"Narrazione come pratica filosofica" di Umberto Curi

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Siamo alle battute iniziali del dialogo platonico intitolato a Protagora. Socrate ha accompagnato il giovane amico Ippocrate a casa di Callia, nella quale è ospite il vecchio sofista. A lui il filosofo domanda quale sia il contenuto del suo insegnamento. Alla risposta di Protagora – “insegno l’arte politica” – Socrate osserva che è difficile considerare la politica assimilabile alle altre arti, e dunque ritenere che essa sia insegnabile, visto che non vi sono competenti riconosciuti, e che anche i politici più celebrati non riescono a trasmetterla ai loro figli. Per poter essere creduto nella sua pretesa di saper insegnare a comportarsi con senno, tanto nelle faccende domestiche, quanto nelle cose che riguardano lo Stato, il sofista dovrà dimostrare che l’arte politica è un’arte ed è insegnabile. Accettando la sfida rivoltagli da Socrate, Protagora pone preliminarmente ai suoi interlocutori una domanda fondamentale: mython legon epideixo e logo diexelthon – “preferite che lo dimostri mediante un racconto, oppure attraverso un ragionamento?”. E poiché molti dei presenti rispondono a questo interrogativo invitandolo a scegliere ciò che a lui sembra più opportuno, il sofista dichiara di ritenere “più piacevole” [chariesteron] procedere mython léghein – “narrando un racconto”. Secondo Protagora, dunque (ma questa posizione, come si cercherà di dimostrare, è condivisa dallo stesso Platone), vi sono due modi diversi per epideiknymi, per condurre una dimostrazione. Il primo, quello che è più familiare, che corrisponde maggiormente a ciò a cui abitualmente associamo il concetto di “dimostrazione”, è il logos, il ragionamento astratto, nel quale risuona il raccogliere, e dunque il calcolare, che è proprio del verbo leghein. L’altra forma è quella del mythos – non narrazione fantastica destituita di verità, ma racconto, narrazione, il cui contenuto non è e non può essere giudicato pregiudizialmente né vero né falso, poiché si dovrà valutarne volta per volta l’attendibilità. Tra queste due modalità, stando alle parole del sofista, non si dà alcuna differenza di “grado” o di affidabilità, poiché anzi esse sono proposte come perfettamente equivalenti, entrambe capaci di sostenere una dimostrazione. Se differenza vi è – e si tratta di un aspetto essenziale – è che il mythos è più “pieno di grazia” [charis], più “gioioso”, più “dilettevole”. Esso dimostra, infatti, esattamente come il logos, ma lo fa accompagnando a questa dimostrazione una carica di piacevolezza sconosciuta al freddo “calcolare” del ragionamento.

Si coglie qui, quasi nascosta nelle pieghe di un passaggio ignorato o sottovalutato dalla totalità degli interpreti, una vera e propria dichiarazione programmatica, puntualmente realizzata negli altri scritti platonici, oltre che nello stesso Protagora. Quando il discorso si imbatte in un punto di particolare difficoltà, o se si tratti di esporre un argomento considerato molto importante, la strada prescelta dal filosofo – talora in abbinamento, ma spesso anche in alternativa, rispetto al logos – sarà quella di narrare un racconto. Così è per far capire quale sia la natura dell’anima o la genesi della conoscenza, per illustrare il destino riservato agli uomini, per spiegare quale sia la natura di Amore e le opere sue, per descrivere la condizione umana, rispetto alla cultura o alla mancanza di cultura, per rievocare il processo che ha condotto all’origine del mondo. In qualche caso (si pensi all’“immagine della dimora sotterranea in forma di caverna”) la dimostrazione mythica è preceduta o seguita da una dimostrazione logica. In altri casi (si pensi al mito di Aristofane nel Simposio o al mito di Er nella Politeia), il compito di epideiknymi è affidato esclusivamente al racconto.

La storia della filosofia occidentale, o almeno la storia che la storiografia filosofica tradizionale, da Hegel allo storicismo novecentesco, ha tracciato è la storia kata ton logon – secondo il ragionamento. Una storia ricostruita eliminando o emarginando il racconto, ovvero traducendolo sistematicamente (ma anche abusivamente) nell’altro linguaggio, quello del logos appunto. Si è operato, ad esempio, con l’intento di conferire razionalità al mythos, in realtà cancellandone le peculiarità, ricondotte coercitivamente nell’alveo della dimostrazione logica. Ma in parallelo a questa unilaterale e infine mutilante concezione della storia della filosofia – e della filosofia stessa – sovente costretta a negare ogni valore filosofico a discorsi che sembravano intraducibili nel linguaggio del logos, come quelli dei poeti, dei narratori e dei drammaturghi, da un lato, o le opere degli artisti e degli scienziati, dall’altro, si è tuttavia sviluppato un approccio mythico, molto spesso capace di dimostrare più e meglio di quanto non sappia fare la dimostrazione via ragionamento astratto. Una storia della filosofia, si potrebbe dire, kata ton mython, che affida alla narrazione di un racconto il compito di rispondere ai principali interrogativi, ovvero che a esso riserva l’impegnativa funzione di porre le domande nella forma più radicale.

2.

Nel linguaggio comune, il termine “mitico” designa abitualmente qualcosa che è antiquato, sorpassato, inattuale, e che comunque è in contrasto con le acquisizioni della scienza moderna. Mitiche sono definite quelle esperienze e quelle osservazioni che si sono rivelate erronee, in base agli sviluppi dell’indagine razionale: che il sole ruoti intorno alla terra, o che possa addirittura fermarsi, secondo quanto si legge nella Bibbia, dovrebbe dunque essere considerato “mitico”, nel senso di qualcosa a cui non sia possibile prestare fede. Ne consegue che la parola “mito” esprimerebbe qualcosa che, non corrispondendo ai canoni della razionalità, dovrebbe essere smascherato e infine eliminato. In questa accezione, fra il mito e il logos, vale a dire il discorso “logico” razionale, sussisterebbe una relazione di mutua incompatibilità, quale è quella che intercorre fra menzogna e verità, fra creazione fantastica e realtà. Per quanto possa apparire ovvia, questa distinzione è molto meno intuitiva ed assiomatica di quanto a prima vista si potrebbe supporre. Non lo è soprattutto se – come sempre è consigliabile fare – per venire in chiaro del significato di un termine, risaliamo alle sue origini etymo-logiche, e cioè se ci interroghiamo sull’etymon, e dunque sulla verità, in esso custodita. Nella lingua greca delle origini, mythos significa semplicemente la “parola”, e dunque lo stesso significato che hanno anche altri termini, come logos, epos, rhema. Non si tratta, tuttavia, di sinonimi del tutto intercambiabili, nel senso che ciascuno di essi “dice” la parola secondo una accentuazione ben precisa.

Ciò risulta in particolare se ci riferiamo al modo in cui essi vengono adoperati nei primi documenti scritti a noi pervenuti della cultura occidentale, vale a dire nei poemi omerici. Coerentemente con la radice etimologica, secondo la quale esso deriverebbe da leghein, che vuol dire porre attenzione, ponderare, e quindi anche raccogliere, logos è la “parola” nel senso di ciò su cui si è riflettuto, e che può essere usato per convincere. Di qui anche il fatto che, in tempi successivi, esso sarà usato per indicare ciò che è sensato, razionale, consequenziale. Al contrario, mythos indica la “parola” in un senso del tutto oggettivo, come equivalente di “storia”, come indicazione di ciò che è accaduto o sta accadendo; la parola che fornisce notizie oggettive e che è investita di una particolare autorità.

Ne sono testimonianza diversi luoghi omerici, e in particolare una circostanza troppe volte trascurata, e cioè il fatto che i discorsi pronunciati da Priamo, paradigma di autorità regale, presentato dal poeta come “venerando e terribile”, sono detti mythoi, mentre i discorsi di Ulisse, scaltri e contorti, finalizzati per lo più all’inganno, sono qualificati come logoi. Se ne desume che, in origine, mythos indicava ciò che è effettivamente e storicamente vero, ciò che è stato raccontato, ma proprio per questo nella sua essenza resta perennemente vero, al di là dello scorrere del tempo. In conclusione, riferendosi ai quattro termini greci principali per indicare la parola, si può affermare che rhema (da rheo = scorro), designa propriamente la parola “che sgorga dalla bocca”, epos (come il latino vox) è la parola come sonorità vocale, il discorso nella sua successione, logos è la parola nel senso di ciò che è pensato, espressione dell’intelletto che calcola, mentre mythos è la testimonianza immediata di ciò che è stato, è e sarà, insomma il discorso nella sua oggettività. Soltanto successivamente, a seguito di un processo documentabile nei suoi passaggi fondamentali, l’originario significato del termine mythos subisce una torsione, a seguito della quale da “discorso”, di per sé né vero né falso, ma comunque aderente alla realtà, viene a significare il racconto fantastico o la convinzione erronea. Affinchè il dominio del mito si delimiti rispetto ad altri, e si giunga alla separazione e poi alla contrapposizione fra mythos e logos, è stato necessario un percorso complesso, fra il VII e il IV secolo a.C., che ha condotto a scavare nell’ambito dell’universo mentale dei Greci una molteplicità di distanze, fratture, tensioni interne. Erodoto usa per la prima volta la parola mythos non per indicare semplicemente una “storia” o un “racconto”, ma specificamente per alludere a quelle storie che sono inattendibili. Ancora più esplicitamente, Tucidide distingue fra la storia (historia) da lui narrata con pretese di verità, da ciò che invece è tò mythodes, la narrazione non necessariamente vera. Il culmine di questo percorso si raggiunge in Platone (il quale peraltro continua a usare il verbo mythologhein, vale a dire la sintesi fra mythos e logos), con la distinzione netta fra i mythoi, che sono bugie, e i logoi, che sono invece discorsi razionalmente dimostrabili.

Sia pure senza approfondirla, come pure sarebbe opportuno, una precisazione deve essere fatta a proposito di Platone. È vero, infatti, che proprio all’Ateniese si deve far risalire la prima distinzione netta tra mythos e logos, fra loro diversi quanto a contenuto di “verità”. Ma è altresì vero che questa impegnativa dichiarazione programmatica non soltanto resta sostanzialmente a livello di enunciazione, ma è soprattutto “materialmente” contraddetta dall’assiduo riferimento ai mythoi in chiave strettamente filosofica. Si può anzi affermare che tutti i principali nodi teorici della ricerca platonica sono espressi anche – e spesso soltanto – attraverso la narrazione di un mythos. I racconti narrati da Platone (da quello dell’androgino a quello della caverna, dal mito di Er a quello di Eros, da quello riguardante le età del mondo, a quello del carro alato) offrono una testimonianza evidente della possibilità di praticare la filosofia come narrazione, anziché come astratta enunciazione di tipo sistematico.

Una specie di “isola di resistenza” dell’accezione originaria di mythos può essere individuata nella Poetica di Aristotele. In quel contesto, infatti, il filosofo attribuisce al termine un significato “tecnico” del gergo teatrale che rimonta oltre l’apodittica distinzione platonica. Mythos è, nel linguaggio aristotelico, il racconto che è alla base del componimento drammaturgico, è insomma la “trama” della tragedia. Ogni riferimento alla possibile “falsità” di questo racconto è del tutto assente. Al contrario, il mythos è considerato dal filosofo come il più importante fra i sei elementi che costituiscono il drama, ciò che rappresenta l’“anima” stessa della tragedia, il suo principio vitale. Come risulta anche dal fatto che il giudizio sulla qualità di una tragedia, il fatto che essa possa o meno essere considerata “kalos”, vale a dire “ben costituita”, si fonda esclusivamente sul modo in cui la “trama” descritta nel mythos è stata costruita.

La tradizione culturale successiva ad Aristotele, fino al cuore del XIX secolo, considera definitivamente acquisita l’accezione “debole” di mito, come fabula ficta, racconto inventato, ingannevole e illusorio. A parte la sia pur rilevante eccezione di Gian Battista Vico, il quale ritiene che i miti non siano affatto storielle prive di senso (come affermava invece il suo contemporaneoVoltaire), ma siano piuttosto “espressioni di verità per immagini”, bisognerà attendere la Filosofia della mitologia di Schelling per assistere a una rinascita di interesse per il mito. Secondo il filosofo tedesco, il pensiero puramente logico si lascia sfuggire il divenire e la storia concreta, mentre la mitologia, considerata in senso positivo e non come forma primitiva e inadeguata di conoscenza, esprime le verità e i significati fondamentali dello sviluppo storico, consentendo una comprensione più adeguata della realtà. Il mito per Schelling non ha valore allegorico, ma è tautegorico, cioè significa solo se stesso in quanto esprime un momento di sviluppo nel lungo e travagliato cammino della coscienza umana. Nelle figure simboliche del mito vi è una perfetta identità fra essere e significato, fra realtà e idealità, fra bellezza e verità. Dopo Schelling, si assiste alla costituzione e allo sviluppo di una moderna scienza del mito, attraverso i contributi di autori come Alfred Baeumler, Friedrich Bachofen, Ernst Cassirer, Walter F. Otto, Hans Blumenberg, Jean-Pierre Vernant, fino a Manfred Franck, Leszek Kolakowski e Jean-Luc Nancy. Si può convenzionalmente assumere che, attenuatasi la violenta offensiva sferrata contro la mitologia da parte di Adorno, e più in generale dagli esponenti della Scuola di Francoforte, la nuova Mythos-Renaissance coincida con la pubblicazione del libro a più voci Terror und Spiel, a cura di Manfred Fuhrmann. Gli studi pubblicati nel corso degli ultimi decenni, spesso opera di alcune fra le voci più significative del dibattito filosofico contemporaneo, hanno definitivamente disimpegnato il mito dalla sommaria condanna che per tanti secoli lo aveva confinato ai margini della cultura “alta”, come mera espressione di una fase “infantile” nello sviluppo della civiltà occidentale.

3.

Nel mondo greco arcaico, e poi in quello classico, prima che intervenisse la netta distinzione imposta da Aristotele, le due forme della “dimostrazione” convivono e si snodano parallelamente, in qualche caso intrecciandosi e contaminandosi reciprocamente. Per poco meno di un secolo, la forma più compiuta assunta da questa accezione del mythos è stata la tragedia attica. Testi come il Prometeo incatenato, l’Edipo re, l’Antigone, o la Medea (ma si tratta soltanto di un campionamento lacunoso e approssimativo) appartengono a pieno titolo a una storia che voglia ricostruire, senza lasciare voragini, il pensiero greco dell’età classica. Così come a esso appartengono, d’altra parte, altre e non meno significative forme di mythos, come le opere di Erodoto e Tucidide, o alcuni trattati della scuola di Ippocrate. Il denominatore comune di queste forme diverse di narrazione è il rilievo col quale al loro interno si propongono quelle stesse grandi questioni relative alla condizione umana e al suo destino, che contemporaneamente coloro che si definivano “filosofi” stavano affrontando in chiave prevalentemente (ma non esclusivamente) logica. Il punto di svolta è certamente rappresentato da Aristotele. Da un lato, infatti, lo Stagirita impone, quale modalità specifica di argomentazione di un pensiero che si è ormai compiutamente “tecnicizzato” come filosofia, l’andamento logico- concettuale teorizzato in particolare negli Analitici. Dall’altro lato, lo stesso autore pone i fondamenti della prima storia della filosofia (nel libro alfa della Metafisica), includendo tra i testi di coloro che “hanno filosofato per primi” esclusivamente gli scritti redatti katà ton logon, e trascurando programmaticamente autori o testi non riconducibili alle maglie strette della dimostrazione logica. In altre parole: ad Aristotele risale la mossa teorica per la quale è tuttora largamente e acriticamente accolta la consuetudine di ricostruire la “storia della filosofia”, cominciando da Talete e gli Jonici, e poi scendendo giù nel tempo fino a Socrate e Platone, attraverso gli Eleati, Eraclito e Pitagora, Anassagora ed Empedocle. Da notare che, una volta accettato questo schema per quanto riguarda i cosiddetti “Presocratici”– secondo il quale il pensiero coincide senza residui con la filosofia, e questa a sua volta si identifica con la forma del logos – un approccio del tutto simile viene poi impiegato per quanto riguarda lo sviluppo del pensiero postaristotelico, fino a delineare nel suo insieme tutto lo sviluppo storico della filosofia per differenza rispetto alla narrazione.

Questa operazione doppiamente riduzionistica – per la quale non vi è altro “pensiero”, se non quello “filosofico”, e questo a sua volta si esprime solo attraverso la forma del ragionamento puramente logico – una volta estesa dal mondo antico (dove la sua applicazione ha condotto a relegare in una dimensione puramente “letteraria”, e dunque di fatto a ignorare, veri e propri monumenti di pensiero) alla cultura contemporanea, porta con sé implicazioni grottesche e mutilanti, prima ancora che inaccettabili rimozioni. Dovranno essere considerati estranei all’ambito della filosofia propriamente detta autori come Kafka e Musil, Proust o Beckett, perché essi hanno scelto la narrazione come modalità di espressione del loro pensiero. Allo stesso modo, le riflessioni di Einstein e Schroedinger, ma anche di Schoenberg e di Mondrian, in quanto non riconducibili all’ambito delle elaborazioni dei filosofi “di professione”, restano relegate nel limbo di mere divagazioni, dalle quali è possibile prescindere ove si voglia comprendere le grandi linee di ricerca, lungo le quali si sviluppa il pensiero del Novecento. Per converso, qualunque scritto, ancorchè mediocre o meramente compilativo, esca dalla penna di chi sia, o sia stato, un docente di filosofia (uno di quelli che sarcasticamente Kierkegaard definiva “repellenti professori”), è considerato per ciò stesso parte genuina di quel “patrimonio” comune che è la filosofia contemporanea.

È – o dovrebbe essere – pleonastico sottolineare quanto sia del tutto criticamente infondata una simile impostazione, e quali pesanti censure o autentici fraintendimenti siano impliciti nello scambio indebito tra il pensiero e la biblioteconomia. Una cosa è, infatti, il dover scegliere una “categoria” o una “tipologia”, secondo la quale “classificare” un testo (e allora si può anche capire che l’Antigone o Aspettando Godot siano collocati fra gli scritti di “teatro”, o che il “Canto notturno” di Leopardi o le liriche di Jabes siano posti fra i testi di “poesia”, o che la “Metamorfosi” o “Morte a Venezia” si facciano rientrare nella “narrativa”). Ben altra cosa è che queste distinzioni, utili e forse necessarie sul piano di una elementare “economia” della classificazione, si traducano in rigide compartimentazioni di “generi”, emarginando dunque dall’ambito della filosofia proprio le opere di pensiero più dense e più ricche. Col paradosso di includere in essa, invece, qualunque testo – talora, veri e propri sottoprodotti, di scarso o nullo interesse filosofico – venga invece realizzato da esponenti della corporazione accademica dei filosofi.

In questa sede, si può solo accennare, infine, a un ulteriore, e non meno paradossale e fuorviante, criterio di inclusione/esclusione, vale a dire quello in forza del quale per decenni, e tuttora in contesti culturali e istituzionali non insignificanti, si è ritenuto che le opere cinematografiche possano essere tutt’al più rilevanti sotto il profilo “artistico”, ma non abbiano, né possano avere, alcuna valenza filosofica. Col risultato di eliminare dallo scenario del pensiero contemporaneo alcuni fra i “testi” più importanti prodotti nell’ambito del Novecento, sull’altare della presunta “specificità” della filosofia.

4.

Rispetto al complesso delle questioni finora proposte, la ricerca svolta da Sergio Givone, lungo un ampio arco di tempo, a partire dalla prima metà degli anni settanta, e fino a un presente più che mai fecondo e operoso, ha letteralmente un carattere pionieristico. Più ancora, essa si configura nel suo insieme come uno dei rari, e fra i più coerenti, organici e convincenti, tentativi realizzati nel Novecento di reagire alla degradazione “tecnicistica” del pensiero, riabilitando la dimensione intensivamente filosofica della narrazione, secondo un approccio che trova alcuni possibili di riferimento in Franz Rosenzweig e Richard Rorty, in Hans Georg Gadamer e Jean- Luc Nancy. Come gli scritti raccolti nel presente testo documentano in maniera molto efficace, Givone riesce a portare a compimento un’operazione particolarmente ambiziosa e impegnativa, agendo per così dire su un duplice piano. Da un lato, sotto il profilo si potrebbe dire “logico-argomentativo”, egli si muove nella direzione di quella che si potrebbe definire in linguaggio kantiano una “deduzione” del racconto, come forma non ancillare né depotenziata di riflessione filosofica. Dall’altro lato – in ciò, procedendo oltre anche rispetto agli esiti finora raggiunti da questa linea di riflessione – egli non si limita al piano della “giustificazione” razionale, alla quale invece abbina la narrazione come pratica filosofica. Da questo punto di vista, se paragonati alla trama di questioni che sono state fin qui evocate, i romanzi scritti da Givone rappresentano un deciso passo avanti, capace di tagliar corto con quelle che ad alcuni potrebbero apparire come sterili controversie metodologiche. Anziché limitarsi a discettare astrattamente sulle potenzialità speculative del racconto, Givone sceglie la strada più coerente, oltre che più incisiva e suggestiva – quella del passare dal dibattito sui “princìpi”, alla effettiva realizzazione della pratica narrativa.

Si pensi, fra i molti esempi possibili, alla Favola delle cose ultime, uscita originariamente presso Einaudi nel 1998, e poi più volte ristampata. Un testo che, fin dal titolo, certamente non dissimula un taglio deliberatamente filosofico, anticipando tra l’altro di 6 anni un’opera non poi così lontana, quale è il Della cosa ultima di Massimo Cacciari, pubblicata nel 2004. In questo testo, Givone si sofferma su quello che egli definisce “un genere letterario minore”, un po’ filosofia popolare e un po’ teatro delle marionette, che si chiama “Moritat”. Recitata dai cantastorie, la Moritat corrispondeva a ciò che nei secoli passati si chiamava “Moralità”, vale a dire una rappresentazione a carattere didascalico e edificante, svolgentesi su un palcoscenico e incentrata sulla discussione di alcune fondamentali questioni filosofiche: il bene e il male, la vita e la morte, le cose prime e le ultime. Esempio “alto” di questo genere letterario è, secondo Givone, Jederman di Hugo von Hoffmannstahl. Narrazione di eventi patetici e luttuosi, attraverso “quadri” che illustrano lo svolgimento della vicenda nei suoi passaggi cruciali, la Moritat non è che un esempio, fra i meno conosciuti, di un modo di “fare filosofia” che si ritrova, oltre che in Platone, nel Cartesio “narratore” (importante, tanto quanto per lo più sconosciuto) o in Diderot autore degli straordinari Contes Philosophiques.

Ma testimonianze non meno probanti della rara – se non perfino unica – capacità di praticare concretamente la narrazione filosofica, come modalità non subalterna, né tanto meno più “debole”, di trattazione filosofica, provengono anche da altri testi, che si esita a definire “romanzi”, soltanto perché si vorrebbe evitare che essi fossero abusivamente inghiottiti nella classificazione biblioteconomica, e quindi relegati in posizione marginale, rispetto alle altre opere dell’autore. Nel nome di un dio barbaro (2002) e Non c’è più tempo (2008), ma per certi aspetti anche Il bibliotecario di Leibniz (2005), forse la più riuscita e compiuta, fra le sue opere recenti) corrispondono programmaticamente a un’idea di filosofia come interpretazione di qualcosa che non è mai realtà oggettiva, ma semmai evento, racconto, narrazione. Di qui l’attenzione per la letteratura – già peraltro molto viva negli scritti degli anni settanta e ottanta, dedicati a Dostoevskij e al pensiero tragico – che ora diventa non solo oggetto di riflessione, ma più specificamente attività da esercitare in proprio

5.

È raro che le raccolte di scritti, nati in circostanze diverse, e originariamente destinati a finalità specifiche, abbiano altra utilità, che non sia quella di facilitare il reperimento di testi che, diversamente, rischiano di restare dispersi o difficilmente ritrovabili. Si pensi ai tanti “libri” (ma, in realtà, di libri in senso proprio non si tratta, quanto piuttosto di semplici “archivi in pubblico”, fin troppo spregiudicatamente offerti a un consumismo onnivoro e comunque superficiale) costituiti dalle raccolte di articoli comparsi in quotidiani o settimanali. In tutta obbiettività, questo limite non può essere imputato al presente volume. Al contrario, esso regala al lettore una polifonia di temi concettualmente raccordati fra loro, fino a comporre un percorso variamente articolato e insieme molto rigoroso. Da questo punto di vista, ci si può spingere ad affermare che le pagine che seguono ci restituiscono per la prima volta un’immagine del pensiero di Sergio Givone diretta e incisiva, certamente non meno organica di quella risultante da altre opere precedenti, ma qui connotata con una freschezza di linguaggio e una immediatezza di espressione per molti aspetti inedite. Si dovrebbe anzi aggiungere che l’originaria destinazione di alcuni scritti, rivolti ad esempio al pubblico del Festival della Filosofia, o comunque concepiti come base di “discorsi”, affidati dunque alla parola “detta”, più che a quella “scritta”, consente di sintonizzarsi più agevolmente col ritmo di pensiero di Givone, còlto per così dire allo stato nascente. Una considerazione analoga può essere fatta a proposito delle due interviste qui raccolte, “qualitativamente” del tutto irriducibili al burocratico scambio di battute che caratterizza abitualmente occasioni di questo genere. Nelle conversazioni che sono state riportate Givone rende infatti più esplicite le principali linee della sua ricerca, da un lato affondando nella ricostruzione di alcuni passaggi cruciali della storia del pensiero, e dall’altro evidenziando le peculiarità dell’approccio teorico da lui preconizzato. Si veda, ad esempio, con quanta nettezza ed efficacia emerga la combinazione di queste due prospettive di riflessione in un brano illuminante, desunto appunto da un’intervista: “In ogni caso, non è solo questione di stile o del piacere per la scrittura, ma di una diversa concezione della filosofia, un mutamento paradigmatico, dove la filosofia non si lascia assimilare a modelli scientifici di conoscenza, ma non per questo cade nell’affabulazione, perché resta conoscenza, anche se di tipo particolare. E cioè: conoscenza interpretativa, conoscenza ermeneutica. Un teorema matematico vuole essere dimostrato. Una storia chiede invece di essere interpretata. Ecco, la filosofia come interpretazione di storie (storie che possono riguardare tanto gli uomini quanto Dio) alla luce di una verità possibile, è la concezione della filosofia che si affaccia qui. Una concezione diversa, che può sembrare nuova, ma che nuova non è: Vico, Hobbes, Rousseau non prendono forse a tema un episodio fondante della storia del genere umano, e cioè il patto che permette l’uscita dallo stato di natura, svelandone l’ipotetica verità nascosta? Il prospettivismo di Kierkegaard, il suo affidarsi a eteronimi, non sono strategie narrative? E Nietzsche: niente in lui è dimostrazione, tutto è racconto, tutto è evento, a cominciare dall’evento della morte di Dio. Da questo punto di vista la tesi che ho sostenuto nel mio ultimo libro va intesa sia nel senso del riconoscimento che la filosofia ha un’essenza romanzesca sia nel senso dell’affermazione che il romanzo ha un’anima filosofica”.

Ma si veda anche con quale acume, sul piano di una ricostruzione storica mai isterilita in mera stroriografia, in un altro passaggio di uno scritto compreso nel presente testo, Givone ritrovi in Giambattista Vico una concezione del filosofare del tutto affiatata con l’impianto teorico fin qui descritto: “Quando Vico si chiede dove stia la verità dell’uomo: se nello stato di natura o nella società civile, la risposta non può che essere: nella società civile, benché la società civile sia tutta una favola, anzi, nella società civile proprio in quanto favola (non essendo altro la favola che “favella vera”). Siamo agli antipodi rispetto a Hobbes. In Hobbes non c’è progresso, non c’è emancipazione. Non c’è neanche peccato, così come non c’è, né ci può essere libertà. In Vico invece la caduta, e dunque il peccato, è al tempo stesso fonte di confusione ermeneutica e principio di emancipazione. Sono due modelli che si contrappongono, e che continuano a contrapporsi, anche al di là del diverso impianto teologico d provenienza: da una parte il prepotente gesto sovrano, che cancella l’abnorme assumendolo in sé (il sovrano è affrancato dalla legge, infatti la instaura), dall’altra il timido gesto interpretante, che dall’abnorme di cui prende atto trae fuori ipotesi e costellazioni di senso (il legislatore finge comandamenti che però pretendono di essere veridici e veritieri, cioè conformi all’umanità dell’uomo). L’alternativa, ancora oggi, è tutto sommato questa”.

Insomma, i testi raccolti in questo libro offrono la felice opportunità di misurarsi col pensiero di Givone nelle diverse articolazioni che esso ha assunto da circa quarant’anni a questa parte: l’ineludibile Auseinadersetzung con gli autori a lui più cari, quali Dostoevskij e Kierkegaard, il ritrovamento di una linea di riflessione refrattaria a ogni addomesticamento dialettico, da lui denominata “pensiero tragico”, l’affondo su alcuni concetti cruciali, quali quelli di eros ed ethos, la sua costante attenzione per la narrativa, come soggetto stesso dell’indagine filosofica. Un testo ricco e multiforme, schietto e genuino, come il suo autore. Un testo al quale ritornare più volte, per attingere da esso inesauribili spunti di analisi e importanti suggestioni di riflessioni. Come la penetrante definizione di romanzo, alla quale conclusivamente si vuole affidare il ruolo di exergo generale delle bellissime pagine che compongono questo libro: “Più di qualsiasi altra forma d’arte il romanzo è finzione: perfino più della pittura o della scultura. Il romanzo finge che sia accaduto ciò che non è mai accaduto (o che se lo è, lo è come se qualcuno se lo fosse inventato, vedi il romanzo storico). Perché il romanzo finge eventi e situazioni? Ma perché fingendo attinge alla verità, mettendo ordine nel caos dell’esistenza, costruendo ipotesi e magari traendo conclusioni, in ogni caso facendo lampeggiare un senso possibile. È così che funziona, come ci aveva già spiegato a suo tempo il grande Giambattista Vico. Gli uomini diventano uomini, cioè escono dallo stato di natura e dalla barbarie, raccontandosi sempre di nuovo la loro vita.

Se la ‘contano’, per l’appunto, e quindi inventano qualcosa che non è mai stato veramente. Ma in questo modo si liberano dall’antica soggezione alla brutalità della natura. E che cos’è più vero? Che cosa esprime meglio la verità dell’umano? Il fatto che l’uomo è un bruto o il fatto che l’uomo deve diventare uomo? Ecco, i romanzi mettono in gioco la verità intorno alla nostra condizione e di conseguenza sono il pane quotidiano della filosofia”.

(torna a: I libri del Premio Lorenzo Montano)