L’illusione dell’autosufficienza

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Bernhard Waldenfels intervistato da Danilo Di Matteo

Bernhard Waldenfels

La Scuola di Alta Formazione Filosofica di Torino, fondata e diretta da Ugo Perone, dal 22 al 26 novembre 2010 ha ospitato Bernhard Waldenfels, uno dei maggiori fenomenologi contemporanei. Titolo dei seminari: “Fenomenologia responsiva”. Il 25 novembre, poi, l’autore ha tenuto una lezione magistrale incentrata sull’attenzione all’estraneo.

Waldenfels è nato a Essen, in Germania, nel 1934 e si è  formato in diverse università tedesche e francesi. Allievo di Maurice Merleau-Ponty, la sua ricerca si concentra soprattutto sul tema dell’“estraneità” e dell’“estraneo”, con particolare riguardo al corpo, al linguaggio, al concetto di modernità e alle relazioni interculturali. Oltre che con l’opera di Edmund Husserl e di Martin Heidegger, egli si è intensamente confrontato con quella di Emmanuel Lévinas, Michel Foucault e Jacques Derrida e con la letteratura del Novecento.

Vi è una tendenza diffusa a inglobare l’altro nel proprio discorso, non cogliendone così l’irriducibile estraneità e rendendo il dialogo una finzione. Crede che ciò, nella vita e nella cultura, continuerà ancora per molto? 

L’aspirazione a essere padrone della natura e ad essere padrone in casa propria costituisce esattamente una delle pretese esorbitanti del soggetto moderno. Tuttavia questo soggetto si è sempre imbattuto e si imbatterà anche in futuro in forme di resistenza da parte della natura, della società e a esso interne. Tali disturbi o interferenze sono da considerarsi assolutamente produttivi, se noi, abbandonando il terreno dell’esperienza consolidata, facciamo in modo che essi non acquistino forme catastrofiche. Ed è proprio nel senso di una siffatta produttività che io parlo di un “pungolo dell’estraneo”.

L’esperienza della nascita, intesa come un passato che non è stato mai presente, l’attribuzione del nome che portiamo, le parole a noi rivolte prima di imparare la lingua, l’esperienza stessa dello specchio rappresentano momenti della nostra vita assai caratterizzati dall’ estraneo. Bisognerebbe perciò divenire consapevoli che il confronto con esso inizia subito, e a livello individuale. Certe antinomie individuo-comunità sono false?

Sì: l’estraneo comincia in casa propria, qui e ora, e si ripropone sempre di nuovo. E questo vale anche per la società. In tal senso, l’estraneità della nascita non riguarda soltanto il singolo soggetto, ma anche l’ambito della fondazione o dell’istituzione di compagini collettive, e ciò nei termini di un passato originario che, in effetti, non può essere né mai appropriato, né tanto meno esaurito. Pertanto il futuro di una società, come anche le sue possibilità produttive, stanno proprio nella inesauribilità di questo passato mai totalmente accessibile e, quindi, costantemente da ri-prendere creativamente.    

Talora pare di cogliere nel suo pensiero un’eco di Helmuth Plessner; in particolare dell’eccentricità dell’essere umano, della sua non coincidenza con se stesso. È così?

La nozione plessneriana di un’eccentricità dell’essere umano si accorda senz’altro con la mia idea di una fenomenologia responsiva. Tuttavia, a differenza di Plessner, ritengo che l’uscita-fuori-di-sé non avvenga soltanto in forza di una presa di distanza dai comportamenti abituali, bensì venga anche prodotta in forza delle richieste dell’estraneo. In tal senso non si tratta tanto di trovare o produrre una determinata distanza da se stessi sulla base di un’attivazione propria, quanto piuttosto di lasciare libero spazio a che si possano ricevere provocazioni da parte dell’estraneo.

È l’estraneo a provocare la nostra risposta e, nel contempo, a manifestarsi attraverso di essa. “Durante” lo svolgimento della risposta, però, si hanno altre provocazioni, per cui sia il “campo” del proprio, per così dire, sia quello dell’estraneo cambiano incessantemente. Da qui l’esigenza del passaggio da un parlare dell’estraneo a un parlare a partire dall’estraneo. Quali risvolti ciò può avere nella nostra società multiculturale?

In effetti noi ci approssimiamo all’estraneo nel momento in cui prendiamo le mosse da esso, rivolgendovici responsivamente. Per le nostre società multiculturali ciò significa lasciare spazio a che noi ci possiamo sentire effettivamente interpellati dall’estraneo, anziché schermarci da esso oppure dargli la caccia, aderendo a un ideale illusorio di una società pienamente omogenea. 

Non teme che a volte porre l’accento sul confronto interculturale e sulla società multiculturale possa, almeno per un istante, farci dimenticare che le differenze e l’alterità riguardano ciascun gruppo culturale, si annidano in ciascuna cultura e persino in ciascun individuo?

L’estraneità in noi stessi significa che ogni individuo e ogni gruppo è già sempre influenzato dall’estraneo. Nessuno è mai pienamente presso di sé. La dissidenza è perciò un presupposto di ogni consenso. Essa non rappresenta nessun deficit da colmare, bensì una forma di deviazione, senza di cui possibilità e strutture stabilizzate finirebbero semplicemente per sclerotizzarsi.

La fenomenologia ha insistito sul corpo: il corpo anatomico e quello vissuto, il corpo oggetto e il corpo soggetto, il corpo che ho e il corpo che sono: ma qual è il nesso fra il proprio, l’altro-estraneo e il corpo?

In tedesco parliamo di Leibkörper, il che non significa che, da un lato, ci sia un corpo vivente, un corpo di cui viviamo e, dall’altro, in aggiunta, un corpo materiale. Piuttosto questa espressione implica che il nostro comportamento corporeo in carne e ossa contiene già sempre aspetti material-fisiologici che, in determinate esperienze, esibiscono particolare rilevanza. Si prenda ad esempio il camminare o il correre, in cui l’apparato motorio gioca un ruolo determinante; oppure si prenda l’esperienza dell’affaticamento, in cui le gambe non rispondono più e si diventa quasi un peso per se stessi; o si prenda ancora l’inciampare, in cui si può cascare alla stessa stregua di un oggetto; in tutti questi casi scopriamo in modo molto eloquente che non siamo un puro spirito collegato in modo estrinseco ad un corpo esterno, bensì che la natura, sotto forma di processi fisiologici, penetra fino al cuore stesso dell’esperienza propria, facendo sì che il corpo si percepisca come un corpo estraneo.

Così  in Pascal troviamo la definizione dell’uomo come “canna pensante”, il che non dovrebbe però essere inteso nei termini di due sostanze collegate fra loro, secondo lo stile cartesiano, ma nel senso che l’uomo è già sempre e anche rimesso a influssi naturali e fisici, di cui non riesce mai a disporre totalmente. E ciò vale anche per l’ambito della violenza, la quale implica il fatto che noi abbiamo un corpo vulnerabile, che può essere già sempre ferito dagli altri.

La corporeità propria prosegue poi in una intercorporeità, in cui proprio ed estraneo sono intrecciati, così come accade, ad esempio, nella cooperazione o nel fare musica insieme. In questi casi, noi siamo presso gli altri, nella misura in cui e nel mentre non siamo mai totalmente presso noi stessi.    

Intervista tratta da  “Mondoperaio”  n. 7 - luglio 2011