LA MADRE DI MÜNCHAUSEN
Si narra che una signora di mezza età, madre di un bambino, sposata da decenni, portasse settimanalmente il proprio piccolo in ambulatori ed ospedali, e lo facesse sottoporre ad esami clinici continui, terrorizzata dal continuo malessere del figlio, inspiegabile; mai rassicurata dalle risposte dei dottori, che escludevano il male essersi impossessato di quel corpo.
Pure il bambino morì. E lei a gridare contro gli assassini in veste bianca, simili a sacerdoti in sacrificio.
Si scoprì che lei lo aveva avvelenato, lentamente, a piccole dosi; che lo strazio del bambino derivava dal quel quotidiano rito della madre, silenzioso e invisibile a tutti. Non negò, né si sentì colpevole. Lo sentiva liberato per sempre, leggero ora.
Avrebbe dovuto liberarsi da se stesso, tirandosi per i capelli, il piccolo Münchausen. Ma troppo piccole le braccia, e pesante il corpo da innalzare.
E poi la palude, che risucchiava dal basso, era l’unica cosa che conosceva e di cui in fondo si fidasse.
DICERIA DEL TOPO E DEL SECCHIO D’ACQUA
Da tempo i topi hanno invaso i piani superiori. Si sentono nella soffitta – non è una novità – e correre per le scale. Da tempo hanno preso le abitudini di noi inquilini: non si arrampicano più per i muri; se sentono rumori, spaventati si fermano; si sono disposti a più congrui nutrimenti, optando per i resti dei nostri pasti, lasciando integri fili elettrici e battiscopa.
Una vecchia consigliò di mettere un secchio d’acqua al sommo della scala: se riuscirete ad annegarne uno, disse, tutti gli altri lo seguiranno. Noi l’ascoltammo.
Prendemmo un secchio, lo riempimmo d’acqua, lo portammo alla fine della scala; oltre vi è il tetto. E ci mettemmo ad aspettare. Per ingannare l’attesa parlammo a lungo, seduti, mentre lentamente si faceva buio.
Non ci accorgemmo, conversando, che un topo era finito nell’acqua e annaspava; tentava di risalire le pareti di plastica ma non vi riusciva. Ci eravamo ripromessi di affondarlo con uno straccio ma poi, per inerzia o scarsa convinzione, lo prendemmo in mano e lo lasciammo andare. Fuggì lasciando una scia d’acqua dietro di sé.
Qualcuno tra noi si chiese per quale strano mistero quell'animale non nuotasse; altri perché avremmo dovuto ucciderlo: d’altronde i topi non disturbavano più e si erano pure sforzati per rassomigliarci.
Ma vi fu anche chi si allontanò portando rancore agli uni e agli altri.
TESTAMENTO IN RIVISTA
Mi è capitata in mano, per caso, una rivista: fatta da dei dopolavoristi, in una scuola che li ospita in sere illuminate a neon, ripulita dalle lordure del mattino, dal chiasso delle aule ai cambi di ore. Per anni si sono incontrati, dopo l’ufficio, la fabbrica o la casa: madri e padri di famiglia, per poche ore a settimana, per discutere, confrontarsi, approvare. Tante le materie: poesia, storia locale, onomastica anche.
Una di loro è morta di cancro, poco dopo i cinquanta. Ha scritto una lettera ripercorrendo con il pensiero i momenti trascorsi, ringraziando tutti nell’accomiatarsi.
Insegnava loro spagnolo. Per quanto tutti fossero già impegnati e nessuno avesse intenzione di cambiare impiego – si è troppo avanti infatti con l’età – ed una lingua in più in fondo non servisse, la ascoltavano sempre in assoluto silenzio. Facevano domande, anche. Così li ricordava, e così loro ricordano lei. Nella rivista stampava le sue ricerche.
Basta questo, ma forse molto meno, per fare un’esistenza.
Nota dell'autore: Autoesegesi minima
Le tre brevi prose aprono sentieri intorno ad alcuni nodi emblematici che si nascondono sotto il velo apparente della quiete e del transito ordinario di eventi quotidiani. Nodi che ci spingono alla decifrazione.
La madre di Münchausen attraversa il crinale del doppio legame Eros-Thanatos, rappresentandone il volto orrorifico e patologico.
Diceria del topo e del secchio d'acqua è una – tra le infinite possibili – rappresentazioni delle aberrazioni del potere; la messa in scena del programmatico tentativo di eliminazione dell'«altro». Testamento in rivista è un atto di conciliazione etica nell'intersoggettività. L'unica possibile. M.V.
Matteo Vercesi è dottorando di ricerca in Italianistica e Filologia classico-medievale. Ha al suo attivo pubblicazioni in volumi collettivi e in varie riviste, riferibili prevalentemente alla produzione in volgare del Duecento e Trecento e alla poesia del Novecento e dell'età contemporanea. Si è occupato di aspetti riguardanti la riscrittura letteraria di figure e tòpoi della mitologia classica e della tradizione biblica, collaborando alle opere, edite in più volumi e dirette da Pietro Gibellini, Il mito nella letteratura italiana e La Bibbia nella letteratura italiana (Brescia, Morcelliana); della ricezione e diffusione della figura di Alessandro Magno in epoca medievale e moderna; e di letteratura dialettale, con particolare riguardo alla produzione lirica di Biagio Marin (nel 2007 si è aggiudicato ex aequo il Premio Nazionale di Poesia “Biagio Marin” per la saggistica). È segretario di redazione della rivista internazionale «Letteratura e dialetti». Collabora alle attività di ricerca del Dipartimento di Italianistica e Filologia Romanza dell'Università "Ca' Foscari" di Venezia.