Lucio Saffaro: un ritratto

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Lucio Saffaro: un ritratto

Dall’elaborazione delle tavole del Tractatus Logicus Prospecticus (1966) alla recente pubblicazione Disputa cometofantica, a cura di Gisella Vismara e introduzione di Flavio Ermini, Sassella editore, Roma 2011, presentata a Riccione nell’ambito della mostra Lucio Saffaro, I luoghi segreti dell’essere e del tempo, Silvana editoriale, intercorrono circa Cinquanta anni. Sono anni di continue interrogazioni e ricerche dell’artista dotto, come lo definisce Bruno D’Amore. Nato a Trieste nel 1929, si trasferisce nella città emiliana nel 1945, laureandosi in Fisica teorica all’Università. A Bologna trascorrerà l’intera sua esistenza, fino alla morte avvenuta nel 1998, dedicandosi all’insegnamento e al perseguimento della sua inesausta ricerca .

La sua è una vicenda singolare, non ancora del tutto indagata, nonostante le numerose testimonianze critiche presenti a corredo del volume che accompagna la mostra. Queste ultime convergono su un solo punto: la stretta dipendenza tra arte e scienza e viceversa, tra arte e matematica, tra arte e geometria, tra arte e numeratologia. Insomma, un complesso interdisciplinare che fa di Saffaro un artista plurale unico, complesso e di difficile collocazione nell’ambito degli assetti estetici e filosofici del secondo Novecento. Fin dai suoi esordi, egli si è mosso nella direzione non tanto di conciliare arte e scienza, ma di trovare la stretta dipendenza tra le due discipline. E nel corso di un intenso e costruttivo lavoro con l’apporto di una serrata e persistente indagine conoscitiva ha cercato, con sempre maggiore lucidità di soluzioni di trovare le strette connessioni che muovono il tempo e lo spazio dell’arte e della scienza, e come questi ultimi corrispondono al presente della creazione . Di trovare insomma la compresenza del tempo nella successione del tempo infinito. Chi si sofferma a guardare un lavoro di Saffaro resta infatti sorpreso dalla fissità delle figure: sembrano enigma sospesi tra passato, presente e futuro: un luogo di natura simbolico-metafisica, assimilabile a coeve ricerche nel campo della pittura. Ma è solo una prima e immediata sensazione che subito è stata corretta dai critici, come documentano i testi in appendice al volume. Al contrario, in Saffaro è sempre presente la necessità di espurgare la forma da ogni intrusione sentimentale o vagamente simbolica. La sua ricerca è impiantata sulla necessità di sciogliere la forma da qualsiasi legame oggettivo, di farne una forma del discorso puro, iniziale essenza e descriptio del “principio generativo che rende possibile la costante trasformazione metamorfica della natura” (Ermini). In questo proposito si respira più l’intento, in senso lato, costruttivista di Moholy-Nagy e l’esigenza di Albers di organizzare la pittura con procedimenti scientifici, nel tentativo di assorbire l’assoluta fisicità della superficie pittorica, “rinunciando ai significati secondi e rifiutando ogni associazione analogica”. Ciò spiega l’inesausto studio delle forme geometriche, lontane da ogni possibile intrusione psicologica; da qui anche la potenzialità della stessa a coinvolgere il pensiero nel lungo percorso dei “luoghi” dell’“essere e del tempo”. È, il suo, un lungo e persistente viaggio che non esita di avvolgere e di ripercorrere momenti del grande repertorio classico (Piero Della Francesca, Raffaello, Dürer, Vermeer), approfondire gli scritti degli autori del Rinascimento (Galileo, Cartesio), ripensare a De Chirico, Mirò, Morandi, o anche riattraversare, in altra forma, i risultati della speculazione logico-matematica, ad esempio, di Gõdel, studiare le tavole dell’artista Escher, la sintesi originale dell'invenzione contrappuntistica del musicista Bach, la filosofia di Heidegger per ritradurli in una personale visione estetica, come testimoniano i numerosi scritti dell’artista triestino (Dialoghi della Sapienza, La Disputa Ciclica, Trattato curvo della tristezza, ecc.) e le altrettanto importanti contaminazioni e verifiche speculative con artisti filosofi “puri” come Rubina Giorgi. L’intento di Saffaro è, da un lato, riordinare il passato e, dall’altro, cercare le connessioni con il presente al fine di giungere al nucleo vitale della conoscenza. A quell’attimo che ci permette di progredire nel passato guardando al futuro, consapevole che l’avvenuto ricongiungimento con il presente non significa il definitivo conseguimento, ma soltanto la “soglia”da cui ripartire, il momento in cui trovare, anche se per un solo istante, l’epifania del discorso originario. Questo il nucleo vitale della sua ricerca che ha trovato, nel corso della sua attività, le testimonianze critiche dei maggiori critici d’arte. Dai saggi introduttivi di Giovanni Maria Accame, Claudio Cerritelli, Gisella Vismara, e dalla amplissima bibliografia in appendice con scritti di Anceschi, Arcangeli, Argan, Baratta, Barilli, Bilardello, Brunetti, Calvesi, Carandente, Caroli, Cerritelli, Dalai Emiliani, D’Amore, Emmer, Galimberti, Lambertini, Lemaire, Longo, Los, Luxardo Franchi, Marchiori, Marinelli, Masini, Massarenti, Menna, Montenero, Odifreddi, Pesci, Quintavalle, Raimondi, Ricoeur, Russoli, Safred, Segato, Tega, Volpi, Zevi, ecc., emerge una figura di un intellettuale aperto alle infinite connessioni delle varie polarità del linguaggio, da quello visivo alla matematica, dalla geometria alle forme della parola, dalla filosofia all’ordine delle cose esistenti, alla costante ricerca del “luogo” dove “convergono le funi del tempo” e “si manifestano le specie esistenziali”; dove “il nome puro attinge sostanza” e l’“assoluto regna” nella sua dimensione infinita. Proprio questa astanza d’infinito è la cifra predominante della sua ricerca: ci consente di respirare nelle molteplici stesure monocromatiche dei poliedri la gamma dei micro passaggi coloristici che imprimono una quieta ma costante accelerazione all’ordine matematico che si respira nella sua opera, consentendoci di andare oltre la superficie e di penetrare e percorrere in tutta la loro intrinseca valenza propositiva ed estensiva la lucida risoluzione delle figure dei poliedri per rintracciare le interdipendenze dei percorsi conoscitivi che l’artista ha perseguito nei suoi lavori grafici e pittorici. C’è, insomma, nelle opere di Saffaro un quid che affascina e attrae allo stesso tempo e, nonostante la rigorosa scientificità dei processi conoscitivi, si resta come incantati a seguire le sue evoluzioni speculative e materiali, che ci fanno ricordare le parole di Leonardo da Vinci, quando scrive: O studianti, studiate le matematiche, e non edificate sanza fondamenti. In Saffaro, il suggerimento del grande fiorentino raggiunge un proprio specifico fondamento: in ogni suo lavoro c’è il mondo stesso che ci consente di andare verso nuovi sentieri di conoscenza alla ricerca della differenza originaria in cui la dimensione infinita sostanzia i suoi percorsi.

Gerardo Pedicini