossati divorati
baciati e sparati in bocca
un alfabeto intero
Non toccare più niente
neanche lo scalmo che ci sorregge
Giulio Maffii dorme abitualmente dal lato della porta, ma non disdegna il lato opposto. Osserva il mondo dagli zigomi delle finestre, dai balconi, dai finestrini d’auto. Spesso ci scappa un porticato. Adora attraversare corridoi. Vive e scrive. Studia e narra. Si può trovare di frequente sul web. Incentiva la piccola editoria, però quella seria e appassionata: qui pubblica volentieri. Ogni tanto accetta di buon grado premi, passeggiando tra l’odore amaro delle felci o incontrando sul cammino mucche che non leggono Montale. Prova ad essere saggio preferibilmente a giorni alterni.
In cerca di Zev
Chi non conosce ZEV non può immaginare l’esistenza di un mondo posto al limite della fantasia e tuttavia immerso nella realtà urbana della millenaria Roma. I suoi luoghi sono i tetti e le terrazze, i profili dei monumenti al tramonto che si stagliano nel cielo terso. È questa l’ora in cui lo si può vedere in groppa a uno splendido Liocorno di bronzo passeggiare sugli orifizi dei campanili, soffermarsi su questa o quella cupola, per poi spiccare un salto sulla balaustra più elevata di Piazza di Spagna; scendere leggiadramente la scalinata e inoltrarsi nelle vie del centro storico fino a Largo Argentina e oltre, nel labirinto di Trastevere.
Qui si perdono le sue tracce, il suo olezzo si sparge d’intorno, si mescola a quello dei fiori dei numerosi banchi del mercato, a quello del bucato appeso alle finestre. Nessuno ha mai scovato dove egli trovi rifugio, se in una cantina, un atrio, o forse una nicchia, non saprei dicono gli interpellati. I più pensano che il suo Liocorno trovi posto in un Museo, ma quale sia nessuno lo sa. Forse in un giardino interno a qualche edificio patrizio fra zampilli d’acqua e piante tropicali – azzarda qualcuno. Tal altro lo crede vivificato da una miniatura medievale d’origine esoterica, reso invulnerabile in virtù di una cabala di cui nessuno conosce l’esorcismo.
In verità solo ZEV ne conserva le spoglie nottetempo per poi tornare a cavalcarlo quando il giorno si tinge di rosso al crepuscolo. Non certo in giorni prestabiliti, come qualcuno potrebbe pensare, per quanto egli preferisca le notti calde d’estate e la Luna nella fase che dall’ultimo giunge al primo quarto passando per la completezza della sfera. La Luna di ZEV è fusa nell’oro, sulla tela che fa da fondale alla città, dove la favola vive il suo momento più bello dentro un cielo color ametista pronto ad accoglierla per una nuova rappresentazione della notte.
La dimensione pittorica di ZEV infatti, si spinge fuori del quadro perché non c’è cornice che possa contenerlo. La sua tela è la città vissuta dentro e fuori del teatro che la rappresenta; per la strada come al chiuso del suo studio segreto dov’egli incide i metalli e lavora a splendidi oggetti di oreficeria come bronzi dalle dimensioni colossali restituiti alla miniaturizzazione dell’idea che li ha prodotti, oggetti d’arredamento, mosaici e altre creazioni della sua fantasia.
Ma è la ‘musica’ infine, la migliore ‘chiave di lettura’ per comprendere la sua realtà d’artista, quella musica arcana il cui suono ha la capacità di risvegliare la cosidetta ‘Primavera di ZEV’, la stagione in cui con il rinverdire floreale rifiorisce la sua fantasia di fanciullo, allorché l’uomo nella sua maturità s’appronta a scrivere la favola della sua vita. È una indecifrabile melodia quella che lo conduce per le vie sotterranee che si diramano nella città fantastica trasteverina, che da Piazza Sonnino porta a Sant’Angelo e di là fino a Porta Portese.
Quella Roma nella quale avvengono i suoi più fecondi incontri, vuoi con lo scienziato e l’attore famoso, l’americano di passaggio e la sora Cecilia, Rosetta e Rugantino, i poeti Belli e Trilussa e quel ‘fine dicitore’ ch’è stato Petrolini; nonché certi popolani che un tempo avevano nome Giggi er bullo, er Nando, er Nasone, er Ciriola e i tantissimi altri dei quali i nomi si perdono e si ritrovano nel teatro di strada, quali Ghetanaccio e nei detti attribuiti alla statua di Pasquino.
È qui che ho incontrato ZEV la prima volta, casualmente, dietro un sorriso buono, seduto fuori di un’Hostaria, intento a raccontare ai passanti una storia moderna dal sapore antico “Fazzoletto”, che detto così non vuole dire niente di più che un quadrato di stoffa che serve ad asciugarsi il naso, nient’altro. Nel quale, invece, egli racconta una ‘favola bella’ chiusa in un quadrato di strade, un ‘fazzoletto’ di città appunto, dov’essa si svolge e si completa. Il nome del posto mi pare fosse: ‘Da Carlo’ all’angoletto, in quel di Piazza San Giovanni della Malva.
Dapprima la sua voce mi giunse attraverso i tavoli e ne fui subito attratto, allorché, come per incanto la sua narrazione prese a svolgersi nella realtà, illustrata sulle pareti interne che occupavano l’ambiente per intero, nella ricreata atmosfera di un sguardo. ZEV era lì, al centro di una tavola imbandita, nel mezzo di giardini da sogno e architetture fantastiche, in cui animali e piante, commensali e servitori, avevano tutti una storia propria da raccontare, personaggi reali dentro la favola che ZEV andava narrando e che narra ancora attraverso la misteriosa e straordinaria arte sua.
Non rimaneva che inseguirne i passi, i giochi, gli spettacoli e le maschere della sua magica avventura, allorché all’improvviso sparì dalla mia vista lasciandomi in attesa d’un incontro che sperai ci sarebbe stato. Gli era bastato un attimo, per involarsi leggiadro verso altre sfere ben più lontane, e proprio quando, con le bozze ancora in mano della sua ‘favola bella’, già vagavo estasiato per le strade e le piazze d’una Roma mitica e trasognata, se ne era andato, per sempre.
Così l’ho reinventato all’uopo, ne ho fatto un personaggio a sostegno d’un possibile copione, relegandolo, al pari d’uno Zanni della Commedia dell’Arte, nel grande ‘teatro del mondo’. Di quel teatro che ZEV aveva rivestito le scene, creato i costumi, rese espressive le maschere e tutte le altre cose inanimate che senza il tocco del Maestro mai avrebbero trovato autentica espressione. Quel teatro di cui solo oggi è possibile ritrovare il senso smesso delle cose che senso, invero, sembrano non avere. In cui io che scrivo arranco, stupito più che mai, in cerca di quel piacere e quella magia che di trovar non sarei capace coi soli occhi della mia fantasia.
Ed ora che la sua ‘favola bella’ figura in questo mio racconto che invita a ricercar di questa Roma la maschera più vera, ogni cosa s’aggiunge al sogno, all’illusione appresa dalla bocca della gente, dal cuore d’una umanità che, seppure irriverente, reclama una sorta d’immortalità al prezzo della vita. Nulla credo d’aver lasciato al caso: i personaggi, i fatti, i destini, le fortune, la faccia sorridente di qella Luna che ZEV ha fatto sua. C’è chi il tempo lascia correre al presente, chi spera nel domani e chi “nun se la pija pe’ gnente”, lasciando che ogni giorno passi in allegria.
Adesso che al fin della favola siam giunti, è bene che anche noi si rida, e per una volta ancora insieme un brindisi si indica alla buona amicizia che il bel tempo rinnova: “Così è la vita!”.
Nota dell’autore
Dan Harris, in arte ZEV (tre lettere desunte dalla Cabala), pittore, scultore, decoratore, illustratore, studia a New York City, dove negli anni ‘40 si laurea e insegna Storia dell’Arte alla University’s College of Architecture and Fine Arts. Negli anni ‘50 le sue opere figurano già in numerosi musei delle principali città americane: Washington, Los Angeles, Berkeley, San francisco ed ovviamente New York. Nel ‘55 è a Parigi dove rimase per quattro lunghi anni. Periodo in cui si dedica alla scultura, in particolare alla pietra ed al ferro che predilige forgiare personalmente. L’opera scultorea è esibita con successo alla Galerie Furstenberg, insieme a numerosi disegni ricavati dalle sue impressioni parigine.
Il catalogo, preziosissimo, ha un padrino illustre ed eccellente: Henry Miller. Negli anni ‘60 è a Spoleto per il Festival dei Due Mondi e poi a Roma, dove si stabilisce per un certo tempo ed inizia a lavorare il bronzo, sviluppando una sua tecnica personale. Mirabili sono i due prototipi per una grande statua di Liocorno. Negli anni successivi al 1970 è ancora a Roma ed espone alle gallerie Scorpio e L’Appunto. Il suo studio è la sua casa che s’affaccia sulle terrazze di Roma, elaborata in un chiuso giardino-teatro-libro-tela pensile e trasformata in modo da introdurre l’ospite prescelto nel fantastico mondo di Zev. Negli anni ‘80 dipinge numerosi “fresco” sulle pareti dei luoghi da lui più frequentati, all’interno di giardini e ristoranti tipici nel rione di Trastevere.
Nel 1990, scompare improvvisamente dalla scena e tutta la sua produzione artistica: sculture, ceramiche, oggettistica, pittorica risulta dispersa insieme alla sua straordinaria casa-museo che affacciava sulle terrazze di quella Roma che oggi non esiste più. Sue opere sono presenti nel Museum of Art Ein-Harod in Israele, al Museum of Modern Art a Parigi ed in numerose collezioni private.
“Fazzoletto”, è l’unica opera letteraria di Dan Harris in arte ZEV; il suo manoscritto ‘inedito’, lasciato all’autore del presente racconto, è ancora in fase di traduzione.
Giorgio Mancinelli: Giornalista free lance & cultural, già radioprogrammatore RAI-2 e RAI-3, RSI- Radio della Svizzera Italiana, “Studio A” - Radiovaticana, svolge la propria attività nel campo antropologico ed etnomusicologico come curatore della Collana EMI-Atlas per l’UNESCO. Ha svolto attività di redazione per articoli, raccolta materiale, impostazione grafica, controllo bozze, visto si stampi ecc. per ‘Ulisse 2000’ rivista di bordo Alitalia, presso le Arti Grafiche di Bergamo, Mondadori, De Agostini.
Studioso d’Arte e Viaggiatore instancabile, ha pubblicato numerosi ‘reportage di viaggio’ apparsi su quotidiani e riviste specializzate, siti web ‘Terra Incognita’, ‘La Recherche’, ‘TripAdvisor’, inoltre a raccolte di poesia, sceneggiature per il teatro e il cinema, romanzi e racconti inediti, fiabe ecologiche.
Libri:
“Anno Domini: usanze e costumi di una tradizione” - volume illustrato per i tipi di Arte & Grafica Bergamo – 1989, vincitore del Premio Rai per il miglior libro illustrato.
“Musica Zingara: testimonianze etniche della cultura europea” - Atheneum - Firenze - 2006, vincitore del premio “L’Autore” per la saggistica.
"Arpaderba", fiaba ecologica per i più piccini - 2 Premio Baia delle Favole C. Andersen, ed altri.
“Per ora non ancora, tuttavia in qualsiasi altro momento” (racconti in nero, giallo e rosa shoking) – edit. ilmiolibro.it / laFeltrinelli
“Miti di sabbia” (Racconti perduti del Sahara) – edit. il miolibro.it / laFeltrinelli.
Altre pubblicazioni:
Racconti, Short-stories, Poesie, Articoli e molto altro in e-pub e riviste letterarie sul web: larecherche.it – 20lines.com – infilaindiana.it- terraincognita.it ed altri.
da “Rizomi e altre gramigne”, Editrice Zona, 2016
Cerchi
È sparito il tuo mondo dissociato, qualcuno te lo mostra rattrappito
dentro una palla di vetro innevata, c’è anche la tua cattedrale e la piazza
spiazzata quella sofferenza inflitta, tutto ruota intorno a sé un cerchio lento
che non si chiude resta aperto e spento, le cose che non andavano fatte
hanno inciso cicatrici gemelle, e non basta scuotere le spalle il capo.
Collare
Ho visto che son morti tutti i torti, impiccati un po’ prima di fare buio
quando se respiri vomiti forte, ora intorno è piatto liscio e circolare
un tempo avevo un collare dorato, ero una vetrina sempre illuminata
si poteva scendere senza scale, prima ancóra di salire e smaltire
le vertigini come fossero anni, poi fuggire da quello che inseguivi.
Nato a Cagliari nel 1961, nel quartiere Castello, quartiere che influenzerà non poco la sua infanzia, Maurizio Manzo ha iniziato a scrivere fin da giovanissimo. Il suo primo poemetto, “Coreografia del ghetto storico” racconta il “delirio” di quattro donne ai margini, ambientato nelle stradine di Castello, e mostra, nonostante la giovane età, una forza stilistica già matura. Il poemetto scritto nel 1981 è stato pubblicato nel 1985, Edizioni Castello, con la presentazione di Tonino Casula. Dopo molti anni da questa prova e grazie alle possibilità offerte dal web, Maurizio Manzo pubblica diversi testi e lavori raccolti in ebook nei vari Litblog, testi che raccontano il disagio sociale senza retorica: “Le anamorfiche”, “Mirate”, “Fai da te”, “ “All’ombra dei pixel”, ”Distorsioni a occhio nudo” con un’attenzione particolare all’aspetto metrico-ritmico e al suo farsi suono-immagine-senso.
A ottobre 2014 è uscita la sua seconda raccolta poetica per Lepisma Edizioni, collana La Cicala diretta da Dante Maffia: Sette terribili ostriche e una perla.
Di aprile 2016 la terza raccolta poetica per Editrice ZONA – Collana Zona Contemporanea qui presentata: Rizomi e altre gramigne
Della fine e dell’inizio
Appare in tutta la sua tensione, nella ricerca di una lingua autentica e il più possibile vicina alle origini, la raccolta aprile di Raffaele Marone che, di stesura in stesura, approda alla versione presentata nel dialetto della piana vesuviana.
Se la prima stesura, in lingua italiana, puntava, a quanto ci dice in nota l’autore, sull’emozione e sulla seduzione attraverso il lirismo e la riproduzione del noto e la seconda, sempre in lingua italiana, sull’apertura e sulla mobilità, attraverso una forma impura e incompiuta, la terza, divenuta “traduzione (traslazione?)” in dialetto, trova espressione nella lingua lavica dell’infanzia.
Quasi, potremmo, dire un passaggio dall’eruzione esplosiva vulcanica, insidiosa e attrattiva, all’eruzione effusiva, con le sue colate mobili e impure, e infine alla sedimentazione magmatica non ancora sopita, dura e rovente. Perciò “scrivere oggi il dialetto”, dichiara in nota l’autore, “spezza le unghie, fa sanguinare le dita”.
C’è come un ritorno all’inizio, anche se perso, anche se introvato, nel ribadire in continuazione la fine e l’origine nel loro contraddittorio mostrarsi.
Il completamento del titolo tra parentesi (‘a morte mmò mò e po’ torna a nascere), una morte in diretta e poi una rinascita, ci indica in sintesi la poetica della raccolta: un continuo morire e rinascere, una metamorfosi ininterrotta del testo come del pensiero che lo anima.
E cosa muore? Cosa rinasce?
La scrittura che, nel descrivere morte e rinascita, si fa anch’essa morte e rinascita nelle sue varie stesure, trovando ogni volta motivi di sofferenza e stupore. Il senso che da logiche fisse e chiuse passa a sviluppi mobili e moltiplicanti, nei “pensieri che diventano quattro / quattrocento un pensiero diventa / due una forma e un’altra e poi un’altra”. Il corpo che dalla sensazione di “ancora paura e paura / e i salti e il pugno chiuso contro / del morire ora solo” si apre alla percezione della linfa vitale. Il passato che, con il suo finire statico, spalanca il perennemente nascere del presente: “il passato è morto solo per questo / la morte ferma / di sé / risorgerà dalle ceneri”.
Tra figure emblematiche, quali “la signora paura” e la “zia conoscenza”, tra il senso di smarrimento “quando / tutto torna al vuoto di nulla” e la fiducia in una possibile rinascita, infine in una relativa consonanza, poiché se ne ravvisa non tanto la crudeltà quanto la speranza, con l’aprile eliotiano che genera lillà da terra morta, nel suo aprile Raffaele Marone ci porta, attraverso la lingua lavica, magmatica e fertile, che gli appartiene, a percepire il vitale del morire, propriamente a “sentire le singole gocce d’oceani come sanno / e sa il fossile che porta la vita segreta della polvere in sé”.
I
perduto era inizio il tepore
puro infinito
e vissuto come unico
perenne assoluto.
una
conoscenza di una forma solo
e sola
I
perz’ s’era ‘o calore ‘e l’accummiencio
puro e senza fine
e campato comm’a un’ sulo
sempe llà assuluto.
una
ne sape, na forma sulamente
e sola
IV
del padre nelle sue biforcazioni
seguire la giustezza della strada dettata, labirinto
dei muri dove la testa
moltiplicata dai giorni fino a fare
perde sette frammenti duri infissi. poi
batte forte e il cuore per questo
nella mente che s’incrina per questo
IV
d’o pate dint’e vich’
appriess’a via giust c’a dittat’, ‘o labirint’
d’e mur’ addò ‘a capa se fa
mill’ cape, juorn’ pe’ juorn’, fin’a cché
aropp’ perde pa’ via sett’ scarde toste ‘nfizzate. po’
batt’ forte e ‘o core pe’ chest’
dint’a capa ca se senga pe’ chest’
e rinasce
un grand’uomo, perché la polvere
sa “chiedi alla polvere” disse
senti le gocce di linfa nella foglia come sanno
i suoi grani sanno sentire come sanno
sentire le rocce di vetta inviolata e i grani
di un sauro morto sentire le singole gocce d’oceani come sanno
e sa il fossile che porta la vita segreta della polvere in sé
e torna a nascere
“addimann’ a povere” ricette
nu grand’omm, pecché ‘a povere o’ sape
ca ‘e gran’ suje sapeno sentì comm’ sapeno
sentì ‘e gocce d’a linfa dint’a foglia comm’ sapeno
sentì una a una ‘e gocce ‘e l’oceano comm’ sapeno
sentì ‘e prete ‘mpizz’a muntagna sulitaria e ‘e gran’ ‘e nu sauro
fossile ca se porta aind’ ‘a vita segreta d’a povere
Nota dell’Autore
La raccolta è la terza scrittura di un testo, ultimo (per ora) passaggio di una metamorfosi in atto.
La prima scrittura lasciava emergere delle forme di lirismo che offuscavano la natura dell’espressione esatta. Aleggiava ancora l’atto di sedurre attraverso l’emozione, cercata ancora come riproduzione del noto. L’atto di conoscere deve abbandonare tutte le scorciatoie della seduzione (o bisognerebbe almeno provarci!).
La seconda scrittura, per spezzare le funi della seduzione, non è altro che il frutto di un riposizionamento dei versi all’interno dello spazio di ogni singola poesia. Così il senso si è liberato della logica del passato per fare la logica del presente, che è in atto, è mobile, è forma nuova. Impura e leggermente insensata, laddove si apre. Forma comunque incompiuta nel dire quel che è da dire ora.
La terza scrittura, qui presentata, è traduzione (traslazione?) in dialetto.
Tornare al dialetto è uno di quegli strani viaggi di ritorno al futuro, a ritroso verso il domani.
Tornare all’infanzia, a quella lingua dei suoni negati (dovevamo parlare italiano per diventare moderni?).
Quel desiderio di emettere suoni così è rimasto. E poi arriva la voglia, anzi la necessità spinta dall’urgenza, di scriverla quella lingua, per dire il tempo in atto, il presente (che è futuro allo stato perennemente nascente) con possibile esattezza, in forma che si senta compiuta proprio nel presentarsi con l’ambiguità del farsi o disfarsi.
La scrittura permette di far riemergere quei suoni antichi rimbombanti che vivono in un mondo cavernoso di acque esistenziali, carsico. Quei suoni, uscendo all’aria aperta si mescolano; oggi sono impastati con i suoni della strada, anche se questi, il tempo li ha in molta parte impoveriti e arricchiti, comunque cambiati (è la vita di una lingua viva).
La traduzione (traslazione?) in dialetto napoletano contemporaneo della piana vesuviana è materia grezza, ruvida; sarebbe bello se ancora risuonasse di echi di osco, perché li cerca.
Ma scrivere oggi il dialetto spezza le unghie, fa sanguinare le dita, è faticoso e a volte fa anche leggermente male: scrivere ogni parola è come staccare, a mani nude, un pezzo di roccia da una terra dura. Chissà perché. Forse la vita naturale di quelle parole in dialetto è nel mondo del suono e dei rumori.
O perché quella roccia è dura e scotta: forse è materia magmatica mai raffreddatasi, o è calda del calore di una stella che, lo sappiamo, non c’è più eppure sembra bruciare ora.
Raffaele Marone (Napoli 1960) è architetto e ricercatore universitario.
Sue poesie sono state pubblicate su “Le Voci della Luna” e, in rete, su “Blanc de ta nuque” e “Carte nel vento”.
Ha pubblicato libri, progetti e saggi di architettura.
Scrive il blog www.ilfattoquotidiano.it/blog/rmarone/
***
il flusso di haiku si è spappolato tra soprammobili lì innestati da decenni
sottomettersi a parole dette prima e dopo l'amplesso
alle empatie vissute nelle tavolate e nei lembi della città
talvolta in auto ascolto fino alla fine canzoni e discorsi radiofonici insulsi
donne rimandano alle splendide bimbe che furono
guido dando occhiate alle geometrie dei balconi delle case
pensieri da dormiveglia navigano nelle movenze
cullando risoluzioni tipo tupamaros
sono cazzeggio psichedelico che ringrazia per l'odore di fieno tagliato
per la quantità di libri che leggerò nel futuro ricoperto di neve
gli unici argomenti : dei calambours
considerazioni del tipo
la paraculaggine di chi lavora in questa azienda penetra nel tessuto sociale
prefiguro gli eventi futuri da come camminano i passanti
un amico immerge i suoi abbracci nella luce dello smartphone
mi aiutano gli schizzi di una realtà da fotografare
non amori ma aspettative di benessere
Riccardo Martelli, nato a Bologna il 5.11.1957.
Laureato in Scienze Politiche.
Presiede l’associazione culturale “Hermo Nes Troupe”.
Ha scritto, in collaborazione, il testo dello spettacolo teatrale “Danza dell’inverno e della morte”, presentato al Teatro dei Bibiena di Bologna.
Ha scritto, in collaborazione, il testo dello spettacolo “Abissi dadaisti da un’osteria di Bologna”, allestito all’Osteria delle Dame di Bologna (1979). Lo spettacolo è stato ripresentato al QBO’ di Bologna (1986).
Ha scritto, in collaborazione, la sceneggiatura di uno spettacolo di cabaret andato in scena al teatro Capitolino di Bologna.
Ha pubblicato la raccolta di poesie “Della Recitazione-La Veglia”, Ed. Pontenuovo, 1987.
Sue poesie e recensioni di suoi testi sono apparse sulle riviste: Lo Spartivento, Alla Ribalta, L’Ortica, Logos, Harta, L’informatore Europeo, Risvolti.
Insieme al poeta Paolo Badini ed allo scrittore Carlo Maria Milazzo ha scritto i testi per lo spettacolo “Il passaggio degli uomini-giaguaro”, con musiche del trio jazz Ermones, realizzato allo Spazio Cultura Navile di Bologna (1994), al Caffè Latino Candilejas di Bologna (1995), al Circolo degli Artisti di Faenza (1996), al Naima Club di Forlì (1996), al Castello del Vescovo di Arceto (RE) (1996), al I° Meeting di Poesia Interdisciplinare a Bologna (1997).
Vincitore del premio letterario “Città di Gozzano” (1998), sezione raccolta inedita.
Sue poesie sono state segnalate nella sezione poesie inedite dei premi “Book ” , “Lorenzo Montano”.
Ha ricevuto il premio speciale del premio letterario “Firenze Capitale D’Europa” (2002), sezione poesia edita.
Ha pubblicato la raccolta di poesie “Calamite Arimaniche e il Senso Tattico” , Campanotto Editore, 2001, prefazione di Alberto Bertoni. Il libro è stato presentato a Bologna, relatore Alberto Bertoni, e a Modena, relatore Rossano Onano.
Correlate al premio “Lorenzo Montano” ed organizzate dalla rivista Anterem, ha partecipato alle rassegne: “Officina della percezione. Prima biennale di poesia” (2004), “Seconda biennale di poesia. Percorsi del dire” (2006).
Insieme a Carlo Maria Milazzo, presso la libreria Modo Infoshop di Bologna, ha eseguito il reading "Le due voci e la fessura" (2005).
Insieme a Carlo Maria Milazzo ed al poeta Martino Sirilli, presso le Accademie dei Tati a Bologna, ha eseguito il reading-evento “La Città Giocosa dei Tre Parapsicologi” (2006).
Ha partecipato nel luglio 2007 e nel giugno 2008 alla manifestazione “Scandellara rock”, Bologna.
Partecipa a match di Poetry Slam .
Ha pubblicato la raccolta di poesie “Oro Lustrale”, Cierre Grafica, 2009, postfazione di Gio Ferri.
Ha partecipato il 22-23/11/2013 alla 6ª edizione di “RicercaBo”, presso la Mediateca di San Lazzaro di Savena, (Bo), a cura di Renato Barilli e Niva Lorenzini.
Nel web è presente nei siti: « Risvolti-Edizioni Riccardi»; «blanc de ta nuque» (golfedombre.blogspot.it/2014/06/riccardo-martelli.html); «la dimora del tempo sospeso». Inoltre digitando: “Riccardo Martelli youtube poeti poesia”.
E’ presente come autore nelle antologie: "Poeti ad alta voce", Giraldi Editore, 2005; “Terzo Censimento della Poesia a Bologna”, Giraldi Editore, 2006; “Vita è questa avventura”, Pagine, 2007, “In forma di scritture”, Edizioni Riccardi, 2012.
In questa prova saggistica lo sguardo acuto di Giulia Martini coglie la presenza del termine “gora“ in quattro grandi testi poetici e da qui costruisce un saggio sull‘abbandono, sul senso di estraneità, in cui convergono Dante, Pascoli, Montale e Luzi. Le connessioni trovate da Giulia Martini sono straordinarie e arrivano a superare l’assunto iniziale; da uno stato d’animo di abbandono, di solitudine, di perdita, si cambia piano: “I quattro testi sembrano ritrovarsi su un altro livello ancora, afferente non più a uno stato (d’animo, a un ritrovarsi lì come una cosa), ma a un verbo, e il verbo è guardare”. Il passaggio avviene attraverso l’uso rigoroso e puntuale delle citazioni, ma soprattutto grazie al sentire poetico dell’autrice. Grazie a questo sentire poetico Giulia Martini ci conduce a un terzo, ulteriore livello, come in un’ascesa dantesca. La poesia, alla fine, è proprio questo guardare la rivelazione improvvisa delle cose.
La gora e l'abbandono
Mi trovo qui a questa età che sai, né giovane né vecchio, attendo, guardo questa vicissitudine sospesa; non so più quel che volli o mi fu imposto, entri nei miei pensieri e n’esci illesa. (Mario Luzi, da Notizie a Giuseppina dopo tanti anni).1
La parola «gora» ricorre in quattro testi indimenticabili della nostra letteratura: l’ottavo canto dell’Inferno di Dante, Lavandare di Pascoli,2 Notizie dall’Amiata di Montale3 e Presso il Bisenzio di Mario Luzi.4 Ma se tale occorrenza è il primo punto di contatto, questi quattro testi si riuniscono più profondamente, nel grande tema dell’abbandono.
L’ottavo dell’Inferno è il canto in cui Dante si appressa alla città rossa di Dite, in uno scenario non molto diverso da quello di Notizie dall’Amiata: «Ma il passo che risuona a lungo nell’oscuro / è di chi va solitario e altro non vede / che questo cadere di archi, di ombre e di pieghe»; e ancora le «architetture / annerite», le «vampate di magnesio», «il lungo colloquio coi poveri morti», «la morte che vive».
Qui Dante viene apostrofato dallo spirito di Filippo Argenti, che gli si fa incontro e gli domanda chi è:
Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?»
Domanda che prelude alla vera e propria accusa di estraneità, di cui Dante verrà tacciato in capo a neanche cinquanta versi:
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?»
1 Primizie del deserto, 1952.
2 Myricae, 1891.
3 Le occasioni, 1951.
4 Nel magma, 1963.
Ed è lo stesso tipo d’incontro e la stessa accusa di estraneità con cui si apre Presso il Bisenzio di Mario Luzi:
La nebbia ghiacciata affumica la gora della concia
e il viottolo che segue la proda. Ne escono quattro
non so se visti o non mai visti prima,
pigri nell’andatura, pigri anche nel fermarsi fronte a fronte.
Uno, il più lavorato da smanie e il più indolente,
mi si fa incontro, mi dice: «Tu? Non sei dei nostri.
Non ti sei bruciato come noi al fuoco della lotta
quando divampava e ardevano nel rogo bene e male».
Ma l’ottavo dell’Inferno è anche il canto in cui Dante rimane senza guida, quando Virgilio si allontana per trattare coi diavoli, con quel verso memorabile, «Così sen va, e quivi m’abbandona».
E non può che trattarsi di una solitudine cosmica, come cosmica sembra la solitudine di quel «tavolo / remoto» in una «sfera lanciata nello spazio» di Montale; analogamente anche l’«aratro senza buoi» di Pascoli, oggetto di uso quotidiano, viene subito caricato di una valenza universale e diventa emblema di una solitudine assoluta – che difatti si trasferisce subito alla donna che intona cantilena in chiusura, abbandonata «come l’aratro in mezzo alla maggese». Inoltre, proprio l’attività a cui il testo fa riferimento, lavare i panni, è una mise en abyme dell’oblio, del rapporto fra passato e presente: lavare una macchia è anche cancellare un trascorso, riazzerare il vissuto.
Senza contare che i due testi condividono lo stesso tipo di enjambement: «tavolo / remoto», «pare / dimenticato»: un enjambement aggettivale, che pone l’accento sulla solitudine dell’oggetto, il tavolo, l’aratro.
Quindi la gora, l’estraneità, l’abbandono – eppure la storia non finisce qui. I quattro testi sembrano ritrovarsi su un altro livello ancora, afferente non più a uno stato (d’animo, a un ritrovarsi lì come una cosa), ma a un verbo, e il verbo è guardare. Chi scrive infatti si fa spettatore di un quadro naturale, che inizia a descrivere e continua finché una nebbia non gli obnubila la vista.
L’ottavo dell’Inferno si svolge in una palude nebbiosa, e quando Dante domanda a Virgilio l’entità del segnale che scorge da lontano, Virgilio risponde che lo vedrà da solo, purché le esalazioni che salgono dal terreno non glielo impediscano («se ‘l fummo del pantan nol ti nasconde», VIII, 12).
In Pascoli, questo fumo diventa «vapor leggero»: «Nel campo mezzo grigio e mezzo nero / resta un aratro senza buoi che pare / dimenticato nel vapor leggero».
In Montale, questo vapore leggero diventa «fumate morbide»: «Le fumate / morbide che risalgono una valle / d’elfi e di funghi fino al collo diafano / della cima m’intorbidano i vetri».
In Luzi infine, sarà «nebbia ghiacciata»: «La nebbia ghiacciata affumica la gora della concia / e il viottolo che segue la proda».
Questo impedimento visivo sembra un pretesto per far scattare l’udito, che finirà con l’essere il senso privilegiato per continuare la descrizione di partenza.
Così Inf. IX, 4-6:
Attento si fermò com’uom ch’ascolta;
ché l’occhio nol potea menare a lunga
per l’aere nero e per la nebbia folta.
La scarsa visibilità di «fuori» sarà per Montale l’occasione di descrivere il suo interno:
Le fumate
morbide che risalgono una valle
d’elfi e di funghi fino al collo diafano
della cima m’intorbidano i vetri,
e ti scrivo da qui, da questo tavolo
remoto, dalla cellula di miele
di una sfera lanciata nello spazio
Stesso discorso per Luzi, dalla cui «nebbia ghiacciata» «escono quattro» e gli rivolgono la parola.
Il caso più evidente di questo passaggio rimane però Lavandare, madrigale diviso in due terzine e in una quartina, la prima terzina intermante dedicata alla vista, la seconda all’udito:
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene.
Ma proprio Lavandare permette una considerazione ulteriore: che c’è anche un terzo tempo, o meglio, una terza modalità percettiva, che viene dopo la vista, che viene dopo l’udito – un altro tipo di sentire, quasi “miracoloso”: e il miracolo è proprio la lunga cantilena, vale a dire, la poesia stessa.
Questo terzo sentire sarà adoperato nei quattro testi (ennesima e più profonda comunanza) in un contesto d’attesa, per rimarcare la speranza che arrivi qualcuno che sta tardando.
Dante:
Attento si fermò com’uom ch’ascolta;
ché l’occhio nol potea menare a lunga
per l’aere nero e per la nebbia folta.
«Pur a noi converrà vincer la punga»,
cominciò el, «se non... Tal ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!».
Pascoli:
lunghe cantilene:
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta!
Montale:
Le fumate
morbide che risalgono una valle
d’elfi e di funghi fino al collo diafano
della cima m’intorbidano i vetri,
e ti scrivo da qui, da questo tavolo
remoto, dalla cellula di miele
di una sfera lanciata nello spazio –
e le gabbie coperte, il focolare
dove i marroni esplodono, le vene
di salnitro e di muffa sono il quadro
dove tra poco romperai. La vita
che t’affabula è ancora troppo breve
se ti contiene! Schiude la tua icona
il fondo luminoso. Fuori piove.
Luzi:
Ma uno d’essi, il più giovane, mi pare, e il più malcerto,
si fa da un lato, s’attarda sul ciglio erboso ad aspettarmi
mentre seguo lento loro inghiottiti dalla nebbia. A un passo
ormai, ma senza ch’io mi fermi, ci guardiamo,
poi abbassando gli occhi lui ha un sorriso da infermo.
«O Mario» dice e mi si mette accanto.
Sempre in Luzi, poco più avanti, «il più giovane» dice questa cosa, che sembra d’importanza capitale:
poni mente a che cosa questo tempo ti richiede,
non la profondità, né l’ardimento,
ma la ripetizione di parole,
la mimesi senza perché né come
dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine
morsa dalla tarantola della vita, e basta.
Cosa richiede questo tempo? La ripetizione di parole, la mimesi dei gesti – vale a dire, «tonfi spessi e lunghe cantilene». Tout se tient.
In altre parole. Il primo obiettivo sembra il mondo: la realtà, l’onore del vero; ma il significato è fumoso, non si vede tanto bene – di qui la necessità di affidarsi al significante (l’ipotesi della relatività linguistica di Sapir-Whorf: il mondo si presenta come un flusso caleidoscopico di impressioni che il sistema linguistico tenta di carpire). Capire è il miracolo della poesia, la rivelazione improvvisa delle cose, l’apparizione attesa del senso.
Quello che sembra è che questi testi non siano mai, più o meno consciamente, esonerati dalla loro stessa poetica, da una riflessione che ricada sui meccanismi che li hanno generati.
E la poesia sembra essere proprio questo, l’attesa di un miracolo per cui uno è stato a lungo all’erta: che qualcuno esca dalla nebbia e parli, che un suono ne preceda l’apparizione.
Infine, in Un brindisi5 Luzi fa una rilettura pazzesca della rossa città di Dite, e parla degli «occhi troppo grevi», del «cuore umano gonfio ed assordito» ma anche di «calme primavere inattuate».
Ora, una primavera è inattuata quando non dà frutti, e non dà frutti un campo “a maggese”: il maggese infatti è un anno di riposo, in cui il terreno viene arato e mosso, per restituirgli la fertilità.
Il maggese è una «vicissitudine sospesa».
5 1946.
Giulia Martini è nata a Pistoia nel 1993 e vive a Firenze. Dopo una prima laurea in Lettere moderne, con una tesi su La figlia di Babilonia di Piero Bigongiari (Firenze, Parenti 1942), sta conseguendo una laurea magistrale in Filologia con un commento a Pigre divinità e pigra sorte di Patrizia Cavalli (Torino, Einaudi 2006). Ha partecipato al XXI Congresso dell’Associazione degli Italianisti con uno studio su Donna di dolori di Patrizia Valduga (Milano, Mondadori 1991). A gennaio 2015 ha raccolto 38 componimenti sotto il titolo Manuale d’Istruzioni (Roma, Gruppo Albatros Il Filo); a gennaio 2016 sono uscite Ventitré poesie sul mensile «Poesia»; altre, sulle riviste «Gradiva» e «Pelagos» e sulle antologie Secolo donna 2017: Almanacco di poesia italiana al femminile (Francavilla Marittima, Macabor 2017) e Un verde più nuovo dell’erba. Poetesse Millennial degli anni 90 (Milano, LietoColle 2018). Ha partecipato con successo a numerosi concorsi letterari e sta dedicandosi a una seconda raccolta poetica, che prenderà nome Coppie minime.
È la poesia, il soggetto dell’ultimo libro di Vincenzo Mascolo Q. e l’allodola, Mursia, 2018. Mascolo, tra versi e prosa poetica, delinea il campo assordante delle pretese e delle aspettative che rendono la contemporaneità una sorta di Moloch a cui sacrificare il proprio impulso o le proprie scelte poetiche. Il problema resta non il modo di versificare, ma il manifestarsi stesso della poesia. Vi è, dunque, la necessità di liberarsi da quelle pastoie che finiscono con il depositare un velo, per cogliere alfine nuovamente, quasi fosse una nuova prospettiva, il dono della poesia. Dono che non può ottenersi senza l’esercizio dello stile e della tradizione.
Tuttavia, non solo stile, non solo dato esistenziale, non solo bellezza, la poesia per Mascolo attinge a fonti di ben altra natura, di metafisica portanza. La poesia deve travolgere il sé profondo, deve essere esperienza di vita che avvicini all’uno, al creato, che sia cioè quell’unico sentire in grado di forgiare e di trasformare, rendendo inique tutte le mere questioni che non abbiano a che vedere con questa verità, deve essere poesia-salvezza, l’unica che abbia un senso. Persino la ricerca della bellezza diventa una chimera, infatti, se non ci si approssima alla verità del proprio cuore, a quel canto che è la purezza sorgiva dell’origine.
***
Oh, Queneau
non basta più esercitarsi nello stile
come tu sapevi fare inanellando
notations, hellenismes, le contre-pettéries
e tutte le altre tue diavolerie
che aprivi come nuove fioriture
nelle terre inaridite che solcavo
con strumenti quasi umani zolla a zolla
per offrire a Cerere il raccolto
generato in primavera dai miei semi.
***
Oh, Queneau
Queneau
parlavo seriamente della bile
perché stanno esaurendosi le scorte
delle anime ridotte al lumicino
e per nutrire ancora una speranza
che adesso si fa sempre più sottile
ai poeti non resta che affilare
parole sulla pietra per raschiare
il fondo limaccioso del barile.
***
Oh, lo so
Queneau, lo so
potresti allora dirmi che il reale
per i poeti è cosa ben diversa
da questo affaccendarsi quotidiano
che loro riconoscono i confini
dell’anima costretta nella forma
che muta, evolve, vira
si trasforma
cambiando il punto dell’osservazione.
Vincenzo Mascolo è nato a Salerno e risiede a Roma. Ha pubblicato Il pensiero originale che ho commesso (Edizioni Angolo Manzoni, 2004), Scovando l’uovo (appunti di bioetica) (LietoColle, 2009), Q e l’allodola (Mursia, 2018). Per la casa editrice LietoColle ha curato le antologie: Stagioni (con Stefania Crema e Anna Toscano), La poesia è un bambino, Quadernario – Venticinque poeti d’oggi (con Giampiero Neri). Dal 2006 è il direttore artistico di Ritratti di poesia, manifestazione promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo.
L’ora d’aria
camminava elegante di tutto punto
nel mezzo di quell’ora di punta
camminava su scarpe senza simmetria
nemmeno il bastone lo teneva sulla via
camminava muovendo la testa e le labbra
clown di se stesso un sorriso di sabbia
camminava frugando cassonetti
sguardo tremante gesti ancora netti
camminava con la nostalgia che l’artiglia
amando della vita anche quell’ultima figlia
camminava per il giro dell’isolato
perché ogni luogo aveva dimenticato
camminava a quell’ora che toglieva il respiro
la chiamava l’ora d’aria dell’ultimo giro
Ugo Mauthe è pubblicitario di professione e scrittore per passione. Nel 2017 ha vinto “Racconti nella Rete” con la fiaba “Sem fa cucù”, pubblicata nell’antologia “Racconti nella rete 2017”, Nottetempo Edizioni. Nel 2018 ha pubblicato le poesie di “Minuziosa sopravvivenza”, Il Convivio Editore, e il romanzo di fantascienza “Qunellis”, Giovane Holden Edizioni. Ha ricevuto riconoscimenti in vari concorsi.
Alessandro Mazzi costruisce questo testo come si costruisce un atlante del pensiero. C’è tutto: filosofia, poesia, pittura, psicanalisi. È in realtà una sorta di flusso ininterrotto di conoscenza, fatto di citazioni, rimandi, brevi sintesi teoriche, a volte organizzato con momenti di pura letteratura, spesso con il tono dell’esortazione, pensato in crescendo.
Abbiamo di fronte un testo prosastico scritto con l’esattezza linguistica del poeta, che si configura come un vastissimo orizzonte di senso ricco di reperti: un’area monumentale.
Il mito del nostro Tempo
Logos e mythos sono i due movimenti che Platone ha scisso all’alba della filosofia occidentale, condannando il discorso e il poetico a impegnarsi nella riconciliazione. Se la filosofia è «un farsi più divino da parte dell’uomo, una tensione oltre di sé», va riunita al mitico in una filosofia della sensibilità, così sente Susanna Mati.
Portare fuori le immagini poetiche, le nostre immagini, che nel profeta sono anche immagini del Tempo, senza bruciarle al Sole, è possibile? Certo, se ci facciamo ombra con le palme raccolte all’oasi vicina, perché se anche Nietzsche ammoniva nel suo Zarathustra «Il deserto cresce: guai a colui che cela deserti dentro di sé!», non è detto che invece proprio nella massima aridità non possa sgorgare il petalo più sacro.
Il pensiero e la poesia si incontrano, due fiumi che come il Tigri e l’Eufrate nutrono la Mezzaluna fertile dell’umanità, generano la nostra comprensione in una ierogamia filomitica. Così nasce un uomo nuovo, più consapevole, più vasto, e con lui nasce una nuova civiltà. Viviamo il mythos così come vuole essere vissuto. Ricorda Cvetaeva che il poeta non crea, ma dà ascolto a qualcosa che in lui indica e ordina.
Come specie simbolica, Animal Symbolicum ci definì Cassirer, è passata fin troppa acqua sotto i ponti per ignorare la capacità psicopoietica del mythos di essere Storia. La nostra epoca vuole consapevolezza. Chiediamoci allora, qual è il mito del nostro Tempo?
Veniamo incontro alla sophia, ricorda Mati, il femminino universale che ci bagna. Porgiamole l’orecchio bisognoso, come Odino che si reca dalla veggente per conoscere gli eventi che verranno, per esserne educati, da educěre, trarre fuori e allevare le immagini dalla tenebra inconscia, a noi affidate come novelli Mosé. Raffiniamo con arte di maniscalco il materiale sorto, dando voce al pensiero poetante.
Dirigendosi verso il ‘900, questo secolo bifronte, Aivazovsky dipinge i suoi mari tempestosi. Sono quadri abissali nel senso più puro del termine, perché attingono allo spirito orizzontale del Moderno, pongono l’uomo di fronte all’imminente cataclisma di fine secolo. In La nona onda del 1850, sei naufraghi chiedono asilo alle onde pur sapendo che ne verranno travolti, mentre il Sole è sospeso in un tramonto albeggiante.
Nel Nietzsche della Gaia Scienza abbiamo bisogno di farci Noè improvvisati e costruire navi che permettano di imbarcarci ed esser-ci (gegangen) in un mondo in diluvio, mentre salpiamo per nuove terre (Land) all’inabissarsi di Dio. Come nella visione della barca nel Libro Rosso di Jung, il Dio deve iniziare il suo viaggio nell’aldilà per rinascere rinnovato nel nuovo eone, e noi con Lui.
Scrive Rilke nella prima elegia duinese del 1912 che «L’eterna corrente/ trascina attraverso entrambi i regni ogni età,/ sempre con sé, ed entrambi sovrasta con il suo suono». Possiamo solo approntarci e sperare che la nostra arca regga.
Il poeta Yeats nel 1919 compone La seconda venuta, un poema spartiacque tra le due guerre. Siamo alla fine dei tempi e gli elementi si fanno mostri biblici, «E quale bestia orrenda [...] striscia verso Betlemme per venire al mondo?». Al leontocefalo non si comanda,
e nessuna lancia potrà ucciderlo. Schmitt pure deve ritrovare lo spazio in Terra e Mare, dove irrompono il Leviatano e il Behemoth.
Heidegger cerca la risposta alla mancanza di fondamento (Grund) nei fiumi di Hölderlin, così come il Siddhartha di Hesse impara dal fiume. L’acqua che scorre, la transitorietà (Wanderschaft) che ha nella sua radice il migrare (Wanderung). Nei tempi si entra navigando, come rifugiati che attraversano il Mediterraneo.
In Aion Jung parla dell’uomo con la brocca menzionato nel Vangelo di Luca, l’Acquario. Può essere che in questi interregni per cui si passa da un mese platonico all’altro, ci sia sempre un barlume della prossima era, che riaffiora in questo tempo presente portando con sé una scintilla di ciò che verrà?
Jung esprimeva le sue curiosità sull’Età del Capricorno, che sarebbe succeduta all’Età dell’Acquario. Ma se l’Acquario è un simbolo del Sé che ci chiede la soluzione degli opposti dell’Età dei Pesci, se è lui a rovesciare con le sue brocche d’oro la corrente iperborea che ci sovrasta, che cosa ci chiederà il Capricorno? Interroghiamo la Pizia.
Nel secondo libro della Mitologia Astrale di Igino, troviamo il mito di Tifone, sposo di Echidna, che scatena il panico fra gli dèi; ognuno fuggendo muta in un proprio animale. Questa dispersione degli dèi, il loro assumere una forma diversa di fronte al cataclisma, non è la condizione postmoderna in cui ci troviamo oggi? Non abbiamo vissuto finora l’incapacità della Storia di poter attingere a una grande narrazione, perché impegnati a scappare dal vortice del nichilismo, l’ombra di Dio che genera disastri?
Hillmann considerava Pan l’origine del panico. Cumont nel suo Zodiaco dice che nella fuga da Tifone i Greci trasformarono il dio Pan nel segno del Capricorno, creatura duplice e una. Forse le correnti transumaniste, l’euforia di creare esseri cibernetici, il rapporto uomo-robot-intelligenza artificiale, la necessità di nuove ontologie sfumate, non sono sprazzi del Capricorno?
Difficile dirlo. Nessun oracolo pre-cristiano avrebbe potuto predire che l’Età dei Pesci avrebbe generato la Chiesa cattolica, o che l’Apocalisse si sarebbe consumata nei campi di concentramento. De Santillana, nel Mulino di Amleto, ricorda la veggenza del poeta antico. Ma andare troppo a fondo ha un costo, come Odino che sacrifica un occhio alla fonte di Mímir. La virtù del poeta è saper riconoscere i limiti della propria visione.
Seguiamo la ninfa, ma attenzione! Il confine dell’uomo è un’arcata di pietra, oltre la quale si staglia l’indefinito. Metaxis, intimava Diotima nel Simposio di Platone, che significa avere il coraggio di stare nel mezzo! Hölderlin e Nietzsche hanno pagato caro il prezzo degli intuitivi introversi. Il divino pugnala le teste d’oro e smuove le viscere in forti spasmi.
Possiamo solo dire che il monte capricornino ci chiama, e che dobbiamo scalarlo. È il tempo dell’approdo.
Alessandro Mazzi nasce a Pompei il 17 Aprile 1990. Si laurea in Estetica all’Università “L’Orientale” di Napoli con una tesi originale su Hölderlin e il Taoismo, sotto la supervisione del prof. Giampiero Moretti. Dopo un periodo in Islanda, continua lo studio della filosofia e delle scienze pure all’Università di Urbino, dove è attualmente laureando. Collabora con diverse testate online, tra cui La Tigre di Carta e L’Indiscreto, e tiene seminari filosofici all’università.
Certo qualcosa
Certo qualcosa. Il silenzio
in faccia al nulla.
Un mare di ghiaccio sotto il sole,
lo stesso cielo fragoroso e chiuso
a ritornare al giorno
un patto di piccole eternità.
L’orologio di casa, una nuvola,
l’orto, il soffio, la ferita
di una vigilia spezzata
da una sillaba nel petto
a sentire la solitudine
ascoltare l’anima se esiste.
Anche il deserto regge la leggerezza
nella profondità del sole.
Anche amore a farsi invisibile,
passare l’orizzonte, i molti occhi
di una fioritura, gli aghi di pino,
il merlo verso la sua bussola,
di passetti identici, baciati
da una tessitura di cortecce
nei luoghi schivi della memoria,
un cammino segreto senza suolo.
Sì, cambiamo vita
nell’ovvio frequente
per soffermarci caute
su ogni vuoto o rimedio,
gesti limati sul filo d’erba,
la paura di quel che si vive,
chiacchiere, angoli di risonanza
in cambio di briciole
sul davanzale
per il dolore degli altri,
una prodigiosa pace
nell’isolamento
dello stesso mondo d’aria
di contraddizioni senza prove.
Angelo Mocchetti, è Dirigente Scolastico, Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana, responsabile culturale della Sezione UNCI provinciale di Milano e già Officer Distrettuale del Lions Club International.
È relatore a convegni e animatore culturale. Negli anni giovanili ha scritto racconti per i quali è stato segnalato in diversi premi letterari, tra i quali il “Premio Teramo” presieduto da Carlo Bo.
In età matura è autore di poesie; i suoi testi sono inseriti in varie antologie, fra le quali “Riflessi” della Casa Editrice Pagine, ed è stato premiato e segnalato in diversi concorsi, tra gli ultimi: “Enciclopedia di poesia contemporanea” edizione 2014, Premio “Mario Luzi” ( Roma); Premio Anterem (Verona-2014); Premio “Giovane Holden” e “Bukowski” (Viareggio -2014/2015/2016); Premio “Antico Borgo” (La Spezia-2015); Premio “Antica Badia di San Savino” (Pisa-2014/2016); Premio “Città di Monza”(2014) ; Premio “Galbiate”( 2014); Premio “Naviglio Martesana” (Milano-2015); Premio “Pietro Borgognoni” (Pistoia-2015); Premio “Gozzano” (Terzo-Alessandria 2016); Premio “Va pensiero” (Soragna-Parma 2016); Premio “Benedetta Pendini” (Padova-2016);
Primo Classificato “Premio Laurentum” (Roma -2016) ; Premio “alberoAndronico” (Roma 2017); Premio “Pegasus Literary Awards” (Cattolica 2017) ; Premio “Terra di Virgilio” (Mantova 2017); Premio “Tra il Secchia e il Panaro” (Modena 2017); Premio “Va Pensiero” (Soragna 2017); Premio “Benedetta Pendini” ( Bologna 2017).
C’è una realtà che si disfa a poco a poco, verso dopo verso, senza riparo, nel poemetto di Francesca Monnetti.
Già il titolo anima una dissoluzione, in “sonde” si attenua la S, posta tra parentesi, lasciando le onde fluttuare nel vuoto. Come foglie che danzano “nel lessico del vento”. Come un corpo che diventa “carne in fuga”. Fino alla fine si perdono tracce, tutto si dissolve e allo stesso tempo si radica nel linguaggio che ben rappresenta la compostezza formale dell’autrice.
Il testo si incide nelle rime interne, nelle consonanze di uno “(s)finito gridare”, in una limpida e strenua esattezza.
Precipitati
la caduta dei gravi
polvere e roccia glabra il mondo
grama la linea di sola terra
per i messi a nudo
i raminghi corposi
in piena luce
senza un riparo
assorbita dal peso dei passi
all’ombra della forma
del peccato… della sostanza
s’è persa la traccia
vuoto di consistenza
… il corpo s’è fatto
carne in fuga
che esonda, che suda
del tutto adatto
al proprio carnale calvario
premeditazione
innocenza presunta
gesto inconsulto
ravvedimento
menzogna
espiazione
vergogna
fittizio… reale
senso doloso
rimosso… senso di colpa
fa fatica
(s)fugge in fretta
si confonde
l’impronta
vagare è grave
fuori dall’eden
tra candore
tentazione
e caduta
sul suolo brullo
senza una fronda
il segno resta
del danno… del reato
dell’onta
a distanza d’azzurro
in assenza di foglia
la coscienza s’annebbia
muta s’adonta
si fa… monda
impresso
un malcelato sudario
orbite livide
incise sul volto
…madida e calva
la testa… si piega
all’indietro
ex virgo
venus impudica
con la mano
il sesso comprime
il sesso nasconde
a lato
il primo uomo
con le dita
s’occulta il volto
curvo… s’inarca il busto
in lui
il sesso si fa forte
il sesso si scopre
cava e pesta
sgomenta
resta aperta
la bocca
afono e devastato
il suo (s)finito gridare.
Da sempre io, Francesca Monnetti, vivo a Sant'Ellero, una frazione in provincia di Firenze, città dove sono nata e dove ho studiato Filosofia. Da venti anni insegno nella scuola primaria e da altrettanti, più o meno, scrivo poesie. Al 2009 risale la pubblicazione del mio primo volume di poesie, In-solite movenze (Cierre Grafica, Verona, collana "Opera Prima", diretta da Flavio Ermini); tale raccolta è risultata opera finalista nell'edizione 2008 del "Premio di Poesia e Prosa Lorenzo Montano", sezione "Raccolta inedita". Nel 2017 è stata pubblicata la mia seconda raccolta di poesie, Pen-insul-aria (Edizioni Helicon, Arezzo), che, in una versione ridotta, era giunta finalista in occasione della I edizione del Concorso di Poesia e Narrativa "L'Erudita", i cui membri di giuria erano Cristiano Armati, Paolo Febbraro, Giorgio Manacorda, Walter Mauro, Matteo Lefèvre, Giorgio Nisini, Cinzia Tani. Nel 2010 una mia silloge ha vinto la IV edizione del "Premio Letterario Sergio De Risio" dedicato al pensiero poetante, la cui giuria era composta da Renato Minore (presidente), Flavio Ermini, Filippo Maria Ferro, Giuseppe Langella, Cesare Milanese, Giancarlo Quiriconi, Maria Cristina Ricciardi, Jacquelin Risset, Marco Tornar e Raffaele Saraceni. Una mia poesia singola inedita (contenuta in Pen-insul-aria) è stata premiata come vincitrice nella sezione omonima della I edizione del Concorso di Poesia e Narrativa "L'Erudita" ed appare nel volume antologico dedicato al Premio (Giulio Perrone Editore, Roma, marzo 2012). Nel 2018 una mia silloge inedita, Secondo-genitura, ha conseguito il primo premio nell'ambito della XVIII edizione del Premio Letterario Castelfiorentino, sezione inediti. Nel 2016 una mia raccolta inedita, (S)oggetti a (s)comparsa, è stata inclusa nella rosa dei dieci finalisti della seconda edizione del Premio nazionale editoriale di poesia "Arcipelago itaca". Quattro poemetti inediti sono giunti in finale in edizioni diverse del "Premio di Poesia e Prosa Lorenzo Montano" (2012, 2015, 2016 e 2017). Miei testi poetici, finalisti e segnalati in edizioni precedenti e recenti del Premio Montano e in occasione della seconda edizione del Premio editoriale di poesia "Arcipelago itaca", compaiono on-line sul sito della rivista di ricerca letteraria "Anterem", su "Blanc de ta nuque" di Stefano Guglielmin e sul blo-mag "Arcipelago itaca" di Danilo Mandolini. In seguito a segnalazioni, con altre poesie sono presente in volumi antologici e siti legati a concorsi organizzati in Toscana: Premio Firenze, Premio Internazionale di Poesia San Domenichino, Premio Arno Fiume di Pensiero, Premio Letterario Castelfiorentino - edizioni 2011, 2014 e 2018 -, Premio Alpi Apuane 2014, Premio Casentino 2015 (doppia segnalazione), 2016 e 2018 (segnalazione con menzione d'onore), Premio Nazionale di Poesia Borgognoni 2016. Sulla mia poesia hanno scritto Mauro Barbetti, Giorgio Bonacini, Lia Bronzi, Silvia Ferrari, Marco Furia, Giancarlo Quiriconi, le giurie del premio "L'Erudita", del "Premio Letterario Castelfiorentino" e del "Premio Casentino", presiedute rispettivamente dal compianto Walter Mauro, da Marco Marchi e da Silvio Ramat.
Nel corpo del sentire
È impregnata di corporeità, nei suoi aspetti fisici correlati alla percezione di sé e del proprio stare al mondo, la raccolta Anatomie comperate di Gabriella Montanari. Lo evidenziano, già a prima vista, i titoli delle quattro parti di cui è composta, nell’intreccio degli elementi corporali e di quanto essi richiamino sul piano esistenziale, tra ricordi e messe a fuoco dei grovigli del vissuto.
La memoria del corpo pare non dare scampo. E quando riguarda l’esperienza corporea ed esperienziale diventa motivo di sofferenza e di disincanto, in cui la parola deve fare i conti con le abrasioni del vivere e del morire, imbrattandosi con quanto di torbido e di venefico venga a contatto. Parola di corpo e di sangue, di strappo e ferita, che apparentemente sembra giocare sui tasti del sarcasmo e dell’ironia, ma che in realtà riesce a dar luogo ad una spietata messa a nudo: “Un boato e un silenzio / mi fecero di carne lirica. / Salata in superficie / acre nei risvolti del sentire”.
“Di carne lirica”: potente ossimoro di quanto di più materico e lacerabile si possa esprimere e insieme di più visionario e tendente all’unità si possa lasciar risuonare.
E se l’elemento carnale, il vissuto corporeo ed esperienziale, non lascia adito a speranze future, “Per quella maledizione / che ci riempie la bocca di ma sì, sì, dopo. / Dopo, però, è solo la lisca”, ciò che la parte lirica pare essere in grado di difendere è la fiducia nell’oltre-realtà della creazione poetica: “Sento che le tue iridi mi sfogliano, / cercano radici, non sanno cosa pensare. / Scusami, ma io ho occhi solo per un roseto inventato”.
E se, ancora, le parti anatomiche indicano sofferenza e sforzo, propriamente una conquista, dovendo essere acquisite a fatica, come ci indica l’autrice, “Mia prima e ultima dimora, / corpo che mi guardi, / covo di anatomie comperate coi risparmi”, ciò che la parola esprime è la gratuità del suo dono:“Il divino è nelle tue meccaniche, / sacro è il rigore con cui profani l’anima. / In cambio di tremiti e disfunzioni / ti rendo questi versi perché sono tue visioni”.
Una parola sempre impregnata del corpo che la esprime, colma di immagini e di visioni e, insieme, di tagli e dissezioni, come fosse un’indagine anatomica del vivere, a partire dalla vivisezione stessa del dire, da quel “torbido dei nondetti”, quando “madrelingua era l’incomprensione”, fino alla limpida e netta dichiarazione: “odio uccidere le parole, è immorale”. Una parola soprattutto impregnata del sangue che la anima, come Gabriella Montanari evidenzia, con la sua parte carnale, chiedendosi: “Non siamo forse gengive / che blaterano storie / di cui si è perso il sangue?”. E come sottolinea chiaramente, con la sua parte lirica, quando riesce, in una prospettiva positiva sul futuro, a fare sbocciare ”il sangue canterino”.
Dalla sezione Ippocampo sempreverde e ciuffi di memoria
NEURONI E SANTO PATRONO
I nervi delle strade di Romagna
s’infiammano per un nonnulla,
le indoli carburano a spergiuri.
Dio non c’è e non torna subito.
Quando i campi si strusciano al vespro
gli uomini tracannano sangue di giove
e le donne s’apparecchiano:
sughi e orifizi per bocche miscredenti.
Nella mia terra strozziamo i preti
con budelli di acqua e farina,
sacrifichiamo rane ai festival democratici
mettiamo lucciole nei boccali
per fare luce ai sogni.
Siamo teste calde di sole
spaccato tra le onde e i castelli.
Di cosa odora la memoria?
Quanto misura una meta?
Alla guida dell’esistenza
assomigliamo a bambini interrotti,
la patente rosa peonia
le tasche piene di tappini
e gettoni per le giostre.
TRONCHI E CORTECCE
Lo zio addestrava cagne da tartufo
la zia sbollentava cuori di pollo
la cugina era il mio doppio in biondo.
La loro dimora sopravvisse alla nostra diaspora.
Succhiavo ossa di sambuco
in cima al cachi pericolante,
ero un seme in fuga dalla potestà del frutto.
Istruivo bambole compìte
imparavo la non-famiglia.
M’innamorai di un fiore di nome Filadelfo:
deflorò la mia infanzia
in cambio di due stami.
GERIATRICAMENTE VOSTRA
I nonni coi nipoti al guinzaglio
passeggiano lungo i margini
di storie sfigurate da semolino e trame senili.
Curvi, ormai appallottolati
nel cestino delle grandi imprese.
La loro canizie è morbida, di un azzurro pietoso,
sono pulcini che hanno smarrito il domani.
L’ippocampo arranca, poi sciopera.
Chi sei tu? Ti conosco?
La demenza conosce i nomi latini dei frutti dimenticati,
si scorda delle voci e dei visi abitati.
I nonni ignoti
sono sfere di naftalina conficcate nella distanza.
Conservo vecchie foto
del loro non essere stati.
Gabriella Montanari, italo-francese, laureata in Lettere Moderne all’Università di Bologna e diplomata in Pittura presso la Scuola d’Arti Ornamentali San Giacomo di Roma, è poeta, scrittrice, critica d’arte e fotografa. Ha insegnato Lingua e Letteratura Italiana presso l’Istituto Italiano di Cultura di Nuova Delhi (India), Tecniche pittoriche e Storia dell’arte presso il Lycée Français de New Delhi. Ha condotto laboratori di poesia con gli allievi del Lycée Français de Lomé (Togo).
Traduttrice di poesia e narrativa dal francese e dall’inglese, collabora con riviste letterarie, d’informazione, di viaggio e d’arte italiane e internazionali.
È stata co-fondatrice e direttrice editoriale della casa editrice WhiteFly Press (Lugo). Attualmente è docente di lingua francese e Presidente dell’Associazione Culturale WhiteFly, con sede a Torino. È curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali/festival letterari e consulente editoriale.
Esordisce in poesia con Oltraggio all’ipocrisia per le edizioni Lepisma di Roma (2012, Prefazione di Dante Maffia), a cui hanno fatto seguito Arsenico e nuovi versetti (La Vita Felice, Milano, 2013, Prefazione di Lino Angiuli), Abbecedario di una ex buona a nulla (Rupe Mutevole Edizioni, Parma, 2015, Prefazione di Enrico Nascimbeni ) e Si chiude da sé (Gilgamesh Edizioni, Mantova, 2016, Prefazione di Davide Rondoni). Pubblica per Supernova di Venezia (2016, Prefazione di Carla Menaldo) il suo primo romanzo, Donne di cose e per Danilo Montanari Editore (Ravenna), il libro d’arte Reattivo di Valle (poesie e fotografie) con acquarelli di Sergio Monari (2017).
Tra i riconoscimenti: Premio Internazionale R. Farina 2012: 2a classificata con Oltraggio all’ipocrisia; Premio Torresano 2016 : 1a classificata sez. Raccolta poesia inedita con Si chiude da sé; Premio Torresano 2016: 3a classificata sez. Narrativa edita con Donne di cose; Premio Montano 2017: Segnalazione sez Poesia edita con Si chiude da sé; Premio Guido Gozzano 2017: 3a classificata sez poesia inedita con « Cerulea » (da Anatomia comperata), Premio Don Di Liegro 2017: Medaglia d’onore con « A maggio » (da Anatomia comperata).
Se la poesia è un dono che non desidera reciprocità, lo è ugualmente anche quando arriva al poeta dal poeta stesso, e si offre all’altro: non solo per dire la parola, ma a volte e ben più, per dare una parola che aderisca a sé, in quanto cosa significante e molteplice. Ed è proprio con questa consapevolezza che il poemetto di Morelli si avvia e fluisce aprendosi il varco necessario “dall’orlo di un limite”. La scrittura e la lingua, che sono il fare e l’essere della poesia, per l’autore sono indiscutibilmente sostanza per respirare: dunque per vivere. Allora la parola, sottratta alla sua superficiale funzione ordinaria, è una peregrinazione senza meta precisa, anche in una direzione attenta al perdersi. Ciò vuol dire, un’occasione per trovare senso e ritrovarsi ricreando il mondo. Il linguaggio, dentro la voce che dice vibrando in ogni sillaba, può anche scomparire dalla visuale, ma i versi lo recuperano tra pause e interstizi muti, punteggiando i suoni e i sensi. Lì dove il dentro e il fuori sono vocalità ed eco. Morelli è attento a concepire la poesia nel tempo e nello spazio, dove “la presenza di un altrove” si innesta all’origine di un apparire sempre iniziale, sempre in continua diffusione. Perchè nella voce poetica il conflitto fra dicibile e indicibile è il segno che fonda il disegno (anche impossibile) del senso. Anche dove l’annuncio è oscuro, precisa senza nessun timore, l’autore. In questi testi, dunque, la significazione oltrepassa il significato, perché forma, direzione e percezione del sentimento hanno come unica valenza un pulsare inarrestabile.
Dalla sezione “Lasciare traccia”
***
Tu non sei qui con noi: allora
per chi, perché, da dove parli?
Dall’orlo di un limite,
- varco e precipizio –
da dove si vedono antiche latenze squarciarsi,
le inquietudini ritrarsi nell’ombra,
inaridirsi le domande
e disperdersi a spettri le misure,
relitti che si spengono su larghi abissi di futuro,
aspettando nel crepuscolo che scompare i giorni mancanti.
Dalla sezione “Un difficile partire”
***
Giunti alfine al bilico,
nella sosta costretti soffocanti d’attesa,
accecati e senza più voce,
non riconosciamo i resti avulsi
della nostra muta
che la terra accoglie e trasformerà in enigma,
mentre ci realizziamo ostaggi
rapiti dai tirannici compagni di viaggio
che abbiamo creato e nutriti.
***
Di questo trepidare
mentre ti senti andare
traccio ricordo,
del momento in cui s’estinguono le memorie
e non concepisci un avvenire.
Di questo difficile partire.
Romano Morelli è nato a Liegi, Belgio, il 13 giugno 1953.
Vive e lavora a Padova.
Ha pubblicato:
Con questo libro Alberto Mori ci indica quattro delle mille e mille direzioni che può prendere il linguaggio: la Strada, l’Immagine, la Carne, la Migrazione.
Vi è nella poesia di Mori una continua alternanza tra identificazione e distacco.
Identificazione con le cose nominate e distacco dal soggetto che le nomina; anche se non è poi così facile qui distinguere l’oggetto dal soggetto…
È anche su questa ambiguità che Mori cerca una strada personalissima per la scrittura, sottoponendola a una sperimentazione incessante, al fine di liberare la potenza rivelatrice della parola poetica, qualunque sia – tra le quattro direzioni individuate – la direzione presa.
Dalla sezione “La Strada”
***
Veduta piena
Parabrezzata tutta al sole
fin dietro alle spalle
ad inquadro del lunotto termico
Nel baglio argenteo acceso dal retrovisore
la sequela spezzata della mezzeria
in mattinata allontanante
***
L’illuminazione delle intermittenze
nastra e rifrange il sovrappasso notturno
Chiama auto a saliscendere
Delinea nel rettilineo successivo
la luminescenza dello sfondo
Scritte tutor per limiti di velocità
***
Tramonto inquadrato flussivo dallo schermo sottopasso
Rettangolo scarlatto brevissimo
acceso dallo iodio dei fari abbaglianti
Finisce il controllo elettronico del limite
Il piede riaffonda acceleratore
Alza la dinamica della strada
nel profumo viaggiante delle tempie
Alberto Mori (Crema,1962), poeta performer e artista, sperimenta una personale attività di ricerca nella poesia, utilizzando in interazione altre forme d’arte e di comunicazione.
Dal 1986 ha all’attivo numerose pubblicazioni.
Nel 2001 Iperpoesie (Save AS Editorial) e nel 2006 Utópos (Peccata Minuta) sono stati tradotti in Spagna. Per Fara Editore ha pubblicato: Raccolta (2008), Fashion (2009), Objects (2010), Financial (2011), Piano (2012), Esecuzioni (2013), Meteo Tempi (2014), Canti Digitali (2015), Quasi Partita (2016).
Nel 2017 Direzioni (edizioni del Verri). La sua produzione video e performativa è consultabile nell’archivio multimediale dell’Associazione Careof / Organization for Contemporary Art di Milano.
Dal 2003 partecipa a Festival di Poesia e Performing Arts fra i quali: V Settimana della Lingua Italiana nel Mondo (Lisbona, 2005), Biennale di Verona (2005 e 2007), IX Art Action International Performance Art Festival (Monza, 2011), Bologna in Lettere (2013, 2014 ,2015 ,2016, 2018).
Negli ultimi anni più volte finalista del premio di poesia “Lorenzo Montano” della rivista Anterem di Verona.
Website: www. albertomoripoeta.com
Clemente Napolitano ci porta con questo libro nel flusso della vita quotidiana, nel suo farsi e disfarsi nello spazio di un libero agire proprio di un’anima che ha compreso il destino cui è assegnata.
Un destino che coinvolge il linguaggio e la coscienza, in un rinnovamento lungo e incerto, in un rituale che ha bisogno di essere continuamente ripetuto.
Qualcosa è già successo. Ma c’è ancora posto per l’emozione di un rapporto che svela tentazioni non dette, segrete, incalcolabili.
Il messaggio è questo: si cerchi di rinascere continuamente, ci si impegni incessantemente in imprese nuove, risorgendo come ogni volta fa il sole al mattino.
***
Perché quest’involucro
non è mai stato
corazza imbattibile
fragile e scosso
da un colpo di vento
lasso ti accoglie
scherno dolente
alla tempesta
solletichi il verso
garrisce la presa
le maglie allargando
rivolta lo sguardo
come una scolta
le spine di Cristo
hanno foglie brunite
***
Hai visto la mano era distesa
il palmo aperto
a mezz’aria sospeso brancolava
il corpo stava dietro
l’angolo teso oscillava perplesso
tra dare e avere
mostrarsi per donare o nel frattempo
tirare il busto
indietro nascondendo l’appetito
ripugnante
***
E della vita godo
la vita stessa
irrefrenabile flusso privato
di separati pezzi
Clemente Napolitano nasce a Caserta, il 2 giugno 1965. A Bologna si laurea col massimo dei voti al D.A.M.S.
Allievo di eminenti maestri della scena teatrale italiana (Leo De Berardinis, Claudio Meldolesi, Carlo Merlo) frequenta, durante e dopo gli anni universitari, numerosi corsi di specializzazione in arti sceniche con particolare riguardo al settore dell’interpretazione e della regia.
Dai primi anni ’90, generalizza l’attività teatrale a stimolo di rinnovati impulsi creativi e culturali: assume supplenze di Storia dell’Arte nei Licei di Napoli e provincia; promuove seminari, dibattiti, progetti interartistici per la costruzione di nuovi spazi orientati ad arginare indifferenza e degrado; è interprete delle sue messinscene e di progetti musicali; realizza reading di poesia; collabora con riviste locali e nazionali; conduce seminari, dirige spettacoli nelle scuole di ogni ordine e grado della Regione Campania e nelle Università di Bologna e Salerno; svolge attività di Teatro e carcere.
Come attore ha collaborato con Leo de Berardinis: Macbeth di William Shakespeare; Carlo Merlo: Cristoforo Colombo di Michel de Ghelderode, Filosoficamente di Eduardo De Filippo; Renato Carpentieri: La serra e Party time di Harold Pinter.
Pubblicazioni più recenti:
L’aria, l’acqua, le stelle
respirano del tuo essere che accade
sempre dentro di me come una sorprendente
vertigine, un vulcano zampillante di fuochi
magmatici. I nostri pensieri connessi
bruciano come fuoco stellare e la tua
voce invochi sempre il mio nome
siccome io invoco di attimo in attimo il tuo e
in ogni ora in divenire e fin dove
nulla più appare così perduti
attraverseremo il sole e la neve, la luce sorgiva
e l’oltre dall’oceano fino allo spazio infinito delle galassie.
Stefania Negro (Lecce, 1965) ha conseguito nel 1990 la laurea in Lettere e nel 1998 la laurea in Filosofia, l’anno successivo ha effettuato il Master europeo Writing for the screen. Ha collaborato per case editrici come Piero Manni di Lecce ed Empiria Roma. Molte sue recensioni e testi di scrittura creativa soprattutto poesie sono apparsi su riviste letterarie. Un suo contributo dal titolo “Tutor nei corsi di formazione” è presente nel libro Le remore e il titanic, vite precarie a scuola, a cura di Luca Antoccia, con prefazione di Tullio De Mauro. Nel mese di ottobre 2007 ha pubblicato con Cierre Grafica nella collana Opera prima la raccolta di poesie dal titolo Fili di luce compresi negli archi del divenire. Nel 2009 ha pubblicato un saggio filosofico-letterario dal titolo Erranze nel divenire nella collana “Pensare la letteratura” con Anterem edizioni. Seguono altre tre raccolte di poesia La geometria della luce (Anterem edizioni 2009), Risonanze (Manni editori 2010), Oscillazioni (Anterem edizioni 2014). Sta lavorando ad una nuova raccolta poetica, attualmente insegna lettere.
Da “Habeas corpus”
***
A te stessa non mi nascondi. Ultimi,
senza clamore, si incontrino i corpi.
***
Manto in inverno.
Parimente lucente,
ho braccia aperte.
***
Febbraio
Flebile è il segno.
La luce allunga il passo.
Tepori inquieti.
***
Dove, infine, si riceva in dono
io braccia, tu parole l’approdo.
***
Di bosco, ove non si scorga, perché
rigermini uno sfalcio.
Paola Novaria, nata a Cuorgnè (TO) nel 1972, ha conseguito la laurea in Lettere classiche presso l’Università di Torino nel 1996 e un master in Gestione degli archivi degli enti pubblici presso l’Università di Padova nel 2005. Archivista diplomata, è responsabile del servizio archivistico dell’Università di Torino, ente presso cui opera dal 1999. Nel 2003 ha pubblicato con l’editore Campanotto e prefazione di Gaetano Berruto la sua prima raccolta di versi, dal titolo Dialoghi muti. Nel 2010 è uscito, per l’editore Campanotto e con introduzione di Enrico Artifoni, il volume Come una resa, vincitore del primo premio (poesia edita) nella seconda edizione del “Premio letterario internazionale Rodolfo Valentino – Sogni ad occhi aperti” (Torino, febbraio 2011). Nel 2012 ha pubblicato con Genesi la raccolta Per carmina quaero, seconda classificata (poesia edita) nella terza edizione del premio letterario “Il Meleto di Guido Gozzano” (Agliè, settembre 2013). Del medesimo premio ha vinto la sezione per poesia inedita nella quinta edizione (Agliè, settembre 2015). La silloge inedita Documento di identità ha ottenuto la menzione nella 29
Ha realizzato con Archivio Tipografico il libro d’arte Like a Journey (Torino, 2014).
Alcune sue poesie sono presenti in raccolte antologiche, tra cui Forme della terra. Dodici poeti canavesani, a cura di Sandra Baruzzi e Anna Tabbia (edizioni Manifattura Torino Poesia, 2010); Cuori smascherati, a cura di Gianluca Polastri (Ananke Editore, 2006); Sei più nove, con invito alla lettura di Margherita Giacobino (edizioni Il dito e la luna, 2004). È autrice di numerose pubblicazioni scaturite dalla sua attività professionale.
L’elenco è disponibile on line all’indirizzo:
https://www.unito.it/sites/default/files/novaria_paola_cv_ep.pdf
Con una poesia tutta aderente alle sottili percezioni non tanto della materia quanto dell’atmosfera, delle fonti luminose, dei riflessi e delle percezioni, Mario Novarini insegue il gioco infinito delle loro variazioni alla ricerca di una geometria sottesa e di relazioni che, sui binari dell’analogia, leghino l’inorganico all’organico, il corporeo all’incorporeo: “seguono la piramidale / spiraliforme geometria / ch’è imposta dalla loro / ineludibile natura”. Più spesso, però, il passaggio da un elemento all’altro si attua attraverso un salto, una discontinuità, ove la luce è il viatico principale. Il tempo traccia anch’esso una via nella quale è possibile attraversare differenti stati, ma resta sempre la metafora visiva la chiave analogica, quando presente. Il sogno unitario non è disgiunto dalla consapevolezza della sua illusorietà. Una vera e propria girandola di luce investe il lettore, letteralmente illuminandolo.
Tempo
Si inquadra
attraverso la sua lente,
che si allontana a poco a poco
dal piano geometrico
su cui ognuno di noi si muove
come per gioco,
la nostra figura,
visibile per un giorno solo,
per un irripetibile
limpido momento solo
perfettamente a fuoco.
Litopoiesi (Genova – Salita Carbonara al Carmine)
Arido grigio lichene
disteso come un’erosa
incrostazione del suolo:
è un vivo fossile la città
racchiuso entro un guscio di pietra,
grumo di pittorica pasta
oleosa che resta fluido
a lungo al suo interno
dopo che in superficie
si è solidificato.
Sotto il piano stradale
la vita si dirada si riduce
a geometrica configurazione:
delle pietre squadrate
l’ortogonale precisione
è il segno e l’unica inorganica
residuale evidenza
di un ingegno la cui gelatinosa
fisica consistenza
è scomparsa da tempo.
Dove il mare immobile delle argille
rovescia gli spruzzi marnosi
delle sue onde pietrificate
su dorsali calcaree
e detritiche coltri alluvionali
di instabili depositi ghiaiosi
si allungano nell’alveo di acque
che un tempo risuonavano al cielo
e ora scorrono per buie vallecole
sotterranee, sprofondano
millenarie basi di pietra
calate nel sottosuolo:
umano atto fondante
che sembra uguagliare
della natura il lapideo
effusivo parto di roccia,
al manufatto accomunato
da simile tettonico
destino di compattezza, usura
e disgregazione.
Mario Novarini (Genova, 1962) è laureato in Lettere con una tesi in Glottologia. Ha pubblicato Inventario (Book Editore, 2002), Con gli occhi della materia (Book, 2008) con cui è stato finalista al Premio “San Domenichino – Città di Massa” 2009 e ha vinto il Premio “Alessandro Manzoni” 2011.
Da Il gioco magico
***
I principi della Relatività di Albert Einstein
andrebbero applicati alla vita.
Muoversi in un tempo diacronico
e nello spazio sincronico
in relazione alla luce della verità
nella quarta dimensione del dubbio
che come involucro cosmico
avvolge tutto in una curvatura
difficile da misurare
ma elemento fondante della verità.
Salvo Nugara. Sono nato nel mese di aprile del 1954 a San Giovanni Gemini, entroterra occidentale della Sicilia, a circa quaranta chilometri da Agrigento. E’ da lì che provengo, lì ho passato la mia giovinezza, fino a quando nell’estate del 1969 la mia famiglia si trasferisce a Torino. Qui comincia una nuova avventura per la mia vita, da sradicato in un momento difficile per la mia età, 16 anni.
Non riesco, nonostante tentativi , ad inserirmi nello studio mi accontento di fare una scuola professionale e nel contempo , poco più che diciassettenne vado a lavorare in fabbrica. Erano gli anni della contestazione operaia e della presa di “coscienza di classe”, come si diceva allora. Io sviluppo un atteggiamento critico verso il lavoro in fabbrica e contro lo sfruttamento operaio. Saranno anni di grandi esperienze e molto formativi. Scopro in me una vocazione letteraria coinvolgente, scrivo per giornalini di fabbrica e anche parrocchiali, capisco che la mia cultura, trascurata fino ad allora, mi pone dei limiti “inaccettabili”, ritorno a scuola, frequento corsi serali, imparo un mestiere, ottengo un attestato di qualifica di meccanico, mi rendo autosufficiente dal punto di vista economico. Comincio a scrivere versi, sono arrabbiato a volte prolisso e comiziante, non mi piace quello che scrivo ma vado avanti lo stesso, sento di aver bisogno di scendere più in profondità nella conoscenza letteraria e lo faccio da autodidatta onnivoro.
Seguono anni convulsi e pieni di cambiamenti, mi sposo, nasceranno due figli; pubblico per i tipi di Italscambi Torino la mia prima raccolta poetica, “Ancora L’implacabile Sete” acerba e piena di un’enfasi che ho poi dovuto mediare e abbandonare con il cambiare dei tempi, sempre restando nel solco della poesia impegnata socialmente e composta con un verso libero a tratti prosastico. Negli ultimi 30 anni ho poi svolto un lavoro impegnativo presso un’azienda di servizi torinese. Da circa cinque anni sono in pensione ma la mia vera gioia sta nel fatto che la passione per la poesia non si è mai spenta.
Ho ricevuto negli anni riconoscimenti a concorsi letterari più o meno importanti, uno dei quali è consistito nella pubblicazione di una silloge intitolata “Le belle Primavere” (Milano libri/quaderni di Controcorrente 2001) ispirata a “Le belle bandiere” di Pasolini.
Da lì in poi ho cercato di riordinare le idee e le carte scritte in tanti anni continuando a ricevere nuovi stimoli, viaggi, letture, incontri. Ho molto “smussato” (togliere gli spigoli, le bavure, termini gergali della fabbrica metal meccanica) cercando di restare nel solco della poesia civile e allargandomi all’immaginifico, alla metafora, scegliendo meglio le parole, per acquisire una certa grazia e musicalità, poi anche il sarcasmo, il tono duro, quando si deve ma con pacatezza, senza quell’urgenza che portava all’errore, al distacco antipatico, anzi, con coraggio a volte anche bizzarro e sperimentale, scavare nuovi solchi, inventare nuove parole, provare a svecchiare ma recuperando quel tanto di bello e classicheggiante che ammalia, distende.
Mi sono avvicinato al mondo del Self-Publishing, Youcaprint, Lulù, Ilmiolibro GEDI Gruppo Editoriale S.p.a. con i quali ho pubblicato “Il Corpo del disperso viaggiatore, 2011”, “Checkpoint a Eurolandia, 2012”, “Savana Urbana, 2013”, “Non c’è verso di finire, 2013”, “Squadernario, 2013”, “Tao Rana Vulgaris 2014”, frutto dell’esperienza di volontariato con Auser Torino. “Doline della Ragione 2014”, “La semantica del miele 2015”. Pubblico una raccolta di racconti brevi dal titolo “Volevo fare L’ipnotizzatore” dove racconto, in parte, la mia infanzia. Seguiranno poi, “Derive – Atlante della Tigre bianca” 2017 e “Distopie” sempre nel 2017’ che ora presento alla 32° edizione del Lorenzo Montano Opera edita, compendio dei 30 anni di poesia.
Ognuno di questi libri ha una sua storia, una motivazione, un tema, le date di pubblicazione non corrispondono agli anni in cui le poesie e le raccolte sono state scritte ma s’intrecciano e racchiudono, abbastanza esaustivamente, tutta la mia poesia più significativa. Intanto continuo a scrivere ed ho in serbo una nuova raccolta dal titolo provvisorio Diacronie. Nel contempo presento ancora al premio sez. “raccolta inedita” “Il gioco magico, quasi un’elegia famigliare “dove finalmente, con un tentativo più organico rivolgo lo sguardo, apparentemente al mio privato ma il tentativo è quello di raccontare il “nostro” relativo passato prossimo.
da “La specie invasa - Aporie dell’incavo”
***
Interessava il suono e la distanza, quel dannato morso di decibel che oscurava il silenzio, trapassandolo, infliggendogli un dolore muto, un'agonia di rotture, l'acatalessia dell'universo in cumuli di parsec sparati lì sul dubbio, con dovizia d'aghi inchiavardati nel teguentale docile, nell'infranto degli innocenti e dentro tutto un cascare senza più importanza.
***
Lo stato delle cose è sibilo latente, densità distesa su un triclinio fagocitante voci e carenza. Stasi del remoto, cui arrendersi è primario e vellicate memorie ordiscono riduzioni a maceria; nascite e morti a sostanza di cerchio, a perigliosi sapori sanciti nella zona del nulla più rorido. Non ho remore, se non nell'arrischiarmi nel significato. E i tropi e le figuratiche non sanciscono più l'inermità della parola scriminante, non alloggiano mai più in stadi febbrili. Condannarsi a vivere è un continuo stratagemma, un'inutile rivalsa da bersi piano, di bile, alla fonte dell'inferno, nell'infermità del dubbio, al prevalere inane delle forme e dei contorni di tutto il suono romito e mancante.
Leccese di nascita, Marco Nuzzo è scrittore, poeta, blogger. Pubblica per numerosi siti e blog letterari; collaboratore editoriale, ha ottenuto riconoscimenti in ambito nazionale. Ha pubblicato sillogi poetiche ed editato diverse curatele di poesia, prosa e saggistica.
BIBLIOGRAFIA
* 2011 “Ultime frontiere” - (Poesia) Aletti Editore.
* 2011 “Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso” - (Poesia) Rupe Mutevole Edizioni, prefato da Emanuele Marcuccio.
* 2011 Antologia del Premio Internazionale Mario Luzi 2011.
* 2011 Antologia del Premio Wilde.
* 2011 Curatore dell’opera “Anteprima” - di Fausto Giovanni Longo - (Poesia) Rupe Mutevole Edizioni.
* 2012 Curatore dell'opera “La passione di Ornella” - di Nina Vanigli (Romanzo erotico) Lettere AnimateEditore.
* 2012 Prefazione per “Casa di mare aperto” (Poesia) - di Felice Serino, Centro studi Tindari Patti.
* 2012 “Anime” – Di Gioia Lomasti e Marco Nuzzo (Poesia), Photocity Edizioni.
* 2013 Prefazione e revisione della raccolta "L'ora dell'Horror" (Racconti AA.VV.), Edizioni Il Foglio.
* 2014 “Le falene dalla luce” - Di Alessandra Molteni e Marco Nuzzo (Poesia), Matisklo Edizioni.
* 2014 “NeoN-avanguardie” – A cura di Ivan Pozzoni (Antologia in versi), DeComporre Edizioni.
* 2016 “XXX” vol. 2 – a cura di Ivan Pozzoni (Antologia in versi), Limina Mentis Edizioni.
* 2018 “La specie invasa – Aporie dell’incavo” – Di Marco Nuzzo (Poesia), Youcanprint Edizioni.
Marika Orlando è nata a Milano nel 1985. Laureata in Legge. L’opera che presenta è solo una parte dei racconti che ha raccolto in “Unisci i Puntini”.
Ogni racconto ha un tema. Lo scopo è quello di suscitare emozioni, che il lettore dovrà unire, come nel gioco della settimana enigmistica, e magari dare forma a una sua immagine. Quale sia, non si sa. Una delle grandi bellezze della lettura è che non esiste un’unica via all’immaginazione del lettore, ma infinite. Come punti nello spazio.
Ilaria Palomba, da “Mancanza”, Augh! Edizioni, 2017
***
Siamo mancanze
che s’incontrano
specchiandosi nei vuoti.
***
Lasciavo sentissero l’odore
del sole nascente,
tuttavia non restavo mai.
Sapevo condurre nel vuoto
dinanzi ad altissime maree,
a loro scegliere
se attraversarle.
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Starsene in disparte è una forma d’amore.
Abitiamo illusioni
e ne siamo prigionieri.
E di solo cielo mi sazio tra queste rovine.
Ilaria Palomba collabora con "Mag O" della Scuola di Scrittura "Omero' e 'Succedeoggi". Lavora nell'ambito della riabilitazione psichiatrica al Centro Diurno Monteverde. Ha pubblicato per Gaffi il romanzo Fatti male, tradotto in tedesco per Aufbau-Verlag, per Meridiano Zero Homo homini virus, vincitore del Premio "Carver" e terzo al Premio "Nabokov", una volta l'estate scritto a quattro mani con Luigi Annibaldi, vincitore del Premio "L'Aringo Essere Donna Oggi", e il saggio Io sono un'opera d'arte viaggio nel mondo della performance art (Edizioni Dal Sud). Alcuni suoi racconti sono stati tradotti, in francese per "Les Cahiers européens dé l'imaginaire' e in inglese per Mammoth Book. Ha curato l'antologia di racconti e disegni Streghe postmoderne (AIter Ego). È tra gli autori delle antologie li Mestiere più antico del mondo (Elliot) e Sorridi, siamo a Roma (Ponte Sisto).
Il poeta vive sul margine, sull’orlo. Da questo limite acquista centralità, anche se il mondo pare non accorgersene.
Come ha scritto Brodskij, “l’esercizio poetico è uno straordinario acceleratore della coscienza”: in questa poesia infatti una maceria viene aggettivata, allo stesso tempo, “intima”, “inutile”, ma “irrinunciabile”.
Una maceria, un classico elemento residuale, per il poeta diventa costitutiva e fondamentale. Sicuramente non scarto ma pietra su cui costruire. Portando con sé echi lontani di grande e indimenticabile poesia, Giovanni Parrini ci conduce in un luogo che viene sì descritto, ma allo stesso tempo interiorizzato.
Le descrizioni, precise, si trasformano in pensiero, in “sangue inquieto”.
Solo il poeta, dai margini, può ad esempio riconoscere, all’interno di un paesaggio, un’enclave.
In una scena aperta, vedere il recinto. Può farlo perché è un abitatore di bordi, di spazi ristretti, di riserve. Solo il poeta ci può dire che la vita, di noi umani e di tutti gli altri esseri ed elementi, è “solo destino senza arrivo”.
Ai Margini
Di questa intima maceria così inutile
mia
irrinunciabile
e di te prato asfittico che gli olmi condannati proteggono se resterà
qualche testimonianza non saprei
ma non importa, infine
ora che mi parrebbe di comprendere
che la tua terra indurita da pezzi di mattoni
e le rime cercate per ridarti la beltà uccisa
sono un solo destino senza arrivo
tensione a qualche altro numinoso dettato.
Tu resistita enclave d’una forza di margherite e corse io, sangue
inquieto, incapace a cantarti
a darti l’infinito:
noi eguali
già scordati e vincibili
mentre ci passa accanto la tramvia hi-tech coi fari miti inondati di nebbia.
Giovanni Parrini è nato a Firenze, città in cui vive.
Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: Nel viaggio (Lietocolle, Faloppio, 2006); Tra segni e sogni (Manni, Lecce, 2006); Nell’oltre delle cose (Interlinea, Novara, 2011 - Premio Mario Luzi 2011; finalista Premio “Il Ceppo” di Pistoia 2013); Valichi (Moretti&Vitali, Bergamo, 2015 - Premio Viareggio-Giuria 2015; Premio Pisa 2015); Le misure del cielo, rivista Poesia n° 284, a cura di M.G. Calandrone (Crocetti Editore, Milano), Tra poco, nell’aurora, in Nuovi Argomenti n° 73 (Mondadori, Roma, 2016). Quindici poesie sono presenti nell’Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, Milano).
Una selezione di quattro poesie da Valichi, tradotte in inglese da Dominic Siracusa (University of California, Los Angeles), è stata pubblicata sulla rivista internazionale Equipeco, n° 43 (a cura di Flavio Ermini).
Una lettura pubblica di Valichi è stata fatta dall’attore Leo Gullotta, nell’agosto 2015, presso il parco naturale del Conero.
Suoi lavori poetici sono ospitati in riviste, fra cui “Atelier, gli artigiani della parola” (Ladolfi Editore, Borgomanero), “Bollettino 900” (Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna), “Specchio” (mensile del quotidiano La Stampa), oltre che essere pubblicate in siti web.
È uno dei collaboratori della rivista di arte e cultura Caffè Michelangiolo (Polistampa, Firenze) in cui pubblica poesie e brevi saggi su poeti contemporanei, italiani e stranieri.
“I sing the body electric” è il titolo di un lungo poema di Walt Whitman che è stato ripreso, per il loro secondo album, dai Weather report.
Tra le due, sembra essere più quella musicale l’accezione preferita da Gabriele Pepe.
Partendo dalla coda del lungo testo leggiamo “e questo è il blues del tempio risanato / che atomo per atomo rinnova la promessa: / spiga nuova, futura resistenza…”.
Finisce così la poesia, con quei puntini di sospensione che sembrano amplificare l’apertura a un futuro in cui ripromettersi almeno la resistenza, dalle particelle costitutive rappresentate dagli atomi e con l’immagine della “spiga” che porta con sé tutto il suo carico simbolico.
Proprio perché prima c’erano stati “corrotte fecondità del seme e dell’ovaio” e, in generale, un cosmico declinare. Questo mondo che muta nell’instabilità di ciò che potrà accadere può contare nella strenua resistenza di un simbolo universale.
I sing the body electric
Se, di slancio, da un tempo non ancora diramato:
(strepitio di verbi di vago declinare fuori e dentro
i respiri di questo castello senza torri
né muraglie, ma di sole feritoie)
staremmo ancora qui, nel mondo affastellati,
di organismo nuovo a decantare:
vertiginosi approdi e intrepide crudezze,
quali interpreti, quali voci,
quali immagini, quali incanti se non per dire:
“...mai più vicario era:
al palio siderale di tutte le contrade
umane e sovrumane,
al combattivo inganno di una volontà di carne
caduta e dilaniata al centro di questa muta guerrq
che soltanto esiste nel breve ingaggio
della sua dissipazione;
mai più vicario era:
alle corrotte fecondità del seme e dell'ovaio,
ai margini discreti delle indotte consuetudini,
al gorgo tumultoso delle correnti alluvionali:
saldo scoglio al centro di ciò che ovunque scorre
fieramente stava:
(eroico continente dell'umane meraviglie).
E non più soggetto era:
al rigoroso sfinimento dell'indagine perenne,
al gelido sbiancare dell'ennesima parola pronunciata;
e non più soggeto era:
al peso insostenibile di esser freccia e mai l'arciere,
al ristagno dei fluidi, all'estradizione delle cose morte,
al ripiegamento delle vertebre sul cuore dell'abisso:
incompatibile al gergo dell'antico transitare,
senza timore alcuno, massiccio e puro,
sull'orizzonte degli eventi, superbo, andava...”
Questo è. Fu. Sarà: il secolo inderogabile
del corpo nuovo che ibrido
riassume, nel buio e nell'azzurro,
la risacca modulare delle intere percezioni
organico-inorganico
variabili circostanze di realtà aumentate
segmenti di corteccia replicante
che trasuda un'ambra di pensieri del tutto originali
e intrappola concetti inclini all'esatta taratura..
Saccenti e osceni quanto basta, ancora cantavamo:
“...questo è il blues del pianto elettrico a lacrime di cromo;
del sangue color dell'argentoro che,
da un polo all'altro reclamato, più veloce
del lampo cellulare, come una tempesta scorre;
e questo è il blues del tempio risanato
che atomo per atomo rinnova la promessa:
spiga nuova, futura resistenza...”
Gabriele Pepe, finalista, segnalato e vincitore in diversi tra i maggiori concorsi di poesia, ha pubblicato: “Parking luna” edizioni Arpanet, Milano 2002; “Di corpi franti e scampoli d’amore” e “L’ordine bisbetico del caos” con le Edizioni Lietocolle libri, Faloppio (Como) 2007. Figura nelle antologie: “Ogni parola ha un suono che inventa mondi”, edizioni Arpanet, Milano 2002;
“Fotoscritture”, edizioni Lietocolle libri Faloppio (Como) 2005; “Poesia del dissenso II”, a cura di Erminia Passannanti – Edizioni Joker ( Collana Transference) 2006; “Blanc de ta nuque. Uno sguardo (dalla rete) sulla poesia italiana contemporanea”, Edizioni Le Voci della luna (2006-2011), a cura di Sergio Rotino, Collana Segni, volume n. 7, pp. 272; “Forme concrete della poesia contemporanea”, studio critico a cura di Sandro Montalto, Edizioni Joker.
Suoi testi, recensioni e segnalazioni sul suo lavoro sono apparsi in rete e su carta.
Strategie di avvicinamento sostenute da un’attrezzatura razionale, a tratti geometrica, non prive di lusinghieri inviti a una realtà che già si sa essere menzognera, vengono a tessere la trama poetica di Daniela Pericone. Ogni cosa viene localizzata, misurata, se ne coglie la distanza rispetto al sé, mentre ci si ripete la lista di precauzioni a cui attenersi per evitare spiacevoli conseguenze: “Non cedere a lusinghe / di paesaggi, / sciogliere nodi / è mestiere da penelopi / la tentazione è nelle forbici”. Una giusta distanza fa valutare ciò che è nel campo visivo e dà il tempo di elaborare l’azione necessaria. Ma è anche testimonianza di un’attitudine allo sguardo non priva di passione che inevitabilmente brucia le distanze, rendendo sonanti le parole e fusi il soggetto percipiente e il referente. Ma di questo ci aveva dato già certo indizio l’uso di un’aggettivazione sensuale e mobilissima.
Dalla sezione “Lucori”
2.
Davanti a voi sospesi
d’inerzia e dolenti
traveggo un guado alle cime
d’assalto cavalco un volo
un calco di volto
in assolo.
11.
Scrivere accresce lontananza
da mani disutili e nomi inceneriti
- inesperta di vanità che distoglie.
Nostro soltanto è conoscere
e non dirne vanto o privilegio.
Non turbare la luce che covi,
forgia un accordo di fuochi.
Verrà il torchio dei dolori
del corpo e in quelli adoprarsi
per non dare la resa o invelenire.
Se c’è un rivolo, un cielo uguale
ai deserti, accogline l’empito
la vampa improvvisa
nel cavo del gelo.
Dalla sezione “Disertori”
4.
È ora che suono
si plachi a scuotere via
ogni eccesso un gesto
in levare un lavare le scorie
osso d’un tempo a scucire
vertigine di varianti.
14.
Da temperamento
ed esperienza nasce dirittura
di viaggio, incisa fisionomia.
Non stupire se insorge deviazione,
la mente duttile non teme incoerenze
respira affetti, riconosce occhiali e mani
sul cuore, avanza d’alta ebbrezza
l’agire, l’eresia.
Daniela Pericone è nata nel 1961 a Reggio Calabria, dove vive. Ha pubblicato i libri di poesia Passo di giaguaro (Edizioni Il Gabbiano, 2000, con una nota di Adele Cambria), Aria di ventura (Book Editore, 2005, prefazione di Giusi Verbaro), Il caso e la ragione (Book Editore, 2010), L’inciampo (L’arcolaio, 2015, prefazione di Gianluca D’Andrea e nota di Elio Grasso). Cura, con enti e associazioni, eventi e incontri culturali.
In transito
Vagone passeggeri Convoglio nel tunnel del vivere
Assonanze/Dissonanze nelle scelte (de)finite dell’Esistere
Accelerazioni/Rallentamenti nell’antitesi del quotidiano
Fumo/Nebbia Scelte offuscate
e…e…e…/o…o…o…affanno semantico ricerca di parola
Pendenze ripide Desiderio di ripresa Scambi obbligati
La valle lontana La cima tortuosa La stazione deserta
La pioggia batte sul vetro riparo/sipario di giorni caduchi
Il sole tramonta nuvole/bambagia verdi stagioni
Stridere di freni Binario invecchiato Mancanza di verifiche
Ruggine/Rancori Impietose ripicche Assenza di perdono
Risveglio del Lupus Ritorno di un Credo
Aggrapparsi al sostegno Mantenere equilibrio Vacillare
Azioni dovute (pre)tese Franchi tiratori
Intricato bosco di conifere Resine olezzanti Vischiose
Lasci il tunnel La fermata è vicina L’avviso annuncia
Devi scendere senza bagagli
Anna Maria Pes (già docente nella scuola media statale), opera in campo artistico dal 1978 (acquerello, ceramica, incisione) e in campo letterario dal 1998.
Dal 1998 le sue poesie sono state pubblicate in riviste letterarie: SILARUS Battipaglia, POESIA Crocetti Editore (Testi dei lettori) e in Antologie: “Andar per poesia“, “Luci ed ombre“ (Ibiskos Editrice Empoli), “Scriviamo un libro insieme“ (ALI Penna d’autore Torino), Circolo Culturale Identità Pontedera, Spazio Donna Striano Napoli, “L’emozione del ricordo” Armonia delle Muse (Ibiskos Editrice Empoli) (Fiera del Libro 2006 Torino, Fiera del Libro Roma 2006), “Incontri di Poesia“ (Ibiskos Editrice Empoli), “Officina della Percezione”, “Percorsi del dire I” (Anterem Verona), “Città di Salò 2006” Riviere del Benaco, “Solchi di Scritture”, “Poeti e scrittori contemporanei allo specchio “, “Tendenze di linguaggi “ (Edizioni Helicon).
Riconoscimenti e premi nei Concorsi: “ G. Gronchi” Pontedera , “Gli Etruschi” Vada-Livorno, Circolo Culturale Sardo Brescia, Concorso Nazionale Ibiskos - Risolo ( sez. Poesia singola, sez. silloge inedita), “Spazio Donna” Striano-Napoli, “Città di Salò” Ibiskos Ed.Risolo, “Mondolibro” Roma, “Casentino” Poppi-Arezzo, “Maestrale San Marco 2006” Sestri Levante-Genova, CEAC 2011 Milano – “Citta di Pontremoli” La Spezia, “L. Montano” Anterem – Verona: 2003 /2013 /2014 / 2016 /2017/2018/2019 (sez. Una poesia inedita), 2006 (sez. Raccolta inedita)-; Premio “Il Delfino” 2015/2016/2017/2018/2019 (sez. Poesia) Marina di Pisa.
1° premio Concorso “Il Delfino 2014” Marina di Pisa –Pisa sez. Poesia: ” Come gabbiano” (da “Solo sentire”).
Opere edite:
2002: “TRASPARENZE” Ibiskos Editrice Empoli (Fiera del libro 2003 Torino).
2007: “SOLO SENTIRE” ( Fiera del Libro 2007 Torino, 2006 Roma ) Ibiskos Editrice A. Risolo -Empoli (segnalazione d’arte Premio Internazionale “L’integrazione Culturale per un Mondo Migliore” 2011; finalista sez. Poesia Concorso di poesia “Terzo Millennio” XIV Ed.2014 C.A.P.IT. Roma)
2015: “IN DIES” (Book Festival di Pisa 2015) Ibiskos Editrice A. Risolo - Empoli (Premio della Giuria “Città di Pontremoli” 2016)
Opere presenti presso le Biblioteche:
Biblioteca Universitaria Cagliari, Biblioteca Comune di Cagliari, Biblioteca Provinciale di Cagliari, Biblioteca Universitaria di Sassari, Biblioteca Comune di Sassari, Biblioteca Nazionale Centrale V.E.II Roma - Biblioteca Civica Terzo Alessandria, Biblioteca di “Presenza”, Striano - Napoli, Biblioteca Nazionale Centrale Firenze, Biblioteca Marucelliana Firenze, Biblioteca Comune di Poppi ( Arezzo), Biblioteca Civica Verona.
Da Convesse, concave
scrivere inverno binario 4
finché non transitano foglie
l’aria sta ritta
di vetro
sopra la stazione
una chiesa avevano tirato su e in pochi
nelle stagioni a indurire
rasoterra parlavano
c’è voluto un ago
per gli anni da intagliare
c’è voluta una freccia
per ricamare
ad ogni ora che si tende
un arco scocca
il campanile
trema
Fabio Poggi (1972), insegnante, dottore di ricerca in Urbanistica (Venezia, Parigi).
Suoi testi poetici sono stati selezionati e pubblicati nell’antologia Il corpo segreto curata da Luigi Cannillo, Lietocolle, Faloppio, 2008; suoi haiku figurano nell’antologia Haiku in Italia, Empiria, Roma, 2017; alcuni inediti sono stati ospitati dal sito tematico Trasversale.
È risultato finalista per la sezione “poesia inedita” del Concorso Guido Gozzano ed. 2017.
È cofondatore e performer di Augenblick, collettivo di videodanza presente nelle principali rassegne internazionali e organizzatore di Stories We Dance, festival internazionale di settore (Genova).
Oltre che del dialogo fra schermo e danza contemporanea, sulla quale sta seguendo una formazione specifica, Fabio Poggi si è occupato in quanto saggista del rapporto fra performance artistica e spazialità: Boni F., Poggi F., Sociologia dell’architettura, Carocci, Roma, 2011; Poggi F., Architettura, città, danza. Il ruolo dello spazio nella creazione, ricezione e analisi di performance artistiche, in “Studi culturali”, Il Mulino, Bologna, 2014.
da “56 poesie d’amore”, Granchiofarfalla 2016
Che ne sai tu dell’idrovolante?
Che ne sai tu dell’idrovolante
che planava davanti a casa
negli anni ’30 quando
mi affacciavo sul Po
e pensavo a noi sulla
linea Torino-Pavia-Trieste?
che ne sai del mio idrovolante?
tu che te ne vai in giro
con un suonatore di ukulele
mentre io con tutti i miei
pensieri a filo d’acqua
sono il principe
dell’idroscalo
Max Ponte è nato nel 1977, vive e lavora a Torino. Si è laureato in Filosofia all’Università di Torino con una tesi in Estetica. Svolge attività di ricerca presso l’Università di Parigi-Nanterre con una tesi sulla poesia italiana contemporanea. Suoi racconti e poesie sono stati pubblicati in antologie, riviste e raccolte collettive. Ha declinato la sua poesia in senso lineare, visivo e performativo. Il suo primo libro si intitola Eyeliner (Bastogi, 2010). Ha pubblicato nel 2015 un saggio sul futurismo in ebook intitolato Potere Futurista. Del 2016 la raccolta intitolata 56 poesie d'amore(granchiofarfalla).
Max Ponte ha curato vari eventi culturali (mostre, programmi radiofonici, incontri poetici). Dirige la collana di poesia La sposa del deserto per l'editore Paginauno di Milano e collabora con il blog letterario La Poesia e Lo Spirito. È ideatore e conduttore de L'Angelico Certame - un nuovo format di gara poetica - e di Poeticilibri, rassegna di poesia contemporanea alla Libreria Belgravia di Torino.
Tra misura e dismisura
C’è un momento ben preciso, una cesura o una percezione del limite, che separa la piena espansione di sé, del sentire, del dire e la consapevolezza dello stato di esilio della condizione umana e della lingua che la esprime: il limite evidenziato dallo scacco e dalla sconfitta che attende al varco gli atti umani, sia esistenziali che poetici, e che Stefania Portaccio porta alla luce nella raccolta dal titolo emblematico Waterloo.
L’autrice ci parla “dall’orlo”, come evidenzia, fin dall’inizio, il titolo della prima sezione. Da un bordo che segna la misura precaria della condizione umana e, insieme, l’essenza più chiara del luogo poetico per eccellenza, tra lo slancio e l’erranza, l’impeto e l’abbandono, il desiderio e la stortura, la misura e la dismisura. Da un lato la passione, l’aspirazione a tendere a grandi cose, soprattutto lo spingersi a oltranza, come ben evidenzia l’autrice nella poesia dedicata a Marina Cvetaeva, nella cui libertà infuocata si riconosce: “una vita che so la dismisura”. Dall’altro lo sguardo sulla quotidianità, proprio su quelle piccole cose che sostengono in qualche modo le difficoltà di un vivere e di un dire esiliati: “tutto serve in mancanza / di un’estasi in cui sciogliersi / di un segno che ci scriva”.
Ed è soprattutto la riflessione sul dire poetico, o meglio sul mestiere di fare poesia, che pervade la raccolta: in particolare nella prima parte, l’autrice ci permette di condividere la sofferenza e lo sconforto, comuni a chi scrive, nel non poter esprimere appieno l’intensità del sentire, nel non riuscire a dare quella risonanza alla passione e alla ricerca espressiva così profondamente voluta, chiedendosi, da un lato, “come daremo conto della gioia / respiro luce pelle albero mano” e, dall’altro riconoscendone l’impossibilità: “solo non ho l’arte / di cantare gli incanti e dare nome / all’inclusione”.
Una difficoltà che, nelle altre parti della raccolta, coinvolge fortemente il rapporto amoroso, contrassegnando la vita in tutte le sue sfaccettature, dalla condizione esistenziale a quella poetica: “esserti limite esserti centro // epicentro del sisma farmi e smania / di confine // colmare con mia terra la forra / tra le lingue // volevo e sono caduta nel fossato - Waterloo”.
Una sconfitta, sia amorosa che poetica, che ci consegna all’erranza e all’esilio, nella ricerca di un senso che non si lascia approcciare, se non attraverso la scelta dell’inciampo e della stortura: “M’importa la faccenda storta”, dichiara l’autrice, “Scelgo lo sbaglio”.
Una sconfitta scelta più che subita, che caratterizza la condizione umana, come quella del fare poesia. Soprattutto del fare poesia, che costringe, per dirsi tale, a contemplare lo scacco come suo elemento di forza, intrinseco ed ineliminabile.
Stefania Portaccio ci ricorda infatti come ogni sforzo, sia esistenziale che poetico, per essere autentico debba far vivere, nelle piccole come nelle grandi cose, nella misura come nella dismisura, la sua passione e la sua impossibilità, la sua grandezza e la sua Waterloo.
Dalla sezione “Dall’orlo”
Per dare conto della reminiscenza
per preservare quello
che per dimenticanza andrebbe perso
che morirebbe senza
quello che a testa china vai
e senti alla bocca della mente
un sapore salino adolescente
oppure guidi e a vanvera sorridi
***
tutto serve pure i panni stesi
le sfumature lilla il segno nero
storto dei pini contro il cielo
tutto serve in mancanza
di un’estasi in cui sciogliersi
di un segno che ci scriva
Poi c’è la pace
a strappi, a tratti, breccia
tregua a scomparsa come
la linea di carico di un cargo
come la stella cadente e tu il cielo
la bianca bandiera e tu un campo
di contrasti sanguinanti rossi
(da O lost, di Thomas Wolfe)
Nota per il lettore:
Alcune poesie hanno in calce l’indicazione di un romanzo, perché è da quella prosa che è nata
Stefania Portaccio è nata a Lecce e vive a Roma. Nel 1986 sue poesie appaiono nel volume collettivo 7 poeti del premio Montale (All’insegna del pesce d’oro); nel 1987 un’altra silloge nel volume collettivo Testarda Tregua (Sciascia) e nel 1993 venti testi sulla rivista Poesia (Crocetti), presentati da Milo De Angelis.
Nel 1996 pubblica Contraria Pentecoste (I Quaderni del Battello Ebbro). E’ del 2007 la seconda raccolta di poesie, Continenti (Empiria). Nel 2011 pubblica un nuovo libro di poesie, La mattina dopo (Passigli).
Nel 2016 pubblica, con Manni, Il padre di Cenerentola e altre storie, riscrittura di dodici fiabe dei Grimm, in forma di prosa e ballate, corredate da 12 disegni di Stefano Levi Della Torre.
Nel 2017 pubblica con Mimesis Pane per i denti, racconti di letture, raccolta di saggi narrativi intorno all’esperienza del leggere.
Sempre nel 2017 un suo racconto, Dortmund, riceve il premio InediTO - Colline di Torino, bandito dall’associazione culturale Il Camaleonte.
Nel fantastico, ironico, enorme, visionario, dilagante mondo di Ivan Pozzoni c’è spazio per l’apparentemente minuscola attenzione a una lettera. Ce lo dice il titolo di questa poesia: “La malattia invettiva”. Un cambio, tra la “f” e la “v”, che connota la storia del testo.
Siamo di fronte a un uso potente della lingua, a un’invettiva che diventa infettiva per come, tra ritmo travolgente, rime inaudite e lessico adeguato, riesce a portare il lettore in un vortice.
Non è facile il verso lungo: richiede un superiore controllo della musicalità, e nel genere Pozzoni è maestro.
In questo vortice tutto si mescola e non casualmente si incontrano Zulu e afrikaner, Hitler e Leonida, addirittura Mazinga e una donna bionica.
Dopo una ridda di esattissimi termini medici, che suonano bene in questa poesia (che d’altronde, da una malattia trae spunto), sul finire della poesia l’autore ci intima di salire tutti a bordo del testo, persuasivo, convincente e intransigente. Partendo dalle nostre periferie, anche “in comitiva”.
Buon viaggio, sembra dirci, beffardamente suadente.
La malattia invettiva
Per scoprire le cause del mio vivere ogni evento come in dissenteria,
hanno versato inchiostro, enorme svista, nella cannula della gastroscopia
i medici anatomopatologi, e mi hanno diagnosticato la malattia invettiva,
associata a reflussi letterari, dilagati dall’esofago, a ossidarmi la gengiva.
Quando, cane cinico al collare, fiuto odor di malcostume o lezzo d’egopatia
non riesco a tollerare l’altro-nel-mondo, vittima d’abuso di xenofobia
dimentico ogni forma di fair-play, calo nella nebbia del Berserker,
incazzato nero come uno Zulu costretto a sopportare un afrikaner,
dico rom al sinti, sinti allo zingaro, zingaro al rumeno, rumeno al rom
non riuscirei nemmeno a trattenermi dall’urlare a Hitler aleikhem Shalom.
Se non vi digerisco sento dentro «uh, uh, uh» come Leonida alle Termopili,
identificando i vermi, che mi stanno intorno, coll’acuirsi del valore dei miei eosinofili
emetto, in eccesso, acido cloridrico e smetto di disinibire la pompa protonica
con la disperazione di un Mazinga mandato in bianco dalla donna bionica,
sputando, con l’accortezza del Naja nigricollis, ettolitri di cianuro
in faccia a chi, dandomi noia, sia condannato a sbatter la testa al muro.
Per comprendere l’ethos del mio vivere in assenza d’atarassia
barbaro che incontra un cittadino nella chora dell’anti-«poesia»,
sarete tutti, nessuno escluso, costretti a inoltrarvi in comitiva
nei meandri labirintitici della mia malattia invettiva.
Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976. Ha diffuso molti articoli dedicati a filosofi italiani dell’Ottocento e del Novecento, e diversi contributi su etica e teoria del diritto del mondo antico; collabora con numerose riviste italiane e internazionali. Tra 2007 e 2016 sono uscite varie sue raccolte di versi: Underground e Riserva Indiana, con A&B Editrice, Versi Introversi, Androgini, Mostri, Galata morente, Carmina non dant damen, Scarti di magazzino, Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni e Cherchez la troika con Limina Mentis, Lame da rasoi, con Joker, Il guastatore, con Cleup, Patroclo non deve morire, con deComporre Edizioni; tra 2009 e 2016 ha curato una trentina di antologie di versi. Tra 2008 e 2016 ha curato cinquanta volumi collettivi di materia storiografico filosofica e letteraria; tra il 2009 e il 2016 sono usciti i suoi: Il pragmatismo analitico italiano di Mario Calderoni (IF Press), L’ontologia civica di Eraclito d’Efeso (Limina Mentis), Grecità marginale e suggestioni etico/giuridiche: i Presocratici (IF Press), Libertà in frammenti. La svolta di Benedetto Croce in Etica e politica (deComporre) e Il pragmatismo analitico italiano di Giovanni Vailati (Limina Mentis). È con-direttore, insieme ad Ambra Simeone, de Il Guastatore – Quaderni «neon»-avanguardisti; è direttore de L’Arrivista; è direttore esecutivo della rivista internazionale Información Filosófica; è, o è stato, direttore delle collane Esprit (Limina Mentis), Nidaba (Gilgamesh Edizioni) e Fuzzy (deComporre Edizioni).
Un testo che ripropone la riflessione sul potere/non potere della relazione lingua/realtà: Di fronte alla realtà la lingua diventa parola ingannevole.
I consueti tentativi di costruire l’invisibile dimora dell’essere e la consueta mortificazione nel constatare che le sillabe distanti non colmano il vuoto.
Come è stato detto, nella scrittura di Giuseppina Rando c’è la consapevolezza di un linguaggio che non risolve e nel contempo contiene i semi originari dell’esprimersi.
Così si continua, tentativo su tentativo, a tessere strutture linguistiche, a cercare di mettere ordine nell’universo dei significati per trovare un orizzonte di senso.
E’ come un cammino di passi attenti, in modulazione di preghiera.
Alla caduta
Nell’andare a cauti passi, attenti all’ordine comune delle cose, si costituisce il sistema
declinando le ore in tonalità di pianto o in modulazioni di preghiera, protesi ad agganciare il compiuto al ritmo dell’infinito che pure s’ode aleggiare intorno alla struttura.
Alla caduta nel mondo dell’Ignoto
è rimasto impresso in tutto l’essere
l’ardente desiderio di uscirne.
Debole la forma con radici nella melma su cui è stato costruito
il muro dell’indifferenza e da cui hanno origine i cespugli della
discriminazione e della violenza.
Sferzate di vorticoso frastuono ne costituiscono la sostanza vivente del tempo.
Le voci di tutte le discordanze si riproducono
in parole nel movimento delle riflessioni fluttuanti,
nella dialettica incessante di forze contraddittorie.
Nell’andare a piedi scalzi per luoghi dalle sillabe distanti, quasi impronunciabili, nel vuoto si dissolvono le strade della magia e del disordine:
si annulla la Parola, il Sapere che dice …
Di fronte alla realtà la lingua diventa parola ingannevole, un gioco che irretisce sbarrando la strada verso la pura elevazione.
Terrore del nulla.
Nell’andare tra la nebbia diradata altra parvenza avanza: un’immensa spianata ove alla necessità di pensare la finitezza corrisponde l’invenzione che apre all’ascolto del sovrumano.
Fruscio di chiome nel silenzio; trasalire al ritmo dell’attimo infinito e nello sfiorare il sublime, svanisce il terrore del nulla.
Spazio immaginario: ciò che si credeva morto, vive qui sparso tra filari di alberi carichi di frutti, maturati al desiderio di trovare un orizzonte di senso, aneliti-filamenti di travature atti a costruire l’invisibile dimora dell’essere, della propria incorporea sostanza.
In chiarità di cuore
distillato di rose selvatiche
alla caduta
nel mondo dell’Ignoto
Giuseppina Rando, poetessa, scrittrice e saggista, è presente in numerosi volumi di poesia, antologie e saggi. Collabora con diverse riviste. Ha pubblicato testi di Poesia tra i quali: Spuma di mare. Poesie (1970-1981), Statue di gesso (1982-1995), Duplice veste (2001), Immane tu (2002), Figura e parola (2005), Cierre Grafica Verona, Vibrazioni (2007) Noubs Chieti, Bioccoli (2008) Anterem Edizioni, Verona; Geometria della Rosa, Aletti editore, 2017. Saggi: Profili di donne nel Vangelo (2001) Bastogi, Foggia, Chiara. Una voce dal silenzio (2002). Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano, Le belle parole (2013) Scrittura Creativa Edizioni, Borgomanero (Novara). Nel Segno, Racconti, (2011) Pungitopo, Patti Marina (Messina) ha ricevuto il Premio di narrativa - Sesta edizione - Joyce Lussu, Offida (Ascoli Piceno)
“D’una sostanza incerta”, Campanotto Editore, 2015
D’una sostanza incerta
Che poi scrivere
È solo percuotere parole
Perché emettano
Grida di vita
Oppure dolcemente risuonino
D’UNA SOSTANZA INCERTA
Un battito di calore e lacrime
Allineato nella drastica perfezione
Di una pagina.
La sottile demarcazione tra la terra e il cielo
Frequentando
La sottile demarcazione
Fra la terra e il cielo
Non c’è più scampo
All’assoluta certezza
Di esistere
A metà
Ricercando ciò che mi trascende
In pieghe di
Ridente carnalità.
Simonetta Redolfi è nata ad Aviano (Pn) e vive in provincia di Udine. Laureata in Lettere antiche, insegna in un Istituto superiore.
Cosa resta, quando anche i verbi rinunciano e i presagi non dicono?
Per fortuna rimane una figura, vigile anche se colta in un passo simile a uno smarrimento, in un passo che affonda.
L’atto di resistenza poetica è memoria del sottosuolo, terra estrema, fertile per un seme o per un rizoma che si diffonderà.
Il valore della parola vive nella poesia, che registra, oltre le apparenze, il vero.
Alfredo Rienzi infatti resiste con alcuni verbi fossili, criticamente e con lucidità resiste senza cedere all’idea di catastrofe. Nel silenzio, nell’anfratto dove la storia ha deportato le idee, in questa notte nera, le parole necessarie per ridefinire il mondo saranno portate da chi può nominarle.
Qui i verbi rinunciano, i presagi non dicono
Dicono questi versi
di nulla che succede,
non descrivono fatti.
Resiste qualche raro verbo fossile:
sta, aspetta, disperde.
Questo vuole l’ebbra superficie:
al troppo dire, al morso dei ragni
opporre silenzî di arenili
boccheggii di meduse.
Sotto, dentro, diffidiamo delle albe:
ci serve notte, ancora
di radice e di seme
ci serve buio, dentro,
la sua morente schiera.
Qui, in superficie, i verbi rinunciano
i presagi non dicono.
Alfredo Rienzi, nato a Venosa nel 1959, risiede dal 1963 a Torino, dove esercita la professione di Medico.
Poeta e saggista. Nel 1993 ha pubblicato Contemplando segni, silloge poetica vincitrice del X Premio “Montale”, in Sette poeti del Premio Montale, (Scheiwiller, 1993); i successivi volumi sono Oltrelinee (Dell’Orso, 1994) e Simmetrie, Pref. di F. Pappalardo La Rosa, (Joker, 2000), entrambi segnalati al Premio Montale sez. Editi, eCustodi ed invasori(Mimesis-Hebenon, 2005). I volumi citati sono in parte confluiti ne La parola postuma. Antologia e inediti, pubblicata da Puntoacapo Ed., Novi L., 2011, in quanto opera vincitrice del Premio Fiera dell’Editoria di Poesia (con pref. di G. Linguaglossa e postfazione di M. Marchisio).L’ultimo volume in versi è Notizie dal 72° parallelo (Joker Ed., 2015, con pref. di D. Gigli e postfazione di S. Montalto), Premio Civitella-Pelagatti, tradotto in alfabeto Braille, e Premio Metropoli di Torino.
Ha all’attivo collaborazioni e/o contributi creativi e critici con numerose riviste e siti di poesia e letteratura nazionali ed è inserito in varie Antologie critiche sulla poesia contemporanea (tra cui: G. Linguaglossa, La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte, 2002, e La nuova poesia modernista italiana, EdiLet, Roma, 2010; S. Montalto, Tradizione e ricerca nella poesia contemporanea, 2008; L. Benassi, Rivi strozzati – Poeti italiani negli Anni Duemila, 2010; G. Lucini, Poeti e poetiche-I, 2012; G. Linguaglossa, Critica della Ragione Sufficiente, 2018).
Ha partecipato alla traduzione di OEvrepoétiquedi L. S. Senghor, in Nuit d’Afrique ma nuitnoire – Notte d’Africa mia notte nera, Harmattan Italia, Torino-Paris, 2004, a cura di A. Emina. Suoi testi sono tradotti in rumeno ed in inglese.
Come saggista ha pubblicato Del qui e dell’altrove nella poesia italiana moderna e contemporanea, Dell’Orso, 2011, Finalista al Premio Soldati-Pannunzio 2016 e Premio per la saggistica Metropoli di Torino 2016.
Attualmente collabora con i comitati di redazione delle collane di poesia di Joker Editore. È tra i collaboratori e sostenitori di Amado mio, foglio letterario torinese fondato nel 2014 da Marcello Croce e Luca Borrione.
Tra l’immagine di pietra e lo sguardo della storia vi è una ferita aperta che l’essere umano desidera ricucire. La fenice è il simbolo che sembra richiudere la forbice tra esistenza e morte, quasi un filo che ricucia. Alle coppie oppositive, che mostrano l’abisso che le accomuna, appartengono sono anche Dio e il nulla, il foglio bianco e la scrittura, la mente e il corpo. La parola viene in soccorso, aiuta a credere alle visioni unificanti. Tra le pieghe del dire si trova la forma del mitico uccello, che si può intravedere tra “le ombre mute” e “le crepe del muro”. La figura emblematica, che racchiude in sé il sole che sorge e che tramonta, è, nella poesia di Rizza, associata alla stella Cassiopea, punita per la superbia con la quale ha considerato la sua bellezza. Tuttavia, la bellezza è mezzo. Questa volta è la notte e non il cielo diurno a delineare una scenografia gravida di silenzi primordiali, la quale ancora lascia da soli gli esseri umani sul percorso dove vanamente essi cercano di afferrare segni. Ma è proprio nel “perdersi” e nel “rincontrarsi”, la spinta alla rinascita o almeno la spinta a proseguire.
Costellazioni ferite
Immergersi di nuovo per cercare la bestia
lei ferma indifesa dorme, l'occhio è dolce
il suo respiro è il ritmo del tempo che vive
di quel ritrovarsi soli e insicuri sulla carta
tra l'antico sale e la sua immagine di pietra
nello sguardo la storia di una ferita aperta
si scrive Fenice notturna velata sull' acqua
vita di passioni e visioni di pesci volanti
di quell'odore denso, misto di nascita e morte
luci di corpi abbracciati che cercano il senso
di parole dai bordi umidi, liberate nell'aria
con ago e fili d’oro ricuci la ferita del cielo.
Nei loro occhi di ragazzi un deserto buio
nuove costellazioni mescolate alle vele
di quel vuoto che riflette i pensieri freddi
nel disperdersi sabbia, sulle parole ferme
tra il nuovo Dio e la loro prima ferita vera
venuta dal nulla, figlia della sospensione
luce tremolante di una lacrima trasparente,
Idra caduta nel silenzio di un punto bianco
osso lucido al sole: antica memoria di carne
in superficie la cerchi tra le pieghe del dire
immagini la forma del suo essere corpo
stendersi nel divenire, misura dell'abitare
la senti vicina dalla luce che precede ogni
nascita, senza conoscere le sembianze di chi
ormai trasformata, si cela tra le ombre mute
bestia ferma, sospesa tra le crepe del muro,
Lucertola dalla coda a metà, malata d'amore
attesa piegata dal sole che le muore dentro.
Tra i corpi di pietra si allunga Cassiopea
sofferta si nasconde la regina sfigurata
maschera di notte offesa che scivola via
la trama gravida di silenzi primordiali
apre le labbra di carta, lascia l'impronta
di un procedere nella carne viva del testo
striscia tra le statue amputate di memoria
in fondo l'urlo finale prima del giorno
profumo di bianco, colore di sole parole
la sua carne lacerata, dimòra e figura
di una sembianza che ti lascia di nuovo
disperso tra gli amanti del solo andare
procedere a tentoni, a cogliere i segni
di quel vivere a misura del suo passo,
Orione che si fa luce e rinascita rosa
rincorsa e presa sulle labbra, pronuncia
il nome di quel perdersi e incontrarsi
dove l'anima sente ancora il soffio vivo.
Massimo Rizza è nato a Sesto San Giovanni e vive a Segrate (Mi). E’ laureato in pedagogia e ha operato nel campo dell’istruzione in qualità di dirigente scolastico. E’ condirettore della rivista letteraria Il Segnale. Ha pubblicato la raccolta poetica Il veliero capovolto, Ed. Anterem (2016).
Nel 2017 ha vinto il Premio Letterario Interferenze, Bologna in lettere, per la sezione poesie inedite. Suoi testi narrativi sono pubblicati in antologie e on line sul sito della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Testi di poesia, critica e saggistica sono apparsi su riviste letterarie italiane, tra le quali: “Anterem”, “Capoverso”, “Erba D'Arno”, “Il Segnale”,“ l’immaginazione”, “ Pagine”, “Scibbolet”,
da “Tempo di riserva”, Ladolfi Editore, 2018
Quella volta
Quella volta che il sole
è caduto per terra
con uno sparo di voce
dentro la sua stessa luce
colpito forte, sembravano
lucciole le schegge
che mi cascavano tra i capelli
legati in un nodo,
sembrava la fine di un mondo
ma poi la vita riprende – così dicono –
solo meno luminosa e
un poco più fredda, scomoda,
la voce torna ai suoi silenzi
collusi con le ombre, torna
a non dire a dire a metà
a farsi lieve vento tra le nuvole
che da quella volta mi seguono
premurose, in fila
non ho capito se in un corteo funebre
o per darmi l’illusione di essere ancora
una sposa ancora la stessa di prima
- in attesa sempre – ancora viva.
Silvia (Giovanna) Rosa nasce nel 1976 a Torino. Laureata in Scienze dell'Educazione, ha frequentato il Corso di Storytelling della Scuola Holden di Torino. Fa parte della redazione di Argo e per NiedernGasse cura la rubrica "L'asterisco e la Margherita", firmandosi con il nome di Margherita M. Si è occupata del progetto di traduzione poetica e interviste di alcuni autori argentini, dal titolo "Italia Argentina ida y vuelta: incontri poetici", pubblicato nel 2017 in e-book, a cura di Versante Ripido e La Recherche. Suoi testi poetici e in prosa sono presenti in diversi volumi antologici e sono apparsi in riviste, siti e blog letterari. Tra le sue pubblicazioni: le raccolte poetiche "Tempo di riserva" (con prefazione di Gabriella Montanari), Giuliano Ladolfi Editore 2018; "Genealogia imperfetta" (con prefazione di Gabriella Musetti), La Vita Felice 2014; "SoloMinuscolaScrittura" (con prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti), La vita Felice, 2012; "Di sole voci" (con prefazione di Alessandra Pigliaru e postfazione di Enzo Campi), LietoColle Editore 2010 (II ediz. 2012); il saggio di storia contemporanea "Italiane d'Argentina. Storia e memorie di un secolo d'emigrazione al femminile (1860-1960)", Ananke Edizioni, 2013; il libro di racconti: "Del suo essere un corpo", Montedit Edizioni, 2010.
Il canto che intona Lia Rossi ha la melodia irrequieta delle cose liberate dall’ombra. Richiama antiche voci, intese come forze primordiali e come ambiti di uno spazio terrestre che riunisce l’alto e il basso, il cielo e la terra.
Lia Rossi chiede alla poesia cose che solo dalla poesia è dato di sapere. Perché solo la poesia sa in quale rapporto l’essere umano si pone verso il principio e verso la fine.
L’autrice traccia una partizione netta, precisa tra la scrittura essoterica (che immaginiamo a tutti destinata) e la scrittura esoterica (rivolta solo a chi è disposto a prepararvisi adeguatamene). Per raggiungere queste due modalità di espressione e per darne conto sulla pagina, Lia Rossi evidenzia in ognuno degli otto tempi una cesura, uno spazio bianco, verticale; forse una forma di silenzio che in sé trattiene l’urlo arcaico.
Il suo regno è un regno di parole che abbraccia le profondità dei mondi abissali, dei culti misterici di stirpi ormai estinte. È un altrove che impone una domanda di verità e di senso.
Avviene qui qualcosa di molto simile a quello di cui ci parla il rapporto amoroso, rapporto che impone agli innamorati di mettersi in gioco attraverso una terza figura che è l’amore: l’amore come sogno, come impossibile fusione.
In "Principio di rivoluzione" sono da Lia Rossi raccolti i frammenti di un insistente tumulto, di un costante discettare; tanto da indurci a fare i conti con le mille schegge dell’interminabile dilaniarsi di un’anima così vasta da assomigliare all’infinito.
I
La leggenda del patto di fame
del pane della brocca del tetto della casa
danno chiaroveggenza le catene
impetuosa eloquenza
verso il coronamento di emozioni
corso maestoso di rivolte
per l’essenza del pane
prima la sommossa
dai fabbricanti di carte da parati
e in fabbriche di salnitro
all’ombra di un mistero
avevano avuto origine i diritti feudali
II
Diritto esclusivo di caccia di pesca di colombaia
bannalità di mulino di frantoio di forno
la proprietà eminente dei terreni
sulle terre il diritto di giustizia
il diritto di suite sui servi
sui soggetti alla manomorta
al tramonto del secolo ai contadini
gravami regi gravami ecclesiastici
la decima sui quattro grani grossi
avena segale grano orzo
il diritto di seconda erba
di spigolatura di stoppia
III
Non v’è borgo o città immune
dal contagio dell’empietà eterna
e da ogni fatale ineguaglianza
la chimera di manifatture
di cotone nei castelli
compie in abito nero
con mantello di seta
e cravatta di batista
l’effetto sublime delle filosofie
la sovranità nazionale si stende
sugli assolutismi vigorosi
il sale del dovere e la saliera
IV
I ferrai forgiano picche i delitti
immaginari secolari l’eresia
la lesa maestà si aboliscono
non si congela il libero gioco
sul voto non prevedibile
della sospensione regia
la grande memoria della collera
divide il vecchio ordine
disordine nel canto dalle officine
sui cappelli rami di quercia
ha un solo cuore il ricordo
e una felicità
V
Ha gli orecchini di lancia lei
presa all’amo della fedeltà e della virtù
scivola la chioma sotto un panno
a tre colori le labbra dei punti rossi
di pittura la gonna ruota sulle gambe
madreperle illuminate evocate
adorate messe a fuoco
nei riflessi di gocce di blu
il desiderio di guardare riscrive l’illusione
le convinzioni e le fonti di luce
sguardi fulminati seguaci si muovono
amanti dei diritti e delle libertà
VI
“Non sono un leone alato che dorme
i simboli nel momento d’oro crollano
le figure non incatenate si rifanno
branco di gazzelle in corsa
nella grazia dell’idillio civile
una lettera un corpo
tra braccia conosciute
corrispondenza egregia
la memoria sventa il futuro
custodisce nel calare delle storie
dei fogli di mare salato nelle spire
delle conchiglie ritrovate”
VII
“Non voglio mai più negare il volto
il canto di gloria trovato nel sangue
nelle onde profonde nella cenere
nei bordi lampanti dei cuori nella legge
di linee lontane delle ali mai sorte
le viole vicine le lezioni delle acque e delle terre
attraversano piedi costati occhi
le parole su parole come rame infilato
cherubini verso la redenzione
della corte dei savi estraggono l’anima
a distinguere il bene dal male al principio
e alla fine nell’immagine dell’ordine perfetto”
VIII
“Hai le labbra chiare come arancia in spicchi
singolarmente vera intinta nell’argento e nel ferro
parliamo in gran segreto dell’amore più forte
sulla bocca di tutti ridiamo dei capelli fulvi
che sfiorano la schiena alzati come raggi
gli anelli fermi nella mano guerriera serpi di bronzo
non si sospende la pace con le bandiere
velluto rosso canone rilucente di bellezza
fanfara luce tenera demone confidente
speciale autoritratto liberamente di fuoco
anello eterno sfaccettato grande rubino la poesia
innamorata rivoluzione ti ho conquistata”
Lia Rossi, insegnante di lingue e letterature straniere, vive a Reggio Emilia. Ha partecipato a rassegne internazionali di poesia visiva e fonetica.
Le sue poesie sono state pubblicate su riviste letterarie, quali Tam Tam, Steve, Squero, O/E, e nell’Antologia Geiger. E’ coautrice dei cortometraggi sperimentali Una scena da rifare (1980) , E’ colpa di Sara(1983) e Au revoir le langage (2016)
Ha pubblicato Versare con garbo (Ed. Tracce, ), Mail-non mail (Ed.Zona, 2013), Verso il gabbiano (Ed.Tecnograf, 2014), La stanza nella stanza (Ed.Tecnograf, 2015) .
Libri d’artista :Gioconda, 2016, Terno dei castelli, 2016 (per i gioielli-spilla di Elisa Pellacani), L’idea del drago, 2017(stampato sui torchi a mano presso il lab.Manfredi con incisioni di Stefano Grasselli), Carta Luna, 2018 (stampato sui torchi a mano presso il lab.Manfredi con incisioni di Elisa Pellacani).
Le opere Mail-non mail, Verso il gabbiano, Stanza nella stanza sono state premiate nell’ambito del Premio Lorenzo Montano 2012 , 2013, 2014, indetto dalla Rivista di Ricerca Letteraria Anterem.
Le mutazioni
Si snoda come una sequenza di inquadrature, insieme statiche e mosse da trasformazioni, la raccolta Coleoptera di Enea Roversi, in tensione tra stagnazione e cambiamento, immobilismo e mutazione.
Ci si trova su uno sfondo che contempla la compresenza degli stati opposti sia della figurazione che del vivere, come ci evidenzia quella “immagine immota e mutante” di cui scrive l’autore, così come, in un ambito più ampio, l’affermazione: “nulla è cambiato tutto / si è trasformato”. E, insieme, dentro piani di ripresa e di pensiero che mettono a fuoco, nel loro incrocio, immagini filmiche e riflessioni esistenziali.
Le inquadrature spalancano continue domande di senso sul vivere, o meglio sul sopravvivere, di fronte all’inquietudine e al disorientamento generati dalla stagnazione culturale e sociale attuale, oltre che dagli stati, impliciti nella condizione umana, del dolore e della morte. La domanda di senso più pregnante riguarda espressamente la condizione esistenziale, stretta e quasi soffocata dalle mutazioni determinate dalla natura e da quelle imposte dalle odierne insensatezze, portando l’autore ad affermare “tutto ha un prezzo anche l’essere / umano è questo il conto da pagare” e a chiedersi: “che cosa sarà / se diverremo noi stessi una catastrofe / che cosa di noi ma siamo ancora umani / ?”.
Di fronte a tale assillo, restano diverse possibilità, come possiamo intravedere, per trovare una qualche risposta, per uscire dal disorientamento e per anticipare o contrastare le mutazioni che ci riguardano e di cui non conosciamo gli sviluppi.
La più evidente, quella di tipo metamorfico che dà titolo alla raccolta, è la necessità di farsi altro, mutare anzitempo, come scrive l’autore: “forse la soluzione potrebbe stare nel / vivere come un coleottero qualunque / … sorvolare inquietudini e tormenti”, in una danza lontana dalle sofferenze del vivere. Una mutazione di forma liberatoria, una metamorfosi distante dai miti di Ovidio e dal senso angosciante di alienazione di Kafka.
Altra, umanamente, è quella di cercare di “ritrovare il bandolo” in un terreno precario “oltre le / nostre idee oltre i confini ripassati / oltre le mai arrivate risposte”, anche se viene dichiarato esplicitamente un parere pessimistico al riguardo, così come il disprezzo per un pensiero positivo sul futuro e sul destino del mondo e della specie umana.
E altra infine, poeticamente, è quella di portarsi nel cuore della mutazione per cogliere l’essenza delle cose. Anche se afferma che “han perso di significato le parole / tutte o quasi anche i pensieri anzi / il pensiero”, anche se invoca sconfortato “il senso perduto”, Enea Roversi pare mantenere piena fiducia nel dire poetico, che ci permette di guardare al fondo del mutare, nelle forme del vivere e del deperire, dell’essere e del non essere, come indica chiaramente: “solamente un fiore appassito un / rigurgito di natura da eliminare / probabilmente ma sta lì in quel / non essere sta lì l’essenza”.
Dalla sezione Presenze/Presente
fuori tempo massimo
rinviare ogni cosa a quando
ci sarà più tempo rimanere a
guardare dall’alto del ponte
verso il fiume che scorre e scava
osservare dal basso della strada
verso le finestre illuminate
dal novilunio i balconi le colonne
il marmo freddo al tatto gli sguardi
le incertezze ora rinvenute sempre
rinviare ogni decisione al giorno
in fondo al calendario in fondo al
pensiero minimo et morale al
centro delle scorie avanzate rinviare
non hai analizzato il contenuto
peccato sei già fuori tempo
massimo
blu intenso
il taglio della visuale ridefinisce
l’orizzonte ora verticale il suo
blu intenso di termosfera tascabile
muovono le figure (intorno) al
riparo dai venti dalla rosa eccole
abbracciate in un fiato elettrico
sono due parti di uno due parti
metà esatte che scavano
la pietra levigata del giorno
che percorrono curve tortuose
prima di giungere all’arrivo
hanno respiri nelle pieghe del cuore
intersecano ora innocenti
l’orizzonte il suo blu intenso
di antica riemersa profondità
Dalla sezione Il futuro del mondo
coleotteri
forse la soluzione potrebbe stare nel
vivere come un coleottero qualunque
tra miliardi di simili incompresi e vacui
con la disinvoltura del saprofago
che sceglie con cura ogni sostanza
sorvolare inquietudini e tormenti
disegnando nell’aria la naturale
linea di voli radenti e ben calibrati
un organismo anonimo e ronzante
sbeffeggiatore di teste umane
inopportuno trasvolatore in cerca
di
Enea Roversi vive a Bologna, dove è nato nel 1960.
Ha ottenuto riconoscimenti e segnalazioni in vari concorsi nazionali di poesia ed è stato pubblicato su riviste, antologie e siti web.
Tra le pubblicazioni: la raccolta Eclissi di luna (Poesie 1981-1986), uscita in versione e-book nella collana Nuovi Echi per la casa editrice La Scuola di Pitagora e la silloge Asfissia, pubblicata nel volume Contatti edito da Edizioni Smasher.
Più volte segnalato o menzionato al “Premio Nazionale di Poesia Lorenzo Montano” organizzato dalla rivista Anterem, ha partecipato ad alcune edizioni della Biennale di Poesia di Verona e ad altre rassegne letterarie.
Fa parte della redazione della rivista Versante Ripido e figura nello staff organizzativo del Festival Letterario Bologna in Lettere.
Cura il sito web www.enearoversi.it, interamente dedicato alla propria attività letteraria e pittorica e il blog Tragico Alverman – Scrittura e altro.
Gianni Ruscio ci intima di riporre le armi, consapevole com’è che lo sconfinamento, la migrazione, la diaspora, l’esilio, l’esplorazione mediante percorsi impensati caratterizzano la poesia.
Non è certamente la significazione univoca a definirla.
Non è la regola, con le sue armi, a definirla.
La poesia cerca un altrove e un altrimenti effettivi; aspira a ciò che è radicalmente altro.
La creazione poetica è la voce terrena di una creatura che non può liberarsi dalla struttura interrogante dell’esistere umano, attraverso un ascolto in cui è impegnata ogni parte del nostro corpo. Inesauribilmente.
***
Il dorso del corpo del tempo sia
il raccolto del nostro intrecciare. Rispettiamo
questa narrazione - slacciata e riallacciata
da stralci di noi nel cordone spaziale,
e riponiamo le armi. Ripuliamo il corso
della superficie che da cardini antichi ci sorregge
in questa carne del luogo, angolo senza destino.
***
Pelle spiegata a ridosso del tempio,
tempo gemello, e in fronte il colore del vento.
Sensibile crosta di premonizione, sei sotto la pelle
di questa risonanza il motivo
della lotta, il colombo nel nido
che si accovaccia nel vento. E nel vento
tinge un sospiro, placa il suo alito,
riprende fiato, sterminato rinfresco.
***
Fammi la tua verità. Fammi inorganico. Rendimi
opaco. Cieco. Sei tu la sconfitta
dei miei occhi. L’unica. Sconfitta che genera
ritorsione del nulla dentro al nulla... unico sbocco
che in me vede senza guardare. Guardami,
guadami e per i tuoi demoni fammi libro
e costellazione.
***
Corri a ritroso per ritornare
verso la fine di ogni sedimento,
di ogni rottura. Sii finalmente lo scempio
della ruota. Del singhiozzo
il confine ultimo prima del dirupo.
Gianni Ruscio nasce a Roma il 7 dicembre 1984, dove vive tuttora. Ama Anna, Jago, il buon cibo, l’arrampicata e la vela. Pubblica il suo primo libro di poesie nel 2008, a 23 anni. Continua la sua ricerca e nel 2011 esce il canzoniere Nostra opera è mescolare intimità per le edizioni Tempo al Libro. Nel 2014 esce Hai bussato? per le edizioni Alter Ego, con prefazione di Roberto Gigliucci. Nel 2016 pubblica con la casa editrice Ensemble Respira, che si aggiudica una menzione al Premio Lorenzo Montano XXX edizione, e vince il premio di poesia italiana indetto dall’editrice Laura Capone. Interioranna, pubblicato dalla casa editrice Algra nel 2017, è la sua quinta pubblicazione, con prefazione di Gabriella Montanari. Il libro viene premiato con segnalazione al Premio Lorenzo Montano 2017. Proliferazioni, Eretica edizioni, è la sua sesta opera edita.
Da “Poesie della ricucitura”
XI
Ti ho piantato nel verbo della foglia
sapendoti criterio di cadere.
XII
Dev’esserci, tra assennate caterve,
ancora un braccio teso alla morte.
XIV
Perdetti la mia giovinezza al fosso
dove colsi bei fiori dalle braccia
dei morti. Non dimentichi la morte
che tanto cresceva il suo passo antico
se potevo innamorarmi (sì!) della
fine. Finire in una colma pace.
Antica umiltà dei poeti
dammi salvezza in fin di verso.
Francesco Russo nasce a Mugnano di Napoli (NA) il 16/04/1996 e si è laureato in Lettere moderne nel 2017 all’università Federico II. Ha pubblicato due libri di poesia: Ai bordi della strada (Temperino rosso, 2015) e Poesie della ricucitura (Terra d’ulivi, 2017).
Sogno horror
Nella città di Mobrun, le tigri reali, dalle fauci spalancate, sfamano con le loro carni, tagliate sottili, la popolazione locale e i viaggiatori.
Lungo il perimetro dei mercati, le fiere teste non più ruggenti, infilzate nei pali appuntiti di legno, sorridono ai passanti con occhi irridenti. Minaccia e accoglimento: benvenuti nella città delle tigri che si fanno mangiare per mangiarti con gli occhi.
La barbarie delle lame affilate che affettano carne, delle pozze di sangue striato e delle teste irridenti, è riscattata da una fame atavica che viene appagata, da un’ansia sottile che viene acquietata.
Cibo per il corpo e per l’inconscio.
Nella città di Mobrun, migliaia di persone fuori e dentro le case. Piazze piene di gente piena.
Nelle case, si vive come in ogni altra città del mondo. Lo schermo del televisore sempre acceso a brillare immagini che compongono realtà a due o tre dimensioni. Gli schermi dei computer mai spenti, in ogni stanza buia. La luce a Mobrun è fatta di pixel dentro e abbacinanti zanne bianche fuori.
Il sapore della carne cruda urla vendetta nelle strade. Lungo il confine tra l’Asia e l’Europa, sulla via di Marco Polo, meravigliose combinazioni di colori catturano il viandante.
Nella cittàdi Mobrun si arriva solo a piedi e da nessuna parte. Il viaggiatore si ritrova là, nella piazza circolare delle teste di tigre imbalsamate, senza provenire da luogo alcuno. Non c’è altro luogo che Mobrun.
Mangi fette sottilissime di carne di tigre, tagliate per te da accurati macellai con i baffi, e ti infili nelle case altrui a guardare dentro monitor che emettono luce bianca che non illumina lo sapzio intorno.
Nella città di Mobrun tutti sono nel posto giusto. Nessuno desidera tornare indietro né proseguire il viaggio. Eppure, tutti sono in transito, anche coloro che vi abitano da tempo immemorabile.
Una terribile e misteriosa malattia mi costringe a bere un litro di nitroglicerina. Perché?
Questo sarebbe stato un sogno degno di essere continuato ma l’uomo con cui giocavo a scacchi prima di nascere, mi ha svegliato.
Irene Sabetta vive ad Alatri dove insegno inglese al liceo. A scuola coordino da molti anni il laboratorio teatrale insieme al regista Marco Angelilli e, insieme, partecipiamo ad un progetto internazionale di teatro scolastico. Ho pubblicato, per FrancoAngeli, un saggio nel libro La mediazione scolastica. Scrivo poesie e molte di esse sono presenti in antologie curate da vari editori come Perrone, Aletti, Poetikanten, Il Foglio Clandestino, Pagine. Nel 2015, una mia poesia si è classificata prima al concorso Augusto Tacca e, nel 2017, sono stata finalista al Festival della Lentezza con un racconto breve e al premio letterario Don Luigi Di Liegro. La casa editrice LietoColle ha scelto un mio testo per l’ Agenda poetica Il segreto delle fragole e la poesia Incontro come poesia del mese di novembre 2017. A febbraio, ne ha pubblicate dieci nell’Antologia iPoet 2018. La plaquette Inconcludendo, edita da Escamontage, è appena uscita. Miei testi sparsi si trovano sulla rete (Poetarum Silva, Patrialetteratura, Atlante delle residenze creative).
Da Tempo innocente
***
Non ogni radice compie
il suo destino di luce,
né ogni minuto che soffre
apre la sua porta all’abisso.
***
Lo impariamo dal Tempo che velocemente si consuma: la vita
a un certo punto non ci torna più. Strano sarebbe il contrario,
per noi poveri eroi del quotidiano: che seguitassimo fino
alla morte ad essere più o meno soddisfatti del nostro essere qui,
dissolvendo ogni memoria a favore della visibilità, della facciata.
Un giorno, senza preavviso, le cosiddette familiari parvenze
strusceranno come fuscelli sulla sabbia e ognuno resterà
un po’stupito e solo nel mondo vuoto di significato, e tutto sarà
come se non fosse stato.
Nata a Picerno (PZ) Rosa Salvia vive a Roma dal 1986. Ha esordito con il romanzo breve
La parabola di Elsa (Osanna Edizioni 1991). Tra le sue successive pubblicazioni in versi: Intermittenze (Aletti Editore 2003), Luce e polvere (Aletti Editore 2005), Le parole del mare
(LietoColle 2007, Premio Internazionale di Poesia e Narrativa “Cinque terre – Siro Guerrieri”
2008; Premio Nazionale di Arti letterarie, Torino 2008), Mi sta a cuore la trasparenza dell’aria
(La Vita Felice 2012, finalista Premio di Poesia Internazionale Alda Merini – Brunate 2017),
Dolore dei Sassi (puntoacapo 2015) che ha meritato diversi riconoscimenti letterari fra cui la
menzione speciale al Premio Letterario Lorenzo Montano 2016. Testi editi o inediti sono stati
pubblicati in diverse antologie e riviste letterarie. Per la critica letteraria, il saggio narrativo “Frammenti di un discorso poetico” è stato segnalato, per la sezione prosa inedita, al Premio Lorenzo Montano 2015. La raccolta Il giardino dell’attesa (Samuele 2017) è stata premiata con menzione di merito al Premio di Poesia Scriveredonna 2013 e, sempre con menzione di merito,
al Premio Lorenzo Montano 2015.
Una telefonata. Un filo lega due donne. Un flusso di pensieri uguali e contrari scorre da un capo all’altro, dal mondo senza saliva della madre ai lunghi corridoi vuoti nella testa della figlia. E’ il cordone ombelicale delle consuetudini, delle relazioni famigliari. E’ una comunicazione che ripete giorno dopo giorno il non detto.
Ci sono due monologhi che non riescono a farsi dialogo.
Nel pensiero un po’ inerte della figlia, si intravede la possibilità nascente di piccole energie (tiro su la cornetta…mi tiro su i pantaloni…tiro su col naso) innescate dalle richieste materne di cura e attenzione, da un innegabile “discorso amoroso”. Ma presto tutto è ricacciato, tirato giù, nella stagnante terra del non so più che dirle.
Dall’altra parte c’è una donna che si svuota… della sua voce in prevedibili ma inquietanti fiotti d’acqua fredda. Che dice e disdice. Ma il disdire del titolo a cosa si riferisce? Quegli accenni a un suicidio presunto (credo che morirò) sembrano ritrattati con motivazioni che rimandano alle parole di Dorothy Parker (autrice di un memorabile racconto che si intitola appunto “Una telefonata”): I rasoi fanno male; i fiumi sono freddi; l’acido macchia; i farmaci danno i crampi. (…) Tanto vale vivere.
Disdire
Lo so che è lei dal primo squillo lo so che è lei squilla da un altro mondo senza saliva quando chiama mia madre mi tiro su dal divano e penso che so che è lei e che è assurdo che mi prenda il panico però è così e non so che dirle non so più che dirle da quando mio padre se ne è andato in quel modo un pomeriggio di gennaio di una sfarinata di secoli fa una sfarinata di secoli fradici fa e infatti nemmeno oggi so cosa dirle oggi che potrei dirle semplicemente buon natale Catia anzi forse oggi è persino peggio è peggio perché so che oggi avrei dovuto telefonarle io avrei potuto telefonare io chiamare per dire anche soltanto ciao Catia ciao ma’ oggi è natale ma’ e io non vengo no ma’ non ce la faccio a passare e allora niente buon natale e poi cose del tipo cosa mangi oggi la fai una tombola con gli altri vecchi mia sorella è venuta a trovarti con i bambini c’era quel cazzone di suo marito o altre cose così cose da figlio ma il fatto è che io non mi ricordo che è natale cioè sì mi ricordo che è natale ma non ho nessuna voglia di accorgermi che me lo ricordo che è natale e nessuna voglia di accorgermi che non ho voglia di parlare con te ma’ però la tiro su la cornetta e l’appoggio precaria e fredda tra la faccia e la spalla e con le mani mi tiro su i pantaloni e non dico niente tiro su col naso e non dico niente aspetto in un angolo buio in uno dei lunghi corridoi vuoti che ho dentro la testa aspetto che la voce di mia madre cada come sempre come un capotto fradicio di neve perché lei si svuota sempre così della sua voce sempre così mia madre gelata e fradicia gravida come la madre di tutti i sensi di colpa l’ha sempre mollata così la sua voce dove capita come un pestaggio al buio e se non smette di nevicare in questo modo credo che morirò dice mia madre lei non dice mai pronto lei non si annuncia mia madre è un fiotto d’acqua fredda che aspetta l’apertura della valvola dice credo che morirò mia madre mi stendo con un flacone di pillole e buonanotte ma poi aggiunge buon natale mia madre e il tono è uguale dice buon natale con lo stesso tono che usa quando deve dirmi che le fa di nuovo male la gamba lo stesso di quando dice che perde di nuovo il cesso in quel cesso di posto dove è costretta a stare lo stesso con cui sta dicendomi che lo sapeva che non andavo a trovarla neanche oggi e almeno oggi una telefonata sì almeno oggi è vero? gliela potevo fare
Patrizia Sardisco è nata a Monreale, dove vive. Laureata in Psicologia, specializzata in Didattica Speciale, lavora in un Liceo di Palermo. Scrive in lingua italiana e in dialetto siciliano. Sue liriche e alcuni racconti brevi compaiono in antologie, riviste e blog letterari. Nel 2016 è stata pubblicata la sua raccolta poetica Crivu, prima classificata al premio “Città di Marineo”. Nel 2018 si è classificata al 2° posto al Premio città di Ischitella – Pietro Giannone con la raccolta inedita di poesie in dialetto Ferri vruricati (arnesi sepolti). Ha inoltre pubblicato Eu-nuca (Edizioni Cofine, 2018) e Autism spectrum (Arcipelago Itaca, 2019), entrambi con prefazione di Anna Maria Curci.
Il primo capitolo, l'origine di un ipotetico atlante di gesta celesti e terrene, viene dispiegato in questa poesia di Sergio Sichenze. Siamo all’incipit, l’Arcadia. Sono gesta che solo il poeta può avvertire e mettere in atto: qui anche la forma è sostanza, come lo spostamento del verbo o del participio alla fine della strofa, slegato e lontano dal soggetto, per offrire un aumento di percezione; come l’uso dell’enjambement che consente, nello stesso verso, oltre l’oscillazione del senso, variazioni di genere che rendono nell’effetto spiazzante (“freddoloso la vegetale”) il piacere di leggere poesia. Sono gesta che pian piano si modificano in gesti, soprattutto naturali. Ma la grandezza del poeta, che non si limita a registrare, riesce a portarci un po’ più in là, dove pulsa il seppellito, il segregato, il disincanto.
Et in Arcadia ego
Caste
matasse di stradicciole
all'alba: implume
sole, inoperoso
fuoco, di luce
contrattile
svestito.
Crepitio
di pergole
sconnesse, da residuo
vento
percosse. Notturna
bufera l’attacco
sferrò da lancieri
fulminei
preceduta; l’afa
nel buio
s’estinse, cumulonembi
traversò. Alito
freddoloso la vegetale
seta della senna
buca. I lassi
racemi d’iracondo
giallo
sfioriscono.
Sgomberi
i nostri gesti di rissa
acuta, di squarci
e alterchi degli ansimanti
petti: l’adrenalina
cheta.
Il nostro
intrico sciolto, il garbuglio
secato delle braccia.
Burrasca
sedata: acceso
artiglio
seppellito.
Ancora la falena
segregata: nel disincanto
della fine l’uscita
cerca.
Sergio Sichenze è nato a Napoli.
Ha pubblicato il racconto “L’attesa” (KV ed., 2007); la raccolta di poesie “Nero Mediterraneo” (Campanotto ed., 2008); il racconto “BOBBIO Y MOSTAR”(Marcos y Marcos ed., 2011); cinque inediti nel n.8 dell’ottobre 2016 di Versante Ripido; la raccolta di poesie con Elisabetta Salvador “Nei chiaroscuri del tango” (Campanotto ed., 2017). Collabora con l’associazione Versante Ripido per la diffusione della poesia dal 2017.
Da “Controtempo”, Oèdipus, 2018
Destinati ad altri mari
1
comincia sempre
con piccoli smottamenti
perdite di significati
tenui apparentemente
soffici svagatezze di
non ricordo
adesso mi verrà in mente
cui nessuno vuol dar peso
restiamo così tutti fermi ad aspettare
che qualche cosa avvenga
10
il nome è già fuggito
è rimasta un’abitudine
un’immagine
poi una labile intuizione
qualcosa di indistinto
nella nebbia mattutina
un registro scientifico della dimenticanza
Enza Silvestrini vive e lavora a Napoli. Ha pubblicato il romanzo “Sulla soglia di piccole porte” (lettura critica di Aldo Masullo, disegni di Michele Iodice) Iuppiter, Napoli, 2012 (prima edizione Graus, Napoli, 2008); la raccolta di poesie “Partenze” (prefazione di Marina Giaveri) Manni Editore (Lecce 2009), con la quale ha vinto, nell’ottobre 2010, il Premio Poesia “San Vito al Tagliamento”, sezione Opera Prima; il racconto “Lido Mappatella”, libro d’artista in edizione limitata per Il Filo di Partenope (Napoli, 2012); il libro “Diversi amori” con le illustrazioni di Barbara Balbi, Iuppiter, Napoli, 2013. È presente in diverse antologie poetiche e riviste. Ha promosso e animato molti reading di poesia, incontri di lettura, mostre e iniziative culturali. È attualmente redattrice di “Levania”, rivista di poesia ed è responsabile per la regione Campania del P.E.N. Club Italia Onlus.
Scrittura vs vita, è la costante che troviamo, palese o sottotraccia, nel lavoro letterario femminile. Abbiamo gli esempi laceranti e altissimi di Woolf, Cvetaeva, Plath…e gli esempi non pervenuti di tutte quelle pagine mai scritte, quando per partorire un racconto non c’è tempo.
Anche per le giovani donne dei nostri giorni si tratta spesso di scegliere se investire nei sogni o nella vita. La creatività richiede tempo e spazi e cervello libero. Dopo una giornata dedicata ai “normali” impegni famigliari ci si addormenta sulle pagine di un libro o davanti alla televisione, svuotate di ogni energia. L’ autostima sembra dover attraversare prima di tutto le necessità e i luoghi comuni della quotidianità: lavoro, casa, famiglia, cura dell’aspetto fisico…soldi, cibo, vestiti.
Siamo forse noi stesse a dirci vabbé i racconti non sono riusciti a farmi sentire migliore.
Ma provare a salvarsi è talvolta necessario, se non sarà letteratura sarà almeno un ritaglio d’autenticità.
Provare a salvarsi
scrivere aveva avuto la sua importanza, ora non più, non c’entra il blocco dello scrittore, ci sono altre cose che entrano in ballo, quando devi fare da cucinare, devi spolverare casa, la polvere, che non c’è da scherzare con l’allergia, dopo i trent’anni, dopo il trasloco è stata tutta una discesa con l’allergia, e non c’è più la mamma a impiattare la cena, a tenere casa pulita, ci sono altre cose che entrano in ballo, e ballare per scrivere è fuori discussione, no, non c’entra il blocco dello scrittore, devi pensare a fare la spesa, vedere il tuo conto in banca che scende a fine mese, e poi che si rialza, un pochino alla volta, non dobbiamo far prendere il sopravvento all’allergia, bisogna pensare a cosa fare di questa vita, che così come gira con un lavoro part-time a seicento euro al mese, proprio rischia di non girare più, eppure una volta scrivere aveva avuto la sua importanza.
adesso voi direte, una donna potrebbe fare tutto, siamo le wonder woman del nuovo millennio, lo dicono in tv, siamo tutte lavoro, passioni, palestra, stress da psicoterapeuta, un giorno forse figli, e mani che si allungano in qualunque direzione, afferrano, accarezzano, ammoniscono, addolciscono i visi, mentre poi c’è chi se ne sta a vegetare sul divano, senza motivo, ferma come un broccolo a pensare che forse sono sei mesi che non riesce a scrivere una parola, se non l’elenco della spesa sui post-it, cercare la calma, un solo attimo di pausa, adesso è meglio conservare le energie per qualcosa che ne valga la pena, tipo: soldi, cibo, vestiti, una casa decente senza muffa sulle pareti per sei mesi all’anno e senza polvere che entra sotto le porte per i restanti sei mesi, un lavoro decente, e poi crescere, crescere, crescere, finalmente, adesso, assolutamente, non puoi pensare al critico letterario che deve analizzare il tuo ultimo libro, non c’è da pensare all’editore che non ti pubblicherà mai il prossimo, ammesso che tu lo scriva veramente, un altro libro.
noi abbiamo le bollette da pagare, che partorire un nuovo racconto e sperare che si classifichi ad un concorso, non c’è tempo, non c’è più tempo, ora è il tempo di centrare la tua vita per qualcosa di vero, non la stupenda, magnifica finzione che vai digitando sul computer, hai la tua nuova raccolta pronta in pdf. e non hai ancora trovato qualcuno che speri in te, e perché dovrebbero farlo, ci sei già tu che non speri neppure più in qualcosa in cui credevi, è un ricordo vago, e allora ti aggrappi a tutto il resto, nella costante attesa che prima o poi non ne avrai più bisogno, forse non avrai più bisogno di sognare, che adesso abbiamo da pagare l’affitto di una casa rispettabile, tra sei mesi trovar- si un nuovo lavoro e poi perderlo e poi ritrovarlo, è una gran guerra, a dire la verità, ma chi ci pensa alla tua raccolta poetica, cresci una buona volta, c’è chi investe nei sogni, perché non investi nella tua vita, si tratta di una questione di scelta, questione di scelte.
io a non sapere neppure se questa storia ho voglia di raccontarla, invece meglio liberarsi, piuttosto iniziarla di punto in bianco e non sa- pere dove andare a parare, finirla non mi sembrerebbe giusto, forse sarebbe ora di fare un figlio, proprio adesso, prima che scada il contratto con il padre eterno, prima che l’utero ti dica no, noi a non sapere come va a finire questa storia, figuriamoci a capire la tua vita o a rendersi conto che il tempo sta per scadere, come sarebbe a dire, rinunciare a lottare è diventata la scommessa della tua vita, e intanto i quiz in tv non si fermano mai, non dai mai le giuste risposte o meglio hai imparato a non darle, perché non ti interessa di vincere, né di perdere, sei lì a chiederti se domani convenga comprare il ferro da stiro per le camicie, quelle non puoi proprio metterle addosso così stropicciate, neppure se le asciughi con l’asciugatrice, ma forse piuttosto che comprare il ferro da stiro, piuttosto che stirare, butto via tutte le camicie, faccio un repulisti, lancio l’assedio all’armadio, metto a morte il guardaroba, nuovo look all’outlet che con poco te la cavi, cambiare, cambiare, cambiare sempre, non è questo il motto del momento?
sì, scrivere poteva aver avuto la sua importanza, avere abbastanza ore che sembravano comunque poche, ora sono perfettamente distribuite, così tante, così perfettamente ordinate e pulite: colazione al mattino (10 min), chiacchierata col barista (15 min), spesa al supermercato (3 quarti d’ora), pranzo (dai 20 a 30 min) compresa la digestione, dai 5 a 10 per il lavaggio piatti, 5 min in macchina per arrivare in ufficio, 4 ore che diventano 6 per il turno part-time che durerà ancora per poco, cena come per il pranzo compreso il lavaggio dei piatti, 3 quarti d’ora in palestra, amici e socializzazione 15 min, doccia 10 min e poi tv fino allo svenimento, eccola lì, un’altra giornata senza aver scritto neppure una frase di senso compiuto.
quando l’io diventa noi, c’è poco da fare, il ballo a passo doppio costa a tutti, ma guadagni una ventata di sesso, soddisfazione, apprezzamento, sostegno, dolore, amore, un prezzo alto a cui non puoi rinunciare, voi mi direte, sarà solo il blocco dello scrittore, vedrai, ma poi a bloccarla lì per qualche anno, tutta quella finzione, tutto quel sogno, dove farla galoppare tutta quella fantasia, attendere magari che un’altra vita sia per essere vissuta meglio, quella che hai abbandonato prevedeva solo parole messe in fila che nessuno avrebbe mai letto, non vuoi certamente finire come quei depressi, quei maniaci, che stanno lì a contare quante copie del loro libro hanno venduto o a tenere corsi in scuole di scrittura creativa, come la maggior parte di quelli che hai avuto il coraggio di leggere e la fortuna di non conoscere, davvero non sarà la tua fine, ecco il problema è sempre stato quello, non avere in mente un finale migliore, adesso effettivamente, non ave- re un piano B è da stupidi, non c’è nulla di geniale, questo è un consiglio da chiedere a qualcuno, prima o poi, un giorno, dato che a noi stessi non ci riesce facile una risposta, che ci rimane lì in canna d’esofago e pur venendo su dallo stomaco, ti lascia solo l’acido in bocca.
altro che depressione, ve la farò vedere, venderò caro il mio talento, lasciate che io scelga le parole adatte per tenere una conversazione al bar, che quella vale più di mille racconti, e poi ad accorgersene solo nei momenti in cui non vorresti neppure alzarti dal letto, scambiare due chiacchiere con uno sconosciuto ti è stato più utile di quei mille racconti non scritti, che ne sarà di critici ed editori, ora che di libri non se ne leggono più, sono rimasti solo quelli che li scrivono allo stile di Calvino, Bukowski, Fante, a chi vuoi che interessi, a me non di certo, neppure quando spreco i miei quindici minuti al giorno a leggere la home di facebook, ti propongono poesie su facebook, ce ne sono in gran quantità, loro che se ne stanno lì a leggere, invece di stare in mezzo alla gente durante la movida del sabato sera, resistenza annunciata, resistere e non comprare niente, resistere e non far finta di non essere su una passerella, resistere in mezzo a tutta quella gente con tutta quella roba addosso, che a vederla dall’alto sembrano formiche con un sacco pieno di niente sulla schiena, tutte intente a portare le loro malinconie in giro per le strade, altro che mille racconti, altro che ottomila caratteri su un foglio bianco, sì, è vero, scrivere aveva avuto la sua importanza, ma non eccessivamente.
altro che sogni, niente racconti, non sono stati mica loro a consolarmi, quando per la prima volta ho guardato un padre e una madre negli occhi, il giorno che l’ho scoperto che anche loro possono morire, anche loro un giorno non ci sorrideranno più, la realtà è una donna che dovrebbe riuscire a fare tante cose, la società che te lo chiede, dovrebbe portare i pantaloni, mascherarsi, fare figli, lavorare, occuparsi della casa e magari di tanto in tanto fingere di fare l’amore per non dimenticarsi di essere viva, per evitare che il compagno la rimpiazzi troppo facilmente, invece di scrivere, puah, a tutti critici letterari, a tutti gli editori, a quei lettori invisibili, non sono stati i libri, né i racconti, né le poesie a farmi andare avanti, non sono certo serviti, quando li ho cercati, non mi hanno asciugato le lacrime nei giorni bui, niente consolazione da parte loro, quella la ricevi solo dalle persone, i racconti non sono riusciti a farmi sentire migliore... e allora adesso, perché piangi, stupida?
Ambra Simeone si è laureata in Lettere Moderne e specializzata in Filologia Moderna con il linguista Giuseppe Antonelli e una tesi dal titolo Lingua e varianti in “Ritorno a Planaval” di Stefano Dal Bianco. Ha pubblicato: Lingue Cattive, Come John Fante... prima di addormentarmi, Ho qualcosa da dirti - quasi poesie. È co-curatore con Ivan Pozzoni de Il Gustatore - quaderni Neon-Avanguardisti. Ha curato il volume antologico Scrivere un punto interrogativo. Suoi testi sono apparsi su riviste letterarie nazionali e internazionali: Kuq e Zi, Il caffè, Italian Poetry Review. Sue poesie sono apparse su antologie tra le quali: Il Quadernario Blu a cura di Giampiero Neri e Il rumore delle parole a cura di Giorgio Linguaglossa. Sono stati pubblicati saggi brevi tratti dalla sua tesi di laurea specialistica su riviste letterarie e in volumi: Rassegna storiografica decennale II e Frammenti di filosofia contemporanea XXII. La sua ultima raccolta è Opinionistica con prefazione di Claudio Damiani. Ha vinto il premio italo-russo Raduga come giovane narratore italiano. Sta lavorando ad una serie di saggi su Charles Bukowski.
Mariannina Sponzilli ha collaborato con varie riviste letterarie.
Ha pubblicato opere poetiche e prosastiche con Firenze libri, Laboratorio delle arti, Todariana, Carello editore, Montedit. Vive a Lucera, in provincia di Foggia.
Da “Tema con variazioni”
***
Visitavi il mio sguardo
con la complicità dell’aria
barattavi la distanza
istante per istante
con un muto respiro
***
I sogni migrano altrove
e tu cuci asole d’alba
trasformi la notte
in un laboratorio di luce
***
Darai fiducia a questo sguardo
che interroga le voci nel sonno
e tiene a battesimo desideri
Il mondo si sbraccia per un addio
i tuoi occhi cementano promesse
non hanno vocazione per ciò che resta
***
Mi avvicino
alla chiusa del sonno
depongo parole e divieti
Giancarlo Stoccoro, nato a Milano nel 1963, è psichiatra e psicoterapeuta. Studioso di Georg Groddeck, ne ha curato e introdotto l’edizione italiana della biografia: Georg Groddeck Una vita, di W. Martynkewicz (IL Saggiatore, Milano, 2005). Da parecchi anni, oltre all’attività clinica, si occupa di formazione e conduce incontri sulla relazione medico-paziente secondo la metodica dei Gruppi Balint. Ha pubblicato diversi lavori su riviste scientifiche.
Suo è il primo saggio che esplora il cinema associato al Social Dreaming (sognare sociale/ sognare assieme) che ha applicato in ambito sanitario, scolastico, nelle carceri e direttamente nei cinema: Occhi del sogno.(Giovanni Fioriti editore, Roma, 2012).
Ha partecipato al premio Lerici Pea 1988, vincendo la medaglia nati dopo il 1958, con la poesia L’ombra dell’aquilone premiata da Giorgio Caproni.
Sono state segnalate poesie su Lo Specchio della Stampa (2/12/06) nella rubrica “Scuola di Poesia”
e in “Dialoghi in versi” (17/08/2007) da Maurizio Cucchi.
Per le edizioni Gattomerlino/Superstripes è uscito nel 2014 Il negozio degli affetti e in ebook, presso Morellini, Note di sguardo, tra le opere vincitrici del concorso internazionale Lago Gerundo 2014. È dell’aprile 2015 Benché non si sappia entrambi che vivere per Alla chiara fonte editore di Lugano. Nel settembre 2015 è uscito I registi della mente (Falsopiano, giugno 2015), curato da Ignazio Senatore, contenente il lavoro Ciak. Si sogna! L’esperienza di Kiev.
Nel novembre 2015 è arrivato tra i finalisti del 29 ° Premio internazionale Lorenzo Montano con la poesia inedita Non hanno scuse. Nel marzo 2016 si è classificato al secondo posto al Premio Torresano 2016 con la raccolta inedita La dimora dello sguardo, che otterrà la segnalazione speciale della giuria al Premio letterario Nazionale Scriviamo insieme (ottobre 2016) e la menzione al merito al Secondo Premio Internazionale Salvatore Quasimodo.
Parole a mio nome, è la silloge, edita c/o Il Convivio Editore, vincitrice del Premio Pietro Carrera (aprile 2016) e successivamente finalista del Premio Gozzano 2016 e al Premio Letterario Internazionale Indipendente (PLII) 2017 per l'opera edita.
Sempre del 2016 è il saggio da lui curato, Pierino Porcospino e l’analista selvaggio, con scritti inediti di Groddeck e di Ingeborg Bachmann e il contributo di autori vari per ADV Publishing House di Lugano.
Ha collaborato al secondo numero della rivista Poesia e conoscenza di Donatella Bisutti con il lavoro: “Brevi considerazioni sull'inconscio e la scrittura poetica”.
È vincitore del terzo premio Hombres Itinerante “Ignazio Silone” (giugno 2016) con la poesia inedita Si sommano i luoghi ai gesti alle frasi. E' finalista del Premio Museo Casa Alda Merini 2016 con la silloge inedita Luoghi ligi.
Ha ricevuto ancora nel 2016 una menzione speciale al 30° Premio Lorenzo Montano, per la raccolta inedita Luoghi d'ombra, poi riproposta con alcune variazioni e classificatasi terza al Premio Subiaco Città del Libro IV edizione, prima al Secondo Premio Internazionale Salvatore Quasimodo (1 aprile 2017), finalista al Premio Salvatore Piccoli 2016 e segnalazione al Premio Poetika 2017.
Nel gennaio 2017 è uscita l'ampia raccolta poetica Consulente del buio (1983-2013), con prefazione di Giovanni Tesio (L'Erudita, Roma, 2017), finalista al Premio Europa in Versi 2017.
Ha ricevuto la segnalazione della giuria del XIII Premio Hombres Itinerante 2017 per la silloge inedita “Estate autunno inverno” e la Segnalazione Particolare della Giuria del 42° Premio Casentino nella sezione poesia inedita.
È stato pubblicato per AnimaMundi di Otranto (settembre 2017) Alla corte dell'Es Poeti e prosatori, saggio da lui curato con il contributo di Donatella Bisutti, Franco Buffoni, Milo De Angelis, Alessandro Defilippi, Maria Grazia Calandrone, Laura Liberale, Franco Loi, Franca Mancinelli, Umberto Piersanti, Fabio Pusterla, Giovanna Rosadini, Francesca Serràgnoli, Miro Silvera, Giovanni Tesio.
È presente con 14 poesie e una prosa breve nell’antologia Mai la parola rimane sola del circolo letterario Acarya di Como (2017) ed è antologizzato ne Il segreto delle fragole 2018 dell’editore Lietocolle (2017).
Ha ricevuto la menzione speciale per la raccolta inedita Incompiuti silenzi al 31° Premio Lorenzo Montano.
È vincitore assoluto della 5^ edizione del Premio Internazionale di poesia inedita “I colori dell’anima” (agosto 2017) con la silloge Forme d’ombra, pubblicata poi dall’associazione Mondo Fluttuante come plaquette e pubblicata in versione ampliata c/o Alla Chiara fonte editore di Lugano nell’aprile 2018. Ha ricevuto la segnalazione per la poesia inedita Pochi luoghi al Premio Guido Gozzano 2017.
Ha ricevuto la menzione d’onore al Premio Pier Paolo Pasolini – Il canto popolare 2017. È vincitore del secondo premio per la poesia singola e del terzo premio per il Sublime in luce al Premio Il Sublime 2017, poi inserite nell’antologia Il Sublime in versi e in prosa (Il Mondo Fluttuante, dicembre 2017).
Ha vinto il primo premio “Narrapoetando” con la silloge “La dimora dello sguardo”, edita da Fara Editore (aprile 2018).
Da “La musa last minute”, Edizioni Progetto Cultura, 2018
***
Nel trittico del Cane, Io, Es e Sé,
nell’alternativo concept di pianeti nani,
nella perduta via degli anelli planetari,
nel viaticum della storia allucinata,
nell’almagesto dei fenomeni di massa
voliamo, con accanto una Musa Low Cost.
Erri De Luca
Dell’opera sull’acqua non rimane che una diga pericolante
Con le sirene allevate in acquacoltura dolce e salata
Per una pesca a strascico e di deriva -Piscis no-excavatio
Perché una montagna è la risultanza d’una cavità alla sbarra
Un’aleterazione della coscienza dell’iceberg, e sarà dura, sì dura
Finché durerà la Maddalena in progress con l’occhio di cernia.
Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta) nasce in Calabria, a Ferruzzano (RC), nel 1964. Vive a Firenze e lavora come Tutor supervisore di tirocinio all'Università di Firenze, Dipartimento di Scienze dell'Educazione Primaria. Pubblica le raccolte di Poesie: Le Vocali Vissute, lbiskos Editrice Empoli 1999· Thalia, Lepisma, Roma 2008; Salumida Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le qUali si ricordano I sentieri del Tempo Ostinato. (Dieci poeti italiani in Polonia), Lepsima, Roma, 2011 e Come è finita la guerra di Iroia non ricordo, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016. È in corso di pubblicazione la silloge Thalia per Xenos Book - Chelsea Edilions Collaboration, California, U.S.A, con traduzioni di Nehemiah H. Brown.
21 anni
21 anni si compiono una volta sola.
Come tutti gli anni, del resto.
Ma per i 21 era un compleanno speciale, la maggiore età.
Li ho compiuti in un luogo incredibile: un villaggio nel sud del sud, un luogo che, come disse una volta mia figlia, conosciamo soltanto noi, Curanilahue.
Una miriade di catapecchie, arrampicate lungo i cerros sulle pendici delle Ande, congiunte da sentieri sterrati che salivano dritti e scivolavano giù fango e qualche baracca ad ogni pioggia.
Il piccolo centro pianeggiante era attraversato dalla ferrovia.
Due volte al giorno passava un trenino, più trenino del Merklin che avevamo da bambini, sbuffava fumo di carbone che spargeva dappertutto; non c’era oggetto o pianta che non fosse ricoperto da una sottilissima polvere nera.
Di carbone era anche la miniera, destino e condanna per quasi tutti gli uomini del posto, un carbone scadente che stava già per esaurirsi.
Quel giorno di fine agosto per me era un giorno speciale. Maria saltellava intorno, con quello stile stupendo da cavalletta che hanno certe bimbe intorno ai tre anni, annunciandomi la sorpresa di una torta che doveva essere un segreto.
Del menù, oltre alla torta, non ho memoria; ricordo però che per l’occasione fu tirata fuori una delle ultime scorte di carne di quei giorni difficili.
Quindici giorni dopo il golpe.
La paura divenne terrore
rabbia
fughe.
Di notte l’eco degli spari
di giorno il volo basso degli aerei.
Gli arresti
le perquisizioni
i primi desaparecidos
i morti.
Quell’11 settembre “Johny prese il fucile”, ha scritto Sepulveda, lo fece nello strenuo tentativo di difendere il compagno Presidente, fu ferito e poi preso verso le due del pomeriggio.
Nel gelo dei due giorni successivi, mentre noi tenevamo il fiato sospeso, appesi alle radio straniere, scrutando strani movimenti sul cerro del cimitero, dove non seppi mai se si fossero accampati militari o resistenti, nei pressi di Santiago Johny veniva massacrato.
Le sue ossa sono poi state ritrovate
insieme ad altre
a pezzi
anche minuscoli.
Il 13 settembre a Curanilahue arrivarono i militari dal nord del paese e i Carabineros locali uscirono dalla caserma dove si erano asserragliati.
Anche da noi le mitragliette puntate
gli arresti
le uccisioni
le torture.
Quel giorno Johny, stremato, morì.
Aveva appena compiuto 21 anni.
Anch’io avevo 21 anni
appena compiuti
finché avrò anni voglio ricordare
e non smettere mai di raccontare.
Elide M. Taviani, mamma, nonna, maestra e formatrice, è stata molti anni Vice presidente dell'ASAL (Organizzazione Non Governativa di Cooperazione e di Educazione allo Sviluppo); attualmente è membro del direttivo dell’Opera Nazionale Montessori.
Ha viaggiato molto, soprattutto in America Latina dove ha vissuto alcuni anni. Ha pubblicato numerosi articoli di educazione e non solo, fra i suoi volumi: Il mondo nella scuola (Roma 2001), Guida all'informazione dal Sud (Roma 2003), Educazione ai Diritti: un viaggio attraverso il continente Latinoamericano (Roma 2007).
Nel 2010 con la casa editrice De Ferrari ha pubblicato Sulle orme di Maria. Storie di donne di qua e di là dal mare, racconti in prosa e prosa poetica.
da “Figli segreti”
Le parole che io dicevo
come rifugi di preghiere e di credenze
clandestine
il desiderio di concentrare vita e morte
nella parola più segreta del corpo.
Quell’unico occhio dell’universo mi chiamava a sé
e io rimanevo animale
che si spogliava di carne e di pelliccia,
dalla lingua squarciata di parole
e i piedi nudi sulla terra
facevano crescere il silenzio che entrava
nelle vene aperte di contemplazione.
Desidero quel disordine immenso
che crea la vita, caverna d’ossigeno
che deriva da un numero primo e sacro
ma sono prigioniera di parole sottintese,
mai esplicite di autentica religiosità,
e la mia ombra morbida consumata dalla strada
si rifugia in fiori che cantano profezie di steli.
Eloisa Ticozzi è nata a Milano nel dicembre 1984.
Sta compiendo i suoi studi all’Università Statale di Milano alla facoltà di medicina.
Scrive per alcune riviste come la Recherche, El ghibli, Progetto Babele e articoli in Milanofree.
Studia in modo autonomo la lingua russa.
Ha pubblicato un’antologia con altri autori: “Il sentiero delle muse”, Rupe Mutevole edizioni.
Lo splendore del vero
Poliedriche e rammemoranti, eterogenee e in sé concluse, ciascuna sospesa nella sua dimensione naturale o letteraria, le visioni che emergono dalla raccolta Parigi e altri tempi di Carlo Tosetti paiono somigliare ad una raccolta di inquadrature diversificate, fotogrammi fermati nel loro spazio-tempo, quasi un museo personale dell’autore.
Simili a quegli oggetti, quadri, fotografie, tra cui frugare nelle bancarelle del Marché di Paris, come nella poesia che dà titolo alla raccolta: “Poi che cerchi? / Dove frughi passate / le gravi meraviglie / dei musei ed incontri …?”. Simili anche a fondali, vari e disparati, che vengono di volta in volta scelti e illuminati con tocchi spesso pittorici, nel riverbero stratificato di echi di spazi e tempi lontani.
Sono spazi che richiamano luoghi naturali e urbani: ciascuno descritto nei suoi forti richiami alla presenza umana e, insieme, al pensiero che vi si affaccia. E sono tempi che costituiscono un richiamo a quanto il passato ha lasciato depositare e arricchire, rispetto alla “bolla d'inerte / presente dove attorno / procombe ed insorge / nuovamente ogni cosa”, come scrive l’autore, nel suo stile senza artifici e lontano dalla retorica, attraverso sguardi nitidi sulle cose e richiami pensosi alle presenze umane.
Gli spazi e i tempi richiamati nei testi non restano in tale modo neutri contenitori, ma si colorano di incontri, presenti e passati, reali e letterari. Sono filosofi, registi, scrittori e poeti a cui l’autore dedica i suoi versi o di cui richiama i luoghi scelti per le loro sceneggiature.
Come le piscine termali di Bagno Vignoni, sulle quali aleggia lo spirito di Andreij Tarkovskij “il respiro suo, / l’assimilare il genio / delle Naiadi che spande / il fumo vaporoso e guaritore”, oppure il parco parigino des Buttes-Chaumont, scelto dalla regia di Éric Rohmer “che vi pinse gli acquerelli / della lieve nouvelle vague”, o ancora il luogo immaginario della fortezza di Dino Buzzati nella poesia ispirata a Il deserto dei Tartari che conclude la raccolta, dove luoghi e tempi si rarefanno nell’attesa, in quell’indugio “palesato dal nulla lontano, / dal siderale niente remoto”.
La nostalgia, lo sguardo, l’attesa: quadri, anch’essi, come i testi che Carlo Tosetti delinea via via, nel tentativo, forse, di far emergere quello splendore del vero, indicato da Jean-Luc Godard come elemento caratterizzante la cinematografia della Nouvelle Vague.
Accostando visioni delineate nelle loro precise dimensioni spazio-temporali a elementi di partecipazione umana e di riflessione, dove la parola agisce da macchina da presa in grado di mettere a fuoco simultaneamente i campi lunghi e i primissimi piani. Quasi un effetto straniante, in una poesia che si fa luogo di raccolta di paesaggi e momenti dello stupore e della riflessione, della meraviglia e del quotidiano.
Due cimiteri militari
I
Si apre sconfinata,
dei gusci la distesa
di bivalvi scardinati:
il caos, le cappelunghe,
alcune le inquadra
in laconiche righe,
l’omaggio minerale
al cimitero americano.
L’altre che i gorghi
dell'onde l’incrocia,
infinite, frantumate,
creano giustapposte
orazioni del mare,
a mezzo miglio dalla costa
risucchiato per prodigio
e planetaria congiuntura.
Al Glicine
Figuro tutti bambini,
nella bolla d'inerte
presente dove attorno
procombe ed insorge
nuovamente ogni cosa,
ma sempre indifferenti,
a sfiatare noi s'andava
su per la china, al Glicine fino,
ansando per succhiare
l'ambito ghiacciolo.
A lasciare che affacci l'idea
(di sotto romba la Bova)
che poco ne abbasti
e ci soffochi un rivo,
s'opponeva il tritone,
che viscido sguscia
dalla mano nell'acqua
e poi, fluttuando, si posa.
Tarkovskij
A ristorarci nella Piazza
delle Sorgenti gustammo
vino rosso e pici,
e meglio avremmo fatto
credo ad emulare
non le penitenze
di Santa Caterina
ma il respiro suo,
l’assimilare il genio
delle Naiadi che spande
il fumo vaporoso e guaritore;
immobili e cotti,
nella piscina rispettosi
del voto al matto di Gorčakov.
Carlo Tosetti (Milano, 1969), vive a Brivio (LC).
Ha pubblicato le raccolte: Le stelle intorno ad Halley (LibroItaliano, 2000), Mus Norvegicus (Aletti, 2004), Wunderkammer (Pietre Vive, 2016).
Suoi scritti e recensioni sono presenti su:
Nazione Indiana, Poetarum Silva, Larosainpiu, Paroledichina, Words Social Forum, Versante Ripido, elvioceci.net, Il Convivio, Lankenauta, Interno Poesia, www.giovannicecchinato.it, Poesiaultracontemporanea; Atelier.
È stato ospite della trasmissione Percorsi PerVersi, in onda sulle frequenze di Radio Popolare, il 30/01/2017.
Collabora con Poetarum Silva.
Blog personale: musnorvegicus.it
Quando un essere umano nasce, con lui nasce un mondo. Esordisce un paesaggio entro il quale l’uomo e la donna vivono senza consapevolezza.
Nel corso della nostra breve storia evolutiva non abbiamo ancora imparato a pensare.
Si va dall’ininterrotto al balbettio della vita di tutti i giorni.
Entriamo nel perimetro della nostra esistenza come dentro un paesaggio dipinto, un paesaggio artificiale.
Eppure anche là dove la natura si fa apparente, più avventuroso e sofferto diventa l’esistere nel mondo; in particolar modo nello sperimentare il proprio corpo; nel sentire noi stessi; nel rapporto con l’altro, che è rapporto con la parola e con il tempo.
***
considera sempre il commiato
le persone al tempo dell’addio
quello che succede, che cosa fanno
prima di fare a meno di te
***
si comprende una città soltanto
quando non si ha nulla da fare
***
alla radice dei pensieri
dentro il segreto interno
dietro la materia che si vede
si vive sempre
come in attesa
prima dell’inverno
fuori dall’inferno
nell’infanzia delle cose
***
molto più di quello che dici
sulle grandi cose del mondo
conta per me l’uomo che sei
nel cerchio di cinque metri
se e come mi saluti e come
mi sento a pochi passi da te
***
guardare la luce degli altri
e niente volere rubare
nulla distruggere mai
alla fine non uccidere
essere appena parte lontana
osmosi di una sola passione
è sempre qui il tutto
che dice, il significato
la rivolta, l’etimologia
della rivoluzione
Luca Vaglio vive a Milano, dove lavora come giornalista. Il mondo nel cerchio di cinque metri è il suo terzo libro di poesia. In precedenza, ha pubblicato Milano dalle finestre dei bar (Marco Saya Edizioni, 2013), La memoria della felicità (Zona, 2008), il saggio-inchiesta Cercando la poesia perduta (Marco Saya Edizioni, 2016) e il racconto In riva al Lario (Lite Editions, 2013). La sua ultima pubblicazione è il romanzo Il vuoto (Morellini Editore, 2019).
Leggendo queste pagine la prima osservazione è quanto, in queste poesie, lingua e suono siano soggetto e oggetto, selezione e combinazione, paradigma e sintagma intrecciati in un unico significante che include la natura in un ritmo e il ritmo in natura. La parola poetica si carica di materia organica in osservazione concreta, quasi primordiale. Cantare larve bastevoli disfatte e arse può sembrare un azzardo sperimentale, ma è invece una necessità sostanziale che nasce dalle cose che ci sono e che nel loro movimento devono essere dette. Vasarri, in questo modo, porta la scrittura fin dentro il corpo della nominazione, dove la carne spoglia respira e ne sente l’odore. Perché solo una lingua poetica che si sviluppa e si insinua in un reale pastoso e contorto, è capace di tanto. Il senso che ne emerge è un rivolgimento continuo, alla ricerca del vero che sta nel poco: nella incommensurabile e fondante povertà della voce iniziale: ouverture creaturale al di qua e al di là del principio. Il fare di questi testi sembra così scaturire da un conglomerato di segni che vanno sciogliendosi in musica: un canto vocalico che rimescola la distinzione tra fonia e grafia, andando a prendere ciò che sconcerta; non per stupire il lettore, ma per dare nuova riconoscibilità alla “crosta muta”, al suo generarsi in un dire quasi fosse “un ultimo soffio di fiato”. E questa è la conseguenza estrema in cui la poesia può riprendersi ciò che le spetta: fossero anche solo “poche sillabe”, o una larva di senso in proteiforme materia, in tensione oltre se stessa affinché “avanzi la vita”.
Falso esergo del lupo
Non c’è.
Non l’abbiamo
mai visto.
Confitto
nella lisca del male.
Per generosa confisca.
[E anche se ce l’avessimo…
o se lo fossimo noi…
correi, rodendone l’osso…
Domesticarlo. Mai.]
Da “Fioretti e variazioni”
Tutto quel gergo di anime.
Almeno servisse a qualcosa.
Almeno potesse decidersi
che dopo le spine,
la rosa.
Da “Diminuendo”
***
Consèrvati dovunque
levigato in miriade,
scheggia, spina e prepuzio.
Per tornare a chiudere il cerchio,
a riattizzare l’inizio.
[Ma quanto perdi, mantice fioco, fiato.
Come non s’è infuocato, non prende fiamma
nella sua solitudine il rovo.]
***
Io c’ero. In culto. In fissità d’immagine.
Lacrima d’io, voce travolta, fronda
contro la quale battere in rivolta.
E con che diligenza vi battevo.
Decisamente io vi andavo a sbattere,
vi ci sbattevo, sì, io lì sbattevami.
Che dio manchi in vertigine.
E faccia fuoco vergine.
Francesco Vasarri è nato a Bagno a Ripoli (FI) nel 1987. Vive a Firenze, in Oltrarno. Dottorando in italianistica presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi dedicata all’entomologia nella letteratura italiana contemporanea, ha pubblicato, su rivista, in atti di convegno e per volumi collettanei, diversi saggi sulla poesia del secondo Novecento (Caproni, Cavalli, Lamarque, Merini, Parronchi, Valduga, Zanzotto). Ha tenuto, nell’ambito dei corsi universitari di Anna Dolfi ed Ernestina Pellegrini, lezioni di didattica integrativa sulle poetesse del secondo Novecento, su Caproni, Sereni, Gadda e Landolfi.
Ha partecipato, con suoi testi o letture commentate, a manifestazioni pubbliche (Giornata della Poesia, Fiorano Modenese – MO, 2008 e 2014; Perché poeti in tempo di povertà, Firenze, 2016 e 2017). Dal 2017 collabora al Festival internazionale di poesia Voci lontane, voci sorelle, Firenze.
Nel 2008 si è classificato secondo al concorso Ottottave; nel 2014 primo per la sezione Inediti (ex aequo con Antonella Ortolani) al XX Premio nazionale di poesia Alessandro Contini Bonacossi.
Ha esordito nel 2016, per la collana «Opera Prima» di Anterem, con il libro di versi Don Giovanni all’ossario.
l’esercizio della scrittura (a mano libera)
disegno quando scrivo e viceversa
(io) traccio e lascio traccia (fragile
persa) quando scrivo (di)segno
(e non scrivo) le parole ossi(a) che (ri)vela le fattezze ed i sensi ne (dis)vela il volto insonne scrivo e (dunque) come in sogno parlo è senso (questo) e segno di volontà intermittente lascio allora (se interrogato) in buon italiano al disegno lascio alle linee il compito di svelare le (s)torture e gli oscuri percorsi le linee segrete che sappiamo esistere ma non percorreremo con ostinazione emergendone l’intenzione e la forza e direzione (i sensi) le parole che a piacere prendono e danno vita (con)dannando il mondo intero o lo redimano ovvero ne restituiscano almeno voce Massimo Viganò si laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne (Spagnolo + Inglese), indirizzo Filologico Letterario, alla Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel 1985. Da allora svolge attività di traduttore e di redattore tecnico, prima a Ivrea e in seguito a Firenze. Da quasi trent’anni si occupa di Teatro in qualità di attore-autore e regista, prima a Milano, poi a Torino e attualmente in Toscana. Dal 1986 al 1988 ha seguito i corsi di Teatro organizzati dal Teatro delle Dieci di M. Scaglione (Torino). Con la compagnia Margutte Teatro di Torino nel 1992 partecipa al Festiva dei Teatri di Santarcangelo di Romagna Da sempre appassionato di poesia, ha partecipato, con esiti soddisfacenti, a premi nazionali, ottenendo i seguenti riconoscimenti: La poesia “Polittico dei bambini” è tra le poesie con menzione nella XXXI edizione del Premio Lorenzo Montano. La raccolta “Falsi amici e sciocche canzoncine” è stata selezionata al Premio Internazionale Città di Como 2017. La poesia “Ore delle colline pisane – N(u)ove improvvisazioni” è tra le poesie con menzione nella XXX edizione del Premio Lorenzo Montano. La raccolta La voce incantata entra tra le raccolte inedite menzionate nella XXIX ed. del Premio Lorenzo Montano. La silloge Il prigioniero e altre storie del (mio) giardino e fra le opere segnalate al Premio Letterario Castelfiorentino 2014. La raccolta Dell’infanzia e d’avventura è tra le segnalate nel premio Letterario Renato Giorgi 2011. Ore delle colline pisane – N(u)ove improvvisazioni è fra le vincitrici (terzo premio) del Premio Letterario Castelfiorentino 2011. La raccolta edita Tra(s)duzioni è stata segnalata in occasione del Premio Civetta di Minerva – Antonio Guerriero I ed. Nel 2011, la silloge Un lungo futuro è stata pubblicata sulla rivista Fili d’aquilone n- 21, Con la raccolta Poesie dell’infanzia e d’avventura, è risultato finalista in occasione del Premio Letterario InediTO 2010, organizzato dall’associazione il Camaleonte di Chieri, La raccolta Tra(s)duzioni ha vinto il Premio Nazionale di Poesia Sandro Penna – XXI edizione, per la sezione Poesia Inedita. La raccolta Tra(s)duzioni viene pubblicata nel 2010 da Edizioni dell0 Meridiana. Con la raccolta Tra(s)duzioni, ha ottenuto la menzione in occasione del Premio Letterario InediTO 2009, organizzato dall’associazione il Camaleonte di Chieri, Sue poesie sono state segnalate al Premio Turoldo – edizioni VII, VIII e IX, organizzato dall’associazione Poiein, Nel 2009 la sua poesia Turning Torso (e la gru kockum) è tra le opere finaliste dell’evento editoriale Concepts Architettura, organizzato dalla casa editrice Arpanet di Milano; viene pubblicata nel volume Concepts Architettura & Design. * una sua poesia è stata inserita nell’antologia del Premio di poesia Città di Monza 2007.
la lingua stessa che le segna
e la forma della lingua
la voragine della gola che inghiotte e
Da D’ora in poi
***
vorrei scrivere sui muri ancora caldi di estate
che la vita sparsa in ogni stagione
inventa una casa nella nostra una pancia nella pancia
e noi dovremmo starle vicino
seduti muti accomodati sulle note
tra le rime dentro il ventre le risate dentro il pianto
le frasi malate le ferite da amare
***
siamo amore per un pezzo di tempo giusto
niente più
il disegno non aggiunge altro
Adalgisa Zanotto, di Bassano (Vicenza), afferma che scrivere è frutto della sua passione per la vita e per tutte le avventure e gli incontri che essa le riserva. Il suo ultimo libro, “D’ora in poi”, è stato pubblicato da Fara Editore nel 2018.
L’ultimo esistito
Lo scellerato sogno di volere
un bacio di ritorno. Ricompensa
d’estasi si rifrange in schegge molli.
In ognuna di loro l’immagine
intera si conficca, guarda caso
convessa, proprio d’amore sporgente.
Ma all’infuori di te e di me, intorno,
non c’erano certezze, niente vita
e niente morte.
Le cose fluttuavano lontane
dalla definizione netta, pura
linea di confine dal possesso
del presente o conflitto di fantasmi
invadenti, da una parte e dall’altra,
proclamatisi mai vivi od estinti.
Contraddizione in termini palese,
nonostante il principio dipendesse
dall’affermarsi o meno dell’essenza
sulla sostanza.
Le qualità di spettro non mi sono
mai state conferite, tantomeno
una volta sorpreso a seminare
ombre di notte, e spacciarmi vivente
il giorno successivo. Disdicevole.
Lo dico dopo aver amato il corpo
tuo ed avere perso ogni ambizione
di possederne uno tutto mio,
che tanto pesa quanto una menzogna.
Morire o vivere, quindi, sarebbe
derivato dall’esito dell’urto
non tra la vita e la morte, bensì
tra chi non fosse mai nato
e chi non fosse mai morto,
e ad ogni buon conto,
nell’esile eternità d’un amore,
sarei stato l’ultimo
ad essere esistito.
Claudio Maria Zattera, nasce a Verona. Perito industriale, frequenta la Scuola Militare Alpina di Aosta, divenendo sottufficiale degli Alpini. Ritornato alla vita civile, si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Padova. Consegue l’incarico di dirigente per la sicurezza sul lavoro nell’impresa del settore ferroviario per cui lavora. Nel contempo la sua attenzione per il mondo letterario, nonché la sua indole di appassionato della “Poesia”, si fa più esigente e approfondisce lo studio degli autori classici e moderni frequentando corsi e seminari di scrittura creativa e tecnica poetica. Partecipa alle iniziative di importanti Associazioni Culturali Poetiche Veronesi ricevendo per le sue poesie, che trovano spazio in numerose antologie e raccolte, lusinghieri consensi. Nel 2011 scrive il suo primo romanzo “Dialogo ininterrotto – Storia di un Amore Veronese”, 371 pagg, edito da Bonaccorso Editore. Il romanzo racconta la storia di un amore vissuto, dai due protagonisti, come unico e irripetibile, un miracolo che l’autore sente il bisogno di comunicare per testimoniare come il significato ultimo della vita risieda nell’amore vero; nel 2014 esce la raccolta di poesie “Le poesie rincasano al tramonto”, 160 pagg., Albatros Editore, spirale in versi, dal sonetto all’iperverso (adesione personale alla prosa poetica) avvolta tra ricordi, esperienze dell’Anima e speranze.
Premi ricevuti (tra i più significativi):
Ricerche Artistiche Culturali R.A.L.F.I., Premio Int.le Phintia 26° Edizione 2012: Segnalazione della Giuria per l’opera di narrativa “Dialogo ininterrotto – Storia di un Amore Veronese”;
RecensioneLibro.it, Concorso Letterario Nazionale “Autore di Te Stesso” Edizione 2012: Podio per l’opera “Dialogo ininterrotto – Storia di un Amore Veronese”;
Associazione Culturale Unicamilano, Premio Culturale Nazionale “Emilio De Marchi –I ponti sul Naviglio” 2013/2014: Podio per l’opera edita (Albatros 2014) “Le poesie rincasano al tramonto” (Milano – Aprile 2015);
Accademia dei Bronzi di Catanzaro, Premio Alda Merini di Poesia: Targa di Merito il 3.05.2014 per l’opera “La via del ritorno” (brano tratto dalla raccolta “Le poesie rincasano al tramonto” edita da Albatros 2014);
Accademia dei Bronzi di Catanzaro, Premio Alda Merini di Poesia: Targa di Merito il 4.07.2014 per l’opera “Incontri e ritorni” (brano tratto dalla raccolta “Le poesie rincasano al tramonto” edita da Albatros 2014);
Premio Lorenzo Montano XXIX Edizione anno 2015: Menzione per l’opera edita “Le poesie rincasano al tramonto” (edita da Albatros 2014).
Associazione Culturale GueCi – Rende (CS), Premio Letterario Nazionale Un libro amico per l’inverno, V edizione 2016: Premio Speciale il 23 aprile 2016 con l’opera “Le poesie rincasano al tramonto” (edita da Albatros 2014).
Accademia dei Bronzi di Catanzaro Repertorio di Arte e Poesia 2^ Edizione 2016: Attestato di Selezione per l’opera “Appartengono a Dio” Febbraio 2016 – Edizioni Ursini
Accademia dei Bronzi di Catanzaro, Premio Alda Merini di Poesia V Edizione 2016: Attestato e Targa di Merito il 27.08.2016 per l’opera “Orario di reparto”.
Il Club degli autori- Premio di Poesia Il Club degli autori 2015-2016, Trofeo Umberto Montefameglio: poesia “Per l’eternità” (brano tratto dalla raccolta “Le poesie rincasano al tramonto” edita da Albatros 2014) inserita nell’Antologia delle più belle Poesie del Premio, Settembre 2016.
Il Club degli autori - Il Giro d’Italia delle Poesie in cornice XXIII Edizione - 2016: poesia “Incontri e ritorni” (brano tratto dalla raccolta “Le poesie rincasano al tramonto” (edita da Albatros 2014), 9^ class. finale il 21.10.2016. Prevista una Antologia.
Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti II Edizione - Seravezza 2016: Diploma d’Onore con Menzione d’Encomio per la raccolta di poesie edita “Le poesie rincasano al tramonto”, (edita da Albatros 2014) il 10.11.2016.
Premio Internazionale di Poesia Città di Monza 2016: 2° classificato con l’opera inedita “Appartengono a Dio” il 12.12.2016.
Accademia dei Bronzi di Catanzaro, Premio Alda Merini di Poesia V Edizione 2016: Attestato e Targa di Merito il 27.08.2016 per l’opera “Orario di reparto”. Il Club degli autori - Il Giro d’Italia delle Poesie in cornice XXIII Edizione – 2017: poesia “Incontri e ritorni” (brano tratto dalla raccolta “Le poesie rincasano al tramonto” (edita da Albatros 2014), 9^ class. finale il 21.10.2016. Prevista una Antologia. Il Club degli autori - Premio di Poesia Il Club dei Poeti 2017: poesia “Folle paura” (brano tratto dalla raccolta “Le poesie rincasano al tramonto” (edita da Albatros 2014), 3^ class. Febbraio 2017. Inclusa nell’Antologia del Premio. Accademia dei Bronzi di Catanzaro, Premio Alda Merini di Poesia VI Edizione 2017: Attestato e Targa di Merito il 06.08.2017 per l’opera “U-no”.
Dalla prefazione di Massimo Gualtieri a “Una coltivazione di forme”:
[…] “Una coltivazione di forme” fa parlare, o meglio, è parlata, da tutto un catalogo di enti minori, di marginali assenti. Qui, più che leggere, siamo letti: facciamo esperienza. Fare esperienza di un libro di poesie – coltivarne, appunto, le forme – comporta un agire e implica dei rischi. A questo insieme di asimmetriche aiuolette va rigorosamente anteposto il verbo praticare. Perché questo non innocuo paesaggio necessità sì di una certa attrezzatura, ma soprattutto sta a indicare quanto laboriosa e meticolosa sia ogni trasformazione del fare. La poesia si dà nel fare, gli è contemporanea. Fare esperienza di una poesia che si dà nel fare è già un ritorno all’originario contenuto delle parole greche logos e legein , quando non significavano ancora discorso, dire, e le parole non avevano alcun immediato rapporto con il linguaggio. Logos e legein sono parole care ad Heiddeger che, richiamandosi ad Eraclito, ridarà ad esse un senso molto particolare, un senso che abbiamo già ritrovato: quello di “raccogliere”, di “porre a fianco”, di “mettere in ordine”. La coltivazione, insomma. […]
Aida M. Zoppetti è nata a Bergamo, dove risiede. Alla fine degli anni ’70 ha fondato e diretto con Massimo Gualtieri e Ugo Pitozzi la rivista di poesia e sperimentazione visiva “North”. E’ apparsa in numerose antologie di letteratura contemporanea. Suoi testi figurano in Tracce, Tam Tam, Lettera, Anterem, Aperti in squarci, Salvo Imprevisti, Théâtre du silence, El Bagatt, L’area di Broca, Thesis, Risvolti, Il Verri.
Ha pubblicato “Una coltivazione di forme” e “Di Lama e di Luna” per Anterem, “Generation of Vipers” per Signum Edizioni d’Arte, la plaquette: “Piume, poesie visive e volatili” per Dialogo Libri, “Messieurs, mettez du blanc dans l’ombre” e “Blu biscotto” per le Edizioni “Alla pasticceria del pesce” dirette da Claudio Granaroli, “Ora che tutto il tempo è notte” per la raccolta “Lavoro dopo” della CGIL. Ha illustrato “Frisbees della vecchiaia” per Giulia Niccolai.
In questo momento si dedica alla poesia visiva.
ps Le note contrassegnate dai numeri 3 e 5 sono di Tiziano Salari