Una corsa sui versanti della poesia, edita e inedita, e della prosa inedita.
Versanti che rappresentano molte e varie realtà poetiche in atto in questi anni. Il nuovo numero di “Carte nel vento” raccoglie, oltre a quelle già pubblicate, altre note critiche su segnalati e finalisti della 29^ edizione del Premio Lorenzo Montano, prodotte dalla redazione di “Anterem” al completo.
A questo proposito citiamo due considerazioni sul lavoro svolto.
Afferma Laura Caccia: “Offrono possibilità di numerose riflessioni queste opere poetiche, ma soprattutto lasciano intuire, nei loro percorsi che intrecciano temi, lingue e linguaggi diversi, il vibrare sullo sfondo di una tensione comune. Con un punto fermo sull’esser-ci, attraverso un pensiero poetico in dialogo tra il linguaggio e l’esistere”.
Aggiunge Flavio Ermini, parlando della prosa: “Caratteristica di questa sezione è la sua grande libertà stilistica e di genere. Infatti la prosa inviata può essere costituita da una narrazione, un saggio breve, una prosa poetica… Diciamo che è una sezione che va oltre le categorie, oltre le classificazioni. Lo dimostrano le prose pervenute nel corso degli anni. Il nostro tempo è assillato dal culto della categorizzazione, della misurazione. E invece noi diciamo che l’esistenza è sempre una deviazione dal canone e che è necessario diffidare di ogni generalizzazione.
Insomma, si parla tanto di andare oltre i generi. Qui ne facciamo pratica”.
Consapevoli che molto debba ancora accadere, ripartiamo alla ricerca di nuovi paesaggi con la XXXI edizione del “Montano”
In copertina: Fausta Squatriti, Memento mori, grafite e pastello su carta, 2013
Scarica il bando della 31^ edizione del Premio Lorenzo Montano
Saggio narrativo
La poesia è una specie di strumento ottico che ci consente di vedere in noi stessi quello che – senza poesia – non avremmo mai visto. In altri termini: la parola poetica ci consente di accostarci alle nostre istanze più profonde, fino ad aprirci alla nostra essenza.
Rosa Salvia mette in evidenza con questo saggio proprio il manifestarsi dell’essere nella poesia, rilevando come la parola poetica sia qualcosa che cade al di là della calcolabilità dei saperi, al di là delle prescrizioni estetiche codificate. Insomma, Rosa Salvia ci induce a riconoscere che il linguaggio poetico costituisce una sfera privilegiata quando si tratta di dare voce all’essenza delle cose.
Poesia è pensiero che interroga e come tale porta il mondo alla sua dimensione più autentica, al suo destino. Il cogliere della poesia, ci conferma Rosa Salvia, non è un disporre “prepotente”, come accade nel “discorso”, bensì l’abbracciare una disposizione che lo precede, ovvero originaria. Il cogliere della poesia assume l’aspetto di un pensiero che vuole trasformarsi in esperienza del destino dell’essere. In questo processo, si può riconoscere senza fatica che l’esperienza linguistica della poesia si chiama, per così dire, “fuori” dal consueto concetto di esperienza, annullandolo, per indicare qualcosa d’altro. Un qualcosa, registra Rosa Salvia, «che possiede la forza di preservarsi dal disfacimento per diventare “preghiera”».
Recensione
Il Cesare è un poemetto del poeta spagnolo Luis Cernuda (1902-63). L’opera si ispira alla figura dell’imperatore Tiberio e ne registra il volontario esilio su un’isola. Nell’articolarsi dei versi prende corpo «l’ultimo respiro, l’ultimo pensiero, l’ultimo sentimento, l’ultimo amore» di una grandezza che va esalando. Rossella Cerniglia coglie nel suo commento critico la «lenta estenuazione» e l’«inesorabile fine» di una vita. Come non riandare con il pensiero alla fine di Napoleone così come la celebra Manzoni nella sua ode Il cinque maggio? Comune è infatti il sentimento «tragico e fatale» della condizione umana, protesa nel tentativo di cogliere un senso che presto si rivela irraggiungibile, tanto da essere condannata sempre al fallimento.
I grandi testi, come le grandi vette, ci segnala Rossella Cerniglia, si scambiano tra loro, in alto, cenni d’intesa e di antica consuetudine. Una voce parla e si apre l’essenza: l’impossibilità di realizzare un sogno. Un’altra voce risponde, ma non fa che segnalarci che la vita è il frutto di un’ingannevole illusione, dove tanto simili sono il vagito del neonato e il gemito del morente. Tremiamo alla fine della nostra vita come il primo giorno. Vacilliamo in preda all’incertezza.
Quelle che si levano dal testo critico di Rossella Cerniglia sono voci spesso disincarnate, lontane, ingannevoli, ossessive. Attorno a loro, nell’esilio, un insensato turbinio decreta che non si cessa mai di cadere, non si finisce mai di finire.
Saggistica poetica
Stefania Simeoni ci parla del principio: un principio che non smette di originarsi nel nudo disvelamento del vero, un vero lapidario e sapienziale. Dal puro essere alla presenza; dall’albale manifestazione al vivente nelle sue molteplici forme; dal respiro alla parola; dalla poesia alla verità dell’essere. Stefania Simeoni ci parla dell’inizialità come di una sensazione. Non c’è un luogo in cui si nasce o si muore. C’è solo l’evento del nascere e del morire. Un evento caratterizzato solo da suoni e silenzi; luci e ombre.
«Imparare il ritorno al respiro viscerale»: ecco quanto ci viene richiesto. È compito della parola poetica non sottrarsi alla difficoltà di tale questione per indagare e scoprire i propri fondamenti. Dire l’origine, dunque, per dare forma all’origine e mettere in opera la verità. Dire l’origine, dunque, non per cercare la regola e l’armonia, ma per dare spazio all’irruzione imprevedibile della potenza creatrice, dove riecheggiano voci diverse, difficilmente distinguibili l’una dall’altra. Il fine è raggiungere l’unità nel caos di un’esistenza che è destinata alla lacerazione. Con questo lavoro, Stefania Simeoni ci offre l’occasione di ripensare la parola in tutto il suo spessore teoretico, come serbatoio di un senso possibile.
Saggio tematico
Giuseppe Armani ci avverte: «L’occhio non è mai innocente». E ci invita ad avere maggiore sensibilità per i fenomeni più ordinari, pulviscolari dell’esistenza. Come dire: diffidiamo delle apparenze, non lasciamoci ingannare dai lampi fuggitivi, dalle tracce inafferrabili, dalle stelle cadenti che scompaiono nel momento stesso in cui si accendono. Come dire: diffidiamo delle illusioni, non lasciamoci ingannare dalle soglie. L’esodo, ci conferma Armani, è «un viaggio solo invocato». L’intera realtà è un flusso temporale in continuo mutamento; esclude che si possa accedere all’essenza delle cose, essenza che risulta così imperscrutabile e inaffidabile…
Questo saggio indica che essendo la realtà stessa costituita da un tessuto mobile, sfrangiato e plurale, anche il nostro atteggiamento non potrà che aderire alle infinite pieghe della vita così come la vita di volta in volta a noi si presenta; a noi, impegnati in quella che Armani definisce una vera e propria «avventura spaziale» finalizzata a «dare forma».
Va liberata la sintassi dal logoro dispotismo della logica lineare. Va prestata attenzione agli spazi bianchi del limite, ovvero a quelle soglie che possono costituire più o meno evidentemente l’occasione per il dispiegarsi del pensiero.
L’analisi di Silvia del Vecchio riguarda il ruolo delle donne nella sfera economica e pubblica e rimarca come la cesura fra le “ragazze 2.0” e le giovani con le gonne a fiori…è un fossato che s’inscrive dentro una lacerazione storica più vasta.
Sarebbe interessante, in un ambito più approfondito, mettere a confronto anche il lavoro di scrittura di queste diverse generazioni femminili così prossime e così diverse.
Nella letteratura il “privato” non ha infatti connotati “conservatori” o “deboli” anzi, se scelto consapevolmente come cifra stilistica, come certa écriture de soi, aderisce efficacemente al reale.
Nelle generazioni più giovani il timore di ricadere in un “vecchio” intimismo, in una dimensione domestica, muove verso modalità letterarie “di mestiere” , forse poco incisive, alla fine.
Le ragazze sono colte e informate, professionalmente preparate, libere di fare ma immerse in una crisi economica e lavorativa così pervasiva da rendere difficile continuità e innovazione progettuale.
E’ il segnale, come indica Del Vecchio, di uno scadimento culturale, istituzionale e ambientale che necessita senz’altro di una rifondazione delle relazioni alla luce delle nuove dinamiche sociali e culturali.
Numerosi interessanti elementi si intravedono in Incipit, prosa poetica di Paola Zallio:
indagine sulla nascita del linguaggio tra ricerca di ordine “razionale” e ascolto delle pulsioni archetipiche, indagine sul germogliare e il fiorire della lingua nel formarsi dei nomi.
…il respiro apre il varco del nome “parlato” attraverso il corpo-voce, la mano apre il varco del nome “scritto” , tracciato, sedimentato, il respiro apre il varco del nome a partire dal balbettio infantile, un sillabare che tenta di riconoscere, inseguire, e infine precisare l’identità personale nella realtà circostante.
La cosmogonia delle lettere privilegia le vocali, amate, come è noto da artisti e poeti, tra esse la protagonista Paola, in Incipit, fa della O il suo grembo.
La O che già era la lettera preferita della Thérèse di Canetti in Auto da fé, Thérèse che faceva le migliori O della classe: “Se un titolo conteneva molte O, per prima cosa lei contava quante erano, poi le scriveva tutte alla svelta in fondo alla riga e utilizzava lo spazio rimasto al principio per scrivere il titolo, che mutilava convenientemente”.
Prima di ogni leggibilità c’è infatti il nascere sillaba dopo sillaba di una lingua madre che resta luogo dell’imprinting, dell’apprendimento, dell’esprimersi e del ricordare.
Nel sangue del dire
Cosa ci insegna un viso, o, come si chiede Nicola Contegreco in “Pedagogia del volto”, quante leggi vi sono scritte?
Se, da un lato, l’autore vorrebbe poter dire “attraverso la linea / curva delle labbra”, dall’altro non può che registrare “i resti vivi del volto in itinere quella sua / trasmutazione di gorghi e di espressioni // distanti quanto l’incapacità di una lingua / sempre più lontana dalla via che deborda”.
Come se le linee del viso evidenziassero lo stesso destino del linguaggio e insieme della vita nella sua complessità, nel lasciare ombre e disafferrare parole, i versi ritmano il loro doloroso interrogare, a partire dalla perdita di una lingua in grado di identificarci, come leggiamo: “Piccoli mesi ci lasciano siepi / davanti agli occhi e alfabeti morti / dietro la bocca".
In un dire che è fortemente impregnato insieme di fisicità e di buio, che registra la “suddivisione atroce tra io e mondo”, assenze e ferite, i versi pulsano come nello scorrere nel sangue e trovano sincopi nel grido, richiamato anche dalla citazione di alcuni versi di “Crow” di T.Hughes.
Non restano, come scrive Nicola Contegreco, che “parole gheriglio masticate con troppo sangue / troppe cifre la cui somma non determina totale / ma i poeti hanno cadute impercorribili pure lo sai / adesso è vero bruciano la verità tra dita di calce”.
Il senso dell’umano
“Ci sono gesti che / possiedono la grazia”, scrive Enea Roversi in “Inventario dei gesti” dove si declinano, nella tripartizione della raccolta, azioni “Di disperazione e rabbia”, “D’amore” e “Di vita quotidiana”.
E la gratitudine e la riconoscenza pervadono i gesti, nella ricerca del senso dell’umano, tra differenti azioni e stati emotivi.
A partire da quelli connotati da angoscia e disperazione, solitudine e atti estremi, in una tensione, benché impossibile, a “dimenticare il male”.
Nei gesti d’affetto la grazia è connotata dall’assenza di parole, non come sofferta afasia, ma, come leggiamo, “eloquenza del non dire”, espressione silenziosa “di quelle incertezze / docili e sublimi” attraverso le quali percepire “il rumore / come di senso compiuto / estraniazione nuova”.
Nei gesti quotidiani, tra prepotenze e abusi, emerge, con i ricordi familiari, la gratitudine, come registra l’autore, del “condividere il sorriso / la stretta di mano”, “azioni che / partono da lontano”, che “hanno qualcosa in comune”.
Un catalogo del patrimonio umano che è mosso dalla ricerca di dare significato alle azioni e alle relazioni: “Dare un senso / alle cose che si fanno / a quelle che non / si fanno”, riflette Enea Roversi, così come “pensare: è troppo presto / riconoscere che ormai è tardi / per trovare il senso / eppure lo cercherai / domani, ancora”.
La poesia del principio vitale
Nel racconto biologico dell’origine, che Pietro Antonio Bernabei declina in “Poema dell’Inizio”, è tutta compresa la sfida posta dalla poesia rispetto alla materia del suo dire: l’origine di cui si tratta non è l’inizio indagato dalla riflessione filosofica, ma è ugualmente l’oggetto di un pensiero che affronta la “genesi della vita sulla terra” attraverso una narrazione scientifica che assume lo sguardo dell’arte e la parola della poesia.
Tra trasformazioni filogenetiche, evoluzioni ed estinzioni si susseguono sequenze di immagini messe a fuoco come quadri e insieme attraversate dal senso vitale, insieme oggetto e modo del dire: come annota Pietro Antonio Bernabei, il “principio vitale, / questa fortunata / sequenza di eventi / marca l'innesco / dei processi biologici / in forza dei quali / sono qui a scriverne”.
Ed ecco improvvisa prendere forza la sfida dei versi che passano repentinamente dalla memoria della materia al decisivo ruolo per la specie umana svolto dalle emozioni, dalle cellule staminali alla nascita del pensiero simbolico, dall’evoluzione biologica all’esplosione che culmina nel riso, fondamentale per la parola, nel suo sviluppo dai progenitori alla famiglia Hominidae che, come ci ricorda l’autore, “ride a lungo espirando / ridendo controlla il respiro / ponendo le basi / per la fonazione / e l’evoluzione / dell’eloquenza oratoria”.
Le radici delle percezioni
Cosa resta inciso nel pensiero poetico tra le generazioni e quali radici trova il dire che Gregorio Muzzì dispiega in “Codici”, nel convocare così tanti scrittori, poeti, musicisti, artisti da Campana a Cardarelli, da Rilke a Mann, da Dante a Hegel, da Bach a Dürer, da Caravaggio a Giacometti, “Stili poetici lontani”, come scrive l’autore, “comuni / assai lontani / nuovamente / radice”?
Con il prevalere delle percezioni, nel coinvolgimento dei citati autori tra immagini, punti di vista e apparizioni, la parola incide con forza i suoi codici: i contrasti amore-morte, vita-nulla, enigmi-conoscenza, limiti-verità.
Il contrasto è evidente tra i segni della negazione e dell’affermazione di senso, tra quanto appartiene all’area semantica dello sfocare e dello scolorire e quanto invece a quella del dare significato e colore: a tutta una serie di vuoti, precisati dall’autore, “Come mentire / trama incolore”, “Non indico / non voglio dire”, fanno da contrappunto i pieni del “Eppure amori vedono chiaro / osano come navi disperse”, “Rispondono colori”, “palpitano nuovi significanti”.
Dall’oscillazione dei contrasti, sorretta dalle intrusioni degli autori richiamati, prende forma una grande fiducia, da parte di Gregorio Muzzì, nella conoscenza, nel pensiero e soprattutto nel dire, poiché, come ci indica, “Invocando mai pronunciate parole / rivivono alberi” e, ancora, “Addentrando ulteriorità indicibili / parole infinite / plasmeranno umanità”.
Nel battito del buio
Il dire a brandelli che Chetro De Carolis adotta in “Frammenti”, nella concisione che potrebbe far pensare ala forma dell’haiku, rovescia le immagini nella loro assenza, le parole nel loro silenzio.
Dove l’haiku si fa soprattutto parola stupefatta e pensosa dello sguardo, l’autrice fa dei suoi frantumi parola del suono e del buio, come fosse ogni brandello poetico uno squarcio nel silenzio, un rintocco, un battito, in un breve risuonare di accenti di lingue diverse e di richiami musicali.
Il senso di smarrimento e dispersione, che trapela anche dalla diversità dei luoghi e degli artisti evocati, attraversa tutta la silloge, evidenziando, nel mutare delle cose e dei segni e nell’ammutolire dei suoni, come resti solo “il brandello, irrimediabilmente perso”.
E restano anche, come figure, il buio, le immagini cimiteriali, le griglie e le cancellate: “Nubi di ferro. / E doppio è il cancello / che serra / il giardino della memoria”, scrive Chetro De Carolis, “E quando è buio pure il suono / Neanche si vede quel giardino”.
E quando il suono si fa buio e la parola silenzio, cosa resta del senso e del dire? Dolente è l’assenza che emerge di segni e figure, anche solo dei loro brandelli o riflessi, come evoca l’autrice: "L’ombra di quel racimolo / di immagine, / anelata, / non appare. / Né l’orma”.
I doni assenti e presenti della vita
Sono “doni terrestri” quelli che Vittorino Curci sgrana in “Carrube”, con una pluralità di immagini e di ritmi che orchestrano la pulsazione della vita, le cronache dei vivi e dei morti, le sincopate domande di senso.
Sono i frutti che la vita porta con sé, nutrimento particolare, come i baccelli della carrube, e ricchezza, come i semi, utilizzati in passato come misura dell’oro: così “sei sulla buona strada / perché anche i morti sono semi / che patteggiano con la terra / un modo per tornare”, scrive l’autore, convinto che “se siamo strumenti della vita / siamo in buone mani”.
È però una voce dolorosa, tra “la sofferenza più predace”, memorie da scarnificare e disamori, quella che racconta storie di vita, come leggiamo: “ho messo il vestito nuovo / per sentirmi altrove come uno / che viene fuori dal niente e prega / in una lingua sconosciuta”
Nel fluire della musica della vita, tra “onda o risacca”, giungono allora i ritmi sincopati che rovesciano il senso vitale nel “dono assente dei quasiversi” e che interrompono il narrare con la riflessione dolente sul tempo e con la forma interrogante della ricerca di senso.
Così l’assenza prende voce, si fa “canto sperduto nell’aria”, come, ci mostra Vittorino Curci: “l’erba dei tetti / nella strofa che invoca / l’ultima stesura. / se ci fosse un fiume lo canterei. / l’ho anche fatto, e il fiume / non c’era”.
L’alfabeto dell’etica
Tra inizio e fine, assecondando possibilità e vincoli offerti dal tautogramma, Francesco Fedele declina in “Α & ω” tutto l’alfabeto dell’esistere.
Dalla denuncia di mercificazioni e genocidi alla desolazione di “generazioni al giogo”, attraverso l’“uguaglianza usurata”, la “kontrokultura”, le disillusioni del “vagare vacuo” e delle “voci a vanvera”, l’autore dispiega l’intero repertorio dell’inciviltà e degli abusi, per prendere chiaramente posizione, come scrive, per “contrastare la carenza con civiltà”, affermando la necessità di superare egoismi e narcisismi, scegliere l’empatia, mettere in primo piano le ragioni dell’etica sociale.
I limiti posti dall’ordine alfabetico e dalla forma linguistica del tautogramma, vengono rovesciati dall’autore con una fuoriuscita dai vincoli linguistici e sociali, come evidenzia: “vorrei venisse una verità, // vis per virare e volare via”, “per navigare oltre il nulla”, “osare oltre l’ovvio”.
Tenendo comunque sempre ferma la barra dell’etica: poiché, leggiamo, anche “la fame di feroci fiere / fomenterà forme di futuro”, per cui l’alfabeto delle miserie potrà generare nuovi inizi: come scrive Francesco Fedele, “Attraversiamo questi acquitrini / di asociale assenza di altruismo / accendiamo altro avvenire” che sarà irrorato “di idee innovatrici” e in cui si gioirà “delle gemme / che germinano nel gelo”.
Quando lo sguardo del poeta sceglie un segno o anche solo un suo visibile ritaglio, muovendosi lentamente in una direzione prospettica che coglie quel particolare dell’ immagine, con nitidezza leggera e, nello stesso tempo, con attenta percezione visiva dello scrivere, allora reale e sogno si uniscono in una visione in cui la certezza di ciò che si vede non si disgiunge mai dalla parola che, con lo stesso andamento immaginifico, ne dice la forma sostanziale e significante.
Così in questo poemetto Paolo Donini vede scrivendo, con un pensiero poetante che si fa voce e figura. Ma in ciò non c’è nulla che assomigli a certa poesia descrittiva che ingenuamente si limita a descrivere il veduto. Qui la ricerca di lampi di trasposizione in continua immersione ed emersione sta nella verosimiglianza interiore alla percezione e al senso di conoscenza. La consapevolezza dell’autore (il titolo ne è testimone) si evidenzia nel mettere al centro della formazione dell’opera, più che l’osservazione, la conformazione di un accadimento reale anche nella misteriosità della sua esistenza.
Il mondo indagato che Mise en abime ci propone è un vortice lento di manifestazioni concrete, ma viste, e ancor più dette, come guardate in ascolto dalla parte ombrosa, sfumata, un po' sfuggente e sfrangiata , come “una cosuggia nera” che “passa sullo sfondo”. E allora sarà perché la percezione di ciò che si legge affonda e riaffiora nell'esempio accolto, intorno a cui ruota l'architettura intima del canto, e cioè un quadro di Bruegel il Vecchio; o forse perché da questo pullulare di vita in movimento statico, fissato ma non bloccato, non muto sulla tavola dipinta, emana una pensosità interrogante sulla totalità dell'immagine e, non disgiunte, su minime particolarità considerate, con inventiva esattezza, lì “dove niente resta uguale”; sarà per l'impressione e il sentimento di lento fluire verso un “unico niente”, in ogni caso, e per ogni considerazione, la scena che noi leggiamo manifesta l'ondulazione continua di un'opera che, attraverso l'autore, tenta di assorbire l'inquietudine di una perdita e la stupefazione che un paesaggio reale, proprio perché, mentale e poetico ci presenta. Un paesaggio dove l’inverno, rappresentato dal quadro, è metafora costruttiva di un biancore che attraversa il sintagma luminosamente oscuro di un panorama velato, ma dove basta un bagliore per, se non disvelare, almeno rivelare la meraviglia di un segreto che tale rimane: la dimensione particolare, in punta di pennino, del luogo. Ma è ciò che non si sa che continua a girare dentro la pagina, a infiltrarsi tra le parole, nel loro andamento errante e a non permettere, apparentemente, lo sviluppo di un vero inizio e una reale continuità. Ma il senso è proprio in questa ricorsività, sempre diversa nel suo ritornare e stare sulla “soglia non della voce/ma del silenzio”, dove forse ogni suono cadrà, svuotato, senza che se ne possa avere coscienza; o forse rimarrà solo un fugace sentire: quello che permetterà ancora la vita della poesia, nonostante l’autore ci dica che “le nostre lettere sono tutte incipit/del poema che mai venne”.
Una poetica enumerazione
Vittorio Ricci presenta un componimento (la cui prima parola, non a caso, è “palpiti”) che mostra un susseguirsi di pronunce poetiche sinuose e coinvolgenti.
Quale il senso di simile versificazione?
Siamo forse in presenza, per citare l’autore, di un
“Emblema, bersaglio di un segreto sproposito …”?
In effetti, un sospetto del genere può sorgere nel leggere questa fitta sequenza di versi e vocaboli uniti da cadenze assidue, collegate le une alle altre come onde del mare che si susseguono.
Un oggetto, tuttavia, a mio avviso emerge: è il tutto.
Il tutto dell’umano esistere, terrestre, cosmico, reale, astratto, emotivo, sentimentale, perpetuo, effimero: potrei continuare la serie degli aggettivi fino a esaurire il dizionario.
E, forse, proprio di un tentativo di esaurimento consapevole del suo impossibile perfezionarsi, in questo caso, si tratta: l’immensità non si può dire come tale e nemmeno nei suoi singoli componenti.
Siamo, insomma, di fronte a una sorta di poetica enumerazione conscia di non poter giungere alla fine e, nondimeno, risolutamente decisa a mostrarsi senza esitare.
Non importa esaurire, importa dire.
Si legge, verso la fine della poesia:
“fuggitivo il delitto di uno squadernio di scintille
abbacinanti nel mar dell’essere che essere tace
insu trasfigurati orli o opere del tremore perpetuo,
senza febico responso, senza vaticinio”.
Direi che proprio in quel “fuggitivo” è racchiuso il senso di un articolato e denso dire in perenne movimento, sempre consapevole, tuttavia, di come le immagini e le parole costituiscano brevi ma durevoli soste la cui persistenza è misura della stessa umana vita.
Un’umana vita non certo esaurita ma poeticamente ben rappresentata.
Inusuali traguardi
Con “In – morte di Laura G.V.”, Paolo Ferrari presenta una raccolta dalla fitta persistenza verbale, accompagnata da intense immagini astratte.
Il primo verso è esplicito:
“Insidiosa realtà capziosa”.
Il poeta avverte la “realtà” come insidia: la realtà o il linguaggio degli uomini?
Ambedue, perché, per il Nostro, il dire e il vivere sono inscindibilmente congiunti in un idioma ricco di luci e ombre, di pieni e vuoti, di gioie e dolori, di visioni e cecità.
Paolo non si preoccupa di distinguere e, consapevole di come ogni parola implichi già di per sé una differenza, s’impegna nell’accostare pronunce e singoli vocaboli al fine di produrre un vivido senso.
Le sue cadenze sono precise e le sue immagini, nella loro policroma astrattezza, rimandano a uno sfingeo quid.
Il tempo, in particolare, è oggetto del suo interesse, come emerge dai versi:
“sotto la corolla e la zampa
del tempo”
e
“Arrotolandosi la storia sopra se stessa”.
L’esistenza, senza dubbio, è scandita dal tempo, ma quest’ultimo non è sempre uguale: ogni istante ha una sua irripetibile fisionomia immersa nelle dimensioni individuali e collettive del genere umano.
Un genere umano al quale il poeta si rivolge in maniera appassionata, conscio dell’enigmatica compresenza del perché e del come: per lui, il nesso causale e l’affiorare di aspetti, lungi dall’essere rigidamente separati, si combinano in una dimensione idiomatico – esistenziale che, non pretendendo di spiegare la vita, cerca di renderla maggiormente conoscibile con l’atto del mostrarla in poesia.
Arduo compito che implica il raggiungimento di mete mai definitive, aperte su ulteriori itinerari e anche sull’assenza e sul nulla, ossia su
“quel traguardo
al quale mai fummo abituati”.
Una poesia civile
Con da “Olio santo”, Fausta Squatriti presenta un’agile e pregnante composizione in cui il secondo e il terzo verso
“profilo contorto sfinito
paesaggio senza pena terso”
gettano una sorta di assertiva luce sull’intera poesia.
Siamo al cospetto di un “paesaggio” evidentemente deturpato eppure “senza pena terso”, ossia di un’ “ultima frontiera” che induce a riflettere sulle condizioni di una natura violentata ma ancora capace di mostrare se stessa.
Volendo interpretare la suddetta pronuncia in maniera differente, si potrebbe pensare a una sorta di provocazione secondo la quale il “profilo contorto e sfinito” si mostrerebbe, ormai, come dimensione ambientale tout court, forse non accettabile ma, purtroppo, usuale: siffatta lettura annullerebbe ogni possibilità di fiducia, sicché non resterebbe altro da fare che attendere l’inevitabile catastrofe.
Il tono di denuncia civile del componimento, però, invita a una presa d’atto la cui conseguenza non può certo essere una pessimistica attesa: qualcosa, nonostante tutto, si può fare, anzi si deve fare.
Il mondo c’è ed è com’è e da qui, soltanto da qui, occorre ripartire: le responsabilità sono evidenti, ma proprio perché tali mostrano in maniera chiara, a tutti, la via che occorre intraprendere.
È da notare come il testo non propenda verso facili toni di protesta sociale e politica, ma si svolga secondo efficaci pronunce descrittive che tendono all’equilibrio piuttosto che alla scompostezza: un equilibrio non solo formale ma, vorrei dire, anche sostanziale, poiché, per risolvere un grave problema, occorre, innanzi tutto, accorta fermezza.
E la pregnante agilità di cui parlavo all’inizio riflette, a mio avviso, proprio un’esigenza di assidua, equilibrata perseveranza: questa poesia, insomma, non si limita a rappresentare un grave problema ma mostra anche l’atteggiamento utile a risolverlo.
I versi in esame si possono definire propriamente civili, poiché il loro parlare è già, anche, indispensabile qualità del fare.
La parola di Fausta, insomma, esiste davvero.
Il tempo del sempre
All’inizio di “Le ceneri di Adriano”, articolato ma agile poemetto di Maurizio Solimine, si leggono i versi:
“d’Adriano accennano e numi
delle fronde stordiscono l’argilla
della campagna. È l’ora che assorta”.
L’efficace immagine centrale, quella delle “fronde” che “stordiscono l’argilla”, è come compresa tra due pronunce che ne delimitano l’aspetto linguistico e, vorrei dire, narrativo: tale andamento poetico, che procede per raffigurazioni collegate secondo una grammatica del racconto, è proprio di una versificazione che nel richiamo ai poemi classici trova la sua ragione di essere oggi, all’inizio del XXI secolo.
L’antico non diventa più moderno, ma attuale, poiché il ricordo è presenza che si mostra e persiste.
Due versi, a questo proposito, paiono significativi:
“a vincere l’abisso sulle membra
sparse nei mille secoli a venire”.
La poesia vince l’abisso del tempo?
Direi, piuttosto, che ne attraversa, noncurante, le trame.
Da qui, un tono che ha, nello stesso tempo, il sapore di allora e di ora, consapevole di esserci stato e di esserci.
Sorprendente ed enigmatico è dunque questo componimento che sembra raccogliere, con naturalezza, quello che in poesia è stato fatto da più di duemila anni a questa parte.
D’altronde
“il mondo passa, quale crudo nome
è quello del presagio che non torna?”.
La predizione che “non torna” ha un nome “crudo”, quasi l’incuranza del tempo nei confronti delle azioni e dei pensieri umani fosse crudele e non del tutto naturale, ovvia. Viene, perciò, da chiedersi: la sabbia che scorre nella clessidra è del tutto estranea alle nostre vicende? Non è essa stessa una nostra invenzione?
Abbiamo dunque inventato qualcosa che non tiene conto di noi?
Domanda sottesa a un intenso poemetto la cui chiara leggibilità fa emergere in maniera implicita, ma non nascosta, un misterioso quid che riguarda tanti aspetti della nostra vita.
Conoscere, talvolta, è prendere atto di un enigma senza tentare di risolverlo: il nostro poeta lo sa bene.
Anna Maria Dall’Olio introduce il lettore alla sintesi di un metatesto, posto al confine, al quadrivio, tra esperienza estetica, etica, arte, forma poetica.
Quattro angoli che sommati generano una sorta di grado ultimo delle possibilità espressive.
In questo frangente di vita estetica l’arte penetra l’etere del mondo / il pianeta s’annuvola di bello.
Il mezzo testuale usato consente gli scarti semantici che caratterizzano la poesia, quando “libera” diventa al verso successivo “libra”, oppure dove una diagnosi è anestesia da estasi.
E’ presente nel testo una sorta di discontinua continuità tra quello che l’arte è e quello che l’esperienza artistica dovrebbe rappresentare; sono evidenti sia il contrasto alle riflessioni critiche autorefenziali, sia la proposta di un rapporto diretto con l’opera.
C’è infatti, espresso con la tensione generata con l’andare a capo della poesia, il grande tema della fruizione dell’arte che per l’autrice dovrebbe avere destinatari interagenti; questo stesso tema si propaga e si allarga anche a chi la produce, fino al monito “di fronte al frutto del lavoro estetico / l’arte non fugga non s’apparti”.
La poesia di Renzo Piccoli, innestata nel clima di una lunghissima norma poetica, si sviluppa per accrescimento continuo attraverso un incessante aumento del senso.
L’autore agisce con sempre nuove stratificazioni, quasi come in un crescendo musicale; a differenza di questo, il crescere non è dei toni ma del senso complessivo dell’opera che sempre più si approfondisce e scandisce, come il flusso di un lungo assolo, una complessa sinestesia.
Questo accumulo costante di materiali nello stesso tempo allarga le prospettive, le percezioni e lo spazio vitale della poesia.
“l’attinenza d’un fare / nell’estensione delle complessità” sono due versi esemplari del procedere.
Dalla “nudità delle cose”, attraverso “l’ubiquità dell’assoluto”, Piccoli ci guida presso la “versatilità affabulata d’una mimesi”, ci tratteggia un iter poetico che si radica, per i materiali trattati, nei nostri strati più profondi.
C’è una velleità morale in questo testo, una tensione che si accentua, una paziente ricerca del filo del discorso, “d’un senso dell’agire”.
La poesia di Roberto Perotti porta con sé il senso dell’infinito, la trama del continuo ritorno.
Si pone come l’oggetto espressivo di una prossemica spaziale.
Ci induce a far di conto con il dubbio, ci conduce a immaginare un destino di domande senza risposte.
E’ come se l’autore si fosse posizionato in un punto indeterminato del cosmo e da questo punto osservasse il ritornare della storia, il passare delle epoche, l’incommensurabilmente grande e i minimi accadimenti quando diventano scintilla.
Più precisamente, “una scintilla che dipana / una storia”.
In questo testo si offre un fermo-immagine dell’evoluzione, una personale meccanica celeste, una luce dentro una prospettiva, un respiro o, per citare Perotti, “una favola di frammenti continuamente ricomposti”.
Il poeta, quando cerca, trova alleati dappertutto; incontra cose e situazioni talmente vere che accadono solo in un testo poetico.
Il mondo emozionale di Stefano Iori restituisce frammenti di vita poetica, dubbi, certezze, incertezze.
In questa poesia c’è un modo dello scrivere che parte dall’ordinario per trasfigurarlo, che cerca di superarne la barriera.
La rimozione della punteggiatura e degli spazi tra i versi, pur mimati dalle riprese in maiuscolo, testimonia la ricerca di un flusso ininterrotto anche se all’interno franto.
Lo spazio poetico che l’autore rappresenta è distribuito tra l’osservazione della realtà e l’aspirazione a un reale strutturato dal pensiero.
C’è inoltre la volontà di compiere uno dei più importanti lavori del poeta: liberare la parola dalle incrostazioni che derivano dall’uso quotidiano e utilitaristico che ne fa la comunicazione di massa, tentare di salvare la lingua sotto costante attacco: “Trascrivo parole / di seguito / sole / ... / pulite infine” ci dice Iori.
L’impeto a raccontare la propria infanzia non può che avere un unico senso in Maria Pia Quintavalla: ricrearla con la preziosità dell’ideato, con l’impalpabilità che solo la poesia consente, con la lacunosità che riserva alla concretezza dell’esistenza, creando un magazzino eterno, da utilizzare come miniera. Ciò che avanza, dunque, per il presente e i futuri anni, è il tessuto del ricreato, che viene ulteriormente arricchito dalla descrizione delle opere d’arte di Parma, teatro dell’esistenza e della rappresentazione.
La figura del padre, centrale in tutta la silloge, è restituita tracciando i suoi gesti quotidiani contro uno sfondo d’eternità tramite il marchingegno dell’alone misterioso, che rende vaghi, non ancorati, i concetti, anche tramite l’accostamento con un tempo storico altrettanto inaccessibile all’analisi: “Spazzava ogni giorno la cantina, / poi non la spazzava più; / non le cose rimaste deflagrava, ma / era sangue rappreso, era la polvere”. Il tempo del ricordo diluisce la cronologia e tende a rendere simbolici gesti, azioni, oggetti, periodi. In questa sorta di sospensione, risalta il solo elemento spaziale, che anzi diviene vera e propria macchina rappresentativa. Riassunto il tempo in una dimensione indifferenziata, nel contenitore parmense, si accende il faro sull’invenzione dell’interiorità, che si snoda quasi come un film muto.
D’altronde, lo stesso futuro, seppur soventemente citato, non può avere più valore di un desiderata. Il greve pondo dei ricordi trascina in basso, verso le sedimentazioni e le registrate cose, non quelle a venire: “come se fosse intatto il tempo, / l’eterno tutto qui insepolto, / fresco di mondi / / indelebili futuri”. Vivere le storie, che tramite le opere d’arte sacre sono percepite come fossero il più vivido presente, rende sacre anche le vicende personali, ma non sarà ancora che a causa di un uso indifferenziato del tempo, il quale non influisce per similitudine, quanto innescando un prosciugamento interno. Il tempo dell’individuo collassato sul tempo cosmico rende accettabile anche la morte delle persone più care, e soprattutto scolpisce nella retina la turpe vicenda dei campi di sterminio, accadimento anch’esso privato del suo scorrere temporale, che stende un’ombra lunga sull’intero genere umano.
La fitta, irrinunciabile conversazione, istituita dalla voce di Lorenzo Gobbi, nel suo La gioia è un turbine di quiete è rivolta a più interlocutori: che siano Layla, un amico o Dio, non importa quanto la messa a punto di una parola polimorfica e metamorfica, poiché se le poesie iniziano col nominare un interlocutore, finiscono – e nel passaggio si fanno figure, ritornano suoni, si materializzano si desostanziano – col parlare anche a tutti gli altri, pubblico compreso. La parola, in questo processo di allargamento della platea, se in tal guisa si diparte da una situazione confidenziale, spesso generata da semplici osservazioni, quali possono essere la visione di steli d’erba o di un volo di rondini, tende a coinvolgere aspetti più generali, fino ad assumere una valenza che tende all’universale: “Testimoniano per me / le tue promesse – la sostanza / d’ogni cosa è questa Pasqua / questo mare aperto, questi / fiori di bianchissima speranza”. Se le domande sono rivolte all’Altissimo, il tessuto che le sostiene è nella vita, nel contatto delle mani, nel sostegno degli sguardi, nel profumo dei fiori. La delicatezza con cui Lorenzo Gobbi rilancia la posta non deve far credere a una sorta di flebile posizione, poiché forte e tenace è la volontà di perseguire il cammino poetico ed esistenziale. La ricerca ha come scopo l’obiettivo di meglio conoscere per meglio abbattere i limiti tra il sé e l’altro, tra il corporeo, il mentale e lo spirituale, tra ciò che appare e la sua essenza. La natura si configura come un al di qua che simboleggia l’al di là. Nella pace avvertita nella fertile pianura estiva, “questa pace, là: nell’alto, / negli eccelsi luoghi dove tutto / è un’opera di vita”. Eppure, non è colloquio che procuri pace, se ne sente il rovello, lo scavo inesausto, preghiera recitata senza sosta, quasi supplica, di cui tanta letteratura mistica ci ha mostrato la difficoltosa registrazione. Il ruolo della fede s’individua nel porsi ogni giorno domande, anche sul nome di dio, come avviene nella riflessione ebraica: “io vorrei di lui, non so / da dove scenda il Nome”. I misteri rimangono misteri e la morte, il dolore, lo scorrere inesorabile del tempo, intessono i dialoghi, che vedono già solo nel loro istituirsi la somiglianza di ogni cosa con ogni cosa, disegno unitario che se la poesia non può esaurire, può però movimentare.
In Davide Nota il rapporto con la storia che illumina i comportamenti umani, i suoi strumenti, i suoi limiti è centrale, quanto impietoso: la critica viene indirizzata verso se stesso, ma sta per la società tutta. Dopo aver riconosciuto che la ragione può quasi nulla rispetto alla forza della storia, l’azione è ricondotta verso un ripiegarsi su se stessa, “dove solo l’incoscienza, immune / da ogni nuovo strategico diniego / di scienza, riconquista la sovrana / vitalità dell’atto, oscuro lume… “. Il balzo al sesso è immediato, e immediato il suo legame con la prostituzione, a ciò che, comunque, riconduce ad animale stato: “in cui s’accorge di fuggire al senso / spaventoso di sua vita ignora / il tutto e oggetto fattosi onora / in implacabile banchetto carnale / l’anale suo destino d’animale”. Sarà poi alla madre, che Nota destina l’appellativo di santa. Nei nitidissimi quadretti di quattro versi che sanno delineare immagini che hanno l’icasticità di simboli del vivere attuale, è ancora la ragione, seppure in controluce, ciò a cui Nota attribuisce soluzione, costruzione di senso, valorizzazione: “Ma no, non è la produzione industriale che mi terrorizza / ma le finalità mancanti!”. E la ragione è appunto l’antidoto, l’unico possibile. E, d’altronde, se “No, non sono le occasioni ma le finalità / che mancano, le ragioni...” non si vede come esse possano nascere da occasioni di vita spesso marginali o compromesse. Assediato dal vuoto, enuclea situazioni del male di vivere, di cui il corpo si fa immolato messaggero: “mostrando seni da ormoni / gonfiati, siliconati, calze in nylon sopra mascoline gambe e labbra dure, / brasiliane, pronte al male”. Forse la critica è sufficiente, ma d’altronde la promiscuità che il corpo ha con la mente, mette in dubbio l’intero progetto: “l’oggi / è quanto resta, scoria / che la fuga della storia elude: un perizoma”. Tuttavia Davide Nota rilancia, disegna scenari che a questo vilipendio subìto/prodotto dalla carne si sottraggono, tratteggiando, appunto, situazioni di ribellione al degrado e all’ingiustizia e rimarcando che finché c’è coscienza critica, c’è opposizione. La silloge, che raccoglie poesie che vanno dal 2002 al 2013 si fa nel prosieguo più sonora, lieve, quasi che il peso delle cose nel fluire della storia sia, non maggiormente sopportabile, ma rimembrante. Nota, interrogando il passato con mesta cura, sia il proprio io sia la dimensione collettiva, si fa portavoce di messaggi che ritiene importante non vadano perduti, cerca nella morte dei soldati e nelle figure parentali una voce intorno a cui sia possibile l’agglutinarsi del vero: “Di fronte a questa storia / anche il sole si incrina”.
Leggiamo la prima sezione della silloge Gamete, intitolata Eliaco, come se fossimo immessi, dalla voce autoriale di Osvaldo Coluccino, nell’atmosfera dei quadri di Poussin. Il lessico ricercato, aulico, introduce in un’atmosfera rarefatta, dove la particolare consistenza della luce, dorata e senza tempo, sembra essere il personaggio principale e i convocati - personaggi mitici - paiono avere la medesima aerea consistenza: “Bevuti in un soffio, di parca reale / Fattezza, al lago tranquillo velati, / Fili opimi al limitare del bianco.” Sonore reminescenze, le definiremmo, visioni suscitate dal registro linguistico anacronistico (dove anacronistico ha necessariamente funzione strumentale) atte a dipingere una scena, a creare un’ambientazione. A partire da questo evocativo fondale, si può risiedere atemporalmente sulle due opposte sponde di un medesimo fiume, e vivere nella cultura, riattualizzandone le opere: si può vivere, dunque, in un’altra epoca, farla propria. Nella sezione che dà il nome al libro, la narrazione sembra avere uno svolgimento solo al fine di ottenere un immoto quadro. Scrivere come se si dipingesse, scrivere per dipingere, in realtà: “La nave è assente ma le spume / Più ardue paiono di gemma”. Tuttavia, con un gusto particolare: quello che scorge nelle analogie, quasi una prova dell’identità comune: “La salvia si conosce nel corallo. Sposalizio”. Quale sarebbe, infatti, il discrimine? La soglia che consenta di affermare: qui c’è una cesura, la differenza tra mitico e reale. Oppure che consenta di chiedersi: vivo in quest’epoca? Se la propria interiorità può assumere persino cangianti forme mitiche, è possibile! E l’autore trascina con sé, inevitabilmente, il capovolgimento come figura principe a cui sottoporre il senso per attivare l’intero arco semantico: “È un’apparizione strana, di me stesso, qui / Più che in altre balde epoche, direi / Se non fosse improprio, capovolto”. In tal maniera, l’io appare immerso in una congerie d’immagini classiche e rinascimentali, in cui alcune parole, nel flusso testuale rullante, appaiono come intoppi temporali: “Slancio di cui la famiglia si fregiava / Fu scolato umore a non fargliene fregare. O acque mute, ove l’abito da eroe / Che lo tramutò in subacqueo, erodeste?”. Così forse non crediamo all’uso dei simboli profusi nel testo: la torre, il leone, la fenice, le ali, la coppa, la nave, il vento. Non crediamo siano da decifrare, ma lemmi che al pari di navicelle, ci possano dislocare altrove, da cui lasciarsi trasportare.
In Maria Grazia Calandrone, il linguaggio si fa simbolico, o frammentato specchio in cui parole si accumulano per un’urgenza interiore a cui non si deve chiedere logica sequenza, mentre fermo e integro risulta, invece, un contemporaneo accorato rivolgersi che tiene le redini del discorso poetico e guida il lettore per selve visionarie, pure quinte teatrali le vorremmo definire: ma questo filo non è nemmeno esso lineare, pur mutandosi, in un solo tornante, nel suo opposto, lucidamente disegnando le sponde di vorticanti descrizioni. Così, la Calandrone individua, nel suo Serie fossile, due livelli di espressione delineanti mondi irriducibili: il corpo della poesia, la descrizione vera e propria che articola sensazioni, percezioni, sinestesie, innesti tra l’io e il dato empirico e il contrapposto mondo interiore tenuto distinto, appunto, da quel filo rosso – in realtà avente la marcatura del corsivo sulla pagina – in cui ci pare quasi di riconoscere la voce dell’autrice, nel senso di una vera e propria messa in scena, quasi in una sorta di supplica, affinché si svolga un dialogo, che abbia valore di condivisione, che assomigli a un placebo, qualcosa che plachi il desiderio, che esaudisca la conoscenza, che serva da fondamento per tutti i piani dell’espressione. E dicevamo che questo filo esprime qualcosa e, contemporaneamente, il suo contrario: “metti il dito nel solco del tuo cuore, indicami” e “ per favore non dirlo, chiudi la bocca)”, mentre il corpo della poesia accumula definizioni: “hai una debolezza di spiga, / muscoli di cavalla, un’arsura / di sabbia calpestata / nella spina dorsale / e un solco di aratura”.
Preleviamo dalla poesia Fossile, un altro esempio di filo rosso: “– sarebbe riduttivo dire amore / questa necessità della natura –” incistato nel seguente tessuto: “usa la bocca, sfilami dal cuore / il pungiglione d’oro, / la memoria di un lampo che ha bruciato la mia forma umana / in una qualche preistoria”.
Se logica non s’innesta con visione, se percetto non s’accorda con immaginazione, la spola che tesse la poesia di Maria Grazia Calandrone, inesausta, dipinge un mondo fantasmagorico e ferreo ove il linguaggio non ammette vie di fuga, né consente vie di salvezza, se non appunto l’incessante percorrenza.
Una delicatezza che nasce dalla semplicità e dalla sintesi, dal parco uso delle parole, dalla calibrata aggettivazione con cui ogni lirica ci dispiega dinanzi agli occhi il racconto di memorie e percezioni. La parte che sta per il tutto, grazie alla capacità di individuare un’immagine che riassuma in sé una tramatura d’essere con le sue lacune e il suo senso alleggerito o latente, ma che valga come un simbolo dell’intero e che, dunque, sappia anche sostenere il peso delle cose concretissime, arse, assetate, o infitte come oasi nel mare dell’inconsistenza. Se tali immagini risalgono ai ricordi d’infanzia, esse però sono restituite come fossero l’unica dimensione riconosciuta e individuante della propria personalità: “quando imbastivi i vestiti per la festa / spezzavi il filo con i denti davanti / nel medio indossavi sempre il ditale / appariva regale la tua mano vestita”. E regale resta per sempre, senza che sia fissato il metro di confronto in una realtà esterna, radicalmente altra. C’è dell’assolutezza in questa poesia: un valore che sembra risiedere in un marchio, anche qui legato al dato geografico e climatico, dove oltretutto la cultura, in terra siciliana, è questione di mescidazioni tra quella greca e quella araba e, dunque, subito deponente il concetto dell’ideale incorrotto. Ciò che pertanto sembra facile, per la sua peculiare freschezza, si mostra nella sua veste barocca di dato complicato, da decifrare, anche solo col fine di voltarlo per vedere quale sorpresa riservi il verso. Il recto, fisso e come scolpito in una luce meridiana, assolata, è scavato da una sintassi quasi avara, scabra, ove si sente che il poeta incide, rastrema, filtra: “lo mantiene dritto un bastone / come certe viti invecchiate / sollevate da terra a fatica”. Ma sovvengono anche certe prove di scuola francese, (si pensi alla prosa di un Ponge) ove si tenta di liberare le cose da un linguaggio che inevitabilmente le incrosta: “il cane la precedeva marcando il territorio / la vecchia sovrastata da un fagotto di stoffa sbiadita / entrambi ritornavano poi verso la casa diroccata”, anche se qui più potente risulta essere lo scavo: quasi da graffito su rupe, in assolato deserto.
Il testo sembra sembrerebbe una sorta di wunderkammer, se non raccontasse di un viaggio esistenziale. O la scena di un luogo appena abbandonato, ove al suolo, in maniera disordinata, siano restati piccoli insignificanti oggetti: piume, corde, ragnatele, fili, foglie, corolle, pietre, i quali richiamano alla mente concetti legati all’organico e al geometrico: distanza, nascita, crescita, perimetro, figura, equilibrio, ritmo. Il meccanismo d’innalzamento della struttura testuale sembra essere ottenuto tramite l’accostamento di tre o più nastri a velocità differenziata, per cui parole che facciano parte di un nastro vengono a trovarsi allineate a quelle di altri nastri. Potremmo pensare a una sorta di slot machine. Ecco, dunque, che vediamo scorrere sulla pagina aggettivo, sostantivo, verbo, i quali pertengono a diversi contesti semantici: naturale o astratto o antropologico: “ nella ruga / convessa lo strumento / di tramonto” o ancora “del ginepro / dura / lo smalto d’occhio”. E non è un caso che verbi o aggettivi concordino soltanto se appartengono al medesimo nastro. In questo modo, solo apparentemente si libera il linguaggio, aprendolo alla casualità degli allineamenti: l’operazione, benché liberata da certe costrizioni, è tuttavia imbrigliata in altre: si pensi qui alla ricchezza di certi limiti imposti alla pagina dal movimento dell’OuLiPo (che utilizzava, appunto, tecniche di scrittura vincolata detta anche a restrizione). Ma va anche aggiunto che tale scelta riguarda non solo il guadagno di una maggiore mobilità rispetto alle regole linguistiche e sintattiche (si pensi all’assenza, nella totalità del testo, di apostrofi e punteggiatura) ma anche la libertà d’azione rispetto alla congruenza delle associazioni semantiche: “ crivellando lo scolorire / dello / sgranarsi” oppure “l’acquisto che sfibra / le colonne del / perdurare”. Siffatti accostamenti concernono anche i significati contraddittori, nel senso in cui, ad esempio, ciò che non ha sostanza viene crivellato e ciò che non ha fibra viene sfibrato a testimonianza del fatto che, per Pasquale Della Ragione, l’attacco al sistema è possibile grazie all’utilizzo di paradossi con cui se il linguaggio ci intrappola, il linguaggio ci libera.
Nelle scritture di Lia Rossi le parole emergono -come boe salvifiche, da un ipotetico caos- prepotentemente misurate all’interno delle geometrie di ogni pagina.
Sono parole del quotidiano che qui si liberano del tono dimesso a loro solitamente proprio per ridefinire usi e spazi: “una camera chiara il sogno/in segreto il segreto inonda l’acqua/crescono sui tetti le stanze…”.
Accuratamente posizionate nello spazio della pagina, sintatticamente asciugate fino all’essenziale, nella perdita di ogni narrazione, le parole “stanza”, “tetto”, “strada” si slegano dei loro confini fisici strutturali per assurgere ad altre mete: “ il tetto sul tetto la terra in terra la notte/nella notte iridescente strada sulla strada/la casa in casa”.
C’è una profonda fisicità negli spazi generati da queste scritture, pareti friabili di parole con all’interno spazi candidi di silenzio. Ed altrettanta fisicità nei ritmi che le parole generano specie quando ripetute in una cantilena telescopica: “..in una torre nella torre tra parentesi/converge) va l’infinito lentamente”; i tempi sono quelli del respiro, del battito del cuore, a ricordare che ogni ambiente è tale solo se abitato.
Miro Gabriele scrive in forme regolari, con molta attenzione alle metriche, ai ritmi interni, agli equilibri sonori. Ci sono spesso rime, non sempre esplicite, allitterazioni e assonanze (“Altra difficile dolcezza invernale/amore al buio, luce insostanziale…”) ma anche, talvolta, un uso assai disinvolto dell’enjamblement; il tutto totalmente asservito ad evidenziare il senso.
Ed è chiaramente merito di una rigorosa formazione classica, proficuamente applicata alle traduzioni del classici latini, ma anche ampiamente digerita e consolidata, se tutti questi aspetti formali nulla tolgono al piacere della lettura dei suoi testi.
Al di là degli aspetti strutturali, è interessante la prospettiva percettiva che emerge da questi versi. Che si parli di città antiche o moderne, di paesaggi umani o esperienza interiore, ciò che viene descritto in poesia si trova all’interno di uno spazio totalmente soggettivo o, al massimo, in quella zona di confine subito prima della totale, oggettiva e aliena presenza del mondo esterno: “La riconosciamo è un’abitudine/in quest’ora sottile in riva al mare/la stessa ansia in me e in te d’una misura…”.
Davide Argnani è poeta di lungo corso e di grande esperienza.
La lingua della sua poesia è caratterizzata da rigore e coerenza, e questo libro ne è testimonianza diretta.
Spesso le scritture hanno un inizio leggero, quasi colloquiale, sviluppandosi in seguito in potenza evocativa, nella forma e nel lessico, “Cammino a moscacieca lungo le sponde del tunnel/qui la farfalla sventola ali agli intrecci degli angoli/s’incunea il rettile nei labirinti del sottosuolo…”. Ritmi lunghi, metriche decise e regolari, con pochi, meditati squilibri ad accentuare il senso, ma anche a sottolineare la frequentazione quotidiana ad una poetica delle grandi emozioni del vissuto umano (nostalgia, dolore, abbandono, amore).
È una scrittura che spesso ricorda le forme delle arti figurative (paesaggio e ritratto), dove lo sguardo cristallizza la scena fermandone uno specifico istante, per poi subirne l’inevitabile assalto: “ora ho voglia di piangere sulla terra secca dei miei occhi/… sulla sabbia un segno dov’è stato il corpo…”. Così i versi, più che restituire la specifica scena, danno conto della sua naturale, violenta risposta a qualsiasi osservazione.
La poetica di Luciano Mazziotta si esprime con successo in questo libro sia in poesia che in prosa poetica.
Accomuna i due moduli espressivi il ritmo volutamente incostante e a tratti convulso, un linguaggio lucido e di estrema concretezza e una narrazione vagamente teatrale, con spazi scenici ben delimitati: “Succede che qualcosa si rompe/che si sgretola il soffitto sul sofà/appena intravisto nell’atto/di cedere, di essere cenere/bianca: crepa.” o anche, in prosa:” e lo dicevo infine. e lo ripetevo a me stesso di essere qui. E, chiudendo la porta, ero in un’altra città”.
Tratto distintivo dell’operazione poetica è la misurazione di una data realtà, ben identificata e ordinata, scendendo progressivamente e metodicamente al minimo particolare, con un accanimento da “osservatore seriale”: “e lei continuava, dicendo, che berlino era un balocco e che tutto sarebbe rimasto in quella città, che non avremmo potuto dirlo a nessuno se non agli specchi e un riflesso che parla non fa una realtà.” o anche : “Preni ad esempio la Karl-Marx-Allee:/compatta, compatto è l’asfalto:/non ci sono buche né vuoti/gli edifici non ammettono fughe/né pause, se pausa è un salto tra i tempi…”.
Operazione riuscita, con grande coerenza espressiva e senza cedimenti.
Marco Sonzogni pratica la poesia in modo consapevole e tutto, in questo libro, testimonia della profondità dei suoi studi e delle sue frequentazioni letterarie.
Nella sua scrittura troviamo poesia in metriche di vario tipo, a volte in rima classica: “Non temo la notte ma l’indifferenza/ho sempre perseguito i miei sogni./Mi ha sempre sostenuto la pazienza./Ho sempre ascoltato i miei bisogni.” e piccole prose ma anche brevi omaggi e brani “alla maniera di…”, spudoratamente segnalati dalle citazioni: “E viene e va e torna e si resta/in balia della terra che trema…”.
Segnali certi di una meditata ricerca da cui risulta anche un elevato grado di dominio della materia linguistica.
L’oggetto principale della sua poesia è una narrazione dell’esistenza vista esclusivamente dall’interno del proprio essere in una sorta di egocentrismo poetico: “Basterà quando non ci sarai/più il tuo nome tra le litanie/a riparare ogni mio misfatto?”: non solo i fatti straordinari e i luoghi esotici, ma anche il quotidiano, i gesti dell’abitudine, nel loro rapporto viscerale col corpo fisico del poeta, diventano un’epica senza compromessi: “Per lavarmi la faccia/sopporto sì/queste mie mani/così piccole sono/scusa perfetta di pianista fallito.”.
La poesia di Maddalena Capalbi parla lucidamente e sapientemente di violenza.
Si tratta di una violenza a prescindere, storicamente documentata, ingiustificabile, con un unico e inevitabile bersaglio. In essa non c’è niente di spirituale o teoricamente collocabile; è solo cieca e fisica. È contro il corpo della donna, e vi si accanisce fino al più definitivo epilogo: “…per questo hai abbracciato/i seni con rabbia/e pazzo d’amore/li hai riempiti di fori.”.
Ogni poesia è rappresentazione e narrazione di una storia e di un personaggio, svelando ognuna una diversa declinazione della stessa ingiuria.
La lingua che la svela ha sintassi essenziale: “…La bambina si difende dal terrore di essere snidata…”, ritmi a volte incalzanti: “Non serve la croce che ciondola/per leggere i desideri volgari”, ma più spesso distesi e musicali, a dispetto della crudezza delle parole: “Aveva le mani nel fango/e i capelli attorcigliati,/ancora vestita…”.
Ma l’abilità poetica della Capalbi si dimostra soprattutto nella capacità di usare e gestire un lessico necessariamente molto duro e aspro mantenendo nei versi una potente ed evocativa coerenza sonora.
Memento mori, 2014
Memento mori sta ad una fase di ricerca degli ultimi anni, nella quale mi sento libera di fare quello che mi piace fare, e il disegno è tornato tra le mie mani sempre più come una necessità.
Fiori, belli per eccellenza, ma da me "ritratti" con maggior piacere quando sono secchi, contorti, quando le loro venature, una volta perduto il turgore della vita, diventano precise come una radiografia, rivelando l'intima struttura dei loro fragili corpi. I colori virano verso inedite sfumature, i gambi si contorcono asciugandosi per diventare secchi, ed ecco che al mio sguardo tutta quella bellezza si è ben presto trasformata in un campo di battaglia, coperto di morti, feriti, ritrovati, riesumati, magari ancora ricoperti dalla calce delle fosse comuni.
L’estetica del dolore, della trasformazione, dalla carne allo scheletro, si serve della bellezza come facevano i barocchi per i loro Memento mori, raffinati promemoria della fine ultima del corpo come strumento della vita. Le ossa degli esseri animali ci attraggono e respingono, grandi composizioni estetiche sono state fatte con le ossa, e ancora ornavano chiese e cappelle, sarcofagi e capitelli. Al mondo vegetale si è riservata più leggerezza, diventando la mela bacata, la foglia secca, con il loro portato simbolico, un accenno meno drammatico alla malattia e alla morte, ma proprio perché nel mondo vegetale il dolore della malattia non è, se c’è, appariscente come quello del mondo animale. Ritornare a questi antichi inganni, per dire il vero più crudo, drammatico in modo intrinseco, senza il dramma aggiunto delle umane vicende, è la ragione di questi disegni di grandi dimensioni, dove la matita, impugnata come fosse uno stiletto tagliente, asseconda ogni piega, arricciatura o vena del fiore a modello.
Biografia di Fausta Squatriti (a cura di Ornella Mignone)
pubblicata nel catalogo edito da MANDRAGORA in occasione della mostra
SE IL MONDO FOSSE QUADRO, SAPREI DOVE ANDARE…
a cura di Elisabetta Longari
Gallerie d’Italia – Triennale – Nuova Galleria Morone
Fausta Squatriti nasce nel 1941 a Milano, dove vive e lavora. Alla mostra di Picasso a Palazzo Reale di Milano, nel 1953, ancora bimba, decide che diventerà un’artista cubista. Lo stesso anno all’Arengario di Milano alla mostra dedicata al disegno infantile c’è anche un suo disegno: La pezzente. Il suo professore di disegno Gianni Monnet, aderente al MAC, la incoraggia a iscriversi alla X Triennale Socota, Concorso internazionale per disegni di tessuti per arredamento. Sua madre, la scrittrice Lina Angioletti, giocherà un ruolo importante: introduce Fausta nel mondo dei suoi amici, da Quasimodo a Lucio Fontana.
Nel 1959 si iscrive all’accademia di Brera, dove si diploma nel 1963 con una tesi su Il metodo nella ricerca di Paul Klee; nell’estate del 1961 frequenta l’International Sommerakademie di Salisburgo, dove impara a usare l’acquarello sotto la guida di Kokoshka. La sua prima mostra milanese è del 1960, alla Galleria del Disegno, dove espone una serie di disegni astratti presentati da Roberto Sanesi.
Il suo coinvolgimento per l’arte è sempre più totale e con Sergio Tosi inizia a occuparsi di edizioni numerate, attività che porterà la giovane coppia a essere conosciuta internazionalmente per il loro lavoro tanto con grandi maestri quanto con i giovani emergenti. Sposa, quasi per scherzo, Sergio Tosi a New York in occasione della personale da Barbara Koz, è il 1969. Il libretto “The coud eye” pubblicato all’occasione da Sergio Tosi, con testo di Gillo Dorfles, è posto in vendita nei bookshop del MOMA e del Berkeley Museum of Art. Nello spazio dell’Art Lending Service del MOMA, sono esposti gli –intaglio- di alluminio. Fausta e Sergio, che andavano spesso a trovare Antonio Calderara a Vacciago, si innamorano del luogo e decidono di trasferirsi sul lago d’Orta. Man Ray regala loro il disegno per una fontana purtroppo mai realizzata. Come editori Squatriti e Tosi sono attivi dal 1964 al 1974, data che segna sia la fine del matrimonio che del legame lavorativo. Fausta Squatriti riorganizza la propria vita da sola, è il 1980 quando riprende a proprio nome l’attività editoriale. 1
Tra il 1964 e il 1965 nascono i primi cicli tematici: Bagno d’aria e La passeggiata di Buster Keaton. Sono dipinti ispirati alla spazialità tiepolesca in chiave pop, fanno parte delle opere le cornici di legno intagliato, un connubio buffo e solenne. Ripresi nel 1966, diventano teatrini tridimensionali, nel nero si muovono figure colorate. La strada verso la scultura è annunciata e si concretizza con le Sculture colorate. La severità delle forme geometriche è contaminata da elementi vicini al cartoon. Per realizzarli Squatriti usa tecniche e materiali industriali: acciaio speculare, plexiglass, ferro laccato.
Si interessa a queste sculture il mercante d’arte Pierre Lundholm che le presenta nella sua galleria di Stoccolma e ne vende una al Moderna Museet. Questi lavori sono presentati da Gillo Dorfles in occasione della prima mostra americana di Squatriti alla galleria Kozmopolitan di New York (1969), in seguito portata alla The Courteney Gallery a Houston e alla Jack Mizrachi Gallery a Città del Messico.
Gli oggetti inquietanti che Fausta Squatriti viene ideando e realizzando da un paio di anni sembrano usciti da un fascicolo di science fiction dove si cerchi di descrivere le suppellettili che dei cosmonauti terrestri scoprono nelle abitazioni di un’altra galassia. 2
Le Sculture colorate sono proposte anche in Israele alla Mabat Art Gallery di Tel Aviv nel 1970, da Alexander Iolas a Ginevra; e fanno una tournée anche in America Latina, a Caracas nelle gallerie Estudio Actual (1970) e Artecontacto (1975) e al Museo de Arte Contemporáneo Jesus Soto di Ciudad Bolivar (1975).
A partire dal 1972 Fausta Squatriti elimina il colore, tutto diventa rigoroso, essenziale, per un decennio la sua ricerca verte attorno alla geometria astratto-geometrica espressa con le Sculture nere, in ferro e acciaio, presentate alla galleria del Naviglio a Milano nel 1979. L’anno successivo il Centro Iniziative Culturali Concordia 7, Pordenone pubblica la monografia che correda la mostra di cui la seconda tappa è allo studio Marconi a Milano. In questa occasione Squatriti inizia un fitto carteggio con Giulio Carlo Argan, con il quale condivide riflessioni sull’arte; l’epistolario è ora depositato presso il “Fondo manoscritti” di Pavia. Argan firma i testi della prima mostra parigina da Denise Renè nel 1982 e della prima personale a Düsseldorf, da Karin Fesel, nel 1987. Dall’incontro con la gallerista tedesca nascono diverse occasioni espositive, personali e collettive nei suoi spazi di Düsseldorf e Sonsbeck ma anche in importanti spazi pubblici in Germania.
Con la metà degli anni ’80 l’artista imprime al suo percorso creativo una svolta decisa, si avvale di un linguaggio che ha bisogno della superficie e del volume. Squatriti si ritiene soddisfatta del suo lavoro con il ciclo Fisiologia del quadrato (1985), installazioni che mettono insieme pittura, grafica e scultura, triade che si consoliderà ulteriormente con il ciclo In segno di Natura. Nel 1991 inizia il ciclo: I segni del conflitto, cui segue I ferri del mestiere, un’indagine sugli strumenti di tortura. Sono dittici o trittici sempre più crudi, violenti. Utilizza foto di scimmie urlanti: nasce Nel regno animale e prosegue con gli spasmi dei frutti e dei fiori deformati, malati: Nel regno vegetale. Nel 1995 approfondisce il tema dei Legami di sangue, congiunzioni improprie, tragiche, tra esseri diversi, elementi che generano violenza e sofferenza. In Sed libera non a malo, dello stesso anno, Squatriti inverte i termini percettivi, visivi e di valore, lo scopo è rendere attraente la bruttezza delle cose e viceversa. Vicine a questa serie sono le stazioni della Via Crucis realizzata nel 1996 ed esposta a Bergamo nell’Ex Teatro Sociale. Pierluigi Lia ne scrive: non come un’opera fatta per piacere, ma a un discorso fatto per urtare fin nelle viscere3. I pesci rappresentano il simbolo del dolore nella serie Strage degli innocenti, 1997, dolore e sofferenza anche con Un Requiem per la specie e per la macchina, con brandelli di corpi umani accostati a parti di macchine logore, ciclo presentato all’ex essiccatoio a San Vito al Tagliamento (Pordenone) nel 2000.
Il Museum am Ostwall di Dortmund nel 2001 dedica a Fausta Squatriti un’antologica a cura di Ingo Bartsch; egli sostiene che I ferri del mestiere è il ciclo che indica più chiaramente quale è la questione principale dell’artista: il male fa parte del mondo e, poiché esso tende a nascondersi, deve essere smascherato per poter essere combattuto.4 In questa occasione Mazzotta pubblica una ricca monografia curata da Claudio Cerritelli.
I particolari ritratti di intellettuali che compongono La Commedia Umana, sono raccolti per la prima volta in Italia all’interno dell’antologica alla Fondazione Mudima a Milano nel 2001.
Beata solitudo sola beatitudo, serie non ancora conclusa, inizia nel 2002 e viene proposta a Bologna, alla nt gallery da Valerio Dehò. Per il Giorno della Memoria 2006, all’interno dell’ex Sinagoga, a Monte Savino (Arezzo) Fausta Squatriti progetta l’installazione intitolata Zachor – In memoria (Ricordare per essere liberi), che sarà poi esposta a Torino al Museo delle ex carceri Le Nuove nel 2013.
Ecce homo è invece la retrospettiva che le dedica nel 2009 il Moscow Museum of Modern Art di Mosca, a cura di Evelina Schatz. Il ciclo omonimo, iniziato nel 2005, ha come fulcro un insieme di immagini di un reportage di denuncia sulle condizioni degli internati negli ospedali psichiatrici dei paesi dell’Est.
Jaqueline Ceresoli introduce la mostra da Assab One a Milano nel 2011, concentrandosi soprattutto sui trittici che compongono il ciclo Ascolta il tuo cuore città, titolo preso a prestito dal romanzo che Alberto Savinio pubblica nel 1944. Un viaggio onirico nello spazio e nel tempo, surreale, fino al cuore della metropoli, esangue e rantolante dopo un’apocalisse. […] un presupposto poetico scritto con le immagini e gli oggetti che raccontano la solitudine dell’umanità e delle sue bellissime città così genialmente costruite. 5
Sue opere fanno parte della collezione del Centre Pompidou, che ne espone una nella mostra Elles@centrepompidou nel 2010, e del Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, che la espone nella saletta dell’arte italiana nel 2015/16.
Fausta Squatriti ha insegnato presso le accademie di Carrara, Venezia e Milano, è stata visiting professor all’Académie des Beaux-Arts di Mons. Nel 1988 è invitata a insegnare e a esporre alla University at Manoa di Honolulu, esperienza che ripeterà nel 1994. Ha tenuto conferenze sul proprio lavoro e su altri argomenti a Honolulu, Tel Aviv, Haifa e Parigi, oltre che in Italia.
Per quanto riguarda il lavoro in ambito letterario, va segnalata la pubblicazione di poesie e saggi. Sue poesie sono state tradotte in ebraico e pubblicate in Israele nel 2012, e nello stesso anno una silloge in inglese è pubblicata sulla rivista internazionale ''Incontri''. La più recente raccolta di poesia è Vietato entrare (La Vita felice, 2013); nel 2016 è pubblica la traduzione francese di una scelta di sue poesie, Une anthologie 1960-2012 (L’Harmattan, Paris 2016). Dal 1992 al 1995 esce la rivista interdisciplinare ''Kiliagono'' fondata dall’artista con Gaetano Delli Santi ed edita per il Pesce d’oro da Scheiwiller. Per quanto riguarda la prosa, due sono i romanzi pubblicati, Crampi (Abramo, 2006) e La Cana (Puntoacapo, 2015). Nel suo percorso vanno infine citate alcune esperienze collaterali, fra cui nel 1997 la fondazione con Francesco Leonetti del Teatro dell’autore in scena, che proponeva brevi testi di artisti e poeti impegnati anche nella recitazione. Il gruppo esordì alla Fondazione Mudima a Milano, con successive prove al Festival Ricercare a Reggio Emilia, a Venezia per il Festival della parola, e a Milano per Teatri ‘90, il Teatro Franco Parenti e ancora Mudima. Nel 2011 è andato in scena alla Fondazione Calderara di Vacciago il monologo Istruzioni per l’uso, recitato da Alberto Lombardo. Nel 2002 Squatriti ha creato le scenografie per The stillest, con la coreografia di Eric Senen, rappresentato al teatro Mains d’oeuvre di Parigi, e nel 2012 ha curato i testi e creato gli oggetti di scena per Ora d’aria, spettacolo rappresentato dal Teatro delle Selve sul Lago d’Orta. Squatriti ha impiegato diversi anni per indagare un oggetto legato alla sua famiglia e del quale nulla si sapeva, l’esito di tale ricerca storica, artistica e narrativa è raccolto in Pollice verso. Storia di un arazzo (Nardini, Firenze 2015).
1 Dal 1980 l’artista riprende l’attività editoriale, realizzando Exacta, la sua più impegnativa edizione dedicata a 27 protagonisti della ricerca costruttivista internazionale.
2 Dorfles Gillo, Oggetti inquetanti, “The Cloud Eye”, Sergio Tosi, Milano 1969
3 Lia Pierluigi, Via Crucis: considerazioni teologiche per un’iconografia, in Recanati M. Grazia (a cura di), “Via Crucis”, Mazzotta, Milano 1999, p.12.
4 Bartsch Ingo, trascrizione del discorso tenuto all’inaugurazione della mostra Per una poetica della tortura ovvero: insorgere contro la permanenza del male, Museum am Ostwall, Dormunt, 23 maggio 2001
5 Ceresoli Jaqueline, Fausta&Squatriti, in Nano Stefania (a cura di), “Conosci te stesso”, Quinta Arte, 2012