Rosa Pierno, presente nella redazione di “Anterem” dal 1992, ci propone un itinerario poetico attraverso i finalisti dell’edizione 2012 del Premio Lorenzo Montano per la sezione “Opera edita”.
La sua attenzione critica si è soffermata su Gian Maria Annovi (“Kamikaze”, Transeuropa 2011), Primerio Bellomo (“Primo vere”, Enchiridion 2011), Francesco Marotta (“Esilio di voce”, Smasher 2011), Marco Ercolani (“Sentinella”, Carta bianca 2011), Luigi Fontanella (“Bertgang”, Moretti & Vitali 2012), Antonio Pietropaoli (“Dissezioni”, Oèdipus 2011), Paolo Ruffilli (“Affari di cuore”, Einaudi 2011), Alessandro De Francesco (“Ridefinizione”, La camera verde 2011).
Ogni poeta viene qui presentato, oltre che con la nota teorica di Rosa Pierno, con un testo esemplare tratto dalla raccolta.
ancora discendendo si immette giù per il tubo una
clessidra di vene e la sacca che potrebbe contenere
tutti ma prima è necessario liberare i fatti dalle cause
sta guardando il paesaggio dal treno in galleria
somiglia alla polvere come se fosse possibile tornare
nel vano scale bianco sul pianerottolo vuoto
passavamo dal parco premevamo l’interruttore
l’ingresso di finto legno illuminato a timer un
lavoro di emersione
Che in Alessandro De Francesco vi sia la necessità di partire da ciò che lo circonda, e in particolare dalla valutazione geometrica degli oggetti, la quale gli consente di collocarli in uno spazio misurabile e di conoscerne le distanze, quasi fosse l’unica cosa che se ne possa attestare con certezza, è fatto incontrovertibile di tutta la sua produzione poetica. D’altronde, se è vero come diceva Wittgenstein che “La verità non è nelle cose ma nel linguaggio”, e se: “come adesso che il pensiero non ha verità da / proporre la domanda e visto dal buio molto di quanto afferma le azioni che potremmo compiere sono una pellicola in un proiettore spento”, ciò equivale a dire che quando si avverte insufficienza nell’espressione, e per mezzo dell’espressione stessa, ciò implica che si stia di fatto agendo in una sorta di scatola chiusa, ambiente asettico in cui si può sperimentare quanto del linguaggio ci travolga anche in modo consuetudinario, ci trasporti alla deriva, ci privi di relazioni esperienziali. Il testo di De Francesco lo si può anche assumere come coincidente con tale esperimento e, di conseguenza, si potranno verificare i meccanismi di filtro messi in atto, le lacune lasciate volutamente aperte anziché provocarne l’occlusione con materiali incongrui, la verifica dei pesi e delle misure nella rete dei significati, lo scarto rivalutato a fronte del risultato atteso e forse trovare in questo, ancor più che in qualche definizione dogmatica, la consegna, il lascito di questo lavoro. Lavoro di raccolta delle differenze anche minimali, delle variazioni rispetto alla via prestabilita, contro la regola unificante, che trova un suo naturale limite nella biologia, forma fisica, di cui il testo è ricchissimo di riferimenti: “ancora discendendo si immette giù per il tubo una / clessidra di vene e la sacca che potrebbe contenere / tutti ma prima è necessario liberare i fatti dalle cause”. Come accennavamo in esergo, liberarsi dalle convenzioni, ad esempio di causa ed effetto, come humeiano dettato richiede, vuol dire inevitabilmente anche riposizionarsi in quanto soggetto, fosse pure un soggetto che rifiuta identità e che si forma solo tramite l’accumulo dei suoi momenti percettivi e ideativi. D’altronde, un tale soggetto, alla fine, quadratura del cerchio, non può che individuarsi attraverso le sue coordinate geografiche come recita l’ultima poesia: “fruscia / si sposta /esce”. (r. p.)
Dissezioni
dapprima si verifichi il grado di tolleranza
alla discussione, alla critica, alle intemperanze.
poi si prendano le misure più adeguate,
le posizioni più opportune – mai al centro
della scena, piuttosto ai margini, in angolo
(da dove si domina la scena).
ci si disponga quindi ad osservare
interloquire rimuginare interagire,
come tra perfetti estranei.
infine si proceda al primo affondo
un’incisione netta, qui, dove non circola
più sangue, dove tutto è melma e ristagno
(ma con dolcezza, mi raccomando:
era, è stata, fu, carne viva)
Nella scrittura di Antonio Pietropaoli, le parole si susseguono fluenti come cavalloni sulla spiaggia che riescono a sorprendere a ogni rincalzo di rima facendosi di volta in volta più pressanti: “mi disloco e mi slogo, mi sgolo tra me / e me, in silenzio, e così finisce che mi sfogo / e mi raffiguro la mia albicocca diroccata / come un’albicocca da un verme devastata”. L’apparente facilità derivata da una fluidità da filastrocca non per questo ne assume il non-sense. Anzi, potrebbe rivelarsi come aspetto ludico di una dramma d’insufficienza: il soggetto non può opporre che la parola. Senza mai perdere contatto con gli aspetti giocosi con i quali si può rivoltare il punto di vista con cui si guarda alle cose, pure “il dileguar del vero” e” il sogghignar della menzogna” non lasciano spazio a una elaborazione a-problematica della realtà, a una rinuncia. Nonostante il tono a tratti scanzonato, ilare o ironico, resta intatto lo scontro frontale con la realtà, il quale denuncia una incapacità di accettazione da parte dell’autore. Vogliamo dire che il tono – a tratti licenzioso – non copre il rumore sordo della disputa. Le strategie approntate dal poeta – vere e proprie pantomime foniche diremmo – sono tentativi di adattarsi, di trovare un modo di coabitare: se l’uomo abita sempre un mondo, non è detto che questo mondo sia ospitale. Sarà però il risultato più un infilare smacchi e delusioni in una lunga collana che un giostrarsi e un risolvere e nemmeno per il rotto della cuffia. Non è esattamente il recinto di accettiana memoria quello messo insieme da Pietropaoli con le sue strategie, ma una sorta di costante gioco al rialzo e si direbbe che ciò accada quanto più sa di perdere per quel non rifiutare nessuna possibilità esperienziale. In questo senso “Dissezioni” è titolo che indica che né il dolore né le condizioni peggiori portano a una consunzione o una disfatta poiché nell’analisi e nella consapevolezza si produce appropriazione: fare di tutto questo il proprio sé. C’è sempre qualcosa da cui ripartire, di cui scrivere. Fosse pure la propria amara disillusione, ma anche una accordata adesione a quel che è, all’esistenza, sempre accolta con sonora e calorosa partecipazione. (r. p.)
scrivi strappando chiarori di pronome
dalla voce la luce malata
che s’innerva al rantolo
di un verbo scrivi con lo stilo
di ruggine che inchioda l’ala
nel migrare anche la morte
che sul foglio appare dal margine
di sillabe di neve s’arrende alla caccia
al sacrificio necessario
dell’ultima lettera superstite
Nell’ultimo libro di Francesco Marotta “Esilio di voce” Smasher, 2011, risalta, immediato, il forte motivo della scrittura ingaggiante con la realtà una lotta per l’egemonia, poiché si direbbe che il senso appartenga soltanto alla scrittura, a una realtà artificiata, dunque. Innanzitutto è una scrittura che s’accampa su qualsiasi superficie: pelle, occhi, carne e si appropria di vocaboli che appartengono alla natura: argine, margine, sentiero, pietra, acqua, cielo. Ma soglie, ombra, specchio in qualche modo ne fanno echeggiare come un falsetto la nuda sostanza, pura inconsistenza, denunciandone la falsa legittimità ad accamparsi in vece del reale. Già in difficoltà, il linguaggio viene aggredito dal poeta che ne mostra con grande tensione le lacune, le fallacie, gli scarti dal senso comune in agguato. Torsioni imposte al linguaggio non ottengono che di mettere in nuce fatiche, eccedenze, discordanze e, forse, un’offerta di silenzio. Ma anche il silenzio, come pausa in ovattata neve, pur se “accordo muto”, non è che misero traguardo. La guerra non vede una sola battaglia, ma molteplici vittorie e sconfitte. Il poeta denuncia la supposta vittoria del linguaggio sul reale, e in fondo l’insensatezza della pratica della scrittura rispetto all’esigenze di un’esistenza che richiede di essere vissuta e non scriversi addosso. Eppure, il linguaggio non è il nemico, lo si vede nella raffinata elaborazione poetica che non disdegna assonanze e rime sparse, quasi inattese, le inarcature frequenti, le variazioni incessantemente cercate, pur nella ripetizione di alcune parole-chiave, le quali fungono da boe per il reticolo tematico, il tutto nella forma della metrica libera. Tale cura, affettuosa e carezzevole, ci restituisce una voce interiore accorata e umanissima. In ogni caso la tessitura che si va stringendo forma un tappeto sonoro in cui i termini della scrittura sono frammisti e oramai inglobati con i lessemi appartenenti all’ordine naturale e forse l’impossibilità di distinguere fra di essi potrebbe costituire l’utopico sogno di Francesco Marotta. Se è certa la disfatta è anche salvo l’onore data la resistenza attuata tramite tale metafisico esercizio, in qaunto l’assenza appartiene alla totalità e riduce ogni dettaglio al nulla. La stretta rete ha trattenuto pagliuzze d’oro in sospensione acquorea e ora bagliori indicano l’esistenza della sostanza così strenuamente cercata, impossibile da individuare altrimenti che con la scrittura, naturalmente, poiché al vuoto, a “ciò che arde senza pensiero” si oppone proprio l’oscuro denso corpo della scrittura e non è detto che non sia essa la via salvifica da percorrere per non diluirsi nell’assenza: “l’ultima possibile nascita d’indivisa appartenenza”. (r. p.)
brilla corpo-kamikaze:
stella avariata
spunta le dita dei passanti
le falangi per aria
in un volo armato di
colombe
(tutto il mondo è bombato)
che nel balzo ti inclina
la schiena
che ti sbalza la pelle
di costole / di vertebre
che piombi acceso sul selciato
Il contatto tra un terrorista che accetti di suicidarsi per portare a termine la sua azione omicida e il singolo in un qualsiasi angolo del mondo che vi riflette avviene mirabilmente tramite il riflesso delle posate, come se il loro bagliore potesse essere un segnale, un decifrabile messaggio, quasi potesse valere come anello di collegamento.Flebilissima analogia che equivale a dire: nessun contatto possibile, e proprio mentre si subiscono indirettamente le conseguenze dell’atto terroristico. Una non accostabilità che però pretende un giudizio. E pertanto richiede il passaggio tra immagine mediatica e immagine interiorizzata, in un vano tentativo di acquisire quest’ultima come un dato d’esperienza. L’autore prova a immaginarsi quel che accade al corpo del terrorista mentre l’esplosione deflagra: fra brandelli di corpo e fili elettrici, letteralmente presta il proprio corpo all’altro e valuta quel che resta. E viene qui in mente il ruolo dell’immaginazione nella conoscenza esplorato da Cartesio e da Spinoza. Tra splendidi rottami di immagini sbranate dalla fiammata, Gian Maria Annovi inscena la contiguità di ciascuno con quello che accade nel mondo e si prova a imbastire punti di sutura con una storia che sembra trasvolare sulle nostre teste, che non ci appartiene e a cui pure partecipiamo. “Calcola il limite del credersi presente”: immerso nel farsi della storia è, in realtà, assente da se stesso nella maniera più propria: quella dell’alienazione. Schiacciato dalla macchina mediatica, “parla la lingua che non conosci / che non comprendi ma ha / senso”. Preciso come un laser Annovi inchioda con una definizione: “tu corpo-ostaggio / ostinato ostacolo a te stesso”. Corpo che trova un utilizzo soltanto nella macchina propagandistica dei mass media. Eppure non è prevedibile e chiusa questione: il doppio si rivela l’autentico, nel meccanismo che tutto distorce: “ma tu mi miraggi / e malamente mi raggiri”. Ancora nel corpo e attraverso il corpo: entrambi distorti (attentatore, fruitore mediatico) da una storia che non riconosce entrambi, se non parzialmente, se non temporaneamente. Non è che l’ansa di un gomito ed ecco che i due figuranti divengono fuscelli trascinati da un medesimo gorgo privo di direzione e scaricati in una fossa comune. Un unico appello e un unico strumento resta: la lingua. Attraverso la lingua si può comprendere ed evitare. Perché la lingua costringe al pensiero e il pensiero reclama il corpo come cosa non riducibile a esso. (r. p.)
Solo restai con me stesso
e di lontano mi trafisse un grido
come uno sghignazzo d’un uccello nero
che volava sopra le rovine. Per terra
era rimasto un quadernetto (un pegno, forse?)
dimenticato da Gradiva. Lo sfogliai
trepidante guardando i disegni a matita
della Pompei antica e di colpo pensai
nulla si dimentica
senza una nascosta ragione.
Una passeggiata onirica, poiché apparizioni di dei e di persone vissute in antica età si susseguono sul lastricato pompeiano percorso dall’autore. È da un denso tessuto di studio e vita vissuta che tali fantasmi emergono e le figure leggendarie si intersecano con più le fugaci apparizioni delle persone su cui egli ha posato, in strada, per un lungo istante lo sguardo, che avrebbe voluto fermare e che dunque, ora il poeta crede di riconoscere. Il divario fra ciò che è realmente vissuto e ciò che è immaginato comunque resta: “colsi un fresco ramo d’asfodelo / pensando quanto inutile / fosse tutto il mio sapere / e quanto indifferente il mondo ad esso” misurando così anche la necessità di rifugiarsi in un mondo più accogliente e rispondente del presente alla propria interiorità o almeno in cui s’intreccino senza soluzione di continuità cose lette e cose reali. Il linguaggio si fa levigato, plana, si mostra suadente e lineare, quasi per irretire il lettore e per rendere più concreta la presenza onirica, non è però nemmeno lontano dal volere abbagliare l’autore stesso (ora in terza ora in prima persona). Non è che un rincorrere ciò che non è reale e mai lo è stato, eppure nella rete testuale s’intercetta lo sfarfallio, il bagliore, la serica figura di una giovinetta, il flebile rumore di leggiadri passi che da soli danno senso alla ricerca. E che importa se essa si basa su indizi del tutto illusori e su illazioni. Inutile chiamarli deliri, averne paura, temere di trovarsi dinanzi le proprie visioni in carne e ossa. Passato e presente condividono sempre più il medesimo teatro, acuendo la percezione di una saldatura tra quel che sappiamo e quel che viviamo. A tratti il disconoscimento può essere frutto solo di una voluta dimenticanza: un rimosso “capace di operare e di produrre effetti / sotto influsso di eventi esterni” e non alieno dal tirare in ballo un “erotico sentire”. In ogni caso, capace di riportare alla vita, anche in un momento spento o arido dell’esistenza. Verranno a ricongiungersi donna ideale e donna intravista, ma non crediamo sia così saldato il divario tra mentale ed esperienziale, restando intatta l’insanabile frattura, la consapevolezza della sua irrealizzabilità fisica. (r. p.)
Disegno sul muro con temperini spuntati, città inutili e favolose,
composte di nuvole o di foglie. Di quelle città, dove sono sveglio
e dove dormo, sono io la sentinella.
Le vedo, circondano il precipizio: sono montagne reali.
Non conoscere le risposte e non comprendere le domande: sapere.
Ogni realtà rinvia a realtà ulteriori, tangibili come la polvere nell’aria.
Se la luce che arriva sul foglio fosse tanto forte da cancellare le parole...
Sebbene le forme aforistiche, brevissime, sospese nel bianco siano come nebulizzate intorno a un fulcro che non si individua, pure i lettori possono puntare saldamente i piedi su alcune parole che si ripetono e che servono per tenersi ancorati durante la lettura al fine di ricostruire una griglia di riferimento. Non cesellate, ma quasi gettate, a tratti legate a una rifrangenza casualissima, ricche dell’humus dell’ambiguità che colloca i periodi non in un costellazione, ma in un’aureola che si espande. Eppure, le frasi sono raffrenate, più che tenute insieme da alcune affermazioni assertive: “ha il dovere di”, “nessuno deve esserlo”, in ogni caso da tempi verbali che sono perentori: solo presente e futuro, verbi nominali o verbi che annunciano profezie, verbi che aprono al progetto: “la sentinella aprirà le porte della casa che custodisce” o infiniti che valgono come comandamenti: “Custodire ponti da cui erompe l’acqua violenta dei fiumi”. Ma ecco ci stiamo avvicinando, ora ci sembra di distinguere più chiaramente il modo colloidale con cui le frasi stanno assieme: “Vivere dentro pagine che tornano come ossessioni”. Sarà il libro in cui risuonano i mille libri “venuti” anziché a venire (parafrasando Jabés). La coscienza dello scrittore è completamente immersa nella scrittura. La presenza costante di riferimenti a opere d’arte non è che uno specchietto per le allodole, a nostro avviso, poiché il soggetto del testo qui è esclusivamente la letteratura e le definizioni presenti, più che parlare di arte, inseguono solo le scritture che ne fanno uso. Questa presa salda sulla materia scritturale è di per sé il soggetto nemmeno paludato di un iperspazio letterario, di una camera degli specchi in cui il lettore è presto preso dal vortice, in cui non deve cercare l’identità dello scrittore, ma della scrittura, se mai fosse possibile. Tale è la strana, efficace macchina messa in piedi da Marco Ercolani, in cui l’autore si assume l’onere di tessere la spola fra le scritture ‘altre’, di essere lo scompaginatore dell’ordine altrui, ma solo appunto per rilanciare la scrittura. Non è escluso lo svuotamento di senso per dare maggior risalto all’attività della scrittura come l’autore stesso, annuncia: “I libri si rispecchiano l’uno nell’altro” e “ Gli stili sono strumenti accordati da interpreti diversi”. A noi misurare, quanto si sia distanti dal libro leibniziano. Anche se qui non è importante la totalità, ma il metodo. (r. p.)
Il letto
Il letto per l’amore
è un campo di battaglia
del mistero:
vi dura la pace
nella guerra e nel conflitto,
più si è morti
più si vive meglio
da risorti
e, colpendo,
ognuno
vuole essere trafitto.
Il sacro vi si infanga
e si bestemmia,
salvato
nel suo essere violato.
Chi cattura
vuol farsi prigioniero
e la ragione è sempre
di chi ha torto.
Qualsiasi arma
è buona
in questo corpo a corpo.
Di insolita, risolta leggerezza, senz’altro raffinata da una consumata capacità espressiva ed esperienziale, i versi di Ruffilli divengono subito una seconda pelle, in cui ci troviamo perfettamente a nostro agio. Senza tema di rivisitare il tema più affrontato in poesia, usando parole semplici e comuni, il poeta riesce perfettamente e con sapiente naturalezza a trasmetterci la freschezza e l’essenza del fatto amoroso, anche se non dovremmo usare l’astratta parola ‘amore’ che rimanda a ciò che non si percepisce: qui piuttosto con la stessa ossessione con la quale si reitera l’atto dell’unione fisica, si tenta la pagina con l’elenco degli attacchi e delle vinte resistenze, con le penetrazioni e le disfatte, in un elenco, cioè, tutto giocato sul piano dell’esistenza, del contingente, della trasformazione inesausta: nessuna astrazione, dunque, se non per prendersene gioco: “E nell’averti in me / è il ritrovarmi / intero / al centro / senza che / mi costi / nella coincidenza degli opposti”. Si noti anche il ritmo velocissimo, sempre inviato a soluzione, come farebbe un pescatore che al minimo strattone, tiri con colpo da maestro la lenza e la preda in barca. Allora, dicevamo, mai astrazione in questi versi, nemmeno però mai privi di un pensiero a tratti aforistico, di ironia giocosa, e, vorremmo dire a gran voce, felice! Che mette in conto gli smacchi come un non evitabile aspetto dell’amore stesso, d’altronde subito virato da Ruffilli verso l’aspetto complementare e favorevole. Gran maestro di cerimonie, sapiente dosatore di inganni e illusioni, sempre consapevole del gioco contraddittorio, ma non per questo negativo dell’amore, il poeta ci conduce per mano nell’esplorazione di ogni singola percezione, odore, sapore, temperatura corporea, di ogni sorriso o soddisfazione con una lingua docilissima e capace di esprimere sottilissime nuances. Ove l’essere posseduto equivale all’essere perduto e salvato allo stesso tempo, dove il riconoscere che qualcuno ami più dell’altro non è motivo per abbandonare la presa, ma per giocarsi la partita con maggior passione: tant’è che essere in amore equivale tout court ad essere. (r. p.)
prossima l’alba
cede al giorno la notte
al chiaro il sonno
si smemora nel vento
al primo verde il bosco
*
s’apre al mondo ed è
già fiore aria vento
ed ombra il muschio
lutto e segreta gioia
il lasciarsi accadere
Ciò che si palesa in forma oppositiva: la notte che cede il passo al giorno, il buio che si dissolve al primo chiarore dell’alba, è inscenato in un canto dove il passaggio da un estremo all’altro è attuato con graduali trapassi. Le tinte si scuriscono, acquistano viraggi sinistri, l’oscurità non si spegne, grava indelebile: “fu sorpreso dal / lato oscuro del vento / dal suo cercare // nell’abbraccio dell’ora / l’alba di un altro cielo”. Fra le fibre del testo viene a insinuarsi un granello, qualcosa che provoca fastidio, disagio e una sensazione di mancata aderenza. Sono parole che hanno un carico filosofico, che s’innestano, estranee, in quella che era una dichiarata descrizione naturalistica dell’alba o della primavera. Parole che appartengono a questioni problematiche, disarcionanti: ‘impensato, ‘assenza’, fantasma, ‘oblio’. Come in una scatola scenografica in cui si passasse da un sogno a un incubo, i colori sono radicalmente cambiati, ogni elemento appare gettato o macchiato dall’oscurità, desostanziato, percettivamente incerto. La trasformazione è tale che le cose assumono altre valenze: “aggruma e scioglie sensi / veglia di nuovi segni”. Eppure, di fatto, nulla sembra veicolare nuovi significati, anzi gli elementi in scena appaiono deprivati persino di ciò che originariamente avevano, ove parrebbe, pertanto, che il senso, quando sia univoco, costituisca un pericolo per la polisemia.
Nella seconda poesia che compone il brevissimo libro, il giardino zen - seconda scenografia la chiameremmo - tutto sembra già estenuato: ‘il niente del cielo’, ‘arreso al suo finire’, ‘senza più ombre’, quasi un meccanismo con cui risalire all’origine, immaginare il momento primordiale, quello in cui ancora non è apparso il senso. Fallimentare esito, però, testimoniato da un’immagine ancora naturale: “leggi nel bianco / l’enigma del vento / troppo vasta l’aria / ala della distanza”. La natura resta una risorsa che, a prescindere dalla possibilità d’immaginare l’origine, contribuisce a facilitare una percezione molteplice che diventa antidoto bastevole al fine di ricreare il mondo, naturalmente non più naturale, ove ‘scintilla’, ‘fuochi’, ‘stimma’, ‘seme’, ‘varchi’, ‘sangue’ si oppongono all’impensato e si radicano nel senso con la tenacia e l’imperio di un atto volontaristico. (r. p.)