Evelina Schatz, “Amici Amati”, Karwan Samizdat 2005
Testi poetici
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Dov’è il luogo che ha affossato la mia passione
la festa pulsante della carne
ora ingoiato dall’oblio, ma forse anche lì
trova senso senza più stimoli
l’erotismo obliquo e trasognato
Scendere agli inferi da soli si sa è impossibile
pietrificata Musa, vuoi cogliere l’ultima occasione?
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mercati di Odessa
odore di rombi e sgombri
Goethe, il burattinaio
tirava fili del
pensiero al nascere
Scrittura gotica era poesia
il gioco impossibile
tradizioni sconvolte
frantumi di memorie
schegge catalogabili
negli archivi scomparsi
carovaniere lanciate
nello spazio altrove
piste di partenza,
sempre nuove
Nota critica di Rosa Pierno
I lettori sono immediatamente introdotti dalla prima poesia all’interno di un antro che si perde nella notte dei tempi, perché qui l’elemento paradossale è proprio la presenza del tempo: convocato, ma solo per essere rovesciato nel suo contrario. Che esista un tempo che vada in direzione opposta a quello indicato dagli orologi è di lampante evidenza. La Schatz ce lo mostra come un trofeo di cristallo: significati, nomi, storie sono contratte in astanza: i ricordi si presentificano insieme all’atto del sacerdote egizio che cancellava i segni, come in recenti giorni fa Isgrò. L’asse diacronico è compresso. Esiste solo un punto sincronico ed è profondo come un buco nero. Che la poetessa scelga di fatto che cosa far affiorare dal calderone è nondimeno atto casuale: “a Samarkanda il giorno di battaglia \ si parte per la luna: \ spazio amletico e talmelliano”. Compresenza ha questo di peculiare: coesiste. Si vede solo quello che se ne può vedere, quello che emerge dal caotico ammasso. Come si potrebbe d’altronde realizzare la biografia di un essere umano? Ci sono mille modi per narrarsi e nessuno di essi può esaurire l’argomento, ma ogni parola-mattone costruisce un edificio dal quale non si può prescindere. E l’edificio costruito dalla Schatz ha una particolarità indeclinabile: è costruito con la cultura, l’immagine che si viene formando negli occhi del lettore è fatta di citazioni, frammenti di immagini e di parole che non hanno referente, quasi a voler volgere in ostico atto l’atto stesso della comunicazione, appena illuminato dalla soave scorrevolezza del verso: “a dicembre ad Agazzano nel ripetersi del rito \ luce lene gettata sull’amore \ perenne canto dell’universo al lume \ dell’incanto dell’essere. Così Natale!”. Anche la dimensione della scala è alterata: sono presenti soltanto i due estremi: ciò che si vede, gli oggetti quotidiani, la linea dell’orizzonte e ciò che non si vede, l’infinito, il non immaginabile: “Gioire fino all’infinito \ Festeggiando la propria nascita \ nella perdizione scivolare sullo scivolo \ del sestante di Ulug-Beg”. La Schatz ha costruito il suo libro solo in apparenza con materiali eterogenei, in realtà esso risulta coesissimo, forgiato da una temperatura esistenziale che li ha portati a fusione. Così questo libro, biografia di sé e insieme biografia di amici, di amanti, di conoscenti, è insieme libro dell’infinito: “ quel manto di pelle \ madida calda e sfatta \ mi prendeva nel Suo \ infinito - del dopo - \ l’amore - del dopo \ la morte – grembo \ materno”. Esiste un universo possibile dove l’io si fa con gli altri.
Evelina Shatz è nata sul mare di Odessa. Poeta bilingue, scrive in italiano e in russo. Artista, performer, saggista, giornalista, storico e critico d’arte, regista e scenografa, ha pubblicato in Italia, Russia e altri Paesi, saggi, scritti di narrativa e di teatro. L’opera omnia della sua poesia in lingua russa è uscita nel 2005 per la Casa Editrice Russkij Impuls.