Carte nel Vento
periodico on-line
del Premio Lorenzo Montano
a cura di Ranieri Teti
quali città, quali metropoli stranite o suburbia
quali silenzi a crepitare, quali sussurri
delle vene che non ci hanno tenuto
di un accordo fra lo sterminato e un suo lato
introvabile tessitura delle cose perdute
sta fra il passato e il niente
reincarnarsi nella penna, per volare
al vano che rigenera l’ignoto
In questa sorta di “cover per frammenti”, o poetico mosaico, è ripreso un verso per ciascuno degli otto poeti (Enzo Campi, Alessandra Cava, Marianna Marino, Luca Paci, Luisa Pianzola, Stefano Piva, Michele Porsia, Marta Rodini) compresi nel presente numero di “Carte nel vento”, scelti tra i concorrenti per le sezioni di inediti del XXIV Premio Lorenzo Montano.
Non c’è fermata nell’incessante lavoro sulla poesia di questo Premio, nella continua ricerca e proposta di valori poetici, oltre gli esiti.
Grazie alla novità della scorsa edizione, “Una prosa inedita”, possiamo qui leggere i saggi di Sebastiano Aglieco, Sandra Morero e Viviana Scarinci, nonché le prose di Evelina De Signoribus e Matteo Vercesi. Le immagini sono di Alberto Mori, poeta e artista più volte in finale nel corso degli ultimi anni.
La nuova, 25^ edizione del Premio Lorenzo Montano, scade il 31 marzo 2011: invitiamo alla partecipazione per continuare a mettere in circolazione altra poesia, altri saggi, altra prosa.
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Ranieri Teti premio.montano@anteremedizioni.it
Trasalimenti
In alcuni casi non ci accorgiamo quando le ferite si aprono perché non sempre fanno subito male. A volte il sangue che fuoriesce sembra inarrestabile e prende una consistenza che spaventa e annebbia la vista… Altri si accasciano, senza segni apparenti di violenza, in una terra che diviene sconosciuta...
Così mi càpita, sempre più spesso. E quando mi riprendo cerco di pensare una cosa alla volta. Mi devo muovere lentamente per organizzare meglio lo spazio intorno a me, per passare inosservata e camuffare il disagio.
Credo che tu sia uscito stamattina presto. Ora anche io mi dirigo a stento verso l’appendiabiti, prendo il cappotto ed esco senza indossarlo. Non ho né caldo né freddo. Arrivo in strada e la ragazza del bar di fronte mi fa cenno con la mano di avvicinarmi, vuole offrirmi un caffè. Ci siamo conosciute un giorno che io ero sola. Parla tanto e non capisco tutto quello che dice. Ma mi piace stare seduta e ascoltare. Entrano due clienti, sembrano molto indaffarati, forse devono ancora fare pranzo. La ragazza è agitata e io giustamente non esisto più e torno in strada…
Mi chiedo quanto conti la mano tesa verso l’altro. La sempre più rara tensione dell’arto in procinto di aiutare. L’accoglimento di quel gesto che può essere incondizionato o perplesso. Invece vince sempre il vuoto degli sguardi. E l’impossibilità della parola, la fine del linguaggio, l’amnesia del tatto, preannunciano l’ennesimo boato.
Ci scompigliamo, scappiamo o ci buttiamo a terra.
Ho camminato tanto e non so più dove mi trovo, tutti vanno avanti e indietro e io mi sono perduta, non conosco bene questa città, si sta facendo notte e le luci delle auto quasi mi vengono addosso. Mi trapassano e finiscono fin dentro le case, o esplodono dentro gli occhi e accecano.
Potrei aspettare anche qui, dove sono finita, se tu venissi a prendermi.
Senza muovermi, mi accuccio e non darò nell’occhio. La gente non si cura più tanto di quello che fai e non ti dovrai nemmeno vergognare di me. Se non ti vedo e mi vedi tu, per primo, chiamami, così che mi alzo e ti vengo incontro e ti chiederò scusa perché non sarei dovuta uscire. Ma forse avevo un’oscura ragione per uscire…Forse sono scappata per gli incessanti bombardamenti… In questo posto, dove mi trovo, non so darti un punto di riferimento, mi sembra tutto uguale, un luogo raso al suolo. Non vedo più le case.
Per terra non ci sono né formiche né foglie, qualcuno le avrà spazzate prima del vento. Mentre mi riporterai dove abitiamo, vedrai che indosso il cappotto verde scuro. Mi perdonerai se non sono brava a orientarmi ma a casa ogni cosa l’ho lasciata al proprio posto.
Mentre aspetto provo a pregare come faceva mia nonna. Ma non so bene come si fa, quello che si deve dire. Per molto tempo ho pensato che non sarebbe mai stato necessario, che mai mi sarei ridotta a quel mistero. Lei bisbigliava qualcosa tra i denti che tanto mi incuriosiva ma che non riuscivo a percepire, teneva una corona in mano e la passava e ripassava tra le dita. Se ne avessi una, con me, adesso, potrei stringerla anche io tra le mani e forse mi verrebbe in mente qualcosa da pronunciare. Non ho catenine al collo. E non conosco i santi di questa città. I loro giorni, le loro feste, i loro martiri. Qui conosco solo te.
Allora è questa la guerra? Quella che mette nelle condizioni di non poter dire e fare nulla? Mi sembra di avere, in questo frangente, un attimo di lucidità. Eri tu che mi parlavi spesso della guerra e se ne parlavi, mi domando, la conoscevi? Avevi messo da parte delle armi per difenderti?
Poi vedo il nero più profondo nella notte dichiarata.
Dammi il consenso di ritornare a casa, te lo chiedo in segno di resa. Non pensare che sia troppo, non vederla come un’intromissione. Non fare un mistero dei tuoi averi. Un barbone, uno sbandato, un parassita… non credere che sei, tu, un dio, quando lanci una moneta. Quello non è un segno di carità e tantomeno una conversione. Chi ti ha creduto è disperato, così come chi non ha mai pensato alla tua esistenza. Quanti postulanti vedi ora in più ai tuoi piedi? In ogni caso siamo tanti… per questo, quando ti tendiamo la mano, hai l’imbarazzo della scelta? Avere la possibilità di scegliere significa essere libero e non sacrificato. Sei vestito e corazzato e potresti salvarmi.
Mi assopisco e quando riapro gli occhi mi rendo conto che è da te che dovrei fuggire, dalla tua guerra. Vorrei quasi costringermi ad attraversare la strada, a muovermi. Qualcosa ancora mi trattiene. Ma nessuno ha luce e anche nel tuo esercito sono in troppi a gridare.
Evelina De Signoribus è nata nel 1978. E’ laureata in Letteratura Italiana Contemporanea a La Sapienza di Roma. Alcune sequenze poetiche sono apparse su “Nuovi Argomenti” (n. 36, 2006), “Il Caffè illustrato” (n. 34, 2007), “L’immaginazione” (n. 233, 2007) e nelle antologie 12 Poetesse italiane (Nuova Editrice Magenta, Varese 2007) e Jardines secretos Joven Poesìa Italiana (trad. di Emilio Coco, SIAL Ediciones, Madrid 2008). Nel 2008 ha pubblicato il quaderno di racconti La capitale straniera (questipiccoli, Ascoli Piceno). La sua prima raccolta di poesie si intitola Pronuncia d’inverno (Canalini e Santoni, Ancona 2009).
Ferro offre bianco e nero in energia neutra
Ombra astrae ad altra dimensione
Le linee ad intrecciare la fuga proiettiva del sole
Alberto Mori, poeta, performer e artista, in più di vent’anni di attività ha costruito e alimentato una personale attività di ricerca nella poesia, utilizzando di volta in volta altre forme d’arte e di comunicazione, dalla prosa alla performance, all’installazione, al video e alla fotografia. Nello stesso tempo, ha collaborato con molti fra i più noti poeti contemporanei, italiani e stranieri, per la realizzazione di letture pubbliche, manifestazioni ed eventi dedicati alla poesia. Ha all’attivo numerose pubblicazioni. Nel 2001 Iperpoesie per Save As Edicion e nel 2006 Utópos per Emboscall. Peccata Minuta sono stati tradotti in Spagna. Più volte finalista al Premio di Poesia Lorenzo Montano.
Website: www.albertomoripoeta.com
LA MADRE DI MÜNCHAUSEN
Si narra che una signora di mezza età, madre di un bambino, sposata da decenni, portasse settimanalmente il proprio piccolo in ambulatori ed ospedali, e lo facesse sottoporre ad esami clinici continui, terrorizzata dal continuo malessere del figlio, inspiegabile; mai rassicurata dalle risposte dei dottori, che escludevano il male essersi impossessato di quel corpo.
Pure il bambino morì. E lei a gridare contro gli assassini in veste bianca, simili a sacerdoti in sacrificio.
Si scoprì che lei lo aveva avvelenato, lentamente, a piccole dosi; che lo strazio del bambino derivava dal quel quotidiano rito della madre, silenzioso e invisibile a tutti. Non negò, né si sentì colpevole. Lo sentiva liberato per sempre, leggero ora.
Avrebbe dovuto liberarsi da se stesso, tirandosi per i capelli, il piccolo Münchausen. Ma troppo piccole le braccia, e pesante il corpo da innalzare.
E poi la palude, che risucchiava dal basso, era l’unica cosa che conosceva e di cui in fondo si fidasse.
DICERIA DEL TOPO E DEL SECCHIO D’ACQUA
Da tempo i topi hanno invaso i piani superiori. Si sentono nella soffitta – non è una novità – e correre per le scale. Da tempo hanno preso le abitudini di noi inquilini: non si arrampicano più per i muri; se sentono rumori, spaventati si fermano; si sono disposti a più congrui nutrimenti, optando per i resti dei nostri pasti, lasciando integri fili elettrici e battiscopa.
Una vecchia consigliò di mettere un secchio d’acqua al sommo della scala: se riuscirete ad annegarne uno, disse, tutti gli altri lo seguiranno. Noi l’ascoltammo.
Prendemmo un secchio, lo riempimmo d’acqua, lo portammo alla fine della scala; oltre vi è il tetto. E ci mettemmo ad aspettare. Per ingannare l’attesa parlammo a lungo, seduti, mentre lentamente si faceva buio.
Non ci accorgemmo, conversando, che un topo era finito nell’acqua e annaspava; tentava di risalire le pareti di plastica ma non vi riusciva. Ci eravamo ripromessi di affondarlo con uno straccio ma poi, per inerzia o scarsa convinzione, lo prendemmo in mano e lo lasciammo andare. Fuggì lasciando una scia d’acqua dietro di sé.
Qualcuno tra noi si chiese per quale strano mistero quell'animale non nuotasse; altri perché avremmo dovuto ucciderlo: d’altronde i topi non disturbavano più e si erano pure sforzati per rassomigliarci.
Ma vi fu anche chi si allontanò portando rancore agli uni e agli altri.
TESTAMENTO IN RIVISTA
Mi è capitata in mano, per caso, una rivista: fatta da dei dopolavoristi, in una scuola che li ospita in sere illuminate a neon, ripulita dalle lordure del mattino, dal chiasso delle aule ai cambi di ore. Per anni si sono incontrati, dopo l’ufficio, la fabbrica o la casa: madri e padri di famiglia, per poche ore a settimana, per discutere, confrontarsi, approvare. Tante le materie: poesia, storia locale, onomastica anche.
Una di loro è morta di cancro, poco dopo i cinquanta. Ha scritto una lettera ripercorrendo con il pensiero i momenti trascorsi, ringraziando tutti nell’accomiatarsi.
Insegnava loro spagnolo. Per quanto tutti fossero già impegnati e nessuno avesse intenzione di cambiare impiego – si è troppo avanti infatti con l’età – ed una lingua in più in fondo non servisse, la ascoltavano sempre in assoluto silenzio. Facevano domande, anche. Così li ricordava, e così loro ricordano lei. Nella rivista stampava le sue ricerche.
Basta questo, ma forse molto meno, per fare un’esistenza.
Nota dell'autore: Autoesegesi minima
Le tre brevi prose aprono sentieri intorno ad alcuni nodi emblematici che si nascondono sotto il velo apparente della quiete e del transito ordinario di eventi quotidiani. Nodi che ci spingono alla decifrazione.
La madre di Münchausen attraversa il crinale del doppio legame Eros-Thanatos, rappresentandone il volto orrorifico e patologico.
Diceria del topo e del secchio d'acqua è una – tra le infinite possibili – rappresentazioni delle aberrazioni del potere; la messa in scena del programmatico tentativo di eliminazione dell'«altro». Testamento in rivista è un atto di conciliazione etica nell'intersoggettività. L'unica possibile. M.V.
Matteo Vercesi è dottorando di ricerca in Italianistica e Filologia classico-medievale. Ha al suo attivo pubblicazioni in volumi collettivi e in varie riviste, riferibili prevalentemente alla produzione in volgare del Duecento e Trecento e alla poesia del Novecento e dell'età contemporanea. Si è occupato di aspetti riguardanti la riscrittura letteraria di figure e tòpoi della mitologia classica e della tradizione biblica, collaborando alle opere, edite in più volumi e dirette da Pietro Gibellini, Il mito nella letteratura italiana e La Bibbia nella letteratura italiana (Brescia, Morcelliana); della ricezione e diffusione della figura di Alessandro Magno in epoca medievale e moderna; e di letteratura dialettale, con particolare riguardo alla produzione lirica di Biagio Marin (nel 2007 si è aggiudicato ex aequo il Premio Nazionale di Poesia “Biagio Marin” per la saggistica). È segretario di redazione della rivista internazionale «Letteratura e dialetti». Collabora alle attività di ricerca del Dipartimento di Italianistica e Filologia Romanza dell'Università "Ca' Foscari" di Venezia.
La presente raccolta, Entrata in scena, è da poco stata pubblicata da Anterem Edizioni, con nota critica di Flavio Ermini.
***
sguardo senz’occhi, cieco tremolìo
attendono il farsi del mio corpo
avrò braccia sottili e caviglie
e reni che ritmeranno i suoni
della strada e mosse ancora d’animale
scattanti di paura e desiderio
***
quali sussurri nell’ecclesia della vita,
dei sottoboschi i bisbiglii, l’alitare
nella sera della fresia, quali sospensori
l’anima a levare nell’ora verso Sirio
la notte e l’alba, dell’ala il sottosuolo,
quali silenzi a crepitare, quali sussurri...
***
anche questo fare che è il disegnare
versi e muovere la lingua in ritmi
soppesare sillabe baciare alternare
incatenare le carte con l’inchiostro
strutturare gradini di scrittura
posizionare il triangolo perfetto o le
metafisiche farfalle anche questo
andar per fogli e migrare da
cielo a terra e dal pane ai versi
dove porta, dov’è il mio rincasare?
***
cos’è questo mestiere di catturare
parole con le pinze attanagliarle
e batterle fino a farle ardenti
tra gli incessanti tramestìi del cuore
ubriacarle come i funamboli di vuoto
sorseggiarle a labbra strette sul bicchiere
frantumarle in sillabe troncate
assettarle nei suoni delle ottave
mascherare le assenze che stan sotto la logica
***
Incamminati a ritroso e duplice sia l’evocazione
nel tuo corpo specchiante, non me trasparenza di musico,
ma lei alle spalle, la sfuggente, la appena intravista,
la troppo amata, la semprepersa; flettine l’immagine
un po’ a lato, guizza e cattura al pizzico concorde
ed entrambi sopporta sulla soglia
Fuori, due passi nella veglia e il mio ovunque divenir banchetto
***
chiude il dito indicante sulla sabbia
una figura di giustizia e spada
ago non flesso a bilanciare
bussa alla porta chiede i rendiconti
dove la bocca della neve s’apre, bianca
una figura di vagiti e fame butta semi
volge i palmi lima la chiave
il suono è nell’aria in sospensione
Ermes si avvolge al polso le due
serpi: indistinti accadere e scomparire
cala il sipario si arrotola il lenzuolo
attorno al capo zittisce anche il silenzio
non ancora naturante il destinarsi
Marta Rodini è nata nella provincia di Cremona. Vive e lavora a Milano. Dal ’92 fa parte del gruppo di scrittura “Sinonimi & Contrari“ fondato da Marina Incerti. Sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste, tra cui “Il Segnale”, “Le voci della Luna”, “Poiesis”, con nota critica di Giorgio Linguaglossa e Franco Romanò. I suoi testi sono presenti in varie raccolte antologiche e partecipa a letture poetiche e manifestazioni letterarie.
E’ segnalata per due volte, nel 2007 e nel 2010, alla biennale di Poesia di “Anterem” nell’ambito del premio “Lorenzo Montano”.
Fra i suoi lavori più recenti: “Parole in gioco” ( 2005); “Arabesco al nero” ( 2008 ) edito dagli Archivi del ‘900 come vincitore della VII edizione del Premio Nazionale di Poesia “Antonia Pozzi”; “Poesie dell’acqua” ( 2009 ) Edizioni “Le voci della Luna”; “Entrata in scena” ( 2011), Anterem Edizioni.
Filò
se fossimo noi
foglie soltanto
l’albore della foglia
l’impressione
della clorofilla
che pulsa
nelle vene del nostro
unico pneuma
Visione
Nome delle cose
Puro nome
traffico delle intenzioni
mezzi di locomozione
fragranza continentale
Impercettibilmente sottile
Jazz
Passato anche il riflesso d’oro degli ottoni
lucea il viso rifratto correa la nota del fa
umore d’acqua nell’assurdo brancolare
la tastiera la ghiaia della batteria
il fumo fumo l’assolo del ragazzo
l’amaro di birra devo continuare
fece il gregario al trombettista
tutto questo in un cenno di mano
devo...
Chet riattacca e se ne va in levare
e l’orchestra tutta lo segue
e l’orchestra cercando un appiglio
un bicchiere una coscia un flicorno
e le donne si stirano al pianto
passano i corpi degli avventori
figure di spettri cospira
il tintinnar di bicchieri cospira
la gira la trama del corpo del
verbo del corpo del verbo la trama.
Pae<s>saggio
I
Divise immagini sciamani tuva
cielo d’occhi sterminati pioppi
depressi slanciano falangi
come all’infinito grido
fanno cenni col capo
un saluto-murmure invano
puntano il selciato nell’atto
di proferire
mani e piedi e seni
croci di voci
presenti-assenti trascina
la risacca dello specchio
figure tagliate a neve
spicchi di frammenti raccolti
pensanti concessi o definiti
dall’iride malferma
IV
il tempo presente
sta fra il passato e il niente
e del rosso non esiste l’ardore
solo colori che sfondano nel grigio
e della grigia limatura hanno il sapore
Immoto
Lucide traiettorie psicogeografiche. Il senso e la dispersione. Il frammento fotogrammatico della narrativa, il pensiero panoramicamente antiaccademico. Disporre parole e frasi con cura. Praticare l’atarassia verbale. Ogni movimento deve essere controllato. La città è flusso. Musica istantaneamente dimenticabile, biforcazione della memoria venuta meno.
Luca Paci (Novara, 1970) ha studiato filosofia e letteratura all’Università di Pavia e a Swansea (Galles) dove ha conseguito un PhD sulla teoria della storia in Croce. Ha vinto il premio internazionale di poesia a Giulianova Terme nel 1994 e pubblicato una raccolta di poesie in inglese (The Fine Line, Chanticleer Press, 2005). Ha tradotto e curato l’edizione inglese de La Ragazza Carla di Elio Pagliarani (Troubador, 2006).
Ha scritto un saggio su Carmelo Bene ed uno sul travestitismo in Pagliarani. Ha collaborato a Cities, architecture and society con un corto su Londra per la Biennale architettura di Venezia nel 2006. È apparso con una serie di poesie sull’antologia Poesia del dissenso II (Joker, 2006). Ha realizzato il videopoema London Triptych con Luke Heeley e Rowan Porteous (Dubious Audio, 2007). Ha contribuito all’antologia Vicino alle nubi sulla montagna crollata (Campanotto, 2008). Ha curato l’edizione di Pro/testo, raccolta di poesie civili contemporanee (Fara, 2009). Ha completato la raccolta Guardafili di cui alcune poesie sono state presentate all’Istituto Italiano di cultura a Londra. Vive ed insegna letteratura italiana e filosofia a Londra.
Nota dell'autrice
L’amore senza persona è uno scritto che appartiene a una fase iniziale di un percorso conoscitivo riguardante la figura di Giuseppe Piccoli. Percorso che in un secondo tempo, rispecchiando il mio personale approfondimento della sua poetica, mi auguro vedrà la luce in una pubblicazione più ampia. Tuttavia il mio amore per la figura di Piccoli non è recente. Risale al 1997. Quell’anno, in occasione del decennale della sua morte, la rivista Poesia, pubblicò sul numero 103, alcuni inediti a cura di Arnaldo Ederle. Lettera per una domanda di perdono, la poesia analizzata nel testo seguente, era appunto compresa in quella pubblicazione.
L’amore senza persona
“e sarò il tuo concetto
d’amore, debole, senza persona” G.P.
Come in una sinusoide la poesia di Giuseppe Piccoli, in un quadro che ne escluda la cronologia, somiglia a una fluttuazione che assume i caratteri del picco e del recesso, a seconda degli spostamenti di una coscienza poetica assai singolare. Sorvolando su quanto questo si leghi alla patologia che tragicamente gli governò la breve esistenza, qui si vuole solo sondare superficialmente gli effetti, che un dato moto, nel ripetersi, genera su una poetica originale, spesso sorprendente, come quella di questo straordinario poeta.
Il patrimonio poetico che la poesia di Piccoli costituisce è per la maggior parte inedito e frammentato in pubblicazioni di non facile reperimento. Inoltre, anche la cronologia della sua opera non è di semplice ricostruzione. E ciò ha stabilito, prima come un’esigenza, poi come una fascinazione cui è stato difficile sottrarsi, questo pormi all’ascolto, in un modo del tutto improprio ossia leggendo il poeta, come sperimentandone empiricamente il respiro. Una lettura cioè che, a prescindere dalla collocazione cronologica delle poesie analizzate, le raccolga in un tempo zero che ne metta in luce ciò che intuitivamente mi è parso il movimento costante di questa poetica. Compresi in quest’ottica i versi sembrano come pronunciati da un moderno Orfeo che si ascolti parlare, ora dalla superficie e ora dall’infero stesso. È da immaginarsi, questa poesia, per assurdo, come fosse una vera e propria fluttuazione, come il ritmo costante di una respirazione vista nel suo aspetto di coscienza del respiro in un punto di concentrazione recondito che è la radice umana dell’aria, e dello sperdimento, che procura l’esalazione di questa radice. Così la parola di Giuseppe Piccoli assuma il carattere innato del respiro e insieme il suo aspetto di estrema necessità. Qui è assai forte l’impressione di una parola poetica che si lega a una fluttuazione della coscienza, da un recesso interiore alle labbra, alla pelle, cui il poeta approda, proveniente dal suo abisso, con l’angoscia che questa non protegga. Pare con ciò che in questa poesia convivano due lingue di provenienza. C’è una lingua pulitissima, lapidaria. E assai consapevole. C’è ne un’altra aulica, quasi leziosa. É la prima, quella legata ai recessi, la più ariosa, la più illuminata da un sentimento di complessità che non tradisce spavento nella dizione del suo infero. E una seconda che diventa leziosa fin quasi al querulo, quando risale alla percezione epidermica, al mare magnum della superficie abitata dal mondo di sopra.
La scelta di analizzare la poesia “Lettera per una domanda di perdono” è data non solo dall’indiscutibile bellezza del testo ma perché nella sua struttura, rappresenta pienamente la sinusoide in cui Piccoli (malgrado la sua opera sia ancora tutta da studiare e ciò ne rappresenti solo un aspetto) non veste i panni di Orfeo, in un orfismo di genere, ma ne dimostra la sua incarnazione, tornando a essere il poeta che per primo fu chiamato a porsi tra fisica e metafisica senza la difesa di un ruolo che ne regoli la coscienza ma solo con il respiro come bussola.
“L’esperienza ci ha strappati
l’uno dall’altra, amore;
l’esperienza ci ha rattristati
l’uno nell’altra, amore;
e il mio “tu” e il tuo “tu”
si perdono nel vento:
quale furtiva foglia
asciugherà il pianto del rubinetto?
Quale cotone assorbirà
il mio canto?
Io nudo come il cielo;
tu troppo densa, troppo carica,
troppo, troppo.
Sbaglio le parole e suono
come un peccato, come una percossa,
come un tradimento, come una pazzia.
E tu, se mi disegni a lungo,
mi perdi. Ritrovami
nel giuramento della sera:
io sono
il dèmone del dramma e della catarsi.
Ma per raggiungerti in purezza
dovrò mangiarmi le mani?
La tua bocca mi guarda e io svanisco,
insano dentro una perla
umida di nebbia.
Le tue mani mi dividono
e io scivolo
in un tempo di zanzare.
Resta solo di me il bicchiere
di questo seme sparso sul cuscino;
le radici di questa barba
che abbrutisce il cuore;
il grido di questa gola
che nessuna pastiglia addolcisce
e questa rovina che assapora
tutto il pudore che mi resta,
tutta la malizia che ho consumato
e tutto il canto.
Vieni, e credi di nuovo
che il mio corpo, sposo del tuo;
che il mio silenzio, padre del tuo;
che il mio canto, fratello
della tua amarezza
raggiunga il dio nel tutto che supplichi
e s’allontana.
Non ci sono più ossa, ma rose;
non ci sono più muri ma strade;
non ci sono più inverni, non ci sono:
tra poco è marzo, vieni,
camminiamo.” (1)
L’esperienza separa, l’esperienza rattrista. Sembra da questi versi iniziali, come se da un punto noto e inamovibile il poeta osservasse il percorso che avrebbe potuto autenticare il suo presente adulto. Vista da qui, l’inamovibilità di questo poeta risiedere nell’adolescenza, forse nella frattura non ricomponibile di un osso fragile ma anche nella prepotenza inesausta che la poesia esercita con la sua complessità, sulla coscienza galvanica di un giovane poeta, prima ancora che la si nomini come tale. “L’adolescente (Piccoli) ha tratto dai libri aneddoti dalla valenza enigmatica che si concretizzano poi nella sua poesia in una fuga che pare fondamentalmente riconducibile all’archetipo di Orfeo che scende agli inferi per ottenere, in realtà per perdere definitivamente Euridice (…)”. (2)
Da allora, dall’adolescenza, dall’inizio glorioso del viaggio dell’eroe, al ritrovamento e perdita di Euridice, c’è tutto un separarsi e un rattristarsi che riguarda l’ambito adulto e pieno. È attraverso questi versi iniziali, che il poeta sembra guardare da un suo punto inamovibile, all’assenza totale di leggerezza dell’adulto. A ciò si riferisce da adolescente che al contrario è sopravvissuto all’adulto, poiché l’esperienza, nel suo caso, in qualche modo, sembra aver impedito alla maturità il suo compimento. È da questa inamovibilità che Piccoli guarda a un’interlocutrice, una Euridice che oltre a essere “orfica” qui è conchiusa nel mistero dell’alterità, attraente e estranea perché non più rarefatta nell’adolescenza delle passioni indistinte e voraci che brucano ma addensata in un troppo, reiterata in una densità femminea e adulta che la eccede e spaventa. Spaventa senza limitare. Uno spavento che schiude la prosecuzione necessariamente alterata e irrimediabile che fa capo a ogni alterità ravvisabile nell’altro, in superficie. Uno spavento che confonde parole e contenuti in modo da legare per serendipità dramma e catarsi, per analogia consunzione e germe, cosicché si commetta l’oltranza: la visione che nella grande poesia perpetra gli astanti senza riguardarli. Ma ora l’unico potere che due alterità abbiano in questo tu per tu, il poeta lo riconosce a Lei che separa, Lei che è percepita fino alla radice irsuta del volto e da quel bilico canta l’opposto, elargendosi ora in una chimera glabra, ora in una rovinosa caduta del pudore di fronte alla realtà innegabile della propria umanità di genere.
“Dalla finestra
sale un buon odore di fiori,
dalla cantina sale un buon odore
di vino: non è questa, la vita?
Questo grido che mi interromperà
mentre scrivo il mio canto?
Le ciabatte calpestano: “Vengo”;
gli sportelli si chiudono: “Vengo”;
le bottiglie si stappano: “Vengo”.
E le voci? Che fanno le voci?
Cadono e invecchiano
E tu le seppellisci, lontano.
Ed io le riesumo, vicino.
E presto non avrò che tempo
tra i libri; non avrò che spazio
tra i vestiti; e sarò il tuo concetto
d’amore, debole, senza persona.
E cadere nel folto dei padri
e della madri, assaggiando la torta
del sacro e del profano.
Attendo che una porta si svegli,
e che un bambino reciti per me
la morte ossigenata, la fuga espiata,
la pietà saziata, la percossa dimenticata:
tu inseguilo al limite, tu
la casa che sale dagli inferi,
a perdonare se ho rubato,
se ho fatto violenza, se ho maltrattato
sopra e sotto
gli elementi e i punti insaziabili” (3)
Ma non sempre il giorno consente un’oltranza sulle cose. E non sempre deve. Non quando si avvicina marzo: le calende primaverili smagano la visione dell’infero in superfici solari e pure, disdicono le sonorità del profondo, quando chiedono l’oscurità arcaica della vista. E ciò accade con un tale clamore da chiedersi, quale la vita: questa o quella? Quella del vino, del canto e del pane: e emergere a questa con una fatica immensa, di sotto a sopra, da quella a questa luce. Come discernere nelle profondità “nel folto dei padri e delle madri” il lecito dall’illecito? Come differenziare la movenza che conduce il corpo, dal solco che esso genera?
In che tempistica ciò avviene? Come non soggiacere all’impossibilità di sapere il quando, il dove del proprio corpo, mentre qui e ora, in questa superficie piana che è il visibile, non compare la prepotenza di esistere, in quanto compresa in un meandro che non libera il poeta, se non attraverso il verso che lo dice. Come perdonarsi allora la disperata ferocia che arma la liberazione da questo smarrimento?
E chi sarà in grado di perdonare se si ruba una chiave, per evadere dall’insanabilità di una casa chiamata appartenenza? Ma il profondo della casa, nel caso di Piccoli, conclama il mistero delle voci plurime che non gli appartengono ma avendolo scelto, lo straziano per differenza dal suo presente, con un legame tagliente e vorace che lo condanna a sentirsene mai differenziato.
“Ma basta un fiore che dubita,
per dare o ridare salute al disamore:
dubita forse che siamo? che parliamo?
La sua sapienza stagionale
è più forte dei nervi che leggi
nel gas della ragione, quando leggi
i tuoi discorsi disaccordi e mi telefoni
pallida e nervosa. E disfi
la maglia dell’abbraccio, la gabbia
che non suona, e stai zitta, stai
zitta. “Punìscilo” ti dice ancora …chi?
“Punìscilo”, “Puniscìlo”. E tu:
“No: sono stanca. Solo stanca
di vedere le mani, di ascoltare la voce,
e un poco stanca di essere me stessa”.
Io mi attuo. Tu vivi di stanze.
Io ti lascio. Tu ti lasci lasciare.
Io ti guardo. Tu ti lasci vedere.
Non guardi. Ma respiri. Respiri.
E osservo la tua statura,
allungarsi e calare; le tue braccia,
asciutte o insaponate; la tua testa
cerchiata. E sei profonda
come la disperazione.
Ma amo i fiori, per oggi;
e, per oggi sono un ragazzo tranquillo:
e posso renderti cenere, credo.
Ma vedi, ho digiunato, per te, per me,
per una pioggia e per molti baci.
Molti. Molti. Tuo” (4)
È ancora Lei con la sua presa sulla realtà a contenderlo per un po’ alle voci. Lei, l’eterno femminino che veglia sulle valenze plurime e tutte le sintomatologie dei generi nutre. Lei che quelle voci sa e che pure ascolta ma ne è libera, esse non la pretendono, come invece pretendono il poeta. Il poeta che già sa quale termine la contesa abbia: Lei è stanca, Lei può stancarsi e punirlo lasciandolo alle voci e all’interregno che queste gli vegliano nell’occhio, per farsi dire. E il poeta dice tutto, da questo sguardo che più che appartenergli lo appartiene, tutto, fino alla visione di Lei, vera, più vera della realtà e della sua assenza di verità. Ma è marzo. Un mese somigliantissimo alle correnti controverse che attraversano la poesia di Piccoli che è “come se si trattasse ogni volta di un miele sparso dentro cui c’è sempre qualcosa di estremamente tagliente, come delle lamette, delle tagliole, che sono pronte, mentre la dolcezza sembra ammaliarti, a ferirti a colpirti nel profondo, a darti dei fendenti dai quali è impossibile poi guarire” (5) . Tuttavia questo è uno strano giorno in cui le voci oltre che essere dette non vogliono altro e lasciano il poeta tranquillo, credere, senza davvero crederci che il suo digiuno, possa garantirlo incolume dalle virate rapaci che la poesia impone alle sue fattezze.
Note
(1) Giuseppe Piccoli, Lettera per una domanda di perdono, Poesia 103, Crocetti Editore, Febbraio 1997 pag.70
(2) Giulio Galetto, Orfeo nella poesia di Piccoli, “Bollettino della Società Letteraria di Verona ”, 1998-1999, pp. 83-86
(3) Giuseppe Piccoli, Lettera per una domanda di perdono, Poesia 103, Crocetti Editore, Febbraio 1997 pag.70-71
(4) Ivi, p.71
(5) Maurizio Cucchi, Per una sistemazione critica di Giuseppe Piccoli, “Bollettino della Società Letteraria di Verona”, 1998-1999, pp.83-86
Giuseppe Piccoli nacque il 5 aprile 1949 a Verona. Seguì studi classici senza però portarli a termini, dedicandosi giova-nissimo a scrivere poesia, prosa e articoli di critica letteraria per “L’Arena”. Nel settembre del 1981, in seguito a una ricaduta della sua malattia psichica, ferì il padre, che morì dopo pochi giorni, e la madre, che invece si salvò. Venne re-cluso nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia per un pe-riodo di detenzione di dieci anni. In seguito fu trasferito in altri reclusori. L’ultimo che lo ospitò fu quello di Napoli dove, nel febbraio del 1987, si tolse la vita.
Viviana Scarinci è nata nel 1973. Ha curato per Apeiron Editori, il libro di memorie collettive L’isola di Kesselring. Ha vinto diversi premi letterari tra cui la sezione Scrivere i Colori del Premio Grinzane Cavour. Le sue poesie sono state pubblicate tra l’altro su Nuovi Argomenti, Atelier, Gradiva, Capoverso, il Segnale, Tratti. Nel Gennaio 2009 è uscito il libro Le intenzioni del baro, poesie 1995-2007. Fa parte della redazione del blog letterario collettivo Viadellebelledonne. Nel giugno 2010 partecipa al numero 86 de Il segnale, percorsi di ricerca letteraria con l’articolo Regole e virtualità. Ha pubblicato con Paolo Fichera l’eBook Dormi come visibile. Suoi scritti sono presenti sui principali blog di letteratura. Gestisce i suoi inediti attraverso il blog http://vivianascarinci.wordpress.com/
Nota dell'autrice
Queste parole sono strenuamente a caccia di una controparola. E far poesia del vissuto diviene la forma più assoluta di perifrasi: dire altrimenti, dare un nome, un altro nome.
Al contempo, far della poesia una parola-a-distanza, che permetta di vedere la voce che la dice o si strozza. Ecco dunque il ragno, esserino pacifico che Leontes, protagonista del Racconto d’inverno shakespeariano, trova in fondo al suo folle calice amaro. Una strana sensazione tra disgusto e solletico. Un dolore bizzarro, all’altezza delle corde vocali. Ma in Mangiaragni il ragno non è il visibile indizio di un veleno: il ragno è volontariamente mangiato. È un male da buttar giù a colazione, a pranzo, a cena. Il male quotidiano che ci nutre e sostiene. M.M.
Mangiaragni
da La controparola
Perifrasi sentimentale
Un istante di verità,
di libertà nella stretta:
del braccio,
del senso.
Nel morso dell’ora.
***
Paesaggio
è allontanare la parola – là,
dove si vede la voce.
***
Notti troppo cattive per darmi buio,
e silenzio.
Gli occhi sempre stanchi:
corrono dietro i colori,
ma vogliono bianco.
Vogliono una luce lieve,
un giorno di meno.
Un altro nome al dolore.
da Donne
Paris
Eccomi: paccottiglia dorata e adorata.
Il mio vuoto è dolce e luminoso,
non mi chiede nulla in cambio.
Mi basta sorridere,
senza neanche guardare.
Bocca cieca, le parole scivolano via
- significano lontano da me.
***
In nome di quell’uomo di meno
ci guardiamo,
cerchiamo la linea della ferita,
la reliquia del dolore.
Ci guardiamo,
e non sappiamo più
dove sia lo specchio.
da A mio fratello
Requiem
Di noi resterà
il nostro calco,
scavato pian piano
nell’aria.
Il silenzio che non abbiamo giocato.
Le trasparenze ribaltate degli specchi,
i ritratti increspati, imprecisi,
dei sorrisi nascosti.
Delle vene
che non ci hanno tenuto.
Marianna Marino, dottore di ricerca probabilmente senza futuro, cerca di adattarsi a un presente precario. La sua tesi di laurea è stata dedicata al poeta e filosofo Jacques Garelli.
Coltivazione del deserto
1
Non mi spaventi. Schiacciami, tempo. Pianifica
per tutti noi la totale assenza di futuro. Vedi
che restiamo immobili duraturi, finché la biologia
ce lo permette, anche per moltissimi anni. Possiamo
vedere molto bene, da questa postazione, la tundra
ghiacciata delle possibilità. Ci prepariamo a coprire,
dopo l’esondazione, migliaia di chilometri resi
vergini da un sistema solare spietato.
Ma abbiamo bisogno – non ci crederai – di questa
desertificazione. L’abbiamo voluta, ci appartiene
come questo suolo lunare da nausea.
2
Niente è ancora troppo poco. Tanto vale il mai
stato, il mai essere stati e con un colpo di frusta
completare il quadro: zero. Uno zero docile, attivo,
dove poggiare la sapienza molle. Io su questa rada
totale ci faccio un picnic, mi ci rotolo coi miei simili,
ci preparo una nuova specie, magari senza testa
né gambe.
3
Quali città, quali metropoli stranite o suburbia
allampanata: qui saranno tutti campi, prati di nuova
seminazione. Mi basta un cenno (sono un tipo
pratico) e mi faccio da parte per le nuove
generazioni.
Come prendere congedo da sé e da conduttori esausti dare
un ordine al vissuto. Senza mestizia collocare la parola fine.
Ma non mortale, da guarire e darne un segno, da vedere oltre.
Nota dell'autrice
Nel rileggere questo testo, segmento di un lavoro inedito, ritrovo una spinta verso il
basso e una tensione al grado zero (che appartengono alla mia poesia) bizzarramente
mescolate a uno sguardo quasi divertito, a un’idea di positività caparbia e un po’
cattiva. Ho sentito fin da subito che lo scenario desolato di questi versi non era fatto
solo di macerie esistenziali, personali, ma aveva a che fare con le derive del nostro
tempo. L.P.
Luisa Pianzola (Tortona 1960) è poetessa, giornalista e copywriter. Si è laureata in Storia dell’arte contemporanea (Lettere moderne) all’Università di Genova e ha studiato visual design a Milano. Ha pubblicato i libri di poesia Salva la notte (La Vita Felice, Milano 2010, note critiche di Gabriela Fantato e Mario Santagostini), La scena era questa (LietoColle 2006, prefazione di Gianni Turchetta), Corpo di G. (LietoColle, Faloppio 2003, prefazione di Maurizio Cucchi), Sul Caramba (Sapiens, Milano 1992). Coautrice del video poetico Bíos (2007) e cocuratrice dell’edizione 2006 de Il Segreto delle Fragole (LietoColle), suoi testi sono apparsi nelle riviste “Specchio”, “Poesia”, “Pagine”, “La Clessidra”, nei siti web Blanc de ta nuque, Liberinversi, La poesia e lo spirito, Terres de femmes e sono presenti nei volumi Senza Riparo. Poesia e Finitezza (Stefano Guglielmin, La Vita Felice, Milano 2009), Leggére variazioni di rotta (Le voci della luna, Sasso Marconi 2008), La nebbia non si mangia.
Dodici poeti alessandrini (in uscita per Manifattura Torino Poesia). Ha ricevuto riconoscimenti ai premi BazzanoPoesia (2010), Lorenzo Montano, D. M. Turoldo (2009, menzione speciale della Giuria), Città di Corciano (2008, Premio Presidente della Giuria). Ha partecipato a readings poetici in varie città italiane.
È redattore della rivista di poesia “La Mosca di Milano”.
Il suo sito internet è www.luisapianzola.it.
***
in sorellanza sono gli anni gentili, sono gli anni, indicativi
presenti, muscolo lingua che sbava disegni sull’incanto dello stare
dove i muri si incontrano, nel tutto finito e oltre, e
oltre neppure un suono: il sottoscala non ha porte, non si slacciano
i polsi, non chiama nessuno, nessuno muore -
***
in memoria imprimo l’angolo dell’oggetto: registrarsi immobile
del frammento, inquadratura fissa della frammentazione, contorno
da strofinare con l’occhio, depositarsi antiquario dell’occhio in potenza
nascosta di cosa, di pezzetto di carta, di orecchino, di scarpa
di bambola, in sua piccolezza, in sua riduzione indicibile -
***
e cammino in queste strade incrinate, in queste
fuorviate strade del petto, nel battere clamoroso
del petto, nello spaccato battere di questo mio divenire
orizzonte, sala d’aspetto, corpo in filigrana, organo incerto -
***
fossi il limite inutile, l’inganno del confine, fossi l’apertura
generosa del valicare, fossi quella generosità del confine a
schiudersi, disponibilità infinita dell’accedere, del passare,
dell’oltre, del traversare - potessi sporgermi da tutti i balconi
e vedere passare, potessi vedere passare le cose, potessi, sapere
per caso che cosa, l’oggetto che ha trama speciale, che ha l’intreccio
introvabile, lo strappo, introvabile tessitura delle cose perdute -
***
amore durissimo, articolarsi delle ossa, scorrevole
rotolarsi delle ossa dalla pelle, solitarie per quel loro esitare
la diramazione, incantare, mettersi nel canto, mettersi
tutte nel canto, nell’aspro canto del sangue, nell’angolo
appuntito dei nervi, nello schiocco delle membrane, nelle aritmie,
nella violenza delle arterie, per quel lasciarsi ricoprire, isole
bianchissime nella carne, per la loro modestia di impalcatura,
di scheletro schivo, di lungo fiore sotterraneo, di radice -
***
oggi è un sole lungo, uno sguardo di notte bianca -
natura mi scosta, mi ignora: di sicuro la offende
il mio amore d’interni, di tubi, di tetti, di vetri all’incastro;
ma poco le basta, quel poco che afferra alle spalle
con passi d’altalena, quando sbaglia e prende aloni d’inferno,
quando pare artificio, un inganno, uno schermo
e m’attendo si spenga - processo d’infrazione del mondo, nulla
che raduna i suoi pezzi, così il mio seguire una parola
con altra in spazi di vuoto - ecco me allora, a chiedere di quale
tessuto è il ricordo, di quale s’intreccia, se è uguale, uguale
il colore - ecco allora l’immagine fatta di niente, ecco che arriva,
ecco, col suo bagaglio di niente - si sta a scrivere
allora, si sta in angolo stretto, si sta –
***
continuo stare, questo stare in vita per vie traverse,
secondarie strade dell’assenza che disegna nitida
la fessura del canale, questo stare in parole abitando
la dimensione orizzontale, leggera, del narrare -
ora è estate che sfinisce, liquefazione dei sensi,
dei cataloghi ragionati: si va a capo per sentito dire,
dentro un’istintiva nostalgia di mani fredde, di giri di maniglie,
di vento e strade vuote - neanche ora c’è equilibrio,
qui nell’aria ferma della scelta si sta a caso e per stortura
d’animo, qui si incrociano gli sguardi e si distolgono, ma le dita
sfuggono, tentano raccordi - tutto intorno è piegarsi alle linee
spezzate e chi ha un vago rimpianto dei tornanti non si volta -
mentre io vado a cercare sconforto negli specchi, le ginocchia
mi abbandonano davanti allo splendore, ormai luogo
comune, che ancora non abbiamo consegnato -
ALESSANDRA CAVA è nata a San Benedetto del Tronto nel gennaio 1984. Ha studiato Storia del teatro all’Università di Siena e vive ora tra Roma e Bologna, dove si sta laureando in Discipline dello spettacolo dal vivo. Lavora con Altre Velocità, gruppo di osservatori e critici delle arti sceniche. La sua prima raccolta, rsvp, segnalata al Premio Montano, è di prossima pubblicazione per Polìmata, collana ex[t]ratione.
SU “L’ORA DELLA STELLA” di Clarice Lispector
Tutto inizia in un attimo denso come un lungo sonno. Una bancarella; libri letti sporchi e consumati. Come a spiare i letti di divoratori ansiosi e insonni, e lampadine appannate dal fiato della notte. Osservo, scarto, compro un libretto. Non so perché. Giace nella mia mano, inconsapevole. Grigio-nero-raschiato con scritta gialla e rosa. Due mani secche stringono al cuore rami nervosi e fiori indistinguibili dal consumato dello sfondo. Volto ovale bianco sotto il titolo: L’ORA DELLA STELLA. Due occhi neri e stanchi, labbra fresche di bambina protese in un sussurro. Uno sguardo asimmetrico mi attraversa e cerca il mio sfondo. Il nome: Clarice Lispector, misticanza di erbe espettoranti e fiori bianchi, profumo di sambuco e di cannella. 90 foglietti giallognoli di carta scarsa.
Sulla quarta di copertina leggo: “questo romanzo, pubblicato nel 1977, lo stesso anno della morte di Clarice Lispector, è considerato il testamento spirituale della grande scrittrice brasiliana.”
Il demone assopito alle mie spalle ora mi sveglia.
Una scrittura che mi legge. Sarà questo il mistero da velare? Scrivo solo per necessità. Necessità di chi? Solo porosa alla materia verbale. Non chiedere altro. Che la materia entri! Ineffabile, sottile, avvolgente. Bozzolo di seta buia. Per sciogliere il tempo addensato nell’istante-già. Accadimenti futuri e passati inconclusi si avvolgono alle dita. Amore. Non capisco più. Sento soltanto?
Il sussurro ora è assordante.
Un punto di domanda. Non c’è ritorno. All’ingenuità sola si torna. Oppure no.
L’inizio è quasi un tuffo:
dedica dell’autore (alias Clarice Lispector)
seguito da vertigine:
E poiché dedico quanto segue al vecchio Schumann e alla dolce Clara che
oggi sono ossa, pietà di noi! Mi dedico al rosso intenso scarlatto come il
mio sangue di uomo adulto e mi dedico quindi al mio sangue… Mi dedico
alla tempesta di Beethoven. Alla vibrazione dei colori neutri di Bach. A
Chopin che mi ammolla le ossa. A Stravinskij che mi ha sbalordito e con il
quale sono volato in fuoco. Alla “Morte e Trasfigurazione” in cui Richard
Strauss mi rivela un destino? Mi dedico soprattutto alle vigilie di oggi e
all’oggi, al velo trasparente di Debussy… a Schönberg, ai dodecafonici, ai
gridi raschianti degli elettronici – a tutti coloro che in me hanno raggiunto
zone spaventosamente impreviste, a tutti i profeti del presente che tanto mi
hanno predetto, a ma stesso che in questo istante esplodo nell’io. Quell’io che
siete “voi” perché non tollero di essere solamente io, ho bisogno degli altri
per stare in piedi…
Questa storia ha luogo in stato di emergenza e di calamità pubblica. È un libro
incompiuto perché non ha risposta. … Amen per tutti noi.
Mi fermo, sono già stordita. Parla con me. Non parla a me… in forma di ...
Vuole risposte?
No.
Altre
domande?????????????????????????????????????????????????????????????????????
?????
Comincia con un
SI
Poi seguo
Vado fino al fondo. Sfondo grigio squallido. Fango. Una storia di niente. Come di nebbie. Freddo ucraino, fango brasiliano. Punteggiata qua e là di stelle o buchi neri. Pesanti. Di quali pensieri? Stelle interroganti. O dementi?
Come cominciare dall’inizio, se le cose accadono prima di accadere?
Non si tratta di una semplice narrazione, è innanzitutto vita primaria che
respira, respira, respira. Materia porosa, un giorno io qui vivrò la vita di
una molecola con la sua possibile esplosione in atomi. Ciò che scrivo è più di
un’invenzione.
Io non sono un intellettuale, scrivo col corpo. E ciò che scrivo è una nebbia
umida. Le parole sono suoni diffusi di ombre che s’incrociano diseguali,
stalattiti, trina, musica trasfigurata di organo.
Giuro che questo libro è fatto senza parole. Questo libro è un silenzio. Questo
libro è una domanda.
Scrivo con tratti vivi e grossolani di colore.
… l’eternità è lo stato delle cose in questo momento.
Scrivo a orecchio...
Devo ricopiarmi con la delicatezza di una farfalla bianca.
…con la punteggiatura, faccio giochi di prestigio di intonazione, e costringo il
respiro altrui a scandire il mio testo.
Lo scritto che tra non molto dovrà avere inizio – non reggo ormai più
la pressione dei fatti – lo scritto, che tra non molto dovrà avere inizio, è
sponsorizzato dalla bevanda più popolare del mondo – ciò non toglie che io
non sia retribuito – bevanda diffusa ai quattro angoli del globo, e che è stata
lo sponsor dell’ultimo terremoto in Guatemala. Malgrado quel suo sapore di
smalto per unghie, di shampoo contro la forfora, di plastica pressata. Cose che
non impediscono che tutti in coro la amino, servili e compiaciuti. … perché
quella bibita, che contiene coca, è l’oggi. Un mezzo con cui le persone si
sentono aggiornate e nel presente.
I fatti sono sonori, eppure tra i fatti c’è un sussurro.
Sussurri dipinti come gridi in spazi vuoti.
Grigia, povera Macabéa,
Per lei anche la realtà non aveva nessun valore. Si trovava più a suo agio
con un quotidiano al di fuori della realtà, viveva al ralleeeeentatooooore,
leeeeepre a luuuuunghi baaaaalzi sooooopra le cooooolliiiiiine. Il vago era il
suo mondo terreno, il vago era l’essenza della natura.
- Ma so solo essere impossibile, non so altro.
Cosa devo fare per diventare possibile?
- Tu sai se si può comperare un buco?
E grigio sfinito fino alla stazione terminale. Un rivolo di sangue rosso. Una verde piantina d’erba, più felice di una foresta, che sbuca dal canaletto dello scolo, il giallo di un’auto e una luce rasa sull’asfalto bagnato. E un grido:
- QUANTO AL FUTURO.
Aveva nostalgia del futuro? Sento l’antica musica di parole e parole, si,
proprio così. In questo esatto momento Macabéa sente … Voleva vomitare
ciò che non è il corpo. Vomitare qualcosa di luminoso. Una stella dalle mille
punte.
…
Vivere è un lusso.
…
Adesso comprendo questa storia. È l’imminenza che c’è nelle campane lì lì per
oscillare.
La grandezza di ciascuno.
…
Vi domando:
- Qual è il peso della luce?
E ora – ora non mi resta che accendermi una sigaretta e andare a casa. Mio
Dio, solo adesso ricordo che le persone muoiono. Ma – ma, anch’io?!
Non dimentichiamo che questa è la stagione delle fragole.
Sì.
Sembra che parli della morte e dice altro. Neppure Dio è di casa in questo libro-straccio. E non c’è speranza. Non c’è salvezza. Miseria. Nulla. E ancora nulla. E non è una morte. Interroga, domanda. Mi domanda ed io non posso che interrogarmi senza rispondermi.
È la rivelazione dell’imminenza di. Di che cosa? Chissà se un giorno lo saprò.
E scrivo nel momento stesso in cui sono letto.
La morte è l’indicibile. Questo è l’ineffabile. O la grandezza? C’è grandezza tra le righe, negli spazi vuoti. Vuoto – pieno. Pieno di che? Pieno.
… vuoto è l’unica cosa che potrò mai avere. Oltre a quel vuoto, nulla. Eppure
il vuoto ha il valore e la parvenza del pieno. Per ottenere non c’è che da
cercare, per avere non c’è che da chiedere e da credere semplicemente che il
silenzio, che io credo in me stesso, è la risposta al mio – al mio mistero.
Silenzio pieno di esistenza
Mi esprimo con parole che sono limitate. Ho bisogno di parole silenziose.
Nota dell'autrice
Lo scritto è una rievocazione di una scoperta casuale ma significativa che ha dato
slancio ad un lavoro di scrittura che, altrimenti non avrebbe forse avuto un luogo in cui
manifestarsi. Si tratta di una scrittura che sgorga nella necessità di relazione con altri
sguardi; l’intenzione è di ricercare e di generare uno spazio di attesa e di reciprocità,
uno spazio anche teatrale, fatto di aria e respiro, che possa “forare” la pagina scritta.
Proprio questo breve scritto è, quindi, il tentativo di vivificare un’esperienza ineffabile, una
relazione ritmica. Come in un teatro interno leggente e scrivente sono vicini, possono
toccarsi, possono trovare il punto dove mettere al mondo una “cosa” sospesa, vibrante di
suono; è possibile, allora, nella deflagrazione del tempo e dello spazio, vedere una porta
aperta? S.M.
Sandra Morero. Nata a Torino, vivo, tra famiglia e lavoro, a Pinerolo. Da molti anni mi occupo di teatro con attenzione all’uso della voce. Leggo, recito e scrivo per necessità di uno spazio di ricerca autentica, vitale. Lavoro inoltre con i linguaggi non verbali delle arti e del corpo in progetti per migliorare la qualità di vita delle persone, in situazioni di handicap e disagio, nella scuola e in diverse strutture nella provincia di Torino.
La raccolta è in fase di pubblicazione per le Edizioni Smasher. L’uscita è prevista per Marzo 2011.
La voce del singolo è defilata, ma evoca possibili scenari di compensazione: si dilegua e appare invece il tutto. È il senso di un trapasso, una migrazione dell’essere, eppure di una finitudine dolorosa. La soggettività si lascia appena svelare in un atto, “erratico” e dialettico ad un tempo, che allude proprio al trapassare e, in antitesi, al rafforzamento.
[…]
I fiori sono spesso metafore sessuate, ma nel nostro caso c’è un superamento del duale, il poeta infatti, sebbene riconosca incessantemente la cifra della dualità, anche in senso fisico e corporeo in particolare, procedendo per opposti e provocazioni, si studia di trascenderla, immergendosi in tali antinomie mirabili, lasciandosi coinvolgere e lacerare come in un pasto di felini si consuma la preda.
[…]
D’altronde: “Il libro della vita / è logoro e consunto / sopravvive al disastro / nutrendosi di polvere ”; ed è quest’ultima una constatazione inevitabile alla quale non sfugge nemmeno la fantasia più esuberante che si trova a osservare e valutare le criticità esistenziali per scegliere la strategia giusta, nei suoi vagabondaggi sublimi. Per tale motivo “le parole rinunciano al messaggio / e si fanno sensibili”: è il riconoscimento della vulnerabilità umana non rimosso, essere infatti precari al mondo vuol dire fraternizzare con ogni respiro, con qualsiasi delicata, o forte, esperienza, accettandola in un’ottica di rara dignità e bellezza. L’abbandono alla condizione “malnata” non è senza appello, resta la capacità di sostenere il proprio destino ‘errabondo’ avvalendosi anche della potenza della parola, farmaco (Derrida) non da sottovalutare.
(dalla prefazione di Marzia Alunni)
***
Le maglie scandiscono il tempo che fagocita i fiori per restituirli al coro solitario dell’essere che non si basta e che si rassegna a dirsi in molti modi; il punto è che però quel “ti estì” è in mano propria seppure apparentemente si chiami con altri nomi. È il “chi” infatti – e non il “cosa“. Il percorso lento procede in alterco con se stesso ed è in questo stretto passare che chi detiene la parola sem(in)a nelle forme dell’armonia. In questa sua nuova amalgama però (che è ogni volta monito di rara bellezza) sembra che la parola poetica di Campi acquisti una rinnovata compiutezza, quasi un sollievo dettato da quell’abisso innato che fa da sfondo e in cui ci si riconosce come soffio. Si accetta il tradimento dell’imprevedibile confessando la necessità dell’erranza : la cifra che mantiene vigili sulla sopraffazione dell’agguato. Sempre nella cartografia crudele del thumos desiderante.
(dalla nota critica di Alessandra Pigliaru)
Dei malnati fiori
da Pre-ludi
***
Del malnato fiore
che in me s’intrude
e al non più dirsi ancora
ch’in vano a me si tace
voglio cantar la saga
e zittire il coro
ch’ancor dilaga
nel voce a voce
del colpo contro corpo
***
Del malnato fiore
ch’a me s’affaccia
con lo sguardo indegno
di chi fomenta lo scontro
voglio amar lo sdegno
che vibra come incontro
nel loco ameno
del disconoscimento
***
nel bifido rizoma
scavo
e vado alla ricerca
del derma a derma
che mi protegga dalla norma
in cui defaticare lo sdegno
e svilire l’ingegno
del pressappoco in quanto
tale
e quale sia l’approdo
è sì deriva
del situarsi presso il poco
ch’ancora impera
dettando la legge
del sono io
in quanto cogito
perché
da che mondo è mondo
l’inessenza
è il male da abiurare
***
nell’infido feticcio scavo
e vado alla ricerca
della pellicola stantia
che ricopre il derma
decomposto
in cui ritatuare il segno
e mortificare il sogno
dell’oltretutto in quanto
vale
e sale il sentore
del situarsi oltre il tutto
ch’ancor digrada
all’assolversi della norma
dell’io mi manco in quanto
e in quando
perché
da che tempo è tempo
ciò che conta
non è l’attimo da cogliere
ma solo l’istante
di cui disfarsi
***
Non ho lucori
in vita
se non ariosi gesti
in cui rischiare
l’asfissia
e solo
vengo
zolla a zolla
le stasi
a delinquere
degli immoti spazi
Poco più che altero
vago
vacuo
per chiavi ignave
senza dare fiato
al vento
e il tempo schiuma
l’ombra violata
del limo
in cui condursi
al fondo
Cedo al fumo
la traccia che si dissolve
senza aspirare al fuoco
e vengo
al vano
che rigenera
l’ignoto
Enzo Campi. Nato a Caserta nel 1961. Vive e lavora a Reggio Emilia dal 1990.. È presente in alcune antologie poetiche. È autore del saggio filosofico Chaos Pesare-Pensare scaricabile sul sito della compagnia teatrale Lenz Rifrazioni di Parma. Ha pubblicato per i tipi di Liberodiscrivere Edizioni (Genova) il saggio filosofico-sociale Donne – (don)o e (ne)mesi nel 2007 e il saggio di critica letteraria Gesti d’aria e incombenze di luce nel 2008. Nel 2009 ha pubblicato per BCE-Samiszdat (Parma) il volume di poesie L’inestinguibile lucore dell’ombra. Sempre per lo stesso editore ha curato una postfazione in Collezione di piccoli rancori di Lara Arvasi e l’antologia di prosa e poesia Poetarum Silva. Nel 2010 ha curato una postfazione in Di sole voci di Silvia Rosa (LietoColle – Como) e pubblicato il poemetto ipotesi corpo (Smasher – Messina).
TRE TEMPI DELLA GIORNATA
variazioni intorno a tre poesie di Gabriela Fantato
Primo tempo
La città sparita
Esistono due possibili modi per parlare di un libro: il primo è l’attacco frontale, corpo a corpo, nello scontro/incontro tra la propria biografia e la scrittura dell’altro; il secondo riguarda la storicizzazione: i legami fra le parole, gli accadimenti fissati sulle pagine, nel rimando ad altre parole, ad altre pagine. Nel primo modo si legge sulle crepe, sulle increspature insidiose dell’acqua, della pelle; nel secondo si sceglie come supporto la superficie della carta, il luogo in cui ogni civiltà ha fissato i paletti della propria letteratura. Tutto questo avviene nel tempo, nel mutamento dei giorni e delle stagioni. Nelle ore, nei giorni più vicini.
Leggo gli ultimi testi inediti di Gabriela Fantato indossando gli occhiali da vista: una recente necessità a cui però non mi sono ancora abituato. Il libro è appoggiato sul grande tavolo bianco, freddo, inamidato, dell’aula insegnanti. Le lettere sfarfallano un poco,
Una traduzione lenta di ombre
in corpi mi restituisce i bordi …
Sono i bordi di un mattino avvolto in una nebbia concentrata, cattiva. Attendo di entrare in classe, aprire il registro, fare l’appello.
Così il mio primo sguardo a queste poesie. Non leggo, infatti; semplicemente guardo le piccole ombre delle parole; distanti, come le sagome dei condomini alle mie spalle. Sguardo distante. Occhi rovesciati di una città che non ho mai amato.
Ecco, la città è sparita in un’ora indefinita del mattino. Mentre sognavo.
Forse è sparita nel cappotto
o in sandali d’estate…
Il libro ha reclamato il suo tempo dovuto. I primi versi mi hanno detto così:
Forse non ci sono più…
Siamo veramente in un altro tempo: l’inverno e la sua digestione lunga, il suo passaggio misterioso, nelle budella. Che cosa fiorirà? Quale speranza o malattia segnerà la nuova primavera? Devo proseguire nella lettura, ma rimango in questi centimetri quadrati della pagina, nell’obbligo di questa traduzione lenta di ombre.
Forse non ci sono più…
Si può scrivere di un testo partendo da un’esperienza personale? “Mattino. Aula insegnanti. Nebbia dalla finestra.” Non so. Intuisco però che leggere è come tradurre. Tradire: “tradere”, passare oltre.
Una traduzione lenta di ombre
in corpi…
Non esiste letteratura senza questo lento sguardo che si pone, senza l’enigma della cifra nera. Spaccata. Il testo mi obbliga a guardare la stanza nel suo colore più freddo, come un occhio a distanza; come un occhio che guarda dalla finestra, emergendo dalla nebbia. Quale parola giusta potrà improvvisamente mostrare la forma dei ciliegi, le grandi chiome degli abeti? La città sparita chiede l’attesa. Non risponde
… Un cielo senza
rughe, non fa la differenza
Secondo tempo
Una mattina di nebbia
Pausa del mattino. Ore dieci e trenta.
Torna ancora una mattina di nebbia …
Nel cortile riposa l’asfalto; non ci si vede, non ci si parla. Intuisco le sagome dei bambini che si rincorrono; improvvisamente il rosso della giacca, il nero corvino dei capelli
(ogni bocca, assomiglia a un paese
dove correvano i bambini).
Nei cortili qualcuno spera
guarigioni…
Sono io: un medico mancato. Sogno spesso di guarire, di redimere qualcuno o qualcosa. Guarisco dalla vita, per una vita redenta da tutto il dolore. Correranno in fretta i bambini.
(occhi sgranati nella durezza di Milano).
A chi appartengono versi come questi? Chi li ha veramente scritti? Quando una poesia appartiene a tutti, essa ci autorizza a pronunciare parole collettive. Una bocca parla, immersa nella bocca di tutti; uno sguardo ama con durezza. L’amore non è dolce; l’amore è duro e dato con affronto. Se le parole ci feriscono, allora esse sono state capaci di un dono, hanno travasato carne e senso.
Ancora la nebbia. Le parole dei bambini mi arrivano a tratti: monosillabi, monconi strappati nella corsa. Sono parole eccitate dalla nebbia perché uno sguardo che non vede, è costretto a fiutare.
e il bianco affoga tutto il male...
Paesaggi dello spaesamento, del silenzio dei contorni: navigli, via Larga, porta Venezia, Bovisa, treni di Milano: paesaggi che, a distanza, richiamano altri paesaggi.
Un tempo ci assomigliavamo…
Dove abita il bambino che ci ricorda? Quale sonno custodisce la cifra oscura della sua parola?
Le labbra sanno intatto il perdono…
Ecco: dovremmo parlare solo per perdonare.
Terzo tempo
Quasi febbre
Tienimi quel battere tre volte
per farsi riconoscere alla casa
chiusa a muro e l’inverno
si fa crepa nel cemento.
Un inverno battuto. Un battere sulla dura crosta del ghiaccio. Battere tre volte, come il pugno duro sulla porta: Danoia, Osterlicchi, Tanaï, cricchi, Tambernicchi.1
Tornare a casa, nella morsa del cappotto. Leggo questi ultimi versi per strada, camminando, come sempre; lo sguardo esclude il mondo e lo recupera nella letteratura.
Ti darò la mappa delle strade
con dentro questa fuga…
Attraverso canale Villoresi: una bocca in secca, putrida, che mostra i suoi residui masticati, il suo ventre
aperto, gli avanzi del tempo che attraversiamo e non rimane.
C’è una promessa d’acqua nei versi successivi:
dove il salto è un’acqua leggera,
senza nome…
Una fuga, un guizzo.
Tu respirami
pesce d’oceano: ricorda la bocca.
Sogno i capelli lunghi dell’acqua nel salto che attraversa la strada e schiumeggia, quando le giornate si allungano e la primavera è alle porte.
Regalami l’innocenza della pelle
e i sandali bianchi dell’infanzia…
Ma ora è una fredda bocca, il secco del ghiaccio, nel ventre.
Solo ora, aprendo la porta di casa, mi rendo conto di questa progressione, di questo cammino, al contrario.
Un ritorno alla casa, da dove siamo partiti. Solo ora riecheggiano i versi, nel loro suono e senso compiuto.
per farsi riconoscere alla casa
chiusa a muro e l’inverno
si fa crepa nel cemento.
Monza, sabato 17 dicembre 2005
Sebastiano Aglieco è nato a Sortino il 29/01/1961. Ha pubblicato diversi libri di poesia. Gli ultimi sono: Giornata, La vita felice 2003; Dolore della casa, Il ponte del sale 2006; Nella storia, Aìsara 2009; e il libro di saggi Radici delle isole, La vita felice 2009. Insegna nella scuola elementare.
Il suo blog : Compitu re vivi (miolive.wordpress.com)
1 Dante, Inferno, canto XXXII
***
Di cos’è fatta la siepe
se non di patti stretti fra l’eterno
e l’adorno, di una chiosa
tra la fuga e la voglia di casa
tra l’illusione e mille motivi
per la sua recinzione.
Di cos’è fatta la siepe
se non di compromessi fra la catalessi
e l’operosità dell’ape, di una postilla
tra il vento e il suo abbellimento
tra il batter di ciglia e il non andar
al di là della soglia.
Di cos’è fatta la siepe
se non di un accordo fra lo sterminato
e un suo lato, di un intervallo
fra lo stare e il distare
tra il divagare lontano il non muovere
mano.
Di cos’è fatta la siepe
se non di alleanze fra il poeta
e le mille scadenze, di una glossa
tra pace e radice
tra il foglio e un trifoglio.
Parole di un piede e mezzo
Immaginazione
o sterile coltura
del vuoto
di una possibile
zona di secca
e al contempo
pluviale
di un silenzio
strumentale al pensiero
ove nulla è reale
ove nulla è più vero.
Una pura variazione
del corpo
che da se stesso
giunge a tutt’altro
sul posto
e non si muove
di un passo
dallo stato mentale.
Un’invenzione lessicale
e infedele che rimane
da sola
che viaggia, tra l’enfasi
e il sogno, tra il finto
e l’incanto e i luoghi
dell’aria
parole di oraziana
memoria calpestando
quest’erba
sesquipedalia verba.
Stefano Piva è nato a Parma nel 1971. Nel 2008 e 2010 segnalato al Premio Lorenzo Montano.
Verba volant
Non è un filo. La parola è pensiero in polvere, il residuo grigio di una materia cerebrale.
Celebra la cenere, la terra. Arretra, se temi la parola, ma poni prima un fermacarte sulla fossa, che indichi il pericolo di questo luogo.
O il vento, senza neppure chiedertelo, prenderà la scrittura e la porterà sulla tua bocca.
Mettici una pietra sopra. Tu temi la parola perché vola.
Tu temi la parola perché vuole
***
Un suono basso, la vibrazione
nera delle ossa, parole, passi minimi
percorsi a stento. Tendo il cordone ombelicale,
taglio, tento le vocali e le prime sillabe
le pronuncio nella lenta disciplina dell’infanzia. Sono un uomo
di parola, eppure qui
inizia un’altra fase della pietra,
un’altra faglia. Percuoto il poema con le dita, il primo suono.
Il testo si allenta, rallenta
nella frequenza d’onda a banda larga
***
In questo lago bianco
non tiro pietre, osservo i cigni neri
che camminano sull’acqua
con le punte, per non intorpidirla. Le parole immobili macigni.
Il dolore, un’altra razza
un verso aguzzo di avvoltoi.
Ti ho avvolto, ti ho portato sulla mia colonna,
la più alta,
perché questo è l’antico rito dei Persiani.
Reincarnarsi nella penna, per volare
***
Le stampe di Malevic.
Quadrato nero
e cerchio su fondo bianco,
vicini.
In composizione diagonale la parete.
Immagini bistabili
parole piene, pagine vuote. Eravamo diversi
dicroici prima del ritorno
prima dei dettagli, prima delle crepe
sul mordente. Così eravamo. Quasi niente
astratti
da restare appesi dentro la cornice.
Quadrato bianco su fondo bianco.
Prima del figurativo o dopo.
Intorno
una circonferenza traccia il tentativo del ritorno
***
e si infila orizzontale
sotto l’infisso, basta un respiro
e una foglia,
una particella di esterno entra dentro. Aria
che dilata gli interstizi
passa tra le pagine
nelle fessure, consuma
la cartilagine tra parola e parola
glena delle ossa. Fori, cedimenti,
micro moti che sollevano
staccano, slegano nei punti di sutura
Michele Porsia. Nato a Termoli il 6 maggio 1982, vive a Firenze. Fa parte di Hanife Ana, gruppo sperimentale, e della redazione Giovin-astri delle edizioni Kolibris.Pubblicazioni e festival: Nodo sottile 5 (Le Lettere, 2008) è un’antologia di dieci voci emergenti: raccoglie alcuni suoi testi inediti e altri tratti dalla raccolta Sintomi di Alofilia vincitrice della prima edizione del premio Cose a parole e in seguito, nel 2009, pubblicata integralmente dalla Giulio Perrone Lab. Nel 2009 ha partecipato al Parma Poesia Festival e, nel settembre 2009, alla Biennale di Skopje dei giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo. Dal 15 al 19 febbraio 2010 alcune poesie della prima raccolta sono state trasmesse durante il programma Fharenheit di Radio3. Nel 2010 è stato segnalato al Premio Lorenzo Montano (ed. Anterem, Verona) con la raccolta Bianchi girari e al Premio Miosotìs (ed. D’if, Napoli) con la raccolta In altre acque. Tra il 2010 e il 2011 alcuni testi tratti da Bianchi girari sono apparsi nell’antologia del premio Renato Giorgi (secondo premio) delle Edizioni della Luna e altri su Absolutepoetry.