Gianluca Giachery
Geometrica passione
Testo poetico
*
Certo mi illumini
quando t’avanzi
con fare lento al canestro
dell’ambigua scelta,
dipanando l’inverso.
Credenza
è solo il nome
fortuito d’un eccesso,
il sillabario
povero
dell’inganno.
Forse più incerto
ora
il tuo respiro
appartiene agli anni
del rimosso:
tenue il correre
verso ogni fuga:
un’attrazione
che repentina scompare.
Nota critica di Giorgio Bonacini
Gianluca Giachery intitolando la sua raccolta di poesie “Geometrica passione”, mette in chiaro un vero e proprio ossimoro concettuale: la passione, comunemente intesa, è in sé una forma di energia caotica e instabile, quindi una forza che subisce le pressioni dell’emotività e del sentimento: il contrario, perciò, di una struttura ordinatamente geometrica e logica. Bisogna allora intendere bene il titolo, e leggendo i testi si capisce che la “passione” è certamente rivolta a persone che condividono momenti di vita dell’autore, ma sembra anche, e forse più, riguardare il suo manifestarsi in poesia; e la poesia, chi scrive lo sa, è un luogo sia di rigorose precisioni formali, sia di vorticose sensibilità. Ci viene in aiuto, a questo proposito, una poesia di Paul Celan che dice: “NON SCRIVERTI/tra i mondi,//tieni testa/alla varietà dei significati,// fidati della traccia di lacrime/e impara a vivere.” Ecco, allo stesso modo per Giachery la poesia è una passione in cui “le risposte che mimano/il significato/non hanno legami incondizionati”, perché il pensiero poetico è una domanda incessante, ma, come in amore, le risposte sono labili: cercano un significato, lo condizionano, tentando di imitarlo e, quando sembrano afferrarlo, questo si scioglie verso altre esperienze. Ed è allora che si possono usare altre parole, un’altra voce; si può trasportare il soggetto di passione in “giochi di rimando” che “affrancano il desiderio”.
Ma Giachery, che ha ben presente le possibilità, le potenzialità e i limiti della scrittura, sa che l’espressione dei sentimenti e delle emozioni non la si può ridurre all’uso della parola quotidiana, ma diventa reale solo nelle ragioni interiori di un’impossibilità. E che per strappare il velo, la parola, deve imprimere a se stessa una sintassi svuotata e poi rinnovata di sensi. In questo modo la poesia, che è voce, diventa un “impronunciabile balbettio” e l’indicibile, in effusione magmatica, prende forma anche nel mutismo. E’ ancora Celan a svelarci (ma tutti i poeti, intuitivamente e intimamente, lo sanno) come la poesia presenti “una forte inclinazione ad ammutolire”, senza però mai arrivare al nulla. Perciò anche il silenzio è suono, e compenetra la parola, nei suoi tratti distintivi, “con voce disincarnata”. Giachery scrive le sue passioni con una lucidità estrema, affrancandosi da ogni psicologismo e dalla facile dizione, consapevole di dilapidare “le ipotenuse contraffatte/dell’amore.” Sa che “dire” in poesia non è un gesto liscio e pulito, ma è una parola irta di difficoltà: a volte di inganni e di apparenze, dove “le fatiche consacrate al silenzio” conducono anche a contraddizioni vertiginose in cui “terribile e vuoto/è il nome,/pienezza d’assoluto”.