I testi che presentiamo in questo numero sono opera dei finalisti per “raccolta inedita” al Premio Lorenzo Montano 2012: Pietro Altieri, Daniele Bellomi, Giovanni Campana, Enzo Campi, Silvia Comoglio, Loredana Semantica. Per introdurre questi poeti sembrano ideali le parole del filosofo Federico Ferrari, tratte da "Anterem 85": "La parola poetica crea un mondo, crea il mondo, perché espone il linguaggio e le cose al loro momento inaugurale, al loro momento iniziale. (...) La parola poetica crea spazio nella trama compatta e continua della storia, offre uno spazio in cui si possa muovere l'immagine presente in ogni momento della vita. In questo spazio, l'immagine appare e la cosa può vedersi come mai si era vista, al di là di ogni previsione, di ogni pensiero calcolante, di ogni cibernetica".
Le opere degli autori proposti spaziano tra poesia lineare, poesia e prosa poetica, poesia e segni musicali, poesia e saggio. La qualità distintiva di ciascun autore emerge, oltre che dai testi, dalle acute note critiche di Giorgio Bonacini. Ancora una volta “Carte nel vento” testimonia il lavoro intorno alla poesia contemporanea svolto dal Premio Lorenzo Montano. Siamo lieti di confermare che è in corso il “Montano 2013 – 27^ edizione” per aggiungere nuove pagine a una lunga storia.
In copertina: foto di Sara Fazzini in occasione del Convegno Anterem 2012
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da Nessuna pietà per chi si volta indietro
Eravamo morti e respiravamo
Paul Celan
Vicolo cieco
Nessuno respira,
in attesa di un nome.
Un’ombra sconosciuta
sosta
agli angoli di un volto.
“e il Vicolo Cieco
è sulla faccia di tutti”.
Abendland
Trascinarsi in ginocchio alle foci del Futuro
con la neve nascosta del tuo respiro.
Dove in cielo splendono due soli
ogni cosa proietta al suolo
una duplice ombra.
Deboli fuochi fatui
nel sonno bianco e nero.
Nessun piede umano lascia impronte.
Stelle infrante precipitano
sulle Terre della Sera.
XX Secolo
Fiordi vivi di sguardi, l’ora nuda
curvata sul quadrante.
Le lune spente dormono per noi.
Fredda la fronte penetra negli occhi
di chi rimane o ripete.
Più giù la vita, lampeggiante,
conficcata nel vuoto, un dito
indica, indugia.
Il freddo non ha fratelli.
Allora
La notte sulla nuca,
ad angolo retto,
a tradimento.
Il dolore culmina, cessando.
E adesso
il gesto eluso, ripiegato,
come un vagito,
nell’utero dell’ombra.
Le cose senza peso,
separate nel sonno –
carne assalita dal bianco della neve,
senza un filo d’infanzia.
Mordeva luce
alle radici dell’aria.
Emorragia d’ossigeno:
bolle di parole
le scoppiavano in gola.
Scrutammo a stento
lo spessore del sangue –
quel cuneo oscuro
tra vertebre e vuoto,
l’assoluta opacità del suolo,
del respiro.
Clessidre nere
Lingua
È la lingua
a scegliere le bocche,
crune del dire.
Senza saperlo
essere,
prosciugato nell’eco:
ossidi di stelle.
Profili pensili,
scavati
nelle vene del vuoto.
L’oscillare del nulla
tra due specchi.
da A Sud di se stessi
Attesero che un nome
diventasse neve, poi
sparsero capelli e cuori,
all’infinito, su tutte le pareti.
Nulla
Nulla restando
freme.
Fermo sul filo del mondo,
sull’orlo del grano.
Nell’urto meridiano della luce.
Il volo adunco di un uccello:
accenna, acceca.
da Tutte le direzioni e nessun senso
Camminarono attraverso una città di
film in bianco e nero, strade che
sbiadiscono con migliaia di volti
corrosi dal fumo. Figure del mondo
rallentano fino ad essere catatonico
calcare.
William Burroughs
Il tempo
Il cieco incide cifre
sulla tua fronte,
un numero nero ad ogni errore.
Cenere, color pensiero,
cenere, e cicche spente
- pezzi di vetro
a un centimetro dalla tua voce.
Lacera l’aria verde,
poi ricuci il bordo.
Un’ora stinta ruba le promesse,
adegua i passi al suo respiro.
Non ha fiumi la notte,
soltanto corde
sospese vive tra una lama e l’altra.
Il tempo non ha rive.
Respiro
Traduci il sonno in una sera sola,
agli eremi di un nome,
trapassi l’aria con un altro
respiro di stupore
- terra di meduse,
nessun sale sazia la nostra fame
- terra di rose,
le tue dodici infanzie esterrefatte,
ad est di ogni errore.
Nessun sonno.
Nessun sonno.
***
In poesia il senso è a disposizione di chi sa attendere la sua apertura, che spesso avviene in modo oscuro o lentamente improvviso, mentre si è, ci dice Altieri, “in attesa di un nome”. E proprio in questa raccolta l’autore ci mette davanti la possibilità vitale, di un significato come ombra immaginativa, tesa tra l’esperienza che la scrittura designa e indica e la trasparenza o disvelamento che va oltre quel fondale bianco che fa da scena vuota di un’esistenza ancora iniziale. Ecco, allora, uno dei motivi di questa poesia, dove la metafora si fa veramente cosa-di-parola: non connotazione per dire altro, ma un altro dire in voce nitida: a volte fredda, laconica; a volte tesa nel suono che la muove; a volte dura e pulita; a volte leggera e soffiata, ma sempre scolpita e avvolgente, così da dare svolgimento e significazione a geometrie di profondità, di precisazione e di sollevamento. E ne vediamo gli effetti nei tanti testi in cui gli elementi naturali più soffici e impalpabili, ma anche fra i più percepiti dal corpo, risaltano e operano come attori di scrittura: neve, gelo, acqua, vento, aria. E per ognuno vediamo il verificarsi di vortici, frantumazioni, sospensioni in cui la parola, già figurativamente corposa, si trasforma e trasfigura in sé la concretezza e l’essere stesso dei fatti di natura. C’è una stupefazione tale da rendere possibile anche i contrari visivi e concettuali: ad esempio l’intromissione dell’alba nella notte, con rotture di sbarramenti fisici che preannunciano esplosioni di luoghi temporali, istanti che cadono “tra i rottami luccicanti dell’occhio”.
Ma è anche una poesia, questa, che prende dal silenzio e contemporaneamente lo ospita, riducendolo ulteriormente in un rumore opaco, fatto di vuoti ancor più lacerati dall’aria. Sembra veramente una lingua fatta dalla stessa materia a cui dà voce. Lingua fatta con lo stesso attrito, stessa sostanza, stesso colore, fino alle ferite inflitte, al taglio che “lesiona i suoni”. Ma la parola è anche soffio sillabico, corpo di musica, vocalità minimale che non esce indenne da qui: da questa gestualità sonora che sottrae segni all’ascolto per riportarli e lasciarli a pause notturne. E’ una voce di sinestesie efficacemente estreme; una voce che vede con sguardi che assalgono e appesantiscono l’aria. Dove gli effetti sono visibili, perché sono fatti di vento che disperde e fa riemergere alla mente “le frasi mai dette”. Quelle che permettono alla poesia, e in particolare a questa poesia, di crescere in se stessa oltre il dire e il sentire la sua origine: verso un inizio futuro mai definitivo.
La parola deve allora essere trovata nella sua giusta dimensione: che non è più quella conforme a una supposta realtà designata, ma nella sua metamorfosi e metafora dove “solo se ascolti, piove”. Uno sgocciolamento, dunque, una frantumazione che acquista e perde il suo sentimento pensante, innumerevoli e indeterminate volte. Ed è così che Pietro Altieri svolge il suo andamento frastornante, ma ugualmente lirico, senza soggettività, senza contemplazione, ma facendo oggetto di scrittura un panorama lacerato,un paesaggio della mente che fotografa immagini così sottili “che nessuno vede”. Quasi fossero conficcate in un’aria solida, densa, in un biancore che trascina a sé il giorno e la notte e impedisce o svuota ogni tentativo di raggiungere la felicità ingenua del cuore. Ma senza preclusioni, senza tacere la dimensione emotiva che anche una sola e semplice parola può creare. Perché anche “se c’è la neve” e “la pietà non viene” si accende ugualmente in un angolo un sussulto di tenerezza e di tristezza quotidiana, in un quasi crepuscolare “martedì/e gli angoli sono ancora spenti”.
Pietro Altieri, nato a Napoli nel 1952, vive a Roma.
Insegna Storia e Filosofia in un liceo scientifico.
Si è occupato a lungo di poesia, ha pubblicato su diverse riviste come "Galleria", "Pragma", "Il Rosso e il Nero", ecc. Inoltre ha scritto due raccolte di poesie, "Specchi Ustori" (Andrea Livi Editore, 1991) e "Ubiquità del bianco" (reperibile sul sito on-line http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=568923, con prefazione di Milo De Angelis).
Ha recentemente scritto un testo in prosa, dal titolo provvisorio “Una disperazione confusa”, ancora inedito.
nistagmi: tre movimenti involontari degli occhi
*
si vede la media di un cielo sereno, il sole al meridiano e alle lune la fiamma di candele a paraffina il filamento di tungsteno penzolante dalle ampolle a gas: ho avuto con un solo movimento il posto dell'arciere ho vomitato anche da morto il fotogramma, nell'arco degli elettrodi ho segnato il cratere positivo, eppure è rotta la sensazione luminosa, il flusso che ha detto di non rimanere ora salta perché non sbaglia nessuno a trascinarmi via, a non usarmi per guardare non si unge un re di questi tempi senza sporco sulle mani; non ho visto non ho sentito non parlo non reato allora ma segni e convoluzione, trattamento delle immagini più o meno di favore o instabile non so niente di questi soldi non miei che porto in mano, non più nemmeno l'arco che scarica lo xeno a terra l'odore che c'è di radiazione: non si passa il vaglio con il vaglio, la vista come curva in un fuoco, il fuoco è il medesimo ** l'immagine che si gradina, si sgrana, rimuove la sfocatura non vi serve a costruire: osservate direttamente dai vostri occhi il movimento accidentale, il rumore casuale, occidentale delle fibre, il reticolo colpevole, occhi e carne, il montaggio finale che squassa via i semi e il cristallino: le persone sono sconosciute, quelle di anni fa; guardale ballare serenamente, rivedile come sono ora, prova a riconoscerle per la pellicola che salta e ritrasmette in successione, si scansa sulla pista, prova a riconoscersi come noi il tramite è il divano, la fissazione in uno schermo; a cose passate, a cose che non sappiamo quando ritornare: ripetile ancora se non puoi *** non lascerò che mi si tocchino le cornee, a meno che tu non me lo dica, ponendomi dei pesi; per l'entità di questa depressione che attende il bulbo, lo varco sui millimetri elastici della deformazione; di forza in forza meccanica si tratta sempre di un ricarico dei circoli, di uno sgravio dei getti d'aria che lasciano le cicatrici, i segni screpolati delle tue mani quando guidi, ad esempio, l'essere magari una tecnica ancor più sicura per vederti sola; se una lente permette la superficie, la vibrazione riflessa in un segnale, non voglio che ti stia a contatto, perchè aspetto un certo acconto delle pareti, ma non più di questo stimolo irriflesso **** non è uno solo il battito o il rumore più sordo dei canali avvitati, dei ritorni innalzati alle aperture, e le chiavi girano nel montare insieme le parole (fra poco, adesso, dopo, perso, fra di noi) da distimie: quattro variazioni disarmoniche sul tono dell'umore * caffè in grani, secco: crudo a somiglianza di qualche malattia visibile; le vetture (i cambi, simili a scheletri fibrosi) prendono alla gola: nuove fasce di prezzo, di occlusione, nuove tensioni tangenziali per uscire e così moduli elastici, capelli, sottintesi della lotta; con questa quiete che si nuclea, le immagini chiuse nelle urne, artefici come in ogni caso di una germinazione (sembrando due tratti cervicali in cui il diaframma si interpone) sono litanie, lamentazioni, un devastare ci sono angoli esatti per il rollio, di sufficiente devianza per pulire gli pneumatici, la terra come soffio di organi cavi accorciati ad altri ordini, il prossimo allungamento, tra quei segni: in quella direzione, con la stima del litio, degli occhi, la mente è quel limite, il modo che più perfetto ho inteso: c'è chi scocca un deserto e larghi spazio di terreno, chi i transiti per gli dei delle soglie, tutelari che sciolgono l'autorità paterna chi, per immensi culmini, arie senza inizio, vede torsioni senza termine alcuno ** non l'amnesia desiderata, il vuoto delle sacche minime, amniotiche, ma guaine e guaine a dividere nemicamente, deridere la voglia dell'abbraccio, il progresso in questo stato di locomozione: l'errato governo della cellula semicircolare, incidentale più di noi gli orli si sono striati: il cambio va fatto nei giorni altri, alterni, meno sui vestiti nuovi, che ancora tengono senza ispessimenti, ripiegano giunzioni intermedie all'inchino quindi un microsisma o i dieci somiti dell'embrione: aderenze come abbozzi primitivi ma pronte a cambiare, far sparire ciò che varia l'inizio del flagello o la mobilità del passo, una cerniera al mondo *** (impossibile la creazione di un cratere dal globulo retratto il coagulo: ci sono solo gengive, soffiaggi ed estrusioni alla difesa immunitaria, ma la guardia in piedi è un canale per la levità) disconoscere le zone di passività, quindi il pugno elettrico la separazione alfa beta e gamma: i liquidi bombardati di particelle sbordano si fanno sacri al proprio calco si può ridurre lo scheletro, non l'ultimo corpuscolo del sangue, l'errore di libellula invischiata da una rete, né il ciclo di krebs in propaganda di uno sforzo **** e finalmente il battito cerchiato di rumore, ponteggi alzati in tempo e l'altro è il discorso che facciamo e noi che siamo intatti nel montare insieme le parole (adesso, lo stesso, resto, ciò che è perso) ripartizione della volta adesso devi andare allora osserva il bianco di lesione in cicatrice per la notte estesa altrove fino al campo ottuso dello specchio andata avanti sui chilometri senza ritorno per distanze appena appresa dalla luce e pensa a ciò che non succede se non guardi assorto verso il punto che non circola degli astri o per le sorti di una delle mille attenzioni verso il moto nell'idea che prima o poi dovrai porre rimedio all'anomia della visione e suturare ogni passaggio assiduo per colpi e colpe andando a vuoto ad iniziare dalla retina mancando agganci a corpi erranti appesi sulla volta e pure avendo scorte proprio al centro della via a terminare l'esistente per se stesso o per te solo osservi un'altra via di sorta in cui rimane tutto per cosciente remissione o inalterabile dai moti ai modi opposti e stabiliti dentro mondi di persone assorte e sillabate in questo niente in questo breve tempo che non risente di attrazioni e desideri cosa fare del consulto della divisione in brani e tracce disperse per gli anni di distanza per quello che non viene mai da solo e solo allora interpretare per predire nella pietra per qualcosa che non potrà accadere se non in altro caso di effetti sentiti o attraversati e notazioni spinte fuori per inerzia pur sapendo cosa fare e se non implicarsi in opposti e rotazioni mascherate dagli sbarramenti adesso devi andare e indaga il fegato e oramai il poi non è più il dopo smarrito che grida nell'abito che smetti o appena smesso fermato dopo lunga osservazione delle stelle grida ancora in cerca del reciproco per malattie degli occhi o le ferite e il mare gonfio di aria estratta e soluzioni dentro al vuoto in cui vederti solo a far barriera da percosse e fenditure rese adesso feritoie aperte e imposte nelle viscere senza temere che gridando dietro non si veda senza luce e poi soltanto invano o il vano come nuovo punto da cui parta un fuoco atteso per bruciare arreso al ricevente della parte giusta in sfregio al posto non più possibile ma così immobile conta mai davvero realizzata credendo in tutto ciò che potevamo ***
È nel principio del suo percorso materiale, che la scrittura unisce in sé la concretezza di cosa linguistica e il concetto di essere mentre struttura il suo fare, in uno sviluppo di autoconformazione che stabilisce, senza supporti ingenuamente referenziali, ma consapevole dello spazio e del tempo in cui agisce, il suo autonomo andamento. E proprio questa sembra essere la parola poetica che Daniele Bellomi sperimenta: una partitura spiazzante, un vero e preciso versamento che procede dentro un’esistenza di linguaggio che è l’esistenza in sé. Ciò che accade – se qualcosa accade – è frutto dello scorrere in grafia di una forza materica, di un rilievo, di un attrito significante con una valenza tale da far sì che la contorsione di senso divenga la sua energia.
Un torrente, dunque, che non è però un flusso di coscienza, ma un andare del pensiero linguistico che materializza le sue figure, le sue schiume, i suoi corpi erranti. E così come alcuni titoli delle sezioni rimandano a barcollamenti, a strabismi saltuari, a disagi, a un disequilibrio percettivo – situazioni dunque che obbligano a una costante, faticosa e vitale attenzione – allo stesso modo “il verso terminale del discorso” è sempre aperto sulle cose che iniziano a muoversi: a respirare nel mondo che questa poesia riesce (anche liricamente seppur in modo trasversale, sfibrato, deconcluso, sbordato) a narrare.
Ed è qui che gli agganci sul reale si allungano e nello stesso tempo si sfilano dalla realtà che, contrariamente al vero oggetto materiale, a cui la conoscenza dà senso e da cui incessantemente attinge, è solo un dato parziale.
Questa poesia, dunque, sceglie una conoscenza che prende avvio dalla scrittura e con essa si alimenta. E se è vero, come si dice, che il poeta sia scritto dal proprio linguaggio... allora il nostro autore ne è un esempio. Nella scrittura egli percepisce la necessità dell’urgenza e della lucidità e l’intransigenza volontaria della sua significazione: fino al punto di toccare ed esteriorizzare anche le sfumature innaturali del senso. Perché come dice Bellomi, con un’ ambiguità lessicale efficacissima nel rendere la polidirezionalità del linguaggio poetico, “non c’è verso/che ci abitui al fondo”, anche pensare che qualcosa ci elevi nel pensiero e nel suo riconoscersi fuori dalla lingua, è un’ illusione. L’unico sapere che la poesia può avviare a processo è quello che lei stessa mette in moto con il suo dire. Forse è una consapevolezza estrema, ma è la certezza di provare, scrivendo, l’andamento mentale che si affaccia ai limiti dell’essere, con tutte le sue possibili linee di percorso e di demarcazione. E questo significa sperimentare l’oggetto/lingua a partire dalla sua materia: la concatenazione fonica e grafica nella produzione lineare di versi, che non può però risolversi completamente nella metamorfosi esteriore che produce il suo soggetto. Il tratto distintivo poetico, dunque, è destinato a non avere compimento totale, né per via metaforica né letterale. La forma/scrittura scava continuamente, aggancia e destruttura, abbraccia e disperde e, con la sua forza compositiva, osserva sempre, nel bianco della pagina, un movimento che procede “di lesione in cicatrice” e sempre accoglie “il verso che le sta di fronte”.
Daniele Bellomi, nato a Monza il 31 dicembre 1988, studia Lettere Moderne all’Università degli Studi di Milano. Ha seguito il Corso di Poesia Integrata, nel periodo 2010-2011, sotto la direzione di Biagio Cepollaro. È co-fondatore del blog di poesia e scrittura non-narrativa plan de clivage. È autore dei blog asemic-net e eexxiitt. Suoi testi sono apparsi altrove online su «Poesia da fare», «Niederngasse», «Nazione Indiana», «Gammm» e «Lettere Grosse». Presenta qui la silloge inedita ripartizione della volta, sua opera prima.
TRATTATELLO IN PENSIERI SCIOLTI E VERSI
§ n. 21 Della restituzione che nella parola della poesia ha luogo.
Una restituzione, insomma, un ritorno… a qualcosa di nuovo che da sempre siamo. Sarà forse il divino della sua musica a fare questo, nella poesia; sarà che il ritmo è degli dei, sarà che un dio pulsa in esso; sarà che essa genera luoghi e silenzi che altrove nelle parole non troviamo, luoghi e silenzi in cui essa ci inoltra, pieni d’ogni sussurro e tuono della terra. E anche d’ogni luce, naturalmente, e ombra... luoghi ombreggiati o riarsi; e cose, anche le cose, e le dolcezze e i pianti, le lacerazioni, i presentimenti. Tutto porta la parola della poesia, questo inoltrarsi che essa è, questo perdutamente ritornare a qualcosa di mai prima visto, mai toccato, qualcosa che sempre è luce, anche nella più amara e buia delle parole di poesia, poiché essa sempre è un vedere, come la parola stessa sempre lo è… e il vedere - è così facile dimenticarlo…- il vedere è luce. Forse, se poesia è la poesia, se davvero accade in essa questo perdutamente inoltrarsi in un ritrovamento, una restituzione di quel che solo ora è dato in una insuperabile singolarità, se questo nella poesia accade, è perché essa tocca il luogo, inoltra nel luogo in cui tutto è tutto... E il corpo, questo corpo della mia esistenza, questo mondo delle cose, insomma, non è più il miraggio della vita che mi sfugge, qualcosa di perduto: lì, nella parola della poesia, tutto è raggiunto nel suo luogo, il luogo ultimo (sempre è così per la parola, ma mai come nella poesia questo si mostra…); ed è pienezza che si compie, è parola a cui nulla manca, parola che è tutto – tutto è tutto nel luogo ultimo - anche quando è struggimento, quando dice la mancanza... o il dolore, anche il dolore…
Parole che vedo (18)
…a volte,
traluce il cosmo in uno specchio di gioia
lacrimata, tutto
si fa in me uno
in una
lucida ubriachezza,
e l’anima, bocconi, in sé travasa
persino ogni cesura ed ogni orrore
composti in un abisso di pietà
ci parli, non so come, verità,
in questo grido
di bocche rovesciate e corpi e fuochi
di città morenti
eppure
anche è tuo il grido
colmo e le manine
che accendono di soli i nostri passi
tutto è qui, tutto, in una
parola totale…
§ n.22 Della poesia e del corpo.
L’abitare il luogo ultimo non può che essere un abitare la pienezza. E la voce, che è del corpo, la voce stessa che porta le parole della poesia, e il ritmo – che, anch’esso, è del corpo - sono il sacro in cui il luogo ultimo è ridato, tutto è ridato; e lo è in un significare che nulla può separare da quella voce, una coincidenza perfetta, una pienezza senza scarti che si brucia - e insieme s’arresta, esce dal tempo… - nell’immediatezza di quel suono, in quelle nascoste caviglie e tamburelli che sempre danzano nel verso…
Parole che vedo (19)
…riverbera dai tempi e ancora impelle,
quasi rintrona in questo
limbo d’assenze, un’altra risonanza
…caviglie e tamburelli…
e …il tendine disciolto allo sfrenato
numero del dio…
e …la furiosa
gioia che libera…
non si abbevera l’anima, oramai,
che a inconsolabili perdite
lenite in un’eterna pacatezza…
Parole che vedo (20)
…un vostro tacere fa assorte le cose,
l’anello
d’un immenso silenzio ci racchiude
su noi vegliate?
o, allo sguardo pensoso, non dissacra
ogni rotondità di cerchi eterni
la ferma furia della
linea che inghiotte?
o la faglia segreta del non dire
sprigiona una luce pagana,
l’inebriante cecità di un divino pulsare alla tempia
nella scocca che folgora l’istante…
§ n. 23 Se le parole, come ogni altra cosa, siano anch’esse limite e troncamento.
Che le parole siano anch’esse limite e troncamento, che esse, alle quali affidiamo ogni nostra cosa, affidiamo noi stessi, esse che portano i nostri affetti, le cose più care, che le parole siano anch’esse in un brutale troncamento, come è di noi stessi e delle nostre vite, questo è, ovviamente, un grande tema, che s’impone con la forza di innumerevoli evidenze, tema che, in questo senso, verrebbe da dire fin troppo facile, addirittura scontato. Le parole, viste nella loro tronca opacità, nella loro afasia, le parole in quanto dette a mezzo – sempre, lo sappiamo, sono dette a mezzo le parole – le parole in quanto lacerate, tronche, sanguinanti…: questo è forse ciò che più facilmente è rilevato in un primo indagare, al di là delle tante apparenze liete, anche festose... Parole come luoghi interrotti, ponti interrotti, potenze infelici, in fondo, impossibilità; ricche, questo sì, di struggente bellezza, non povere di fascino, certo, non prive di promessa, non che le parole non siano gravide di desiderio, alimentate da un fuoco vitale… Promesse mancate, piuttosto, fuochi immancabilmente volti ad un irreparabile spegnimento. Si può negare che questo – anche questo – sempre siano le parole? Non si può che ammutolire di fronte a questo carico di laceranti impossibilità, parole che non sanno dire, non possono dire, come, in fondo, sempre accade alle parole... Così possono essere viste, così possono essere vissute le parole. Così sono d’altronde le nostre stesse vite: tronche, vite cieche, linee spezzate. Non si può fingere che così non sia, qui non è ammesso.
Parole che vedo (21)
…sottace penombre un timbro
più interno; a volte,
mi so nel punto che vi abbuia
in perdute sagome: parole
in figura di uno stanco nulla
precipito in una
sfinita mutezza
ma freme irrequieto un contorno…
Parole che vedo (22)
…ci ingannate, parole,
col vostro tutto tondo che ci scoppia di luce
tra le mani; eterno
non resta che il passato, eterno sarà stato
questo rimpianto senza fine…
basta… in voi prolungano il giorno
non altro che perduti bagliori,
smagra l’ora che passa e la gloriosa
luce quotidiana
la grande attesa di rivelazione…
Parole che vedo (*)
…scialbano, un tempo densi,
gli attimi lunghi d’una scolorita,
ormai, attesa di riscatto: “L’urlo
che trapassò le tempie cade a terra -
mi dice un cuore fatto stanco - nulla
passa la soglia”….
Mi guardo intorno: pure
dietro le cose allude un permanere
strano,
anche il mio corpo attende,
anche quel grido,
appeso al proprio istante senza fine…
§ n.24 Di come l’irriducibilità della domanda e la certezza della risposta non possano che ingrossarsi nel tempo...
A questo, tuttavia, non ci si può arrestare, alle parole viste nei loro limiti opachi, alle parole così come appaiono ad uno sguardo cieco, come sempre è, anche, lo sguardo dell’esistenza, una cecità che viene dal cieco confine dell’esistere. Qui si parla del loro luogo vero. E il luogo vero delle parole è ogni volta sempre l’oltre di ogni troncamento. Nessun azzardo nel dire questo. La verità – con tutto il trepidante silenzio che deve accompagnarla - non è pretesa assurda. Essa viene a noi semmai con la forza serena di una chiara evidenza: le parole sono più di noi, e di là, da quel luogo maggiore, di là esse vengono a noi. Con esse abitiamo luoghi sconfinati. Non luoghi indefiniti - qualcosa di nebuloso in cui perdersi, disperdersi - è, semmai, che sconfinatamente abitiamo quei luoghi, il luogo di ogni parola. Così lo stare, l’andare, e l’alzarsi, il conversare, il camminare, così l’angolo della strada, il negozio all’angolo, e l’ora, l’attesa, e il saluto, il viaggio… Ogni parola è in noi ogni volta uno sconfinato abitare, ogni parola. Lo scavo può dunque continuare: la domanda s’ingrossa ad ogni spiraglio di risposta… e la risposta… la risposta – senza togliere nulla all’irriducibile drammaticità della domanda – si fa sempre più certa...
***
Che la poesia ponga sempre in se stessa un atto di autoriflessione sulla sostanza materiale che la compone, cioè la lingua nelle sue diverse diramazioni significanti, è un dato che tutti riconosciamo come ineludibile nel fatto poetico: come atto di conoscenza (e anche ri-conoscenza) sia esso implicito o esplicito nel testo. Ma è raro trovare una meditazione tanto personale, quanto universale – per chi ha a cuore il pensiero della scrittura – come questa. Una concentrazione di ragionamento che ha al centro, come luogo di immersione ed espansione, le parole.
Per gran parte in prosa, questo argomentare si apre, ogni tanto, a illuminazioni, a sovrapposizioni e anche ad apparenti oscurità. E il tutto senza chiusure o compressioni o sviamenti, ma sempre tenendo il filo di una ricerca interiore che pone domande e accoglie risposte, che sono esse stesse interrogazioni per ulteriori risposte mai definitive; così come avviene inevitabilmente in un andamento pensante in cui l’autore è consapevole di non sapere fino in fondo ciò che ha di suo nelle parole, ma di una cosa è certo: “...ho voi parole...”. E Campana per indagare questa cosa, che è la parola nel suo fare, che dice in sé e fa dire in noi e a noi, parte dalla percezione del proprio essere in quanto corpo e Io: ambedue partecipi, anzi di più, fautori indissociabili dell’esistenza. Ma quando proviamo ad estrapolarli in un atto di conoscenza, allora divengono altro da noi: infatti, non è irrilevante che si dica “il mio corpo”, “il mio pensiero”, e se qualcosa è posseduto da me allora, precisa l’autore, “io non sono quella cosa”. Siamo, dunque, di fronte all’inquietante e forse innaturale, ma reale rapporto tra l’Io e l’altro; una relazione però straniante, perché proprio nel momento in cui la consapevolezza di ciò che le parole sono, o sembrano essere, è così lucida, Io e l’altro convergono in una altalenante associazione che lo sguardo mentale segue ma non afferra in pieno. Ed è qui allora che le parole, più che ascoltate vanno indagate nel loro ascolto, nel loro luogo, affinché, dice Campana, la cosa nominata ci venga restituita come significato toccato.
E’ con le parole che vediamo, perché il dire illumina il detto e il non-detto, e tutto sembra essere voce che accende “l’azzardo di una/parola totale”, che è motivazione suprema, forse irraggiungibile, ma sempre più avvicinabile. E ciò fa sì che in questo testo la scrittura sia frutto di una pensosità che si muove sempre intorno al suo centro: lì dove ogni parola è inesauribile, dove nessuna parola è “fuor di metafora”. Lì dove le parole abitano e sono il luogo del loro e del nostro senso. Dire veramente: è questo che noi, anche se imperfettamente, facciamo con il suono e con il silenzio. Porgere dei sensi in un percorso che sia contenuto e che contenga la parola detta, la parola data come dono di libertà, senza sottomissione alcuna. E dov’è che la parola rivela, seppur nascostamente, il suo restituirci a una vita pulsante, toccante, inseparabile dalla voce che coincide con la pienezza del suo essere Io e corpo? E dove la scrittura è limite, impossibilità di un dire totale e prova di sconfinamento continuo? E dov’è che le parole “sono più di noi”, ci dice Campana chiudendo il suo trattatello, se non in poesia?
Giovanni Campana è nato a Modena nel 1949. Laureato in filosofia. La sua esperienza intellettuale è dominata dalla durezza del confronto tra il riferimento religioso, sia pure incessantemente problematizzato, e la piena immersione nel pensiero filosofico ed epistemologico contemporaneo. Ha pubblicato il volume di poesie Pensieri sulla soglia e Autoglosse con Cierre Grafica.
da preamboli
*
una serie di idiomi vacui
come pulviscoli smottati
dal vento si leggono
a malapena tra soglie
destituite e frammenti
di cornici scarnificate
dall’incedere del tempo
e dall’acqua emerge silente
la serie dei feticci per
rinverdire delle parusie
il coatto codice dove
tutto viene a sé senza
contatto alcuno o forse
solo decede riconoscendo
all’orante il fitto reticolo
della sua indecidibilità
*
l’animale che ci sorprende
nudi e provoca il disagio
la voce la sola che possa
dire isola senza colpo ferire
la zattera che aspira alla
deriva il nerofumo che si
spaccia per vapore o nebbia
il punto ortivo a cui ogni
verbo vorrebbe tendere
la mano non sono mirabili
espedienti per restare al passo
ma solo meteore semantiche
attraverso cui farsi largo
per approdare nella radura
e rivendicare il diritto di
affiancarsi all’inesprimibile
*
se il verbo qui mortificato
indica l’impossibilità di una
destinazione traghettando
l’ombra nella diafana luce
di un’aurora privata della
rugiada ove cristallizzarsi se
la morìa dei referenti implica
la chiamata al sorgivo se le cose
tutte si consegnano tronfie
all’inevitabilità della perdita
non si potrà dare del morente
al viandante che asseconda
l’enigma rinnegando l’urlo
ove auditori e astanti
coltivano la mera illusione
d’una possibile risoluzione
*
che siano grumi di catrame
ad otturare i crateri o biancume
di calce stesa a cancellare il verbo
che siano soffici palle di lana
ove ci si raggomitola a riccio
o semplici espedienti per rendere
palpabile l’inaccessibile
che sia celata vertigine di estasi
cristalline o lavica caligine calata
di netto sull’impavido letto che
ospita il seme al nero resta
il fatto che ogni singolo trauma
qui disilluso rifiuta qualsiasi
encomio e si pone in bellavista
per meglio ricevere il sasso
scagliato dall’inquisitore di turno
da ligature
*
solo libere andate
e reclusi ritorni
minima la pioggia
a colmare la crepa
sfocato residuo
che rigenera altro
dal necessario
e si svela l’incanto
nel simulato incarto
da cui esonda
l’infertile seme
*
dicono poco o niente
del particolare per
abulica mania ma
alludono al coatto
universale per poco
che sia o per il niente
che sarà e celano
ciò che cala dall’inguine
dismesso e si comprende
bene la solfa sperando
che la disposizione
di veti e veli sia
massima e fluente
*
tra volute d’equivoci
e esodi di senso solo
un obolo saettante come
preso tra i denti masticato
appena poi sputato nella
grezza gavetta risata grassa
e stille di sdegno una sapida
saliva che cola lenta e il tonfo
sordo per inaugurare la saga
in cui rendersi alla frattura
*
non cose da parte a parte
attraversate né gesti simbolici
per quanto affrettati o peggio
fissati in posture nessuna affezione
morbosa verso cunei arroventati
né ricicli semantici di improbabili
lessemi o meglio sopraffazioni
di senso vendute all’incanto
al miglior offerente nessuna
diffrazione né punti né colate
d’inchiostro a confondere le tracce
non uno spettro che rinviene
senza clamori all’inaudita presenza
solo aporie a inondare il vuoto
pneumatico della dissolta dimora
*
poi che da dopo a venire si dà
lo scarto a principio di cosa
o solo uno scatto che abiura
la fuga per quali ampi deserti
ci si lascia sabbiare per quali
declivi le parole sono chiamate
a franare per quali estreme
unzioni che già bussano alla
porta rivendicando il lascito
del morente si deve ancora
transitare per quali fasi ci si sfalda
nel poco che rimane nel punto
ultimo che si àncora al senso
sottraendosi al gesto sorgivo?
*
non fu risoluto
a urlare lo sdegno
né mai lo ritennero
abile a tenere per
mano la labile babele
che regola il flusso
delle maree in cui
rischiare l’approccio
con la risacca e ancora
oggi coagulando mito
e misticismo si chiede
perché debbano essere
sempre gli altri a decidere
se sia lecito e produttivo
praticare l’asfissia
*
pavidi scarti o vaniloqui
se pure sobri e inguainati
si danno come improbabili
apici che invitano alla
scalata e le pietre interrate
a metà nell’impervio sentiero
non restituiscono le voci ma
s'industriano ad assorbire
il rumore dei passi senza
che nessuna utopia possa
supplicare l'inaspettata grazia
*
nessun lucore se pure miniato
di fino a differire la serie
delle tenebre abortite né furie
improvvise o navi di mota varate
a vetro crudo nessuna loggia
da cui lanciarsi a peso morto
né vestiboli in cui urlare
il silenzio dell’assenza nessuna
leva a cui ancorarsi né perni
protesi o fulcri o indomabili
indigestioni di senso nessun
pendolo basculante per dettare
l’intervallo tra l’andata e il ritorno
solo grumi di sillabe infeconde
ammonticchiate a caso magari
annodate e messe in nota relegate
a piè di pagina come meri accessori
*
sciamando perfidi bisbigli
sghembi s’inarcano i cinici
simulacri si deforma l’imago
che staziona sotto l'arco e
fin anche lo speculo si infrange
in mille risibili cocci rimpiangendo
il tempo in cui poteva riflettere
l'identico e non la sparuta
parvenza di un qualcosa che
non rischia nemmeno il gesto
del semplice riconoscimento
*
a riffe confuse dadi smussati
e inconclusi a cose di poco
conto se pure enumerate
come innestate in chiare
legende o vacui palinsesti
o elenchi puntati alla meno
peggio a cose di troppo che
esondano dalle meste bordure
a fissaggi di lampanti refusi
a cadute di fonemi slabbrati
livide ingessature e scarti
semantici a tutto quello che
qui si dice a tutto l’altro che
qui si tace coincidono sull’asse
uno o più spaesamenti
*
si dissuade dal continuare
enumerando a ritroso i passi
compiuti nereggia le orme
con colate di caldo catrame
o recupera frasi fatte da
innestare sui margini elude
lo scherno degli inquisitori
di turno e marchia a fuoco
il crocevia ove tutti
sono chiamati all’enigma
rivendica il diritto di incenerire
le radici malate o si asseconda
lanciando il sasso ma solo per
nascondere la pavida mano
*
una lama lucida argentea
sadicamente privata di
ruggine e un vecchio
pennino saturo di pece
saettano convergono
ritornano ricoprono
o solo recidono nervi
e nodi e frasi di troppo
la mano serrata non lascia
la presa ma è questione
di sapori odori o conati
dettati dalla nausea imperante
e le ridicole maschere che
ancora velano un sottile
filo di perfidia attenuano
la viva voce che vorrebbe
far riemergere il silenzio
*
non un lamento né risibili
singhiozzi solo un sussurro
lasciato nello stallo a sfumare
cade di getto la falce sul collo
e il chiodo che cuce le labbra
si offre alla luce per sfatare
il sacro gesto della meridiana
non un tempo univoco né ore
limitate alla sola contemplazione
se mai istanti inanellati come
spirali per mordersi la coda
e andare a capo magari più volte
è solo vana vanità da misero
inchiostratore che sì emerge ma
solo per riproporre e consolidare
sull’asse il giusto inabissamento
da chiose
*
se ci si perde per labili margini
o chiari varchi ove tendere l’arco
e scagliare il dardo dell’anelata
rivalsa se ci si ostina ad esibire
l’ascesso come unica chiave
per l’accesso a un quando che non
sarà mai l’adesso e solo preserverà
i cadaveri semantici di una lingua
privata d’ogni specie di lucore se il
senso scema e se ne muore della
mancanza d’attrito tra l’inevitabile
circolo e l’intrigante scatola cinese
se l’alterco tra la pietra di fiume
e la sapida lapide inonda le radure
vanificando l’aperto ecco che l’ultimo
afflato di un canto tarpato coltivando
l’interrogazione si trattiene ancora
ai bordi per celebrare la sua finitezza
*
se un rumore di fondo un sibilo
ovattato o un edotto chaos magari
un ansimare diffuso perforano
i timpani se il rifiuto della sete
di possesso non riesce a trattenere
a sé l’interrogazione sputando
un ultimo afflato appena esalato
o un rombo abortito magari un nodo
nervoso che riannoda distanza a distanza
se l’irrisolto viandante ricerca
la strada del solo cogito in cui rendersi
prossimo all’inesprimibile se il coro
dei feticci ancora implora la prima
pietra di indicare la strada maestra
non si potrà dare del morente
allo scrivente che cancella le orme
per riproporre in eterno il passaggio
***
Fin dal titolo (e sappiamo che i titoli in poesia non sono dei semplici dati indicativi) questa raccolta di Enzo Campi sviluppa con estrema coerenza, il suo percorso dentro il fare di una lingua che cerca in sé l’esperienza significante. Uno scavo interno perché fuori dalla parola poetica “la moria dei referenti” non può che ricondurre necessariamente alla fonte sorgiva del legame tra la parola e il dire. Là dove il vero si consegna in metafore e i significanti raggiungono grumi o nebulose di significati e segni. E’ da qui che il senso scaturisce in voce intima: a volte allusiva, a volte decisiva.
In poesia il percorso che i testi ci indicano non è quasi mai lineare, e tanto più in quest’opera che, respirando su se stessa annoda distanza e vicinanza, così che può essere compresa (in una delle sue molteplici comprensioni) anche partendo dall’ultima poesia: che è la fine iniziale di un reticolo indecidibile ma, in alcuni punti di snodo, determinato. Così l’autore, a partire da un brusio, da un soffio strozzato che il poeta, ultimo vero parlante, nell’impossibilità di trattenere, riesce ancora a pronunciare, arriva a dire (ma non a tutti, non al conforme, non al “coro dei feticci ” che chiede la prima pietra ) che non può indicare una strada precisa. Perché nessuno può dar seguito a questa richiesta; nessuno che sia, mente e corpo, lucidamente dentro una scrittura viva. Scrittura che è rifiuto di ogni rigidità semantica, ogni illusione comunicativa e ogni allusione a un senso compatto.
Il poeta, quando dà voce al suo pensiero in grafìa e fonìa, pone ogni volta in essere un passaggio che si auto-riforna continuamente. Sembra ripercorrere i suoi passi, ma in realtà “cancella le sue orme” anche dalla sua coscienza, elimina i vecchi accessi dalla sua conoscenza e riporta il tutto a una nuova consapevolezza. Non c’è allora nessun contrassegno primigenio, nessuna primordiale pietra perché ve ne sono, fra le tante, almeno a due a porre il segno metaforico del reale che il viandante/scrivente riconsidera continuamente (in eterno), incoraggiando l’apparente incomprensibilità (l’enigma) dei gesti sonori o silenziosi. E queste due sono: la pietra di fiume e la lapide.
La prima, posta in mezzo alle turbolenze d’acqua del senso, ne devia i passaggi senza preavviso né preveggenza, dove è anche possibile una sua dissoluzione o un suo esodo. Poiché il senso, che ha significanza solo quando il fiato si concretizza in voce e il movimento in scrittura, può rimanere tale anche deflagrando in barlumi o in frantumi, o arrivare fin dentro le lontananze di parole che a volte sono “chiamate a franare”. La seconda, che sembra nominare un punto fermo, in realtà chiama alla sottrazione, liberando la poesia, con un atto di ribellione estremo, anche dalla fonte sorgiva. A tal punto da addentrarsi, “nel poco che rimane”, in sopraffazioni di senso che incorporano nell’oscurità un magma sillabico, fino al dolore di un ribollio sovrabbondante.
Ligature è dunque un poema ricorsivo che emerge dalla fluidità e dalla vicinanza di un’inevitabile conseguenza poetica: sia che la parola, come una lama, tagli la realtà, sia che ne riconsideri, come un pennino, le diverse modalità, resta sempre indistinguibile dal suo dire, dal suo fonema esistenziale che “vorrebbe far riemergere il silenzio”.
Enzo Campi è nato a Caserta. Vive e lavora a Reggio Emilia. Autore e regista teatrale. Critico, poeta, scrittore. È presente in alcune antologie poetiche edite, tra gli altri, da LietoColle, Bce Samiszdat, Liminamentis. È autore del saggio filosofico Chaos - Pesare-Pensare, scaricabile sul sito della compagnia teatrale Lenz Rifrazioni di Parma. Ha pubblicato per Liberodiscrivere edizioni (GE) i saggi Donne – (don)o e (ne)mesi (2007) e Gesti d’aria e incombenze di luce (2008); per BCE-Samiszdat (PR) il volume di poesie L’inestinguibile lucore dell’ombra (2009); per Smasher edizioni (ME) il poemetto Ipotesi Corpo (2010) e la raccolta Dei malnati fiori (2011). È redattore dei blog La dimora del tempo sospeso e Poetarum Silva. Ha curato prefazioni e note critiche in diversi volumi di poesia. Dal 2011 dirige, per Smasher edizioni, la collana di letteratura contemporanea Ulteriora Mirari e cura l’omonimo Premio Letterario. È ideatore e curatore del progetto di aggregazione letteraria “Letteratura Necessaria – Esistenze e Resistenze”.
ho messo in scena - l’álbero e le rose,
la silhouette del vento e del mio amore
In do maggiore IV
: → bianchíssimo più bianco il cuore
che ébbe in una stella - il suo tutto - incandescente,
la sua netta - térra - di preghiera ---
*
: → precíso, precíso è lo stupore
nell’incanto di sempiterne memorie della voce ?
“góte píccole di mondi dove – qui-è-il-cielo!
e quésto di recente appena – respirato!
il pruno scuro nell’ansa dell’inverno → il modo eterno
di dire e sillabare sono stelo - e ómbra -
mite a suono ---
In do maggiore V
: → è térra – In-altézza-di-radice!
quanto già predetto déntro questo specchio, quánto ?
già cantato, cantá-to a menadito: do re mi
di inverni e molte estati, e lúci - supine - di sutura:
dimore incerte degl’álberi di passo - fioríti - sulle fronti ---
In do diesis
(in luogo di p.s.)
→ : dísse - a bassa fiamma - l’estremo suo profondo
schiarirsi nella terra, il suo farsi - tótem - abbacinato
In re minore I
... nell’antro – Di ogni sogno!
vénni io a dilagare perché tua essenza
è il termine rubato al vetro che riluce, misura
fatta di radice límpida di sguardo ...
*
Guardarvi in ogni stanza come se voi foste
profondo témpo a sortilegio : → nuda causa prima
del giorno che ricresce nell’ángolo davanti
il mare e la montagna, e il solco ripiegato
in lunga sua figura : → “álbero dell’acqua
sott’acqua già imbarcato, “ócchio chiuso chiuso
déntro il suo tinnio, nell’anima che soffia
róse - di nuda - nuca bianca ---
---
In re minore II
: → e dópo - dopo la deriva - ci sia un elmo,
úno - per ogni - nuova stanza, e un fiore
apérto - di nótte - a meraviglia : un raggio
ricurvo come prua, e lúna - Luna-in- abbondanza!
a rimedio - dei rimedi, ad intátta
síllaba dei cieli ---
*
:→ muore - muore-il-mondo! tacéndo
a paradiso, muore - quell’éssere per sempre
sotto la tettoia, in qualúnque
sguardo dell’ortica → “muore, muore scuro
nel báttere a galoppo di álbero e nitrito,
intátto per ogni suo peccato in ógni ?
suo castigo ---
---
In re minore III
…ébbi - innanzi agli occhi
álberi e cerbiatti álti e di profilo ?
l’álba e la mia tana battuta contro muro…
*
generarti a nome del mio tempo
fu l’unico segreto, specchiato e dondolato
in sogni impenitenti - di labbro e di fessura ?
fu lava - ai piedi già ghiacciata, l’incavo
segreto di paura nel buio sconosciuto ?
il mare! archetipo di spazio nell’atto di dormire [ ]
[ ]
In re minore V
[ tutto fu misura di conscio crepitare a terra di boscaglia,
“álbe – Rese alte! da incógnite tue rose, “fíbula del tempo
di guardia alla fontana ---
*
:→ fiorisci - dúnque - in rottura di parola,
nel sempre che si accosta ?
a boe, e puri soffi, a módiche tue brezze
accólte - nel mondo - in entroterra: gomene
Trainate curve! fino al corno in cui cantando
abbellisci a squarciagola: → profilo che ti chiamo
smussato delle labbra : → mio - strano dire
di mio - strano cuore ---
---
In re diesis
( in luogo di p.s.)
→: sono elmo di tempo che si avvera, gomena
Trainata curva! in abbaglio di materia : módica tua brezza
di ombra senza terra ---
In mi settima diminuita I
Gioco già cosparso - di ciglia e di memoria
l’orlo di pietra ignota e terra smisurata : lábbra ?
prensili di luna, contratte - nei geli degli inverni ?
ómbre e violacciocche vegliarde e frettolose,
sottopeso piegate come fronti ---
In mi settima diminuita II
L’UNO verso l’altro,
a tempo di segreto: sbáttere di porte
in volo interrogate: álberi che vanno
óltre - la lúcida cometa, sciólti
in ordini leggeri - di scavi
e migrazioni ---
In mi settima diminuita IV
L’INCAVO - tra il sogno e il tuono
è la rosa plasmata a dismisura, térra
che occupa se stessa germogliándo
in ácque di silenzio, in vértici a dimora
di un lungo solo bacio perfétto di ventura ---
---
In mi settima diminuita VII
:→ tuo viso - l’altezza che sprigiona
silenzi già cercati nel cavo delle mani ?
fiamme di materia - nate - dall’éstasi che fece
di quésto quasi tempo sicure dispute di sogno ---
---
In fa diesis I
: → sí-lhouette di rosa non rosa
la bruma che atterra ombra e paura : l’ócchio
reso dettaglio di forti fruscii di voci ---
*
: → sospeso ora a mezz’aria è il largo tinnare
di un fondo di suono, l’orco e il profano
a inizio profondo di cambi di impronta
nel folto del bosco : múra ?
di schiuma leggera, vermiglia sui rami,
sui lumi - incisi di vero, veggenti di cieco
colpo di vento, térra che scorre proibita ---
---
In fa diesis IX
[ pronún-cia, pronuncia sottovoce
il non-sogno guardato a tenerezza : i pioli
del cielo - da stanare ...
…
L’esodo che viene è la vostra sola testa tenuta tra le mani,
il lámpo - oscuro e trapassato - del mondo che ricade
dénso nel suo capo, nel moto che tránsita di fuoco,
óltre le locuste - nere - di peccato –––
_____
In la diesis I
Parte e si diparte lo stormo degli uccelli,
spigolo che curva terre costruite
in opposti versanti di radice : occhio e mondo
scuri di frontiera, sabbia e pura gemma
di notte che si allarma in lunga traiettoria,
a sogno che già dorme in moto di presagio,
in néro álbero d’ortica ---
---
In la diesis II
:→ l’ócchio, mi siete l’occhio
fiorito sul leggio, e il conto degli scarti
nel sogno navigati, come térre, terre a profezia ...
*
: → filare bellí-ssimo e vivente il corpo diventato
asprezza! dell’orbita del mondo : stormo
di altíssima dimora, apérto, aperto a sentinella
nel verbo dell’ortica : → lá-crima svegliata stornando
térra dalla terra, “l’ómbra - dall’álbero fantasma ---
In la diesis VI
[ spargete - immóbile vi prego - quésto lungo bosco,
la chiusa dei lunghi mondi - venuti - qui per gioco ...
*
:→ fíno a questo dire è salita ?
con l’árgano la voce: silhouette - informe interamente,
strana luna corsa tra le porte della stessa stanza, sfogliata
sull’orlo dello sguardo - stupefatto - di sibilla [ ]
[ ]
***
La poesia è sicuramente, per chi la fa, opera di lingua totale. Lingua che ingloba in sé le potenzialità e le diversificazioni tecniche e significanti di ogni forma del dire, virtuale o in atto che sia, in modo tale da farla essere scrittura vitale e non solo d’arte. In questo senso il canto di Silvia Comoglio sceglie una direzione modulare e sonora (già sperimentata in altri suoi libri), particolare e fondamentale per la sua idea poetica, resa totalmente evidente con la notazione musicale a titolo di ogni suo testo. Leggere la partitura di queste poesie è quindi un’esperienza unica: tutto è concertazione e concentrazione di suono e ritmo. La grammatica innalza le sue sonorità, i segni si espongono, il sintagma si spezza e si ricrea nella voce mentale e nella concretezza di consonanze vocaliche che danno parola al testo e prefigurano un ascolto.
Ma è quando il senso si riversa nel suono che il lettore viene catturato e obbligato, con il piacere di lasciarsi avvolgere e coinvolgere, ad agganciare le sue interpretazioni a riverberi, a onde, a rifrazioni sonore che prefigurano e indicano un percorso. In queste poesie il linguaggio viene frantumato e ricompattato continuamente, e l’aspetto sillabico-fonico, imprescindibile in una scrittura/lettura vocale, è determinante per il candore e l’armonia che la musica imprime nel paradigma esistenziale in cui l’autrice è immersa e da cui emerge per dirci cos’è che avviene lì sulla pagina. Un mondo prende vita e voce, un mondo che abbraccia il tutto naturale, emozionale e immaginario che solo una lingua incantata, ebbra e amorevole può rappresentare. E lo sviluppo che Silvia Comoglio opera del soggetto poetante dentro questa materia, è completamente aderente al percorso narrante di un io che la poesia estrae dal poeta per dirsi nuovamente.
Scrive l’autrice: ”→ stanotte – sono – chi racconto/.../”. E lo scrive in due momenti diversi, per due figurazione diverse: una di memoria slegata e verità di percezione, l’altra di finzione senza falsità innaturali. Ed è tra questi due poli, tra bugia e leggera follia, tra rosa e micro-bosco, che prendono vita le circonvoluzioni di una voce sognante e sonante. E’ nella notte, nell’oscurità che emerge pian piano uno scintillio di luce che chiama le cose a darsi forma, protette da un’intimità lieve, sfiorata, mai violata. Un soffio interiore consapevole che cercarsi e guardarsi è libertà d’immaginazione vera: musicata e dondolata al ritmo del corpo, del respiro, dell’occhio, in melodie anche spezzate e zigzaganti, ma sempre in armonia con la scrittura che ne è la consapevolezza e la bellezza reale.
C’è una struttura, che tiene l’andamento e la compattezza di questo poema, sostenuta da un equilibrio che possiamo chiamare affettivo: quello di una lingua tenera ma ferma, che mostra senza pudore i suoi tratti trasparenti, a volte informi, a pelle liscia, cuore infante di stupore arcano e mistero sibillino che sta “nel letto della voce”. Perché è nella parola che si ama; è con il suono che si abbraccia e si trema. E in quell’oscuro chiarore, che è il lato ombroso del linguaggio, dove il tanto e il poco sembrano pronunciati con timidezza, in realtà è lì che si situa la passione del canto: dove ciò che sta davanti si intuisce ma non si vede, se ne percepisce la silhouette, il contorno sufficiente a circondare e a stringere “l’ombra e l’ombra e l’ombra”.
Ma l’ombra, che non ha spessore né attrito, è anche sintomo di una leggerezza che percorre e lega la modulazione dei testi. Una notazione sospirata, ondulante che scrive e sogna come dire ciò che dice: terra e aria, gravità e levità. Infatti nelle varie poesie la presenza di elementi vivi del paesaggio naturale ha la capacità di costruire, intorno a se stessa, un microcosmo di fisicità che àncora la scrittura a un sentimento capace di pronunciare i versi come fili d’erba. Ma, ancor più, di risuonare in consonanza o dissonanza con l’alba e i piccoli animali (lumachine, rane, uccelli, scoiattoli) che vivono nel testo e ne rispecchiano, senza nessuna ingenuità, i moti spontanei. E lì, dove il fulcro dei testi si raccoglie in parole, sillabe, fonemi – scansioni precise di lingua, voce, suono – lì sta la natura poetica del mondo. Un luogo che da questi segni è nominato e con questi segni rifatto nel tempo e nello spazio, nella storia e nelle storie, nella consistenza e nella forma, perché, e pensiamo a Wallace Stevens, il poeta suona e non suona le cose come sono.
E anche i sogni o i movimenti sonnambuli, che l’autrice pone quasi a fiaba di fanciullezza iniziale, a cui la poesia sempre tende e da cui ha origine, stringono a sé un vortice di vento i cui effetti, pur vedendosi soltanto in superficie, sprofondano in una ventosità estenuante, una “ùr-/genza di stare contro/.../” per dare realtà all’immagine vera di un mondo ricreato “nel vento/eterno del prato”. Ma in questa scena di quotidianità trascendente Silvia Comoglio riesce a darci, con una mirabile capacità visiva, una folgorante visione del suo strano cuore, nello strano mondo del suo strano dire in un “làmpo di ànatra che guarda la persiana buia della casa---/”.
E’ questo il dicibile difforme, ma poeticamente reale, che l’autrice ci mette davanti: come a dire che non c’è vita senza poesia e la morte sta nella mancanza di canto. Perciò si deve scrivere sillabando il respiro nella mitezza di un suono d’ombra, in questa sinestesia che è il centro della voce. Non una riga senza avere pensato o sentito ciò che essa scrive, dice Joë Bousquet; così per Silvia Comoglio è la metafora del canto a sentire la concretezza nella vita del poema, in una voce che sempre si dà “déntro il suo nome precíso”.
Silvia Comoglio è nata nel 1969 e vive a Verrua Savoia (To). Laureata in filosofia, ha pubblicato le raccolte Ervinca (2005), Canti onirici (2009), Bubo bubo (2010). Suoi inediti sono apparsi nel blog “La dimora del tempo sospeso” e nelle riviste “Il monte analogo” e “Le voci della luna”. E’ presente nei saggi Senza riparo. Poesia e finitezza e Blanc de ta nuque, entrambi opera di Stefano Guglielmin.
13
E’ uno scivolamento costante. lo smottamento del tempo. che frana a pioggia sui nostri occhi. tredici secondi che illuminano. sassi. ortiche. bocche. è uno scenario disumano. grigio cupo e rocce. lampi di straordinario. solo a tratti.
12
Io lo so com'è ch'è il vento. come a un certo momento. con le foglie si solleva e corre. come filtra dal di dentro. e soffia oltre le porte. io lo so come fuoriesce. da molte bocche storte. come alimenta un fuoco. di benzina e nulla. come sibila piangendo. o ride dei suoi colpi. piantando chiodi. dodici e lunghi per infliggere tormento.
11
E’ così che siamo fatti grandi. di pietra. su cui poggiare i nostri credo. le statue d’intaglio. il bronzo colato. il gesso dei nostri piedistalli. di marmo la forma. i sensi smarriti. la progressiva perdita del sacro. è così che tracciamo undici rotte all'infinito. e navighiamo distanti senza toccarci. guardando in lontananza. la consapevolezza dei nostri disincanti.
10
E’ un destino scelto. la solitudine del dieci. dove gli altri non c'entrano. non per scelta. né per il destino. e nemmeno per la solitudine. che anzi è spazio così profondo. dove tutti trovano posto. nel tempo loro. dentro.
9
Si scrive sempre l'effimero del mondo. gli ultimi pezzi. il titolo deciso. le molte pagine di versi. dal nove è un parto sotterraneo. pasto di viscere e memoria. nascerà intero il mostro. non per la luce e nemmeno per la gloria.
8
Non lo credevano possibile. che crescesse come gli altri. che si facesse grande. che le curve gonfiassero la carne. otto espressioni di meraviglia. e tanti complimenti. per quanto inutili ogni volta. a dare forma al corpo. a fermare la sua rivincita potente.
7
Di una magrezza estrema. i sette anni. credevano d’avere per missione. di far ridere tutti. come un buffone.
6
Poi si fece un varco. un altro navigare. dove mancavano alleati e pure il mare. passava veloce il tempo. ripassando parti. da ragazza timida e scontrosa. sei gradini per l’accesso. all’atrio sottomesso della scuola.
5
L'ovale del viso incorniciava. l'attaccatura dei capelli. lei tutti da un lato. lisci e neri. io ricci e quasi biondi. tirati in alto indietro. verso la sommità del capo. in una coda. a scoprire bassa la fronte. da bambina. nella foto della quinta elementare.
4
Un fiocco in testa. l’altro. in disordine sul petto. quattro dita penzolanti e corte. un fiocco modesto. discinto e senza corpo. che a nulla valeva inamidarlo. appuntarvi le medaglie i premi vinti ottimi voti. ugualmente non reggeva il confronto. con quello degli altri. sempre perfetto per forma e per colore.
3
Si direbbe il numero perfetto. se non fosse uno stato. rinnegato per tre volte.
2
Nacque e fu un errore. di sesso femminile. avrebbe dovuto avere un genere diverso. l’altro dei due possibilmente. sempre che poi. non ne esista un terzo. né carne né pesce. degli idonei ad essere. personaggi per sempre. alla ricerca di se stessi.
1
Dicono che accade. che prossimi alla foce si ritorna all’uno. al grembo della madre.
0
Per dire il fiato
non basta un solo stato
e poche righe in rete
non bastano alla bocca
povera di dita
i tasti freddi
inverni inesauribili
milioni di rinate primavere
per dire tutto il fondo sincero
l’aprirsi dell’anima il respiro
che soffia dai polmoni possente
acceso
insostenibile all’umano peso
e gonfia guance occhi e trombe
la grazia del creato
l’acqua rigogliosa di cascata
il fragore bianco alla discesa
gli zoccoli i ruggiti
i versi di tutti gli animali
le piante aperte in gemme
i frutti e meravigliosi fiori
i loro semi nei soffioni
il volo magnifico di stormi
a disegnare onde in cielo
fluttuanti come un velo
il grano al vento come seta
il senso infinito di ringraziamento
l’appartenenza al mondo della vita
degli esseri esistenti e benedetti
nel segno universale
grandioso naturale
della Madre nostra
scintilla planetaria
miracolosamente ancora
terra viva.
***
Una scansione temporale inversa, dove il già accaduto appare come un presente ulteriore, può significare una ricerca che tenta di rendere sensibili ed evidenti a se stessi connessioni e significati vissuti, ma che necessitano di nuova percezione ed esperienza. Dalle profondità del passato, scandito in sequenze di ore piene di tempo compresso, si recuperano momenti esistenziali, prove di vita che, momento dopo momento, ritornano all’oggi: o meglio allo zero presente di una esterna, perché visibile in scrittura, interiorità singolare e frastagliata nei suoi eventi.
Ma per chi è in atto di poesia, consapevole del suo fare concreto, come ci mostra Loredana Semantica in questi appunti poetici numerati, sa che anche la scansione materiale del testo produce la sua significazione: ad esempio nell’emozione di un senso che è gratitudine e palpitazione anche a partire da una piccola fonìa grafica: là dove annota che la perfezione della sessantatreesima ora “risparmiò una e. e dentro aveva il tre” e la fatica di una nascita all’infinito. Si vede dunque chiaramente la valenza poetica di una forma del sentimento che va dall’alfabeto alla significazione continua di un perenne inizio di senso. Una progressione continua, dunque, una scansione che sembra avere un andamento che è più una distensione che un cammino. I testi infatti si presentano sulla pagina come delle riflessioni senza versificazione, salvo il fatto di essere punteggiate, e perciò respirate interiormente, con un ritmo che è connotazione di un lento stato, come di attesa.
Scrivere allora diventa un modo, passo dopo passo, di raccogliere figure e sostanze, percezioni e immagini, in un brusio modulato che prende corpo e pensiero. E dove noi che leggiamo ne sentiamo le fluttuazioni, da un estremo all’altro, di quel particolarissimo essere lirico che è l’ansia del poeta. Ogni tanto però il testo da lineare ritorna in strofe, senza segni di punteggiatura, rette solo dal proprio scandire lo spazio e il tempo della scrittura e della lettura: della parola detta e della parola taciuta, anche quando “accade che si scriva/ed è un errore”. Ma non c’ è modo di smettere il canto, perché è lì a dare evidenza esemplare al proprio dire, a disincarnarlo dal corpo centrale per desiderio di leggerezza o di precisazione nel suo offrirsi totale.
E nonostante l’io sia una “preda indifesa”, nel testo si lascia andare a circonvoluzioni di assoluta e precisa libertà, dove la luna ritorna ad essere la poesia centrale: in un impeto di suono, rime, assonanze che scandiscono un momento di bellezza e purezza.
Poi qualcosa ripiega in se stessa e dentro di sé tace, seppur con fatica, anche i modi in cui la vita si snoda, si arrotola, si contrae e sembra all’apparenza contraffarsi. Ma nonostante questa ferita dentro il senso, questa difficoltà nel comprendere i segnali e la voce che tenta di fermare la conta delle ore, c’è ancora un TU, un altro a cui donare ciò che appartiene e che abita la poesia: la parola. E se anche sono “parola vuote”, quando le vedi davanti, una dopo l’altra, sono “come fiori offerti. come fiammiferi accesi”. Perché non è possibile, quando il linguaggio chiama la lingua a farsi suono, voce e poi scrittura in segni necessari alla propria sconosciuta origine, non considerare l’ascolto di sé, che scrive se stesso, di natura universale, nello “scivolamento costante” verso un’origine materna, inesauribile.
Loredana Semantica, nata a Catania nel 1961, è laureata in legge, sposata con un medico, ha due figli, vive e lavora a Siracusa come funzionario pubblico. Si interessa di poesia, fotografia e lavorazione digitale di immagini. Proviene dall’esperienza di partecipazione e/o collaborazione a gruppi poetici, di fotografia, arte digitale, litblog, associazioni culturali nel web e su facebook. Ha pubblicato in rete all’indirizzo http://issuu.com/loredanasemantica le seguenti raccolte visuali e/o poetiche: Silloge minima (7/11/2009) Metamorfosi semantica (3.2.2010), Ora pro nomi(s) (27.3.2010) Parole e cicale (13.8.2010) L’informe amniotico (27.2.2011). Gestisce il blog “Di poche foglie” all’indirizzo http://lunacentrale.wordpress.com/.
Luca Artioli, “La casa a cui vieni”, L’arcolaio, 2012, pp. 79, euro 11,00
Onesti versi
Con “La casa a cui vieni”, Luca Artioli presenta una raccolta nella quale si coglie una sorta di non detto assiduamente presente.
Il linguaggio è piano, il fraseggio del tutto comprensibile, eppure qualcosa chiama da fuori.
Un fuori che tuttavia è anche dentro a quelle parole, a quelle articolate immagini, a quel poetico àmbito verbale.
Qualcosa c’è e non c’è, si mostra e non si mostra in un divenire idiomatico che nel descrivere l’esterno partecipa di un’interiorità onnipresente nella sua minima, immensa dimensione.
Dimensione intima di un’attitudine espressiva piccola ed enorme nello stesso tempo, non misurabile in metri o grammi, bensì in intensità dell’esserci.
Il percorso della silloge si svolge, così, lungo direttrici dettate da una salda consapevolezza del valore dell’esistere.
Le persone, gli avvenimenti, gli oggetti sono lì, appaiono per via di un atteggiamento poetico che parla la sua semplice lingua.
Leggiamo:
“E se piove sarà divano, piedi
scalzi e onesta poesia”.
Il “divano” diventa, in una giornata di pioggia, quasi circostanza esistenziale (non a caso è usato il verbo essere: “sarà”) ed elemento di passaggio da una maggiore naturalezza (“piedi scalzi”) a un’“onesta poesia”.
L’aggettivo è di non secondaria importanza.
“Onesta” non pare alludere a un’auspicabile sincerità quale traguardo da raggiungere, ma a una dimensione dello stare al mondo che continuamente si ripropone e, dunque, è progetto, desiderio, necessario sbocco espressivo.
Non mancano tratti capaci di meravigliare
“Sediamo sull’erba come
chi entra nella notte”,
d’indurre a una riflessione sulla stessa natura del comporre versi
“il chiostro della poesia”,
o di suggerire un rimpianto che sa farsi solida constatazione
“La solitudine dei gesti incompiuti
racconta della mano che non ha
carezzato, del piede immobile”.
Il tutto per via di tocchi precisi, misurati, volti a non interrompere una narrazione poetica che assume, in quanto tale, un importante ruolo.
Il lettore può apprezzare, di pronuncia in pronuncia, una raffinata trama linguistica in cui il senso di trasferimento proprio del racconto (forse già annunciato, in forma di moto a luogo, dal titolo) si avvale di un costante e indicibile quid che, pur non essendo parola, è onnipresente.
Non si tratta di un’origine in senso stretto, ma di un ininterrotto accenno sotteso, quasi un rimando che non si riferisce a un’entità esterna poiché vivido riflesso che fa parte di quella medesima entità.
Siamo fatti anche d’ineffabile: questo mi pare l’onesto messaggio di Luca Artioli.
Silvia Comoglio, “Silhouette”, Anterem Edizioni, Verona, 2013, pp.47, s.p.
La parola del sogno
“Silhouette”, di Silvia Comoglio, si presenta quale intensa raccolta in cui il vivido desiderio di una lingua differente diviene originale espressione poetica.
Per la poetessa, l’usuale grammatica, lungi dal costituire inderogabile complesso di regole, è, piuttosto, orientamento, tendenza cui non è necessario adeguarsi in modo rigido.
Qualcosa di realisticamente onirico è presente in versi che paiono talvolta generarsi reciprocamente, altra volta quasi dondolare nel vuoto di una peculiare musicalità che manca eppure c’è, altra volta ancora proporre immagini precise per poi aprirsi su universi inaspettati.
Il sogno è indissolubilmente legato alla nostra vita: ci accompagna giorno dopo giorno, istante dopo istante.
Silvia si assume l’impegno di offrire, con responsabile creatività, specifici sbocchi espressivi a tale aspetto dell’umano esistere.
Pronunce quali
“Parte e si diparte lo stormo degli uccelli,
spigolo che curva terre costruite
in opposti versanti di radice: occhio e mondo
scuri di frontiera, sabbia e pure gemma”
e quali
“Predice incanto la notte pura a tempo
insonnia che illumina il tuo stato
di lingua ancora ebbra, di eco che rapisce”
mostrano in maniera evidente la tendenza a evocare un vivido altrove linguistico la cui esistenza emerge da un interno che è, nello stesso tempo, esterno.
L’identità dei tratti linguistici è, dunque, labile?
Sì e no.
Sì, se ci riferiamo all’affievolirsi delle caratteristiche tipiche del comune idioma, no, se apprezziamo originali fattezze verbali per nulla imprecise, anzi distinte e perfino tenaci.
Impegnata molto seriamente nella costruzione della sua lingua, la poetessa procede con assidua determinazione: si tratta, nel suo caso, di un vero e proprio progetto espressivo che viene posto in essere in forma di poesia.
Diversi sono i modi di scrivere e diversi sono quelli di leggere.
L’intero, qui, si compone delle sue parti e, contemporaneamente, è ciascuna parte, poiché l’intensità del linguaggio conferisce specifica fisionomia a tutto lo scritto come al singolo brano.
L’assonanza, più che essere frutto di armonie interiori, diviene nei suoi aspetti generali e particolari con il procedere della lettura.
Occorre rendersi disponibili al dialogo con un’autrice che è presente non dietro le sue parole, bensì con le sue parole.
Soltanto se simile disponibilità non fa difetto, l’orchestrazione di “Silhoulette” si apre, senza segreti, a ogni ulteriore lineamento di senso.
O, meglio, taluni segreti persistono, ma ora – ce ne rendiamo conto – sono anche nostri: sono, a ben vedere, enigmi in cui non possiamo non imbatterci quando usiamo la lingua.
La corda della chitarra vibra nel cavo della cassa armonica come pure in coloro che ascoltano, poiché ascoltare uno strumento musicale è già suonarlo.
L’intento del poeta è certamente quello di coinvolgere i suoi lettori, di far echeggiare in loro i suoi versi: credo che Silvia Comoglio, per via di un dire intimo ma non privato, giunga felicemente a siffatto esito.
La voglia di poesia è contagiosa?
Nel caso di “Silhouette”, sì, senza dubbio.
Mauro Germani, “Terra estrema”, L’arcolaio, Forlì, 2011, pp. 103, euro 11,00
Il sostegno della poesia
Con “Terra estrema”, vivida raccolta articolata in tre parti, Mauro Germani non delude le attese suscitate dal titolo.
Il suo è davvero un viaggio in una terra estrema, in un’ultima regione esposta sul magma dell’indicibile.
Non si tratta di una sottile linea di confine ma, appunto, di una “Terra”, ossia di un territorio nel cui àmbito l’esistere partecipa di particolari qualità.
Qualità che, secondo logica, dovrebbero essere tra loro incompatibili, ma che, qui, appaiono distinte e nello stesso tempo fuse assieme.
Leggiamo:
“in silenzio, tu
altro da te, altro nell’altro,
solo, a frantumi,
nello specchio rovesciato
del mondo”.
Germani, come si vede, dice e si dice.
L’enigma dello stare al mondo (equiparato a uno “specchio rovesciato”) è vissuto nei termini di una scissione multipla (“tu / altro da te” ma anche “altro nell’altro”) in grado di porre sotto minaccia lo stesso concetto d’identità personale e di inoltrare l’autore o qualsiasi altro individuo, come dice Marco Ercolani nella sua intensa nota introduttiva, “nell’abisso del dolore”.
Siamo al cospetto di un non rassicurante processo dalla durata tendenzialmente illimitata che, nel caso in esame, trova un saldo ormeggio nella parola stessa della poesia: al pericolo di dissoluzione, il Nostro oppone l’argine dei suoi versi.
Avendo sotto gli occhi i conturbanti esiti della propria sensibilità lucida ed estrema, capace di cogliere con rigorosa chiarezza aspetti difficili da sopportare, riconoscendo in sé, quale intimo lineamento, un’inquietante visionarietà (“Forse corpi di corpi, / corpi dentro corpi”), il poeta reagisce con l’uso di un idioma che assume i tratti della pronuncia salvifica.
Se nella scienza medica una corretta diagnosi non è ancora cura, in poesia tali due aspetti tendono a coincidere o, almeno, a confondersi: dire, con poetica franchezza, una contingenza (o un’emergenza) produce già effetti benefici.
Il poeta condivide le inquietudini dei suoi simili e le rende esplicite, sicché la sua è parola individuale e, contemporaneamente, collettiva, comune.
Si tratta di un’offerta per nulla generica in cui ognuno può trovare il sostegno di una lingua originale ma mai estranea: la scrittura, almeno una certa scrittura, può essere di grande aiuto.
Con cadenze che alternano forme di verso libero a lineamenti di prosa poetica, attestato al di qua del limite oltre il quale dalla feconda rappresentazione dell’enigma si rischia di cadere (con pericolo di annientamento) nell’enigma stesso, incline alla pregnante esattezza di ritmi precisi articolati in una complessa versificazione, Mauro coglie dell’immagine l’aspetto liberatorio, l’impulso a proseguire, a non restare ancorati a quello che, in senso stretto, viene rappresentato.
Emblematico, a questo proposito, il “Nudo” di Munch riprodotto in copertina?
A mio avviso, sì.
Giovanni Infelíse, “Dépassé”, Book Editore, 2011, pp. 71, euro 12,00
Un doloroso desiderio
L’oggetto o, se si vuole, il protagonista di “Dépassé”, complessa raccolta di Giovanni Infelíse è, a mio avviso, l’inarrestabile scorrere del tempo, il suo procedere senza sosta dal passato verso il futuro attraverso il presente, il suo essere intimamente parte dell’uomo secondo lineamenti di memoria, di senso del qui e ora, di aspirazione, di attesa, di desiderio, di disinganno, di dolore.
Il poeta vive la dimensione esistenziale in maniera molto intensa ed evidente è la sua determinazione a renderne testimonianza.
Ma, come testimoniare?
Fino a qual punto le parole possono essere considerate appropriate?
Quesito di enorme portata che non scoraggia il Nostro, come dimostra il fitto dettato.
Possiamo utilizzare in modo diverso il linguaggio, possiamo modificarlo, ma non possiamo farne a meno.
Non è una condanna, è un’ineliminabile condizione della nostra vita.
Infelíse, così, non rinuncia al dire.
Il suo è un dire prosodico ed evocativo.
Una sorta di poetica offerta di sincera fratellanza consente al lettore di non sentirsi estraneo a un articolato flusso idiomatico, d’immergersi nella peculiare densità di una pregnante atmosfera.
-Se sono qui in mezzo a voi, quel voi è già un noi- dice il poeta coinvolgendo e coinvolgendosi in un tempo esistenziale coincidente con la vita stessa.
Leggiamo:
“Parli di un sacrificio ebbro di disperazione,
una dura prova sragionando allarma
il tempo dell’altro”.
Esiste non soltanto il mio tempo, ma anche quello dell’altro: il rilevante problema che si pone, perciò, riguarda l’impegno necessario a entrare in rapporto, a comunicare.
Il contatto con l’altro richiede disponibilità, esige qualcosa di più, qualcosa che, aprendosi al diverso
“è tutto ciò che allontana
dalla consuetudine e dalla devozione,
da una desolata certezza”.
Il tempo dell’auspicabile dialogo è dunque nostro e altrui.
Siamo di fronte a una possibile perdita o a un eventuale acquisto: c’è un rischio da correre se non si vuole vivere nella “desolata certezza” di uno sterile individualismo.
Lo scenario non appare per nulla sereno, poiché implica un esporsi dall’esito incerto:
ogni decisione, per quanto ponderata, partecipa di una natura aleatoria che, ci accorgiamo, permea tutta la nostra vita.
Prenderne atto, tuttavia, non significa necessariamente cadere nel più cupo sconforto.
Di fronte all’ineluttabile accidentalità di noi stessi e del mondo, Giovanni scopre nell’incertezza fiduciosa un atteggiamento capace di attenuare l’inquietudine:
“Resta il dubbio a offrire un’oscura calma,
una trepida sorgente che s’apre al pelago
e all’abitudine di amare il giorno
che a te mi porta con dolorosa gioia”.
Quasi una dichiarazione, resa particolarmente efficace dall’ossimoro “dolorosa gioia”.
Siamo al cospetto di un dubbio non sterile, tale da costituire un àmbito in cui prendere respiro e una tregua da cui ripartire, un dubbio che, da solo, non condurrà l’umana specie a condizioni di pacifico equilibrio, ma che, in ogni caso, avverte il poeta, potrà essere d’aiuto lungo un percorso
“in cui ognuno resta ciò che era:
un desiderio doloroso”.
In tali non tranquille circostanze è presente, però, una consapevole speranza:
“Ora siediti e parla,
siedi vicino e parla”.
Sta a noi, anche se non siamo seduti l’uno accanto all’altro, porre in essere una relazione per via del linguaggio: occorre cogliere e sviluppare al meglio simile opportunità.
Quale poeta, del resto, non crede nella parola?
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Francesco Onìrige, Cosimo Ortesta, Luca Paci, Giuseppe Pellegrino
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Andrea Raos, Jacopo Ricciardi, Giuliano Rinaldini, Gianni Robusti, Marta Rodini
Cecilia Rofena, Andrea Rompianesi, Stefania Roncari, Silvia Rosa
Sofia Demetrula Rosati, Pierangela Rossi, Giacomo Rossi Precerutti
Luca Sala, Tiziano Salari, Luca Salvatore, Massimo Sannelli, Viviana Scarinci, Evelina Schatz
Massimo Scrignòli, Loredana Semantica, Maurizio Solimine, Lucia Sollazzo, Pietro Spataro, Maria Paola Svampa
Italo Testa, Matilde Tobia, Maria Alessandra Tognato
Luigi Trucillo, Guido Turco, Giovanni Turra Zan
Tonino Vaan, Matteo Vercesi, Maria Luisa Vezzali, Ciro Vitiello