"Fra due vuoti" di Stefano Guglielmin

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Postfazione

Una poesia difficile come questa va avvicinata dalla cornice, per ricavarne almeno un’idea di mondo. Prendiamo allora i titoli delle sezioni, fortemente indiziari: Dis è prefisso privativo, di mancanza, sillaba che sottrae materia sana al vivere, che lo riconduce alla caduta (originaria e costantemente ripetuta nel quotidiano, in un eterno ritorno dell’uguale privo dell’oro zarathustriano). Tale azione fonda qui l’idea che l’esistenza sia agita dall’incomunicabilità, giacché, tolto il fertile della terra su cui cresciamo, perso di vista l’avvio benedetto, l’arido non può che gemmare silenzio penoso e assenza di direzione. In una parola, il capitolo è governato dal Disincanto, ossia dalla consapevolezza d’abitare «un vuoto», da navigare tuttavia con pochi veri amici, come il vasel del “tu Lapo ed io” dantesco, mentre fuori sopravvive gente alla deriva, che ha scelto la polis per paura.

Ius, seconda stazione e titolo riepilogativo del viaggio, sulla scorta del contrattualismo hobbesiano e di René Girard, ci racconta appunto la storia di questa masnada derelitta diventata popolo carnefice, che trova unità sacrificando il capro nostro Signore. In parallelo, accampano la fatica e la violenza necessaria del mondo contadino, diffidente verso la civilizzazione e abituato a macellare la vita animale, per garantirsi quella della comunità. C’è dunque una giustizia antropologica a fondare la penuria dell’esistente, un’occorrenza ineluttabile cui siamo consegnati per natura. Leopardi transita nei paraggi, riconoscendo che la felicità non è un diritto naturale che lo Stato deve difendere, bensì il virus originario che ci porta a consunzione, agendo nel vano tentativo di sfamarlo. In Crosara, questo fare diventa rituale, anestetico, «assurda terapia», uno «stare», come in kitchen, spazio domestico per eccellenza, eppure estraneo tanto alle figure raccontate, quanto al lettore, che intravede azioni comuni (lavare i piatti, sbrigare la tavola, conversare), foriere, forse, di una felicità celeste, ma comunque spostata in avanti: «avrebbero toccato il massimo / dell’equilibrio solo quando uno avesse parlato e l’altro / nel contempo con le mani e l’acqua. avrebbero dunque toccato il cielo». Kitchen appartiene a Dis, ma è pienamente cellula di Ius, proprio perché mette in scena la famiglia nel suo ordine quotidiano, nella divisione dei ruoli, che garantisce stabilità al sistema civile.

L’esistenza disperata (espressione del sistema-natura) inevitabilmente patisce nell’ordine costituito, rischiando di continuo l’«ostracismo», come si narra in Paîs, terzo momento del polittico, serie di destini paesani messi in disparte dalla società, segnati dalla caduta nel buio, tema che torna e segna, con il colore bianco, l’ossimoro strutturale del libro, come se l’uomo stesse faticosamente in piedi per sincronica lotta di due opposti, entrambi di radice religiosa: lo scuro abisso e la luce, irrisolvibili dialetticamente (e semmai riconducibili alla ciclicità del mito, in particolare quello di Persefone), e fonte invece di sofferenze certe. L’uomo di cui ci parla Erika Crosara agisce dunque fra due vuoti – interiore e sociale – fratello dei personaggi conradiani e beckettiani, ma anche della disperata vitalità di Amelia Rosselli, sempre governata da un’educazione impeccabile ma castrante, come ne la signorina vincenza, della sezione conclusiva, il cui «zelo» la «lascia senza forze». Sus, suis – parole gemelle nel riportare alla luce tanto l’animalità dell’essere umano quanto le sue buone maniere, il je suis dell’elegantissima modernità francese, che fa da sponda, in altra lingua, al sus domesticus (il maiale) e al suis, lo streptococco che l’ammala – sintetizza appunto il conflitto originario che  attraversa il libro, tra il miraggio del bene, incarnato qui e altrove nella lucentezza della foglia oro, della «doratura», e l’opacità dell’umana materia, caduca ossia che presto cade e perisce.

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