La penombra che abbiamo attraversato (ricordando Lalla Romano), dopo l’incidente occorso a Flavio Ermini nell’ottobre 2019, ci ha imposto una profonda riflessione su tutta l’attività di Anterem, obbligandoci dopo 45 anni a un passaggio in terra incognita. All’improvviso messi di fronte, con la chiusura della rivista cartacea, all’esigenza di ridefinire scelte e indirizzi, anche dentro impoetici percorsi burocratici. Va da sé che tutte le energie sono state assorbite per riorganizzare i quadri della nostra associazione no-profit, per garantire la continuità del premio Lorenzo Montano, per immaginare e costruire la rinascita dell’editrice. Alla quale, oltre alle collane storiche e facendo perno proprio sul premio, è stata dedicata grande cura nello sviluppo di nuove linee editoriali, nella presentazione delle opere pubblicate e nella partecipazione alle fiere nazionali del libro.
Tutto questo ha di fatto rallentato, complice anche la pandemia, le uscite di “Carte nel vento”, che da un po’ ha finalmente ripreso con regolarità le sue pubblicazioni. Il presente numero conclude l’esperienza del Montano 2019.
A conferma che da sempre, per noi, nulla si esaurisce con gli esiti del premio, ma prosegue nel tempo, nel continuo dispiegarsi di una storia cominciata 37 anni fa.
Abbiamo scelto di prenderci cura della poesia. Pubblichiamo senza oneri per gli autori. E continuiamo a operare in totale gratuità in tutte le attività dell’associazione, del premio e dell’editrice, nelle connesse attività di recensione e presentazione delle opere e nella cura di Carte, sito e pagine social.
Consideriamo importante dare valore alle opere nel tempo, mettendo a disposizione di tutti un archivio permanente sul sito. Da febbraio riprenderemo su questo periodico le scritture segnalate, finaliste e vincitrici dall’edizione del Montano 2020 e oltre.
Desideriamo ringraziare tutte le autrici e gli autori che ci hanno pazientemente aspettato.
E grazie a Loredano Matteo Lorenzetti cominciamo questo numero riflettendo sulla parola, grazie a Zona Disforme lo sigilliamo con un salto, in realtà due, nell’immaginario.
Attendiamo nuovi testi, per lavorarci con la consueta passione, all’edizione del premio da poco lanciata.
Scarica il Bando della 37a edizione del Premio Lorenzo Montano (2023)
In copertina: fotogramma di Zona Disforme
La redazione
Esiste un dire della parola che, raschiate le incrostazioni del senso e lucidata l’opacità dell’usura del tempo, pronuncia il futuro, nel nuovo dell’eveniente?
Ascoltando Emily Dickinson, nella lirica intitolata “The future never spoke”, il futuro tace il suo diveniente accadere:
Il futuro – non ha mai parlato –
né mai – come fanno i muti –
rivelerà a segni – una sillaba –
del suo profondo avvenire –
Eppure la parola, come originario gesto vocalico mentale – all’udito sordo e alla trasduzione grafica estraneo –, nel suo invisibile e inudibile tenue germinare fonemico, appena rumoreggia per accennare, sommessamente, la possibilità d’un senso eveniente.
Si tratta d’una gestualità intima, d’un moto recondito, d’una azione nascosta non palesata all’esterno. Di un atto afono alle labbra, fintantoché alla soglia d’esse giunga. Che compaia, cioè, per danzare sillabe sonore sulla bocca, nello spazio intermedio fra interno ed esterno del corpo. In quella umida cavità vibrante in cui si compongono e decompongono i suoni delle parole.
Tale condizione di gestualità motorio-fonica possiede un carattere e un potenziale tra-s-f-orma(t)tivo: una forma attiva tras-formante, che contiene l’orma di sensi possibili. Suoni-sensi che fluidamente transitano nel luogo della mente, in articolanti gesti indefinitamente mutanti. Poiché nel mentre cercano una forma sonora che componga la parola, vengono in-formati d’ulteriori possibilità di forme. Sicché nel tentare d’essere gesto in sé concluso, de-finente, scopre quel che può divenire nel suo aperto eveniente. Sperimenta cioè lo stato provvisorio e precario dell’essere sul punto di divenire altro dal pensabile.
Prosegue Dickinson:
ma quando la notizia è matura –
la presenta – nell’atto –
prevenendo ogni preparazione –
fuga – o sostituzione –
La ‘parola futura’, nell’eveniente da cui trova forma e senso, non ha praeparatio, bensì paratio, quale aspirazione a, ricerca finalizzata a procurarsi qualcosa.
In altri termini viene a costituirsi come tentativo aspirante al ricercare quel materico suono che è da pronunciare per acquistare altro gesto-senso da quello che è stato scolpito nella parola. Scolpito dallo scalpello della discorsività e dal martello del tempo trascorso.
Né la parola eveniente fugge dalla sorte del consumarsi. Non si sottrae, non scappa dal logorarsi, che la corrosione dell’uso inevitabilmente le procura.
Neppure sostituisce altra parola, bensì aggiunge la propria significante sonorità perché è raggiunta da un inatteso senso sopravveniente, che inaugurando altro significato destina quel rumoreggiare a intonarsi all’eveniente.
Il ‘movimento mentale’, che aziona il generarsi della parola, equivale a una trasparente danza fonica che coreografa la ricerca di senso, attraverso le movenze articolatorie della voce ancora non detta. Perché appartata. E solo ri-suonante nell’intimità corporea. Non disposta, nell’immediato, a uscire nello spazio comune dell’altro. A lasciarsi co-abitare dall’altro.
È un gesto che inizialmente abita in noi per ‘esistenzializzarsi’. Per acquisire un senso esistenziale di vivezza, sperimentato nel legame con la storia di se stessi, con il suo svolgimento e con il vissuto del possibile diveniente. Il quale accenna a un addivenire – nella prossimità d’altro divenire – pro-seguente quel che si è già divenuti.
In tale situazione d’elaborate vicissitudini trascorse, si creano le premesse e le condizioni perché venga a strutturarsi l’eventualità della dimensione ritmico-sonoro-musicale della parola addiveniente che, proiettando la sua ombra al di là del presente, sconfina nel futuro: dal movimento, sommovimento, del vissuto che conduce a sorprendente ulteriore trama vocalica a venire.
Come se quel che l’esperito vibra sonoramente nella nostra mente-corpo abbisognasse d’un al di là della parola che esprime l’esperienza pregressa, la sua storia. Il passato che la condensa. Per dis-farsi e ri-farsi nella sostanza d’un suono in-audito. Il quale possa, dapprima come rumore delle cose e della vita, ri-umanizzare quel che va ri-pronunciato nell’oltre il pronunciabile. Al fine di trovare un senso altro da cui ri-cominciare a dire. Oltrepassando non solo il già detto e l’ancora da dire, ma avventurandosi nell’indicibile.
E’ là, nello sconfinato del possibile impossibile da pronunciare, che tende la parola poetica, quale vibrazione sospesa nel vuoto del tempo che l’attornia. Smarrita dalla distanza dalle cose, accecata dai significati nascosti nell’opacità gettata oltre la luminosità di quelli sfolgoranti, sui quali la quotidianità, nel suo distratto pronunciarla, abbagliata inciampa.
In questo non vedere del tutto la lontananza, l’intervallo, la differenza che separa la parola dall’originarsi del suono, nel suo allontanarsi dal luogo del silenzio – seppure cammino angosciante –, trova inizio una sorta d’estraneazione. D’erranza esule della parola poetica. Distaccata da ciò che la conduce e riduce al comune, al banale, al routinario di un’ormai nota sonorità, con cui ripete senso su identico senso del reale. Decretando la rottura con il legame quasi inscindibile, perciò morboso e nefasto, con la ripetizione. La quale consolida e pietrifica il significato. Segnando, in tal modo, il destino dell’indifferenza all’eveniente. Al venturo, al trasformato da ciò che giungendo reclama innovata sonorità, innovante ritmicità.
Spetta alla poesia, alla parola narrante, al gesticolare immaginante del vociare interiore, il sonorizzare ogni lemma nel codice della grammatica dell’intimità, per metamorfizzare la parola eveniente affidandole altra sonorità. Destinandola all’inatteso spazio sonoro che mette a disposizione il moto poetico, quale spazio inabitato dal senso già udito.
Spetta al silenzio che ante-cede il rumore del non ancora significato d’una espressione vocale a sostenere, coraggiosamente e trasognante, il suono eveniente che teme di non dire abbastanza. Che rimbalza dal cuore alla mente, senza sufficiente eco per materializzarsi.
Alda Merini sostiene che alle volte il silenzio dice quello che il proprio cuore non avrebbe mai il coraggio di dire.
Il suono silenzioso della parola poetica, in gestazione nella mente, e dal cuore effuso e nutrito, è al servizio dell’interpretare quel che il sopravveniente non ha ancora detto: l’assenza della parola che s-piegando l’avvenire lo piega al senso del presente. Privandolo, così, del patrimonio sonoro con cui può accennare ad altro dire. Quel suono che si rende cortese nella funzione poetica del lasciar risuonare il molteplice del senso di cui la parola cerca e immagina essere suo luogo – sognante – e destino.
Conclude Dickinson:
Indifferente per lui
– dote – e dannazione –
suo ufficio – solo eseguire –
il telegramma – del destino –
La parola eveniente ci raggiunge da una sorta d’aggrovigliata temporalità esperienziale unitaria – magmatica – di passato e presente. E dai dintorni della forma di vita che autenticamente, intimamente, ci appartiene storicamente. Nella memoria con cui gli abbiamo dato forma, sagome d’affetti, riverberi sonori e senso.
Essa irrompe in quel flusso vitale degli eventi, che assicura ciascuno della propria vitalità. Rassicurando la persona da un oltre che allude a una fine, con lo sconquasso della possibilità del venturo.
L’eveniente, pertanto – come emozione infinita del mutare, soprafacente la pena esistenziale del permanere nel pronunciare e sentire identici suoni del dire di sé –, si prospetta come tramite per la con-versione delle certezze di ciò che si è in una versione sorprendente, trasalente, di ciò che non si è. Se non nella forma informale dell’inatteso sopra-giungente. La quale – nel de-formare il noto di se stessi – ci solleva dall’oppressione dell’accertato e immutato di e in se stessi, pro-muovendo al contempo, ricerca e invenzione di nuova forma vitale del pensare, dire, essere.
E’ in tale possibilità, e altra versione di quel che si è stati, che s’annida l’esteticità-estaticità del senso e la dimensione poietico-poetica dell’intonarci a quel che ancora non siamo e, quindi, non possiamo dire. Se non in un’in-forme molteplicità di sordi suoni, di sommessi balbettii, di soffocati gemiti, di ripetute interruzioni foniche e silenzi.
Ed è dal silenzio che pervade l’esistenza che la parola pronuncia narrativamente la sua storia di-veniente. Nell’avventurosità del venturo. Poiché il silenzio non è soltanto la condizione stessa del pensare, ma pure intervallo, cesura, spazio vuoto in cui precipita l’esperienza comune e la parola ordinaria.
Scrive Dickinson in “I heard, as if I had no Ear”:
Sentivo, come se non avessi orecchio
finché una parola vitale
fece tutta la strada della vita a me
e allora seppi che sentivo.
Loredano Matteo Lorenzetti, docente universitario di psicologia, è direttore scientifico di quattro collane, per le edizioni FrancoAngeli, fra cui “Arte scienza conoscenza”. Recenti sono i romanzi Ripostes: La maiuscola di Osvaldo; Mastro Spadò; Un uomo qualunque; Sognare in due.
Da una scena dapprima “francescana” scaturiscono via via quadri barocchi, manieristi, sghembi, arricciati…
Tutte le forme, tutti gli alfabeti, i pattern, le icone dell’arte e della natura (armigeri & scudieri, sultanine & rampicanti, motivi decorativi multipli e cloisonnés) concorrono a dar vita a questo testo di Maria Angela Bedini, fiorito d’ogni essenza - dall’alpestre al beduino, dalle guazze del bosco alle luci cherubine – largo luogo letterario dove rintracciare la radice digiuna della terra / fiala dell’universo.
Come le Mani che disegnano di M.C. Escher, le mani del Pianista disegnano la loro storia, innaturale, tra luci e ombre minimali.
E’ una storia di suoni scuri, tracciati su un pentagramma di luci segrete e lattiginose. Ma forse non è neppure una storia.
Il Pianista vive e sogna e muore in una dimensione atemporale dove non c’è quasi niente da raccontare, dove la realtà ha un sapore sfuggente fatto di melodie elementari, ripetute, sovrapposte.
Le melodie di questo Pianista sono melodie afasiche e tra-sognate, Voci da tenere fuori dalla pelle.
IL PIANISTA
L’oceano. Schiuma sulla sabbia. Calma di mare. Cielo che comincia a schiarire. Ricordo di un freddo invincibile che addormenta in ibernazione.
I gabbiani -assolo alterni intrecciati sovrapposti- stridore di canti. Lieve brezza che si leva.
Mano sulla mia spalla, occhi interrogativi, bocca che solfeggia parole.
L’automobile raccoglie dal finestrino verde di campi, sfumate variazioni di alberi, pentagrammi di fili.
Improvvisa la chiara cacofonia cubica. L’ospedale. Sono dentro. Prevale il bianco. Ostile sedia di formica, tavolo innaturale. Odori depurati morti in disinfettanti. Luce schermata lattiginosa camuffata.
Dormire. Calore tanto calore, quello sì. Nascondere la testa sotto le coperte nel buio naturale. Protezione, silenzio. Le mani sugli orecchi. Dormire nel tepore. Sparire.
È notte. Silenzio. Clair de lune sommesso, discreto, dirama come un melo in fiore sulla coperta sul comodino per i corridoi. Io la sento quella vaniglia di luce segreta che avvolge e dissolve ogni innaturalità.
Dolcemente infine il buio assoluto del sonno.
Suoni metallici voci passi porte sbattute e fu mattino.
Mangiare a occhi bassi nelle voci. Sedere. Tacere. E fu sera e fu notte.
La luna scema lentamente ad ogni buio, si consuma e sparisce poi riappare sottile in un arco.
Vuoto. Voci da tenere fuori dalla pelle. Lontane.
Due mani increspate segnate poggiano sul tavolo foglio e matita.
Sulla carta ora il pianoforte a coda, i tasti bianchi e neri, il cerchio luminoso e l’ombra sotto il piano. È stata la mia mano chiara da malato a tracciarlo. Ma era come già ci fosse sul foglio. Quasi calamitata, la matita ha seguito invisibili contorni.
Nella cappella - penombra cangiante di vetri rossi verdi azzurri- le mani accarezzano il lucido rigore nero sopra il legno, la tastiera d’osso. Strumento annoso sapiente, vecchia polvere, aroma amaro di alberi mummificati.
Le mie mani. La tastiera me le ha prese, le attira su di sé. Vuole che peschi nel suo mare.
Com’è facile per me toccare i tasti d’avorio, che raccontano notti di luna, cigni, strazi e dolcezze del cuore.
Perché riesco a far questo? Tutto è buio dentro di me, ma vi escono strane cose, come questo destreggiare il pianoforte, suoni che mi consolano, occupano le mie giornate.
Mi hanno messo sul leggio dei fogli con righi dove riposano uccelli e io li fo cantare -non so come- sulla tastiera.
Mi hanno detto che sono un pianista e bravo. Mi hanno trovato all’alba sulla spiaggia, ma io non so chi sono. Quindi non posso pensare il tempo, come gli altri. Senza un passato non c’è futuro, non puoi dire domani, non conoscendo ieri. Quello che faccio, lo faccio senza sapere quando è stato che l’ho imparato. Leggo, scrivo anche, ma non ho niente da raccontare, semmai una parola: perché?
In questo vuoto mi appiglio al pentagramma e ai suoni, ma è l’inconsistenza. Senza una storia propria, suonare perde calore, il racconto muore.
All’inizio la musica, come un’eco, mi riportava o forse si era trascinata dietro una parte di me. Per ritrovarla, balenante appena con un sapore di realtà sfuggente, devo suonare ciò che mi viene, non so come, certo dal mio passato. Solo così la musica si scalda, ha un sapore d’amore. Dagli spartiti che mi mettono davanti, esce solo una serie di suoni senza vita.
Così suono sempre le stesse melodie, sperando che alla fine una nota, come una corrente o un vortice, mi risucchi dentro la mia storia.
Sono nata nel 1939 ad Altopascio (Lucca), antico asilo e ospedale nel medioevo per i pellegrini diretti a Roma. Da molti anni vivo a Bibbiena (Arezzo). Laureata in Lettere classiche, ho sempre insegnato con convinzione nella scuola media. Mi dedico da dilettante alla pittura. Ho sempre coltivato il teatro, come laboratorio, nella scuola e -per un lungo periodo- come regista di un gruppo amatoriale “Gli inesplicabili”, mettendo in scena anche testi di mia creazione.
Dai diciassette anni sino ai sessanta ho scritto solo poesie, poi mi è esploso questo filone della prosa. Forse la “musa” si è adeguata ai miei tempi. Stretti quando lavoravo, più ampi negli… ozi della pensione.
Opere pubblicate:
“Compagni di viaggio” Ed. Senso Inverso 2011 (Raccolta di racconti) Finalista al Concorso nazionale “Città di Fucecchio” 2013. Recensito da Giuseppe Novellino su “Bravi autori”
“L’enigma di una breve Primavera” Firenze Leonardo Edizioni (Ed. Clichy) 2017
(Romanzo breve)
Libro consigliato nel maggio 2017 dal circuito Unicoop Firenze.
-Seconda classificata per –Narrativa inedita- al Concorso nazionale “Città di Fucecchio” 2015
con il racconto “Notte di guardia”.
Continue rifrazioni illuminano i sonetti di speculo immaginario: Giovanni Campi ci conduce “per specchî speculando”, in un intenso dire e contro-dire, dove tutto si altera e modifica.
Come per effetto di uno specchio deformante, che, da molteplici punti di vista, distorce il reale, ne fa finzione o più autentico rimando. O come per azione del pensiero immaginante che offre infinite possibilità di richiami. Tra riflessioni metafisiche e rimandi cosmici, tra “il vuoto pieno” e il “fininfinito”, tra speculazioni filosofiche e la ricerca di un senso “forse diverso, forse d’inverso”.
Soprattutto rifrangendo immagini legate alla parola, dove il verbo e il nome si sfaccettano nei loro molteplici e contrapposti significati. Ponendo in continuazione questioni di senso per la lingua. Fino a intravedere “come / finire il dire e il dare vita al nome” e a chiedersi: “il nome il nume?”. E concludere la raccolta con l’ultima interrogazione: “come dire / daccapo allora? forse da non dire?”.
Nel contrasto tra la forma stabile del sonetto, della rima, degli endecasillabi e l’instabilità di un pensiero che dissuona e diverge, rovesciando di continuo l’apparenza, lo specchio poetico di Giovanni Campi ci pone di fronte alle opposte, celate e insieme riverberanti, immagini del sé, del pensiero, del dire.
premessa
per specchî speculando, trovo corde sottese e tese come precordiali
ricordi di cordoni ombelicali:
il nodo, stretto e costretto, discorde
di vita dono – di morte diventa;
di morte in vece che di vita il dono
concorde in nodo s’inventa perdono:
l’imaginario, sí, l’imago tenta:
l’es il se vede – irriflesso riflesso
in sé, né di qua né di là, ma proprio
’n quel punto dello spunto, dove, flesso,
e tocca ed è toccato, espunto improprio
secante in curva la linea esemplare:
se vizio infine ridetto esemplare
speculo imaginario primo
virtú m’appare, sí, ma dir lo stesso
no, forse diverso, forse d’inverso
a poco a poco esemplare, fin verso
la copia, se copiosa, di sé stesso,
l’odiosa l’amata, non d’altro ancora
una volta único ma doppio inséme
il bianco goccia a goccia il nero seme
di chi di che se sempre, o mai, s’adora
insémina com’è chi ne dispare
o che – se in sé, o meno, la mina mínima
aggetta a ciò miniata qual traspare
la non implosa única – mente plúrima
esplosa se frangente e franta come
chi giunto o non, disgiunto allora al nome
speculo imaginario quarto
non piú di nulla pieno vuoto il tutto
né mai di tutto vuoto pieno il nulla
d’allora senza che ma d’ora in culla
di doni il nido quasi come un frutto
di nuovo avvolto ’n copia a l’un’imago
o l’altra, l’ali d’arti me l’artícola
in gioco il frullo il guizzo o disàrticola
qual fiocco fioco in fuoco di vago
la vena il ritmo in síncope che va,
e va e viene, líbera la mente
disvela il velo il gelo, se demente
immoto moto dal di qua al di là
finito l’infinito che è costrutto
senza costrutto l’essere distrutto
speculo imaginario terdecimo o ultimo quarto e ultimo
imàgina: lo spèculo la copia
che pàgina su pàgina sen muove
di moto immoto, rècita di nuov’e
d’antiquo insème, in esemplare copia
nesciente il nome il nume? nota a nota
scompàgina il dissenno in parte a parte
e lettra a lèttera la díssona arte:
dissémina, dai màrgini men svuota
la voce il suono, corda a corda, l’èssere
a niente il niente per esempio, o il tutto,
a niente anch’esso, quasi come un lutto
l’idèntico o la differenza, tèssere
andate perse, in fine, e come dire
daccapo allora? forse da non dire?
Giovanni Campi, non importa né dove né quando è nato, e neppure se, piú che scrivere, scribacchia, o viene scritto; taluni testi sono in rete (Carte Sensibili, La dimora del tempo sospeso, Nazione Indiana, La poesia e lo spirito, Poetarum Silva, Versante Ripido, etc.), talaltri in antologie, sotto varî nomi, nel mentre il suo, di nome, compare sulla copertina d’un dialogo – “l’irragionevole prova del nove” – tra due men che personaggî da nulla, Simpliciter & Complicatibus, suo libro d’esordio edito dalla Smasher Edizioni nella collana "orme di teatro", maggio 2014, ormai fuori catalogo; vincitore della settima edizione del premio Mazzacurati-Russo con le prose de l’inoperosa opera “babbeleoteca minuta”, il volume poco voluminoso rimase però allo stato phantasmatico, tuttavia e se non altro alcune minuzie & minute di esso trovarono la voce di Marion D’Amburgo nel corso di Bologna in Lettere 2015; la sua seconda (irragionevole, inoperosa) opera è una raccolta di sonetti: “abbecedarj paralleli”, ebook edito in collaborazione tra larecherche.it & versante ripido.it, 1 marzo 2016, poi stampato in forma privata & fuori commercio a cura di Silvia Secco per le sue Edizioni folli.
“Aglio e malinconia” potrebbe essere il soggetto per una scena, di un ciac da film d’essai con quelle frasi, in questo caso versi, che resteranno nella memoria. Immagino una voce fuori campo che recita “quando suonavano non suonavano / ma ascoltavano”, oppure “quando ricordavano ignoravano”.
In questa poesia che, già dalla malinconia nel titolo si potrebbe definire “memoriale”, Franco Falasca riesce a mettere insieme nonsense e senso, a creare un luogo dove lo sguardo dell’autore è allo stesso tempo prossimo e distante.
In questo testo l’aglio è un dettaglio, potrebbe essere qualsiasi coltivazione portatrice di malinconia per chi sta scrivendo. Quello che inoltre sorprende è la capacità di Falasca di inventare situazioni poetiche astratte, sospese.
La chiusa, con “la storia contornata dai giorni”, può rappresentare una fusione tra metonimia e sineddoche rovesciata.
Quando entravano e uscivano
la poesia ne risentiva
quando suonavano non suonavano
ma ascoltavano
quando atterravano ricordavano
quando ricordavano ignoravano
quando la terra era solcata
da aglio e malinconia
sopportavano i momenti
in attesa dell’entrata e dell’uscita
come un colpo di fioretto
sui ricordi che ritagliavano
la vita
mentre la vita ritagliava
le ripercussioni emotive
avvolte nella carta dei poemi
grazie a te che mi seguivi
coerente nell’azzurro
della storia
contornata dai giorni.
Poiché anch’io sono accumulatore ossessivo-compulsivo.
Poiché anche a me sfiora l’idea che potrei tirare fuori un romanzo epistolare da tutte le carte e lettere che ho conservato.
Poiché sono d’accordo: la mia casa e i miei oggetti parlano di me meglio di qualunque autobiografia che non scriverò mai.
Poiché, sebbene in anni ben più lontani, sono partita, come l’autore, da una frazione di paese per una capitale europea (e questo ha cambiato il nostro sguardo sul mondo) vorrei dire a Francesco Fedele che le sue partenze e i suoi ritorni sono forse troppo recenti perché la memoria, nel rassettare, si riassetti…
A volte occorre fa raffreddare i ricordi per farli riapparire scrittura, sulla pelle della pagina.
Rassettare
L'ho sempre trovata una azione catartica. Ѐ come mettere ordine nella propria vita. Sistemare l'anima. Oggi l'ho fatto nella vecchia casa dei miei. La mia stanza, quella in cui ho vissuto e che parla di me, meglio di qualunque autobiografia che non scriverò mai. Mi apre un mondo di emozioni. Ho trascorso una ventina di anni qui, quotidianamente. Poi sono andato via.
Qui ci torno quindici giorni d'estate, sette d'inverno. Sono cambiato irreparabilmente nei restanti dì dell'anno, quante metamorfosi subite, certe volte mi chiedo chi sono, e mi riconosco solo in parte.
Però queste quattro mura parlano e mi conoscono molto più di quanto possa pensare.
Per esempio ho sempre considerato di non essere una persona materialista, eppure sono pieno di cose. Sono anche un collezionista, questo mi rende un accumulatore ossessivo-compulsivo, ma il fatto che mi rimbocchi le maniche con la buona volontà di far fuori il superfluo, vuol dire che non sono ancora patologico.
Mettere in ordine non sarebbe così difficile, se non fosse che ogni oggetto mi ricorda qualcosa, un posto, qualcuno, una esperienza.
Mi fermo a dare un'occhiata, a leggere un foglietto, prendere un vecchio biglietto, un appunto, un disegno, libro, una foto o una cartolina, persino oggetti di uso quotidiano.
Dietro c'è una persona, con cui viaggiavo, o che cercavo di raggiungere.
Il biglietto di Fanny, mi ricorda il rientro a BCN dopo aver vissuto a La Coruña, si augura che sia stato bene e mi ricorda che ho una piccola famiglia anche lì.
Sono passati già sei anni, eppure mi sembra ieri.
I saluti in coreano di Boyun, di cui conoscevo la traduzione, ma di cui a malapena adesso riconosco il mio nome.
Quelli di Mathieu, la maglietta firmata da tutti gli amici erasmus della mia despedida, i bicchieri rubati in vari pub, monete e banconote globali, i pacchetti delle sigarette in varie lingue del mondo.
Ritrovo delle lettere. Persone che mi volevano bene, amiche di penna, alcune lettere di ex.
Che diventassi letterato lo si capisce da questo. Scrivere, mi piaceva già allora. Mi sfiora l'idea che potrei tirarne fuori un romanzo epistolare, ma il proposito scorre subito via. A chi interesserebbe nell'epoca di facebook?
Il problema principale, soprattutto con questo caldo sarà sistemare i miei circa mille fumetti.
Mi ripeto ormai da diversi anni che dovrei prima o poi farne un inventario, alcuni ormai hanno anche più di 20 anni da quando li ho acquistati, altri da collezione superano i cinquanta, potrebbero valere anche qualcosa dal punto di vista economico.
Mi conosco però, alla fine comunque non li venderei. Sistemo i testi. Dal fondo sbuca un libro, il primo in assoluto.
Mi vergogno come un ladro oggi, però l'ho messo in prima fila, accanto a Dostojevskij, Bukowski, Fante, Borges, Sartre, Calvino ed Hemingway. Una biografia. L'eroe di un bambino di 9 anni, di un bambino interista, che quando andava dal barbiere (nonostante il tempo trascorso e la moda si chiama ancora così qua), chiedeva che gli facessero un taglio con il ciuffo del suo beniamino.
Certo oggi la biografia di Nicolino Berti, non c'azzecca un granché con questi colossi, eppure è stato il primo libro che abbia letto di gusto e per scelta, e per simpatia ovviamente, sebbene ormai appartenga a un calcio scomparso e ormai dimenticato, ho deciso, con buona pace per l'ego di premi nobel e grandi letterati, avranno a fianco (almeno fino alla prossima rassettata) il faccione sorridente del centrocampista dell'Inter dei record.
Su uno scaffale spuntano i depliant della mia prima volta in Spagna, ormai quindici anni fa. Quando ancora non esistevano le compagnie low coast, ho conservato tutto di quel primo viaggio da maggiorenne all'estero, i biglietti aerei sembrano quelli degli anni cinquanta...
Negli ultimi anni ho spesso riflettuto sulla sfortuna di essere stato bambino negli anni ottanta, in quanto maturo lavoratore sfigato nel duemila, però da questo punto di vista, siamo fortunati.
L'idea di prendere un aereo verso una capitale europea, quasi tutte senza visti e senza cambi di valuta, e soprattutto che costi quanto una vecchia corriera Reggio Calabria–Catanzaro, è una grande fortuna. Non sarei stato quello che sono oggi senza il signore irlandese che ha dato inizio al tutto.
Le borse di studio che ho avuto all'università sarebbero state forse spese in treni di bassa categoria, però forse conoscerei meglio la Calabria anziché l'Europa, chi lo sa.
Sistemo anche qui e do una passata con la pezza, l'oblio è concretizzato dalla polvere, si deposita, come un velo che copre la memoria. Nell'angolo in fondo il basso elettrico è forse l'oggetto più impolverato.
Ho suonato in un gruppo, che io definivo grunge, Marco, il chitarrista, definiva progressive, Carmine, il leader, definiva punk melodico e Coci il batterista definiva ska con influenze funk. Ebbene, se ero confuso allora sul nostro tipo di musica, lo sono ancora più oggi. Non è rimasta nessuna traccia tangibile di questa esperienza sui palchi, allora internet dalle nostre parti era agli albori, nessuno aveva cellulari che fanno foto o video e noi stessi da veri rocker non ci eravamo mai posti il problema di farci immortalare.
Perciò niente di niente, se non il ricordo di quei pochi aficionados che ci hanno seguito alla festa del liceo 1999, in un paio di concerti nel reggino e nella storica saletta.
Qualcuno diceva che eravamo gente che spacca, ma hanno fatto presto a dimenticarci, chissà, se il chitarrista e il frontman non fossero partiti per il militare, se io non avessi cambiato aria, andando all'università e se non ci fossimo persi di vista con il batterista...
Già, se e se, era destino, anche se credo che sia, come dice un caro amico, il fato è la giustificazione dei perdenti. Semplicemente altri progetti avevano soppiantato i sogni di gloria rock 'n' roll.
Nello sportello sotto ritrovo vecchi schizzi, ho avuto un periodo di florida produzione artistica, tra il 2003 e il 2004 ho dipinto circa il 70 % della mia collezione personale.
Qualche schizzo, lasciato lì, dopo secoli non ancora trasformato in dignità di quadro, ne ho per 30 tele ma vincere l'inerzia della mia pigrizia è piuttosto arduo.
Dietro tra le tante cose, sbucano le targhe delle prime vittorie in concorsi letterari.
Passo sopra la mano come a lucidarle, poi le butto via, di getto.
Mi dico che ne verranno delle altre, magari più importanti.
Mi ricordano le prime emozioni, le prime soddisfazioni da giovanissimo autore.
Dopo qualche secondo ripesco solo la prima. Ѐ giusto che la tenga, mi ricorda una delle più belle serate della mia vita. Mi ci sono affezionato.
Io però sono stato pure questo, anzi tutto questo. Quanti sono gli "ho fatto" in questa stanza, e mi chiedo se il mio io del passato sarebbe orgoglioso di me.
Sono forse troppo cattivo con me stesso, dopotutto credo proprio di sì.
Francesco Fedele è nato nel 1981 a Reggio Calabria.
Cresciuto a Bagnara Calabra (RC), scrive e dipinge dall’età di quindici anni.
Dopo essersi diplomato nel liceo del suo paese, si iscrive alla facoltà di lettere moderne dell’Università degli Studi di Messina. È stato assegnatario di una borsa di studio Erasmus alla UAB di Barcellona nel 2006, dove ha appreso spagnolo e catalano.
Laureatosi nel 2007 con il massimo dei voti, ritorna in Spagna con uno stage retribuito del progetto Leonardo, lavorando presso la Biblioteca Provincial di La Coruña (imparando gallego livello A2) .
Tornato in Italia si è abilitato nel 2009 alla Scuola Interuniversitaria Siciliana di Specializzazione per l'Insegnamento Secondario di Messina classe 43/50.
Dal settembre dello stesso anno ha lavorato ad Asti, dove ha insegnato in numerose scuole della provincia partecipando nel 2010 al progetto europeo Comenius promosso dall’istituto comprensivo di Rocchetta Tanaro (AT) in Andalusia e Francia.
D’estate per più anni ha lavorato come GL (group leader, accompagnatore/animatore) per la Ih, Accademia Britannica, presso la sede dell’Anglia Ruskin College di Chelmsford (Essex, UK).
Ѐ stato tra i relatori del Salone del Libro di Torino 2013 e ha collaborato con un reading musicale/poetico da lui ideato alla manifestazione astigiana A sud di nessun nord.
Ha partecipato a mostre collettive e personali nei luoghi in cui ha vissuto. Vicolo Cielo, la sua prima silloge pubblicata nel 2012, ha vinto diversi premi in concorsi letterari nazionali.
Da settembre 2014 vive a Siracusa.
Un continuo spostamento strategico ove l’obiettivo è la trasfigurazione visiva e acustica. Con influenze, intersezioni, mescidazioni, Giovanni Fontana in “Discrasie” complica la linearità testuale. Ciò comporta una continua sfasatura, non solo riguardo ai significanti, ma soprattutto ai significati. La scrittura evade da un contenitore canonico, trasborda per invadere altri campi, utilizzare altri media. Esce dai binari. Elasticamente sfugge alla presa, decentrando ogni questione. Non è una fuga in avanti, sebbene Fontana non manchi mai di ironia. La sua scrittura è un processo che moltiplica e fa esplodere le contraddizioni, che spinge le parole lungo i bordi della pagina e, imprimendo loro direzioni impreviste, le libera da sistemi irrigidenti e le apre a una nuova progettualità. Fontana è molto attento a legare, inoltre, strettamente la sua scrittura a una corporalità che è garanzia di autenticità, ma soprattutto di superamento, fra le altre cose, dei limiti tra organico e inorganico, tra io e collettività.
da Partita doppia
dove nominar le cose è realizzare cose / e la composizione è per campi sonori / per fasce sovrapposte / e la scrittura d’azione e le pittografie salgono / così che entrambi i settori pongono attenzione alla gestualità / per cacciar via la musica / con i bambini che corrono nella stanza
è l’utilizzazione di fonemi / di testi poetici smembrati / di frammenti di parole / di brandelli testuali passati di voce in voce / affidati da musicisti a vocalità non impostate / a voci recitanti impegnate in ricerche radicali / a sonorità mai frequentate prima in campo musicale
rincorrendo dimensioni spazio-temporali attraverso il movimento / l’immagine / la presenza del corpo e degli oggetti / il gesto / allora / si spinge oltre il suono / per considerarlo un puro e semplice residuo / le partiture ricche di indicazioni di comportamento dicono notazioni assai speciali.
Giovanni Fontana è poliartista, performer, autore di numerose pubblicazioni in forma tradizionale e multimediale, noto in campo internazionale; è architetto, nato nel 1946 a Frosinone, vive e lavora ad Alatri. È tra gli autori storici della poesia visiva e sonora internazionale e teorico della poesia pre-testuale e della poesia epigenetica. Tra le sue più recenti opere, la pièce radiofonica Strategie sonore sull’alcova dannunziana (Paris 2017) e Poema Bonotto, videopoema pubblicato in USB per drive dalla Fondazione Bonito, Molvena, 2017. La sua produzione sonora è documentata in una vasta discografia. Tra le più recenti scritture creativesi collocano Déchets, Dernier Télégramme 2014 e Questioni di scarti, Polimata 2012 Premio Feronia2013. Ha scriTto numerosi saggi. Ha collaborato con numerose riviste italiane ed estere. Ha fatto parte della redazione di Tam Tam, Baobab e Altri termini. Ha fondato la rivista di tecniche multimediali La taverna di Auerbach e l’audiorivista Momo. È direttori di Territori. Rivista di architettura e altri linguaggi. Ha al suo attivo oltre Seicento mostre di poesia visuale.
Una vera e propria lode agli animali (“Sulla tomba dei propri cani” è il sottotitolo della raccolta) i quali divengono la voce dialogante privilegiata, quella rispetto alla quale verificare tutte le posizioni, da quelle filosofiche a quella politiche, da quelle poetiche (e il cane Bobi “più che poeta, è la Poesia”) a quelle storiche. Le lodi agli amati compagni non hanno interruzioni nel libro di Daniele Gorret “Amaro sol per voi / m’era il morire”. La voce del poeta innalza una contrapposizione solo apparente con gli animali, giacché il suo scopo è la riduzione della contraddizione a similarità, ma il suo è anche un modo per smantellare i rigidi luoghi comuni, per ridurre gerarchie pretenziose a un più sano livellamento. La poesia di Gorret apre, dunque, a una verifica della distanza tra essere umano e animale, riducendola, consigliando “di far più l’animale e meno l’uomo”, ricercando un modo “d’essere un altrove” e invitando a non considerare limitate le capacità espressive degli animali per l’assenza di linguaggio verbale, di cui il libro stesso è, d’altra parte, un simbolo con la sua esibita specificità linguistica e poetica.
Entrando con te in casa l’innocente
anzi entrando di persona l’Innocenza,
disordinasti non poco la famiglia:
padre e madre ormai già poco amanti,
fratello e sorella ormai Caino-Abele,
e tu, semplicemente, che vivevi.
Come si fa, essendo differenti
(non di dettaglio, non di superficie
ma di statuto, sostanza ed esistenza),
a vivere insieme le stesse primavere
gli stessi autunni gli stessi capodanni,
condividere le nevi e le calure,
dire che si fa, più o meno una famiglia?
Chiaramente non si può, per nulla al mondo.
Ecco perché nel mentre t’accasavi
– i giorni si facevano mesi ed anni i mesi –
tu rimanevi comunque un’extraumana,
qualcosa che è così e non diventa un altro:
se mai eravamo noi – gli umani ed i borghesi –
a farci un po’ di meno di uomini o di donne,
un po’ più inclini ad essere di terra,
Un po’ meno di società e di denaro.
Daniele Gorret (Aosta, 1951) ha esordito come narratore nel 1984 con Sopra campagne e acque (Guanda) cui ha fatto seguito una quindicina di testi in prosa. Nel 2003 ha pubblicato il suo primo libro in versi: Ballata dei tredici mesi (Garzanti) seguito nel corso degli anni da altri otto volumi tra cui ricordiamo Cantata di Denaro (Mobydick, 2006), Compendio di Retorica (Campanotto, 2008), Che volto hanno (LietoColle, 2011, Premio “Guido Gozzano”) e Quaranta citazioni per Anselmo Secòs (LietoColle, 2015, Premi “Carducci” e “Rubiana-Dino Campana”). Suoi testi sono compresi nelle antologie Narratori delle riserve (Feltrinelli, 1992) e Racconti italiani del Novecento (Meridiani Mondadori, 2001). Per il teatro ha scritto Collasso (1999), Carie (2000) e il radiodramma di RadioTre Due (1998). Studioso dell’opera dell’Alfieri e traduttore di testi francesi del Sette e del Novecento, da Sade a Céline, da Caillois a Ponge, Malraux e Blanchot.
Una delle caratteristiche proprie della poesia è l’andamento sonoro che ne scandisce il tracciato, qualunque esso sia: lineare, accidentato, spezzato, in una struttura lirica o poematica. Ma questo, che sembra un’evidenza naturale, implicita e assodata del “dire in versi”, in realtà non è affatto scontata nella sua valenza profonda. Ed è proprio questa difficoltà (felicemente attiva, possiamo dire) a dare, con i suoi tratti distintivi mai univoci, particolari e indefiniti sensi a ogni esperienza di scrittura. La raccolta di Maria Grazia Insinga nasce e si sviluppa dentro un’architettura che non disgiunge suono e senso: anzi, li incrocia e li annoda in un movimento che porta la parola a “precipitare” dal “dirupo fonetico”, dove il corpo-fonema (così l’autrice sembra indicare la poesia che si fa verso anche dal nulla) senza mai distruggersi, si disgrega e si riforma, aggiungendo continuamente, all’intimità dei suoni, un accadimento impensato: l’apparizione pura e vitale di qualcosa che sembra inidoneo o sbagliato, mentre è, nella sua essenzialità, un refuso mistico. Un ritmo incongruo che nel suo errare (a volte in linea, a volte claudicante) all’interno del poema, arricchisce un dire che tende alla non-perfezione. A un’esistenza, cioè, in continuo cambiamento inaspettato, dove “il vero pensiero è...cedere al sogno” la sua forma e la sua facoltà. Perché la poesia è sempre discontinuità. Non è mettere ordine nel caos, bensì attingere da questo modulazioni e sommovimenti per “incendiare la voce”.
dalla sezione LE TUFFATRICI
*
l’altra cavalca su posidonie
in una regione del cervello piena d’acqua
e cavallucci microscopici non è udibile l’udibile
di questa musique à boire rumore bianco e bianco
mangiare la parola è qui cosa è presenza non quella
giusta né la soluzione né idea di luce perché qui
tutto è nuovo nulla ripete e nulla è in vita grazie a dio
*
e dall’infinito areale un corteo di posidonia sbuca
mostruose evoluzioni di unicorni e sirene in miriadi
di ippocampi la cui polvere è cura è linea di flusso e luce
tra opera viva e opera morta pinne dorsali disseccate
rapidissime farfalle cavalcatura e guida dei mostri
*
tutto di mala faccia da per tutto
ingoiare la gola a imbuto e lei
ci passeggia sopra su in strada
per tirrenide il viaggio è già
compiuto e alza lo scirocco e
il pianeta è perfetto sto per
sto per morire e tu parli parli
dalla sezione IL SONNO
*
si fa parte da svegli
dello stesso sonno
e al risveglio tutto è lì e tutto è
come sembra e ripopola tirrenide
o era insonnia? e il sonno
si appropria di tutto anche nulla
e del tempo insonne in tempo
sempre il tempo va a tempo
*
fa parte almeno da dormienti
del tuo stesso sogno? non credere
ognuno va a credere di nominare
ma non è non è per nulla il caso
Maria Grazia Insinga, siciliana (1970), dopo la laurea in Lettere moderne, il Conservatorio e l’Accademia musicale si dedica all’attività concertistica. Nell’ambito degli studi musicologici censisce, trascrive e analizza i manoscritti musicali inediti del poeta Lucio Piccolo. È docente di ruolo presso l’Istituto “G. Verga” di Acquedolci dove insegna Pianoforte. Nel 2014 idea La Balena di ghiaccio, il premio di poesia per i giovani in memoria del poeta Basilio Reale. Nel 2019 idea il Premio Lighea – sostenuto dalla Fondazione Famiglia Piccolo di Calanovella – per fare poesia con gli studenti delle scuole. Ha pubblicato libri di poesia: Persica, vincitrice del concorso “Opera prima” (Anterem, 2015); Ophrys, finalista al XXX “Premio Montano” (Anterem, 2017); Etcetera, leporello in versi illustrato da Alessandra Varbella (Fiorina, 2017); La fanciulla tartaruga, carnet de voyage illustrato da Stefano Mura (Fiorina, 2018). Alcuni testi in versi si trovano in riviste e antologie: Il rumore delle parole a cura di Giorgio Linguaglossa (Edilet, 2014); Blanc de ta nuque vol. II a cura di Stefano Guglielmin (Le voci della luna, 2016); Umana, troppo umana a cura di Fabrizio Cavallaro e Alessandro Fo (Aragno, 2016); Punto. Almanacco di poesia a cura di Mauro Ferrari (puntoacapo, 2017); Osiris Poetry n. 84 (Andrea and Robert Moorhead, 2017); Trivio. Polesìa vol. IV a cura di Ferdinando Tricarico (Oèdipus, 2017); Il corpo, l’eros a cura di Franca Alaimo e Antonio Melillo (Ladolfi, 2018); Fuochi complici. Saggio di critica letteraria di Marco Ercolani (Il Leggio, 2019); Sicilia. Viaggio in versi a cura di Lorenzo Spurio (Euterpe, 2019). Nel 2017 con Historica edizioni pubblica in Itinerari siciliani (a cura di M. A. Ferraloro, D. Marchese, F. Toscano) un saggio, “L’ondina siciliana e il sortilegio della voce”, sulle sirene viste attraverso il racconto di G. Tomasi di Lampedusa, La sirena. Nel 2019, la raccolta in versi Tirrenide vince la XXXIII edizione del Premio Lorenzo Montano.
Nel faccia a faccia
Come si può leggere e interpretare la prima parte del titolo della raccolta di Vincenzo Lauria, L’in/cubo di Rubik? L’in/cùbo, con cesura indicata dal segno grafico, come farebbe pensare il richiamo a Rubik, una ricerca di sé definita dall’acrostico “Indovinarsi Naufraghi Cercare Universi Balenanti Oltranze”, o l’ìncubo al quale non si può non riferirsi entrando nel vivo del testo in cui “smisurata/mente infinito - / finito / perso, perso l’ordito / l’ordigno è tra le mani”?
Nel capovolgimento continuo delle visioni, nel moltiplicarsi delle sfaccettature, “nel corpo a corpo / nel faccia a faccia”, quello che si intravede, è l’immagine a pezzi di un’identità perduta e disgregata. Quale compito si prospetta allora di fronte al cubo scomposto di sé?
La scelta di Vincenzo Lauria non è quella di tentare una ricomposizione omologante dell’apparenza, bensì del riconoscersi nelle “dis/identità”, nel massacro delle facce, come “un urlo di Munch a ripetersi”, nel naufragare, nello spalancare attraversamenti d’oltranze.
Quale spirito maligno, vero e proprio incubo, vorrebbe portarci invece all’omologazione, al rifiuto della frattura identitaria, alla negazione dell’altro e dell’altrove che ci portiamo dentro? E quale spirito, poetico, al contrario, ci consente di naufragare per trovare approdo in un’oltranza che si intravede balenare, di incontrare l’Altro, di riconoscerci altro?
Indovinarsi 1
La disputa dei colori,
nel tentare un risolutivo allineamento,
racconta di un divenire alterno,
dell’incastro di facce:
finestre/quadri nell’infinito prospiciente
in successioni di bellezze disarmanti.
Cronaca di una resa annunciata:
vittoria del marchingegno sull’ingegno
dell’ingenuità di perdersi nel perdersi.
È l’elemento - disgregato dall’insieme -
figura a sé a margine dello scomposto gioco,
dado privato della magia del numero
lanciato per un andar nel fuor di sé.
Oltranze 2
Il confine - mobile - con l’Altro
coincide con l’inizio del Se stesso
mentre l’in/cubo del doppio
si sovrappone alle sovra/esposizioni
e le prospettive si moltiplicano
in rotazioni di quadri e di ri/quadri.
La ricerca - in facce concomitanti - di una monocromia
risponde al purismo estetico,
riporta alla memoria logiche aberranti
in fondo al gioco delle possibili soluzioni
del rompiKapo.
Universi 3
In dirittura d’arrivo
la luce si smembra in spicchi
per un’ennesima rifrazione del troppo,
per un’altra mancanza del niente.
E qui - nel raccogliersi interno -
ha luogo un ricomporsi composto,
un rinsaldarsi del cosciente
un combaciare - sghembo - di frammenti.
In un colar di colle
l’immagine del sé si scornicia
e nell’imbiancar se stessa
- alla parete di là dal qui -
sanno di blu le nuvole di un nuovo mondo,
della possibilità dell’impossibile.
Naufraghi 8
È nelle massacrate facce l’in/cubo in enne copie
un urlo di Munch a ripetersi,
in pareti devastanti
lucide cornici intorno al vuoto.
Nel non appiglio sprofonda l’ossessione del vedersi
per il tramite dei quadri
per un cader del limite a contenere
per il raggirar se stessi.
L’amor proprio
solo ci scompone
refrattari alla risoluzione.
Vincenzo Lauria, nato nel 1970, inizia la condivisione del suo percorso nel 2001 all’interno di “Stanzevolute” gruppo di 11 poeti selezionati da Domenico De Martino (collaboratore storico dell'Accademia della Crusca e docente universitario di Filologia Dantesca a Udine).
Dal 2010 collabora con Liliana Ugolini ai progetti multimediali Oltre Infinito, Oltre Infinito 2.0, OL3 Infinito, Oltre Infinito 4 (Le stanze della mente). Dal 2012 Collabora con l’Associazione Multimedia91- Archivio Voce dei Poeti.
Ha partecipato a più di 40 reading e stampato in proprio 4 sillogi.
“Teatr/azioni” è stata pubblicata, con nota di Giorgio Bonacini, da Puntoacapo nel 2018.
Riconoscimenti:
Mar 18: Premio “I Murazzi” 7° edizione è tra i 26 selezionati con la raccolta inedita “L’In/cubo di Rubik”
Lug 17: Premio Lorenzo Montano 31° edizione è tra i 5 finalisti con la raccolta inedita “Teatr/azioni”
Giu 17: Premio Letterario Casentino 42° edizione è tra i finalisti e riceve il Premio Speciale della Giuria con la raccolta inedita “Alberi Improbabili”
Set 16: Premio Casa Museo Alda Merini I edizione è tra i 20 finalisti con la raccolta inedita "INF – INFernità IN Fieri”
Lug 16: Premio Lorenzo Montano 30° edizione segnalazione per la raccolta inedita "Oltre Infinito” scritta con Liliana Ugolini
Giu 16: Premio Nazionale Elio Pagliarani II Edizione - la silloge inedita “Teatr/azioni” è tra le 9 semifinaliste.
Giu 16: Premio Internazionale Città di Como – III Edizione: la videopoesia “FEDRA” (in 3 minuti) è tra le 3 selezionate (video: Vincenzo Lauria, musiche: Tommaso Pedani, testi: Liliana Ugolini, voce: Gaia Nanni)
Mag 16: Festival Visioni Shakespeariane 2016 selezione e proiezione del video blob “OFELIA – (Rilettura)”, testi poetici di Liliana Ugolini, Montaggio video: Vincenzo Lauria.
Nov 15: Premio Lorenzo Montano 29°edizione segnalazione ricevuta per la raccolta inedita "Le stanze della mente” scritta con Liliana Ugolini
L’intreccio di tutto
Un dire senza respiro, che non riesce trovare sintesi, a partire dal titolo che dispiega un amore. uno squarcio. uno strascico. una sensazione di vulnerabilità. un senso di lutto, quello di Stefano Marino. Un dire senza tregua, altalenante e omnicomprensivo. In un intreccio complesso e drammatico tra tutto e il contrario di tutto, tra la vita e la morte di un’esistenza, tra l’inizio e la fine di un amore.
In quattro testi lunghissimi, dal ritmo serrato, la scrittura si muove da direzioni opposte, occupando con movimento alterno le due parti laterali dei margini: tra il dire e il suo riflesso, tra il sé e il non-sé, tra l’io e il tu. In un monologo fitto che vorrebbe farsi dialogo, ma che pare restare alla fine confinato sulla pagina. O, meglio, affidato alla pagina.
Un amore difficile colma l’interrogazione esistenziale che i testi delineano in superficie e nel buio del sommerso: sentimenti di desiderio e di disintegrazione, di passione e di vulnerabilità, di affetto e di lutto, in una “squilibrata scomposta alternanza di stati d’animo opposti”.
Con la fiducia, però, che Stefano Marino, nonostante tutto, ripone nella poesia, che consente di affrontare, con la forza della parola, una dolente e drammatica interrogazione esistenziale. Dove “è tutto qui l’esistere l’esserci il sanguinare”. Dove si tratta di “morire di vita”.
Da: 2.
scariche di lampi violenti, tormenti, coraggio
è ciò che manca qui,
dove il tempo sembra essersi fermato e
le parole i silenzi i suoni i rumori i piaceri i dolori
non bastano più a ricucirmi intero.
note di una canzone finita
deserto rimpiazza la vita
fili di aghi sospesi in cielo non colmano la distanza,
così forte la lontananza:
un amore uno squarcio uno strascico un senso di lutto,
mi apri da dentro mi scardini mi nascondi mi disveli,
e lacrime sono sangue, caldo e rosso e scuro,
come sentimento d’amore obliato ormai andato ma
mai cancellato
Da: 3.
un balbettio montaliano e un cuore dislessico
mi guidano e insieme mi sviano
nel mio procedere avanti e indietro
e attraverso e ovunque e in nessun luogo e soprattutto
ora e sempre e mai.
e tutto, m’accorgo a posteriori, nasce solo
dall’interrogazione di un viso,
dal non saper cosa celano
occhi e mani e orecchie e labbra, silenzi e sillabe,
scambi di opinioni e attimi sfiorati e sfioriti,
dal credere di intuirlo,
dal comprender poi d’aver frainteso,
dal soffrire immancabilmente ingannandomi e smarrendomi.
un cuore dislessico e ali inadatte al volo e
piedi inadatti al suolo e mani incapaci di presa e
cuore troppo gonfio d’amore per poter odiare realmente
e così trionfare: sto morendo ma non me ne avvedo, mi rendo conto
troppo tardi di non-essere ed esser-stato:
non più? mai più? e perché poi?
nulli i miei meriti, usurpato
ciò che ho ottenuto, a partire dal
primo respiro e vagito, dall’ultimo sorriso
prima del pianto quando finalmente ti ho capita.
Da: 4.
ti temo infinitamente, mostro, sentimento complesso
in cui morte e vita s’intrecciano s’amano s’odiano s’estenuano
con esito nullo infine ogni volta e sempre così:
sia maledetto ciò e chi lo originò nell’infanzia,
la natura la pulsione la vita-morte che
vuole tutto questo vuole me e non-me:
capace di nolontà sarò forse un giorno
o forse no, o forse sì, o forse è un no ch’è anche un sì.
Stefano Marino, Professore Associato di Estetica all'Università di Bologna dal 2019, svolge le sue ricerche nell'ambito dell'estetica. Gli interessi di ricerca sono rivolti in particolare alla fenomenologia e all'ermeneutica filosofica, alla teoria critica francofortese, al pragmatismo, alla filosofia della musica e alle teorie della moda. Autore di numerose pubblicazioni (monografie, traduzioni di libri dal tedesco e dall'inglese, volumi e fascicoli monografici di riviste come co-curatore, articoli, capitoli di libro, recensioni), ha partecipato a numerosi convegni, seminari e workshop in Italia e all'estero.
Giulio Marzaioli in “Il volo degli uccelli” scrive la sua enciclopedia: tutto lo scibile possibile sul tema. La descrizione è naturalmente la modalità principe, ma venata da un’ironia lieve e giocosa, anche se il tema è un tema universale, giacché ne va del mondo e della nostra presenza in esso. Certi riferimenti stilistici francesi (Ponge, Quenau) sostengono da lontano l’apertura a ventaglio che Marzaioli effettua con la sua capacità di investigare tutti gli aspetti umani a partire da un solo interesse. Inoltre, invertendo spessissimo la centralità umana in favore di quella animale, l’ironia prodotta da tale oscillazione procura una messa in discussione di credenze e percezioni mostrando come, proprio a partire dalla descrizione, possano aprirsi baratri in quello che crediamo di conoscere. La cultura contribuisce spesso a un’omologazione e alla perdita del sé. Niente di meglio che il desiderio di volare e, senza paura, di ricominciare dalle cose che consideriamo più scontate.
*
“Lo studio del volo degli uccelli non può essere in alcun modo considerato un lusso. I tentativi dell’uomo di costruire marchingegni che permettano il volo non possono essere considerati un lusso. I disegni di quei marchingegni sono stati necessari all’uomo più di qualsiasi opportunità di volare da un luogo a altro luogo.
I disegni dei marchingegni di volo sono stati necessari fino a quando non hanno consentito realmente all’uomo di volare. Poi sono diventati utili.
Quando si conquista il cielo si perde la leggerezza racchiusa nel disegno e non c’è recupero nell’atterraggio, poiché si è mantenuto il peso. Tanto vale non illudere la gravità e rassegnarsi all’assenza di propulsione.
Nel battito d’ala la propulsione è provocata dai vessilli interni, più larghi di quelli esterni, nell’alternarsi delle battute verso l’alto e verso il basso affinché siano piegati i vessilli interni verso l’alto, nella semi-battuta dorso-ventre, e venga così spinta indietro l’aria; o verso il basso, nella semi-battuta ventre-dorso, per assicurare comunque la spinta indietro dell’aria. In tal modo il corpo dell’uccello è spinto in avanti. Osservando un uccello volare è innegabile considerare come l’aria costituisca un elemento imprescindibile del volo stesso.”
Giulio Marzaioli (Firenze, 1972) vive a Roma. Suoi testi, contributi fotografici e video appaiono su riviste cartacee e telematiche, plaquettes, opere collettive e antologie e sono tradotti in Francia, Stati Uniti, Germania, Spagna, Svezia. In poesia ha pubblicato varie raccolte, tra cui In re ipsa (Premio Lorenzo Montano 2005, Anterem Edizioni), Trittici (Premio Giancarlo Mazzacurati e Vittorio Russo 2007, Edizioni d’if), Suburra (2009, Giulio Perrone Editore, collana ‘inNumeri’ diretta da G. Alfano). In prosa è stato pubblicato il testo Quadranti (2006, Edizioni Oedipus; 2010, Mix Editions,). Ultimamente alla scrittura unisce la ricerca per immagini. Determinante, in tal senso, la decennale collaborazione con il centro culturale La Camera Verde, presso le cui edizioni ha realizzato plaquettes, cartoline, libri d’artista, pubblicazioni di vario genere. È stato curatore di eventi letterari e teatrali e ospite di università e festivals in Italia e all’estero.
Prove del dire
Come in una trama scenica, che rende fragile il confine tra reale e finzione, si sviluppa la raccolta Sistemi. Dimitri Milleri dà voce a situazioni difficili tra ombre e luci, sale d’attesa e sale prova, campi e fuori campi. Tra “schegge di sceneggiatura” e “l’abisso dietro l’angolo”.
Sullo sfondo, la trama poetica evidenzia la distanza tra desiderio e sospetto, attesa e finzione, dolore e approssimazione, in tutte le varie condizioni del vissuto. Tra i sistemi, nervosi e complessi, che danno titolo alle parti interne, e gli elementi discordanti che li mettono in crisi: l’inatteso a spezzare la scena o un impulso desiderante a insediarsi nel reale.
In primo piano trovano allora evidenza l’inciampo, l’incerto: “Se sia una morte o cosa”. A creare dissonanze, ma anche prodigi disvelanti, da cui si viene comunque esclusi: “quando / l’aspettativa prende posto nel reale, / è sempre un terzo, vedi, a rivelarlo, / restando escluso dal miracolo non meno / di chi lo vive senza nominarlo”
Cosa può fare allora la parola? Cimentarsi comunque con le prove del dire? Di fronte all’ineluttabile della vita e ai suoi ossimori, quando “d’un tratto / non serve più cercare / parole complicate o gravi toni / di voce”, Dimitri Milleri trova spazio per inedite invocazioni e intonazioni, corrispondenze nel buio e nel fiorire dell’esistere: un desiderio, forse, di “entrare / senza sospetti in detta fioritura”.
Da: NERVOSI
La sera di nuvole è scesa presto,
con la sua calca di molecole d'acqua
che nella corsa scanso.
Di certe conifere basse è rimasto
un grumo d’aghi, l’odore del polline
che batte quello del pulviscolo.
Il buio si è aggiunto alle nuvole
e le nuvole al buio.
Tutto è sbocciato dolcemente,
come una scena provata da tempo,
finché qualcosa si è spezzato
in una pioggia intensa:
troppo, per non chiedersi
che cosa accada quando impari a trattenere.
Se sia una morte o cosa.
Da: COMPLESSI
L’INTONAZIONE
I
Tavole nere, un’araldica
fissa sul segno meno, un giustapporsi
di cuspidi contrarie, come sai:
geni monotoni, che poi significa
magre combinazioni.
Se anche non chiedessi niente, il corpo
abbarbicato in dure geometrie,
sarebbe già messaggio — tu comunque
non ti sei mai sottratta. Quanto ti costi trovare i pigmenti
in questo nero, davvero non so
se tu lo sappia o meno,
né so cosa sperare, ma ho imparato
come i pronomi si confondano nel rito
che non si dà deviare —
la frase ripetuta a scongiurare
che l’ansia di servirti non sia peso
che sogni allontanare.
[… ]
Ne siamo usciti male: solo questo
vorrebbero scambiarsi, e non lo fanno.
La sanno e non lo dicono il fantasma
di aver potuto essere altrimenti:
sanno che passa, raramente appare
come un Saturno, un astro innominato.
In ogni modo l’hanno preservato
dai moti centrifughi della lingua
con gli anni luce e mille palliativi,
posticipando morti, collisioni
già consumate altrove, mentre sotto
come una velatura, mollemente
nidificava il parassita, l’evidenza
che certe volte non puoi fare niente
Dimitri Milleri nasce a Bibbiena nel 1995. Dopo aver frequentato il liceo musicale di Arezzo si iscrive alla scuola di musica di Fiesole, dove frequenta il triennio di chitarra sotto la guida del Maestro A. Borghese. Esordisce nel 2017 con la silloge Frammenti Fragili, pubblicata dalla “Casa Editrice Rocco Carrabba” di Lanciano (Premio Tagete 2017). Suoi testi sono stati ospitati dai siti “Pioggia Obliqua” e “Inchiostro”, oltre che dal blog “Interno Poesia”. Sei poesie inedite si trovano all’interno dell’antologia Poeti italiani degli anni ’80 e 90’ edita da “Interno Poesia” e curata da Giulia Martini.
Il paradossale Mediterraneo che dovrebbe unire le genti che si affacciano su di esso, diviene il luogo di una separazione invalicabile soprattutto culturalmente. E che proprio la cultura possa essere luogo di separazione è la questione cruciale affrontata dal poeta. Quel mare che Marco Pacioni naviga, soprattutto attraversando la lingua. Al suo interno, le assonanze, le cesure, il rimosso o il manifesto costruiscono le traversìe sulle onde di una navigazione in balìa del vento come del suono: “che le parti sono un parto”, “il corpo giù verso un altr’alto “. Ma anche materiali di risulta, come quelli lasciati dalle onde sulla riva memoriale: ”smeraldo sui depliant in vetrina / all’agenzia Conrad” o “rimmel d’albe boreali su velieri fotomontati”. Sullo sfondo mobile del mare, anche le poesie dedicate a varie persone procedono “da logos a logos”, mostrando la centralità di un linguistico ondeggiare per recuperare l’altro, l’escluso.
*
sbanda gronda
che non puoi tenere il nome al logo
dare corda allenta il nodo
e continui a scorrere il palmo
cercare il capo con le dita
finire per iniziare
poi la risacca moto d’Orfeo
ti fa scordare
e la parola è già al largo
prima di girarti da verso
una lingua è salpata
*
ammaini a vista dello scoglio
per il dormiveglia nello sciabordio
spoglie sparte
sul pelo dell’acqua
invece del sonno
appaiono quattro rime smisurate
còria di squartamento a largo
lapidi a galla
amari ammari
amare ammare
Marco Pacioni, insegna Storia del rinascimento nel programma USAC dell’Università della Tuscia (Viterbo) e per l’University of Alberta (Canada). È autore di Modernismo e condizione postmoderna (2005); Terrore, territorio e mare (2015), co-autore del libro su Proust Dalla parte di Marcel (2014); ha inoltre curato di Michele Ranchetti, Poesie edite e inedite (2008) e di Luca Della Robbia, La condanna a morte di Pietro Paolo Boscoli (2012). Collabora con “il manifesto” e “Alfabeta 2”. Ha contribuito al catalogo della mostra “La forza delle rovine” (Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps, Roma, ottobre-gennaio 2016).
Stefania Pastori riesce a dire di una cosa tremenda, come indica nel breve testo che precede questa poesia.
Riesce a dire di una violenza subita senza commiserazione, non pensando a se stessa ma a due altre viscerali presenze.
Un grande gesto d’amore è scritto in questa poesia dove il dolore si trasforma, quando si prende in mano la penna, quando finalmente è possibile scriverne.
Scriverne non è un atto consolatorio, non è denuncia.
Sorprende nel testo una lucidità estrema, filo teso tra i fatti e i sentimenti. Su questo filo cammina con passo sicuro l’autrice, senza guardare il vuoto. Gli abissi vengono tenuti a distanza dalla poesia, lo testimoniano i versi finali ripetuti non come cantilena, non come litania, piuttosto come mantra: “scrivere una poesia è riparare la ferita fondamentale” ci ha detto Alejandra Pizarnik.
*
"Partorii la mia secondogenita Sofia nel 2006. Nulla lasciava presagire la sua grave disabilità.
Combatto per lei da quando nacque. Per questa nascita (infausta? fortunata? Non so ancora) fui pestata a sangue dall'allora marito non più marito. Ecco perché mi fregio del nick Gloss, Gruppo di Lavoro e Osservatorio Sessismo e Stalking.
ALDA NEL CUORE
Difficile scrivere con Alda nel cuore
se il cuore si è infartuato proprio ieri
un dolore pugnale infisso nello sterno
un altro piantato tra le scapole
il respiro manca per il male simile
solo a quello del parto, del parto
della mia cucciola per sempre.
Sofia nata per filo, non crescerà mai
la sua disabilità si ingrandirà con lei
mi spacca il cuore e non per diletto
mi spacca il cuore e non per diletto
mi spacca il cuore e non per diletto
mi spacca il cuore e non per diletto
a letto sto. E buonanotte ai sognatori.
Noi non sogniamo più."
BIOBIBLIOGRAFIA DI STEFI PASTORI GLOSS
Sceneggiatrice nei Novanta per Benvenuti, Verdone, Brizzi, selezionatrice di opere letterarie sotto contratto, redigo un blog di recensioni e un podcast radiofonico. Grazie ad un ex partner, mi posso fregiare dello pseudonimo di Gloss, Gruppo di Lavoro e Osservatorio Sessismo e Stalking. Nel 2013 esce CORPI RIBELLI, resilienza tra maltrattamenti e stalking. Poi due libri, un saggio sociologico STANDING OVULATION, le donne sono superiori agli uomini (anche nella violenza), e la silloge poetica MICA VAN GOGH, ispirata ai testi di Caparezza. La rivista online Dol's vara la mia carriera da novellatrice contro l'uso improprio degli stereotipi di genere. Sto approntando una nuova silloge di POESIE SPOLLICIATE, neologismo che riguarda lo scrivere coi pollici sullo smartphone, e un’ulteriore raccolta di RESISTERE PER SOPRAVVIVERE, racconti della Resistenza durante la II Guerra Mondiale a sfondo erotico. La raccolta di racconti STEREOTIPI A BAGNOMARIA, già sotto contratto di casa editrice fallimentare, è da marzo ‘19 al vaglio di altro editore.
Come eco in una conchiglia
Poesia compagna dell’essere di Edoardo Penoncini non mette in versi richiami metafisici, come il titolo parrebbe annunciare. I testi sono impregnati piuttosto di riflessioni esistenziali, dove predomina un sentire meditativo e sofferto sul trascorrere impietoso del tempo e sul senso contemporaneo del vivere e del dire.
Sulla perdita di parole nella comunicazione odierna. Sul linguaggio della citazione in rete, dove “tutto si dà per letto e introitato”. Sul celarsi della poesia “fuggita dai caffè e dalle piazze / per andare chissà dove”. Sulla forza tuttavia del dire, degli antichi ritmi, della “sapienza / delle parole rotte e ricomposte; // parole/stirpe semenza/parole”.
E se il tempo è considerato dall’autore come l’amante che non ascolta più le “suppliche a rinegoziare / i termini ormai stantii della / relazione”, resta la possibilità di un esistere desiderante, benché sofferto, cercando di “assecondare voglie d’avventure / salire sempre per restare qui / con tutte le paure dell’abisso / e le distanze dai confini assenti”.
Un’eco densa di nostalgia abita i versi: mentre in superficie la navigazione scorre sospinta dalle burrasche dell’esistere, la poesia, compagna dell’essere con cui condivide l’unità originaria, resiste in sottofondo. Sui fondali dove ne custodisce il suono. Quel suono che attende un ascolto, racchiuso come l’eco del mare in una conchiglia.
A Virgilio Giotti
era un deserto la vita al confine
tra i dolori di un’etnìa negata
diseredata dentro nere bocche
che spegnevano luci intermittenti
a poco a poco di voci infiochite
appena passaporto letterario
la poesia con i suoi progetti
fuggita dai caffé e dalle piazze
per andare chissà dove a Padova
o a Parigi, con i bastimenti
dell’Adriatica alla Terra dei Padri
ancora bastimenti riportavano
nel Golfo dal Golfo di Botnia i sogni,
nuove baldorie al caffè Rossetti
mentre la Bora portava il suo gelo
dalle innevate campagne di Russia
e nuove bocche a straziare la terra.
L’ora di notte
Cosa faccio in quest’ora della notte
amico del silenzio appena rotto
dal lento incespicare della stilo
scompaginando ogni mia certezza?
E passerà, lo sento passerà
anche il rovello dei pensieri cupi
in fondo porto ancora la sapienza
delle parole rotte e ricomposte;
parole/stirpe semenza/parole
rinnovando ogni cosa ogni radice
l’insonnia di notte restituisce
la direzione e i sogni della vita.
Sulla “rete”
si vive il tempo del citazionismo
dono e magia che scioglie parole
di Rilke e Lorca e dello Zibaldone
in una rete di nuvole e stelle
tutto si dà per letto e introitato
anche di lingue bevute a bizzeffe
vale la pena tacere del resto
la millantata lettura si sa
non è reato in questo firmamento
dove la lingua perde le parole
Leggendo E. Dickinson
Dicono che muore appena detta
appena nata lungo una strada
davvero, non muore appena nata
e certe parole anche a non sentirle più
sono marcate a fuoco nei nostri occhi
nascosti dietro due fette di salame
ma il suono della fame batte
come sempre a mezzogiorno e sera
alla porta di chi non parla mai
e li accompagna sorella fino alla morte.
Edoardo Penoncini nasce a Copparo (Fe) il 20-12-1951, laureato in storia medievale presso l’Università degli studi di Bologna, è stato assegnista per quattro anni presso l’Istituto per la Storia di Bologna, redattore per tre anni della “Rivista di studi bizantini e slavi”, collaboratore per 25 anni della rivista “Scuola e didattica”, ha insegnato Lettere nella Scuola secondaria fino al 2011.
Suoi lavori di storia medievale e di didattica della storia sono apparsi su riviste e in volumi collettanei.
In versi ha pubblicato: L’argine dei silenzi, Este Edition, Ferrara 2010; Un anno senza pretese, Ibiskos-Ulivieri, Empoli 2012; La spesa del giorno, Ibiskos-Ulivieri, Empoli 2012; Qui non si arriva di passaggio. Ferrara,musa pentagona, Ibiskos-Ulivieri, Empoli 2012; Poesie scelte e dodiciinediti, Punto@capo, Pasturana (AL) 2013; Lungo è stato il giorno, Ibiskos-Ulivieri, Empoli 2012; Quell’aria, Ed. Giovane Holden, Viareggio (LU) 2015; Vicus felix et nunc infelix. La luce dell’ultima casa, Al.Ce., Ferrara 2015; L’occhio profondo, Al.Ce., Ferrara 2018; le raccolte dialettali Al fil źrudla (Il filo srotolato), Al.Ce., Ferrara 2015; in corso di stampa, Scartablàr int i casìt, Al.Ce., Ferrara 2015; Al paréa uŋ fógh adpàja.
Il nulla è l’impensato
Il sogno è l’altro nome…del nulla
Tra l’impensato e il sogno c’è un mondo di qualcosa, di ritorni, dove l’essere che si rappresenta dice.
Dire dice sembra allora negare il nulla, poiché dicibile e detto.
Il nulla esiste: nella sua figura di parola scritta, nella sua traccia grafica, nel suono dei fonemi e del vocabolo pronunciato, nella configurazione della sua parola pensata e, con un altro nome, nel sogno.
L'ESSERE E IL NULLA: IL SUPERAMENTO DEL NICHILISMO
La creatio ex nihilo non ha altro principio se non in sé stessa e cioè in quel nulla che le garantisce l'esistenza eterna, in piena corrispondenza con l'aseità1 di Dio.
Il nulla non è l'affermazione e il trionfo del nichilismo, la negazione dell'essere; non è il precipitare della vita nel gorgo della morte, ma è l'assenza di un qualcosa, cui si possa fare risalire la nascita del mondo; cioè preesistente alla Creazione, al Creato. In questa accezione, il nulla è quel Principio che ha nella Creazione la sua affermazione, in quanto essa è creatio ex nihilo. Il nulla è l’essere in sé, “in potenza”, che si fa atto, cre-azione, dunque, Essere, Verbo, Voce, Parola divina. L'identità tra l'essere e il nulla è la risposta alla finitudine dell'umana esistenza, di cui costituisce il superamento. Perché il nulla, in quanto è l’essere eterno, assicura la sopravvivenza oltre la morte. Dobbiamo allora ripensare col nulla il nichilismo. uestoQuesto, dopo i suoi primi esordi in campo filosofico con Gorgia, per il quale «nulla è, se anche qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile, se anche qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile agli altri»2, s’impone alla fine del secolo XVIII come dottrina negatrice degli ideali e dei valori tradizionali, nonché della stessa esistenza della realtà oggettiva, considerata solo una vacua e illusoria apparenza. Se il nichilismo, successivamente, ha in Nietzsche il suo più grande teorico, assertore e referente, se con lui si afferma e acquista notorietà e finisce per essere identificato, tuttavia, è in questo nostro tempo che esso, da semplice teoria, da pura visione del mondo si fa “pratica” corrente, dottrina viva, azione demolitrice quotidiana. Dissipati i valori tradizionali, tutto oggi sembra precipitare in quel nulla che il pensiero filosofico dell’Occidente, all’inizio della sua storia, ha definito come «ciò da cui le cose provengono e in cui alla fine ritornano». È questa un’affermazione vera, alla quale i nichilisti assegnano un valore negativo, in quanto essi negano l’esistenza di un «oltre» dopo la morte. L’asserzione assume il carattere di verità solo se diamo al nulla una connotazione diversa, positiva. Se il nulla è l’origine di Tutto non è possibile ammettere un oltre che l’oltrepassi, che sia prima di esso; dunque, il nulla è l’«oltre» invalicabile in cui Tutto già «è» e torna ad «essere». L’esistenza stessa non si pone tra la nascita e la morte, ma tra la venuta e il ritorno, rispettivamente, dell’essere «come» ente e dell’ente «in quanto» essere, ossia, tra il tempo dell’essere e la sua eternità. L’esistenza, allora, è la prova eclatante e miracolosa che il nulla esiste ed è l’essere trascendente e immanente al tempo stesso, in quanto esso è l’«oltre» invisibile e l’«ente» visibile col quale costituisce un essente: unione di anima e corpo, di spirito e materia. Alla fine della sua esistenza terrena, l’essere, scisso dall’ente, ascende alla sua dimora originaria. L’immanenza dell’essere è l’esistenza (ex-sistenza), o il «non essere» che non è la negazione dell’«essere», ma il modo diverso di quest’ultimo di essere, cioè il suo stare fuori come essente, nella forma, nella natura e nella condizione degli enti. L’esistenza, dunque, è la buona novella, l’annuncio dell’essere e la sua manifestazione; è il Significato che dobbiamo interpretare e riscoprire, perché esso è l’essere che si cela negli enti, che sono il suo modo di apparire.
La venuta e il ritorno costituiscono un movimento circolare e infinito, “l’eterno ritorno dell’uguale”, che non è, come per Nietzsche, il ripetersi di ciò che è stato, non è “dire sì alla vita”, nel senso di riconsegnarsi ad essa innumerevoli volte, come l’abbiamo già vissuta. Uguale è l’Essere, e non è il modo in cui si ri-presenta ma la sua immutabilità, l’identità che esso conserva nel suo divenire e apparire come altro da sé. Il nulla eterno, dunque, è da riferire alla natura dell’essere, non è il precipitare di tutte le cose nel nulla, di cui la morte sarebbe solo l’immagine vuota. Il nihilismo, nella sua svolta radicale, “mostra” il volto buono del nulla: la sua natura ontologica e il suo circolo vitale.
Se il nulla è l’essere, il pensiero del nulla è pensiero dell’essere, di qualcosa che «è» e attende di essere pensato, svelato. Dunque, il nulla è l’impensato. Quando il pensiero irrompe nel nulla, un non-essere si manifesta. Ogni ente è l’improptu del pensiero che pensa il nulla, il quale lascia sempre dietro di sé qualcosa d’impensato. L’impensato, in quanto attiene al pensiero e ne garantisce l’inesauribilità, è il pensiero che pensa infinitamente sé stesso. Il nulla, dunque, è l’infinito del pensiero che, sconfinando oltre il visibile, squarcia la caliginosa coltre e lascia che dall’assenza sorga un ente, una forma. Creare è sognare l’invisibile che da infinita distanza si svela e si dona all’Aperto. Così, nel flusso di luce dimora un’altra vita, nel frutto che matura si schiude l’increato. E nello specchio del mondo il sogno è l’altro nome e il volto buono del nulla. Il nichilismo, quale lo abbiamo qui rivalutato, è l’affermazione e il trionfo del nulla come principio ontologico, garante dell’essere assoluto e della sua eternità.
Poiché tra l’essere e il nulla c’è identità, affermare o negare l’esistenza dell’uno significa affermare o negare anche l’esistenza dell’altro. Paradossalmente, ma secondo la logica contraria al principio di non contraddizione, che giudica falsa la proposizione dove sussista un’opposizione tra termini, l’affermazione dell’essere è possibile solo attraverso la sua negazione, cioè il nulla. Non nel senso che l’assenza del nulla è la condizione necessaria per l’esistenza dell’essere - affermazione, questa, consona a quel principio perché priva di contraddizione - ma perché il nulla, in quanto è origine di tutte le cose, è l’essere necessario ed eterno che non rimanda ad altro essere all’infinito. Il nulla, dunque, non può essere negato, perché con esso si negherebbe la creazione stessa. Pertanto, la sua esistenza è vera perché vera è la creatio ex nihilo. La morte non è la negazione dell’essere ma il ritorno dell’ess-ente all’essere, così come la vita, l’esistenza, è la venuta dell’essere. E il morire è anche un non-essere, un “ex-sistere”: lo stare fuori dell’essere (spirito, anima), il suo distacco dall’ente (corpo, materia) per ritornare all’Unità del Tutto, all’Essere o al Nulla, il quale non è ciò da cui tutte le cose provengono, ma è Esso stesso il Tutto che pro-viene, si manifesta al pensiero lasciando fuori di sé «sempre» qualcosa d’impensato, che ne garantisce l’infinitezza. Ed è quel ritorno tramite la morte, la quale non è, perciò, annichilimento ma l’apertura sull’infinito, che non può avere una fine. Nel grande teatro del mondo, dove l’essere si rappresenta, il sipario resta aperto, perché lo spettacolo della vita sempre ricomincia.
Guglielmo Peralta vive a Palermo. Ha pubblicato quattro sillogi poetiche: Il mondo in disuso, I.L.A. Palma, Palermo1969; Soaltà, Federico editore, Palermo 2001; Sognagione, The Lamp Art Edition, Palermo 2009 (pubblicata anche in versione e-Book da LaRecherche.it); Sul far della Poesia, SCe edizioni, febbraio 2022. Nel dicembre 2004 ha fondato la rivista monografica “della Soaltà”. Nel 2011 è uscito il romanzo H-ombre-S, pubblicato da Genesi Editrice. Ha vinto il Premio Cesare Pavese 2012 per la saggistica inedita con un saggio sull’Autore. Nel 2015 è uscito il saggio La via dello stupore nella visione est-etica della soaltà per le edizioni Thule; nel 2017 ha pubblicato Filigrane (saggi, critica letteraria e prose poetiche), Genesi editrice, e nel 2018 il saggio La società felice, Aletti editore. Per i tipi della Youcanprint, la versione teatrale del romanzo H-ombre-S col medesimo titolo.
1 - Nella teologia medievale, è la condizione di Dio, la cui perfezione consiste nell'avere in sé stesso il principio della sua esistenza.
2 - Gorgia, Sul non essere o sulla natura
Ivan Pozzoni propone una poesia invettiva di argomento finanziario. A tratti istrionica (l’epatite IVA, i ricorsi stoici, il catetere senza ipotenusa), a tratti con rime inaudite e con termini che probabilmente non abbiamo mai letto in un testo poetico, come lo “spread”.
D’altronde, “faremo poesia con tutto” ha scritto Pablo Neruda. E Pozzoni lo conferma.
Questa poesia si fa leggere volentieri nella sua velocità, il verso lungo soccorre il dettato, l’autore con ironia entra in temi che sono oggetto di storiche analisi. Come un flash, un blitz, un raid, un’incursione in versi entro un tema macroeconomico che rappresenta allo stesso tempo il piccolo cabotaggio di certa politica.
L’EPATITE IVA
Il contribuente italiano medio tra tasse, imposte e accise
subisce morsi e ricorsi stoici peggio che alla Corte d’Assise,
navigando sempre in cattive acque, lo hanno dichiarato santo
e contro le scottature da cartella esattoriale usa la tuta d’amianto.
L’epatite IVA è una malattia altamente contagiosa,
il cuneo fiscale ha la funzione di un catetere senza ipotenusa,
drenare liquidi dai buchi neri dei conti correnti non millanta
l’idea di far chinare concittadini sofferenti a quota Novanta.
La metafora del drenaggio, verso lo Stato italiano, non è balzana,
l’Agenzia delle Entrate ci rivolta i calzoni come indomita mezzana,
la malattia è ormai cronica, come terapia sedativa resta la flat tax
la calma piatta dei mercati internazionali non ci facilita il relax,
tra salvare 5.000.000 di italiani o incrementar lo spread
la scelta è tanto semplice che non ci vorrebbe un Dredd,
speriamo solo che un nuovo dottor Sottile non emetta prelievi forzati
sul 6‰ dei conti correnti dei soliti disgraziati.
Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976. Ha diffuso molti articoli dedicati a filosofi italiani dell’Ottocento e del Novecento, e diversi contributi su etica e teoria del diritto del mondo antico; collabora con numerose riviste italiane e internazionali. Tra 2007 e 2018 sono uscite varie sue raccolte di versi: Underground e Riserva Indiana, con A&B Editrice, Versi Introversi, Androgini, Mostri, Galata morente, Carmina non dant damen, Scarti di magazzino, Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, Cherchez la troika e La malattia invettiva con Limina Mentis, Lame da rasoi, con Joker, Il guastatore, con Cleup, Patroclo non deve morire, con deComporre Edizioni; tra 2009 e 2018 ha curato una cinquantina di antologie di versi. Tra 2008 e 2018 ha curato cinquanta volumi collettivi di materia storiografico filosofica e letteraria; tra il 2009 e il 2018 sono usciti i suoi: Il pragmatismo analitico italiano di Mario Calderoni (IF Press), L’ontologia civica di Eraclito d’Efeso (Limina Mentis), Grecità marginale e suggestioni etico/giuridiche: i Presocratici (IF Press), Libertà in frammenti. La svolta di Benedetto Croce in Etica e politica (deComporre) e Il pragmatismo analitico italiano di Giovanni Vailati (Limina Mentis). È con-direttore, insieme ad Ambra Simeone, de Il Guastatore – Quaderni «neon»-avanguardisti; è direttore de L’Arrivista; è direttore esecutivo della rivista internazionale Información Filosófica; è, o è stato, direttore delle collane Esprit (Limina Mentis), Nidaba (Gilgamesh Edizioni) e Fuzzy (deComporre Edizioni).
Poesia dell’inizio, potremmo definire questo poemetto, che mette al centro la nascita della lingua, nella consapevolezza di sé e del mondo, affinché non si debbano “lasciare parole prive di storia”. Così lo sguardo dell’autrice si colloca nel tempo mitico (ma ancora ben vivo nella sua dimensione di svolgimento, crescita e anche inabissamento) delle antenate: madri e figlie che sviluppano la tela della conoscenza come punto di pensiero poetico iniziale e finale. Un intreccio extra-ordinario di sensi che crescono in sinestesie vere e reali. Perché in questo movimento “la veggenza”, scrive Rosati, “percorreva la trama e l’urgenza era l’ordito”. Dunque una parola di sensi plurali, dove il linguaggio prende vita dagli occhi, poi dal suono, per dare voce a una poesia intrisa di colori e lampi mobili nel canto.
dalla sezione, οι μητέρες - e l’inizio era svolto nel suo nome
*
ci rivolgevamo agli alberi quando
le ossa perdevano il sostegno della tenerezza
mulinelli d’acqua sorgiva
si annidavano nel midollo spinale
la massa scheletrica appariva fluorescente
con piccoli coni di luce che
stillavano dai pori cutanei
eravamo pura meraviglia e non
somigliavamo a nulla
ci coglieva lo stupore quando
potevamo sfiorarci ed emettevamo
leggeri suoni bluastri
dal vago sapore di felci
il verde non era ancora stato codificato
vagavamo tra il giallo sole e il blu acqua
*
quando i suoni divennero parole
conoscemmo la memoria e la dimenticanza
le grosse maglie del tempo scesero fra noi
imparammo a tessere dai ragni
la veggenza percorreva la trama
l’urgenza era l’ordito
iniziammo a costruire templi e coltivare grano
piccole sfere di storia si andavano disponendo
οι κόρες - le figlie della narrazione non diventano madri
*
ma la mia gola non narra
e non si nutre
le parole scritte assumono la
forma paradossale di una verità
cosi antica che ormai non
importa piu a nessuno e tutto
e coperto di polvere
e non c’e piu un corpo a
testimoniare o ad accusare
tutto e diventato antenato
e io sono qui costretta nel
mio ruolo perche un varco
almeno si apra e possa
iniziare a nutrirmi
Sofia Demetrula Rosati vive a Roma. Collabora con varie riviste, tra cui “Poesia”, ed è presente con suoi testi su vari siti online. Ha pubblicato su svariate raccolte antologiche e partecipa a reading di poesia. Traduce poesia dal greco moderno.
Ha pubblicato il volume L’azione è un’estroversione del corpo, edito da Cierre Grafica nella collana di poesia Opera Prima, diretta da Flavio Ermini.
La parola allo sguardo
Un distillato di pensiero, visione e parola nutre i testi della raccolta L’intuizione dell’alba di Giancarlo Stoccoro. Nei dialoghi sospesi tra luce e buio, voce e silenzio, finito e infinito, mondo e orizzonte, realtà e sogno. Che trovano un punto di contatto dello sguardo. Nel rispecchiarsi di visione e di sogno.
La visione: lo sguardo verso l’esterno, sul reale percepibile e proiettato oltre, su ciò che sta di fronte e al di là dell’orizzonte. Il sogno: lo sguardo verso l’interno, sul buio e sul silenzio, sull’ombra e sui gesti interiori, nel tentativo di “raccordare i giorni alla verità del sogno / accendere silenzi dove le parole divorano sguardi”.
In uno sguardo che non conosce divieti il desiderio si incunea come una breccia. E, insieme al desiderio, l’esercizio, per riuscire a tenere alta la possibilità di mantenere viva la visione sul buio e sull’oltre. E per riuscire, inseguendo l’oscurità, a non dimenticare il chiarore, così come, penetrando il visibile, a non scordare il principio.
Dalle parole che dominano e divorano sguardi, da portare a silenzio, Giancarlo Stoccoro sposta la sua visione e il suo sogno dando vita a parole poetiche che, sottovoce, si fanno sguardo: “Le parole sono occhi / con passo ebbro // non hanno voce spessa / seducono fessure minime”. Fessure che lasciano intravedere la realtà altra, barlumi che, nel buio, consentono di intuire l’alba.
Da: L’esercizio del mare
Negli abissi del cielo
raggiungi
la forma eterea del buio
Cicatrici di luce
richiedono attenzione
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Insegui l’esercizio del mare
quando esce dallo sguardo
le palpebre chiuse sotto il sole
conoscono la nebbia incollata al cielo
senza pratica di volo
Fai strage di passi
Salpa
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Come raccordare i giorni alla verità del sogno
accendere silenzi dove le parole divorano sguardi
modulare la bocca alla lingua dei baci
Occorrono temperature miti
sentieri contigui passi disciplinati
un orizzonte che carezza gli angoli
senza perdere l’intuizione dell’alba
Da: Fessure minime
Non so consigliare l’alba
c’era una volta dedizione
maggiore per l’incanto
Ora le luci si accendono
in qualsiasi anfratto
non resta che sposare radici
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Le parole sono occhi
con passo ebbro
non hanno voce spessa
seducono fessure minime
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Il mondo è uscito dallo sguardo
ma ti ostini a inseguirne l’ombra
Con una torcia fermi la via
dei gechi sul muro
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Nei territori dello sguardo
insiste il desiderio
una traccia verticale
scopre la breccia
dove l’infinito si distanzia
Giancarlo Stoccoro, nato a Milano nel 1963, è psichiatra e psicoterapeuta. Studioso di Georg Groddeck, ne ha curato e introdotto l’edizione italiana della biografia: Georg Groddeck Una vita, di W. Martynkewicz (IL Saggiatore, Milano, 2005). Da parecchi anni, oltre all’attività clinica, si occupa di formazione e conduce incontri sulla relazione medico-paziente secondo la metodica dei Gruppi Balint. Ha pubblicato diversi lavori su riviste scientifiche. Suo è il primo saggio che esplora il cinema associato al Social Dreaming (sognare sociale/ sognare assieme) che ha applicato in ambito sanitario, scolastico, nelle carceri e direttamente nei cinema: Occhi del sogno (Giovanni Fioriti editore, Roma, 2012).
Ha partecipato al premio Lerici Pea 1988, vincendo la medaglia nati dopo il 1958, con la poesia L’ombra dell’aquilone premiata da Giorgio Caproni. Sono state segnalate poesie su Lo Specchio della Stampa (2/12/06) nella rubrica “Scuola di Poesia” e in “Dialoghi in versi” (17/08/2007) da Maurizio Cucchi.
Per le edizioni Gattomerlino/Superstripes è uscito nel 2014 Il negozio degli affetti e in ebook, presso Morellini, Note di sguardo, tra le opere vincitrici del concorso internazionale Lago Gerundo 2014. È dell’aprile 2015 Benché non si sappia entrambi che vivere per Alla chiara fonte editore di Lugano. Nel settembre 2015 è uscito I registi della mente (Falsopiano, giugno 2015), curato da Ignazio Senatore, contenente il lavoro Ciak. Si sogna! L’esperienza di Kiev.
Nel novembre 2015 è arrivato tra i finalisti del 29° Premio internazionale Lorenzo Montano con la poesia inedita Non hanno scuse. Nel marzo 2016 si è classificato al secondo posto al Premio Torresano 2016 con la raccolta inedita La dimora dello sguardo, che otterrà la segnalazione speciale della giuria al Premio letterario Nazionale Scriviamo insieme (ottobre 2016) e la menzione al merito al Secondo Premio Internazionale Salvatore Quasimodo.
Parole a mio nome, è la silloge, edita c/o Il Convivio Editore, vincitrice del Premio Pietro Carrera (aprile 2016) e successivamente finalista del Premio Gozzano 2016 e al Premio Letterario Internazionale Indipendente (PLII) 2017 per l'opera edita.
Sempre del 2016 è il saggio da lui curato, Pierino Porcospino e l’analista selvaggio, con scritti inediti di Groddeck e di Ingeborg Bachmann e il contributo di autori vari per ADV Publishing House di Lugano.
Ha collaborato al secondo numero della rivista Poesia e conoscenza di Donatella Bisutti con il lavoro: “Brevi considerazioni sull'inconscio e la scrittura poetica”.
È vincitore del terzo premio Hombres Itinerante “Ignazio Silone” (giugno 2016) con la poesia inedita Si sommano i luoghi ai gesti alle frasi. E' finalista del Premio Museo Casa Alda Merini 2016 con la silloge inedita Luoghi ligi.
Ha ricevuto ancora nel 2016 una menzione speciale al 30° Premio Lorenzo Montano, per la raccolta inedita Luoghi d'ombra, poi riproposta con alcune variazioni e classificatasi terza al Premio Subiaco Città del Libro IV edizione, prima al Secondo Premio Internazionale Salvatore Quasimodo (1 aprile 2017), finalista al Premio Salvatore Piccoli 2016 e segnalazione al Premio Poetika 2017.
Nel gennaio 2017 è uscita l'ampia raccolta poetica Consulente del buio (1983-2013), con prefazione di Giovanni Tesio (L'Erudita, Roma, 2017), finalista al Premio Europa in Versi 2017.
Ha ricevuto la segnalazione della giuria del XIII Premio Hombres Itinerante 2017 per la silloge inedita “Estate autunno inverno” e la Segnalazione Particolare della Giuria del 42° Premio Casentino nella sezione poesia inedita.
È stato pubblicato per AnimaMundi di Otranto (settembre 2017) Alla corte dell'Es Poeti e prosatori, saggio da lui curato con il contributo di Donatella Bisutti, Franco Buffoni, Milo De Angelis, Alessandro Defilippi, Maria Grazia Calandrone, Laura Liberale, Franco Loi, Franca Mancinelli, Umberto Piersanti, Fabio Pusterla, Giovanna Rosadini, Francesca Serràgnoli, Miro Silvera, Giovanni Tesio.
È presente con 14 poesie e una prosa breve nell’antologia Mai la parola rimane sola del circolo letterario Acarya di Como (2017) ed è antologizzato ne Il segreto delle fragole 2018 e 2019 dell’editore Lietocolle (2017, 2018).
Ha ricevuto la menzione speciale per la raccolta inedita Incompiuti silenzi al 31° Premio Lorenzo Montano.
È vincitore assoluto della 5^ edizione del Premio Internazionale di poesia inedita “I colori dell’anima” (agosto 2017) con la silloge Forme d’ombra, pubblicata poi dall’associazione Mondo Fluttuante come plaquette e pubblicata in versione ampliata c/o Alla Chiara fonte editore di Lugano nell’aprile 2018. Ha ricevuto la segnalazione per la poesia inedita Pochi luoghi al Premio Guido Gozzano 2017.
Ha ricevuto la menzione d’onore al Premio Pier Paolo Pasolini – Il canto popolare 2017. È vincitore del secondo premio per la poesia singola e del terzo premio per il Sublime in luce al Premio Il Sublime 2017, poi inserite nell’antologia Il Sublime in versi e in prosa (Il Mondo Fluttuante, dicembre 2017).
Ha vinto il primo premio “Narrapoetando” con la silloge “La dimora dello sguardo”, edita da Fara Editore (aprile 2018), successivamente finalista al Premio Guido Gozzano 2018 e al Città di Como 2018, vincitore del secondo premio sezione poesia edita al Premio Internazionale Energia per la vita 2018. È finalista al Premio Letterario Internazionale Indipendente (PLII) 2018 per l'opera edita.
Ha ricevuto la menzione speciale per la raccolta inedita al 32° Premio Lorenzo Montano 2018.
È vincitore del concorso internazionale di poesia Altino 2018. Ha vinto il primo premio nelle sezioni B e C della 6^ edizione del Premio Internazionale di poesia inedita “I colori dell’anima” (agosto 2018). Ha ricevuto una menzione speciale per la raccolta inedita “la disciplina degli alberi” al Premio Lago Gerundo 2018, successivamente vincitrice della 4° edizione del Premio Nazionale Editoriale di Poesia “Arcipelago Itaca”, di prossima pubblicazione con la prefazione di Paolo Steffan presso l’editore La vita felice.
Ha partecipato al progetto di Poesia e Death Education “Inside (Me)” a cura di Laura Liberale, con 49 poeti italiani: http://endlife.psy.unipd.it
Versante Ripido, quadrimestrale di cultura poetica e letteraria (numero 3 settembre 2018), ospita “Esclusi dal palcoscenico” 6 poesie sul cinema e lo spettacolo. Collabora con la rivista trimestrale internazionale di cultura letteraria e poetica “il Menabò” di Stefano Iori per le edizioni Terre d’ulivo.
È vincitore del primo premio per l’insieme di poesie e dei secondi premi per le sezioni F e H al Premio Il Sublime 2018, poi inserite nell’antologia Il Sublime II^ (Il Mondo Fluttuante, dicembre 2018).
Ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria al Premio Ossi di Seppia 2019 (25° edizione) e sue poesie sono inserite nell’antologia Ossi di seppia 2019 Gli speciali I premi (Il Mondo Fluttuante, febbraio 2019).
È stata appena pubblicata, presso l’editore Oèdipus, la silloge Prove di arrendevolezza (febbraio 2019).
È attualmente finalista per l’opera edita al Premio Alda Merini di Brunate (7ma edizione) e tra i selezionati al Premio Bologna in lettere 2019. La raccolta inedita Forme del dono ha ricevuto la segnalazione presso la sezione B del Premio Bologna in lettere 2019.
DISFORME vuole affermare, ricordare, che viviamo in un incessante movimento, in un tempo relativo, dentro innumerevoli forme e dimensioni che non possono essere definite, concluse e sigillate, ma possono essere ininterrottamente percorse, accolte, congedate
DISFORME vuole scavare dentro l’altro lato delle cose, cercare le forze che si nascondono dietro le apparenze, e dietro la confortevole e ingannevole illusione di poter nominare qualsiasi cosa
DISFORME vuol dire ascolto, sguardo, possibilità, flessibilità, attenzione e sentimento di fronte alla forma, visibile e invisibile
DISFORME vuole sganciare le catene di ogni ordine, orizzontale o verticale che sia, per tornare nella pace del caos e dei suoi elementi, e rassicurare le anime che le origini di ogni singolo 'sentire', non sono un errore, un pericolo, un'anomalia, ma un nutrimento, di sé e dell'altro da sé
DISFORME il segno che vogliamo tracciare seguendo le tensioni di tutto ciò che dall'uno tende al molteplice, e che dal molteplice tende all'uno
in un continuo urto e flusso, in un ininterrotto incompiuto divenire
DISFORME cerca la prima nudità dello sguardo, davanti al nulla, davanti al tutto, davanti a specchi incrociati, davanti alla luce e al buio di ogni singolo giorno, interroga la circolarità dei sensi dentro la quale tutto sembra possibile
DISFORME è la prospettiva che nasce dai nostri sguardi uniti in questo piccolo luogo da dove abbiamo deciso di partire per attraversare insieme gli infiniti lati di questo mondo, generando tele esistenziali, cercando e scavando la preziosità di ogni forma possibile, visibile e invisibile, piccola e grande che sia
DISFORME è la scelta, il desiderio, l'inevitabilità di dover entrare nella tensione intima che muove ogni forma, che muove il prima e il dopo di ogni cosa, che genera il punto dove evento e essenza delle cose per un attimo coincidono
DISFORME è il nostro punto di vista, la nostra mutevole empatia con l'esistente, il costante tentativo di interrogare il destino, individuale e collettivo, è il nostro punto di estinzione, il nostro rinascere continuo.
Qui le bio degli autori Carlotta Cicci e Stefano Massari:
E qui una bella intervista di Francesco Tomada: