Mario Fresa

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L’istante infinito della parola

La pulsante germinazione che percorre l’intero corpo dei versi di Pentagrammi di Marco Furia è uno stupefacente magma il cui largo espandersi, maestoso e febbrile, si muove nella direzione di una visione eraclitea del reale, ove ogni minimo frammento dell’esistenza sfugge alla prigione dell’immobilità e vibra, interamente, nella liquida estensione di un processo attraversato – quasi stregato, diremmo - da un senso di inarrestabile mutazione e da una interna, continua rigenerazione.

In tale contesto, la voce poetica è pronta, in ogni istante, a esplodere tutta, improvvisa e violenta, nel gorgo di uno spazio incalcolabile e inconosciuto: e non vuole mai porsi come schiava della descrizione, né della logica, ma intende farsi sogno stupìto, felicemente dimentico di quel rapporto basso, utilitaristico,secondo il quale la parola deve coincidere col senso e il senso deve identificarsi con ciò che si mostra; di qui, l’uso quasi magico e inebriante di spiazzanti ossimori (armonia muta, statici dinamismi, zitta voce, indenne traccia, eterno sprazzo, silenti melodie, flemmatica tempesta), nei quali il verso riemerge con la forza spiritata di una lingua stupefatta, costantemente pregna di inaudite accensioni, di sorprese e di deviazioni, di apparizioni e di nascondimenti.

Bisogna abbandonarsi all’alto vortice di questi versi: qui, infatti, le indicazioni e le coordinate spaziali e temporali (l’uno e l’altro, il prima e il dopo) sono radicalmente azzerate e ricostruite secondo immagini coraggiosamente libere dalla gabbia del nome e dell’identità.

Il testo disegna un ansioso dialogo con una dimensione altra e sfuggente, che in ogni passo fa riverberare ulteriori infinibili dialoghi: e pare di trovarsi in una camera di specchi sovrapposti l’uno sull’altro, colma di perle che sempre si sgranellano, esplodendo e moltiplicandosi in un succedersi incalzante. In tale metamorfico fiume, anche una singola parola, accostata a un’altra, dà vita a dilaganti visioni che tendono sempre a scompaginare l’ordine usato, e a confutare il dover-essere della scrittura intesa come strumento assoggettato alla cosa da ri-produrre (si leggano, a mo’ di esempio, i versi seguenti: «[…] acquei riflessi / melodiosa / gemma, gioiello / tremito (colore / mai udibile canto?) / curvo assolo / policromo silenzio / musicali / zitti, acustici arpeggi / mute trame»).

Leggendo e rileggendo questa densissima partitura di Marco Furia vien da pensare, volendo offrire un possibile paragone, a certe superbe costruzioni musicali come la Fantasia su una nota di Henry Purcell, in cui la principale cellula (il do) che apre il viaggio della composizione si estende e si dilata in una ininterrotta giostra di mutevoli rifrazioni, rendendo ampio, fittissimo e cangiante lo spettro armonico dell’intero percorso, nel quale ogni nota è sempre un accecante inizio: determinando, con un ciclico fluire, l’aprirsi perenne di una vista anteriore.