Italo Testa, “Canti ostili”, Lietocolle 2007
Testi poetici
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Venezia
galleggiano ancora le ceneri sul tappeto verde
nella prima luce
come dal fondo risalgono arti trasparenti
al richiamo dei fuochi, dei bagliori
della notte in cui si attraversano le acque
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Sarajevo
prendi un’arancia, prendine un’altra
allinea 365 arance su di un parapetto
365 macchie sul bordo del fiume:
prendi un’arancia, sbucciala a morsi
scoprine il bianco sotto la pelle
macchia di sangue la linea dei denti
prendi un’arancia, apriti un varco
posa la testa sulla pietra del muro:
365 arance dense di luce
Nota critica di Rosa Pierno
Già fin dalle prime righe ci ritroviamo su un terreno instabile, scivoloso, periglioso e non solo perché la scena è quella di un probabile naufragio, ma soprattutto perché le parole che lo descrivono si mostrano simili a cristalli iridescenti, pure lusinghe o elastici metamorfici: “per non cedere ai topazi del cielo, \ ai topi pazzi di un’altra vita”. E la scena descritta è ancor più disarcionante in quanto ci viene detto che il veliero non c’è. La metafora, dunque, diviene ancora più potente se Italo Testa ci mostra il marchingegno in primo piano, quasi parossistico tentativo di svelarci il funzionamento della poesia: l’artificio per cui si può costruire un’immagine che parla di qualcosa assumendo altro.
Il libro “Canti ostili” è, allora, il resoconto di un viaggio compiuto tra gli strumenti dell’artificio, dietro le quinte, in luoghi dove l’effetto di realtà ha un valore iperbolico: gli scenari di guerra o i luoghi espositivi dell’arte contemporanea. Eppure, i luoghi descritti - di cui solo per precisione ipertrofica, l’autore segnala l’ora e i minuti in cui è avvenuta la registrazione del suo passaggio - sono non luoghi: “Questo non è un pullman. \ queste mani non sono mani. \ visti dall’alto: corpi impagliati sui sedili.\ questo non è un pullman. \ questi occhi non sono occhi: \ non sai distinguere la merda d’artista?”. Se siamo nel puro regno dell’artificio e della comunicazione, esistono, tuttavia, diversi gradi di manipolazione dei segni, diversi livelli di scambio comunicativo. Rappresentare e negare il contenuto della rappresentazione (“questa non è una nave. \ questa non è una notte”), descrivere un paesaggio come fosse un quadro (“ dopo Mostar, i mucchi di sabbia e di terra \ scavati, nella luce, senza ombra,”), utilizzare i paradossi (“ e in mezzo, più verde del verde, il fiume \ e i molti bagnanti nell’acqua, come insabbiati”), sovrapporre ciò che si vede a ciò che si immagina (“ ad ogni istante si crede di vedere un gregge \ e ci si sorprende invece a contare i fori, sulle facciate,”) sono gli strumenti utilizzati da Testa che si susseguono sulle pagine del libro come coralli che stiano fuoriuscendo da una collana rotta e che stiano spargendosi imprevedibilmente in ogni direzione sotto gli occhi del lettore. Ma non è un gioco in cui i segni finiscano con lo sfaldarsi. E in questo senso, proprio come accade nell’arte contemporanea di denuncia, il portato comunicativo non si volatilizza, riesce a porgere messaggi precisi contro la guerra e le ingiustizie. Questo libro si schiera per una valutazione della storia che sia strumento di denuncia dei soprusi; è contro la supina acquiescenza. Le operazioni sui segni danno la possibilità di cominciare daccapo, di ricostruire il mondo secondo visuali differenti da quelle propagandate, di sconfiggere una visione abitudinaria e appiattita della realtà. Se “il mondo disarma” non crediamo che Italo Testa resti mai senza utensili.
Italo Testa (1972) ha pubblicato Gli aspri inganni, Lietocolle 2004 e la raccolta Biometrie, Manni 2005. Suoi testi sono apparsi su diverse riviste e antologie.