L’inserimento dei testi non ha seguito i risultati del premio ma un percorso che si delinea attraverso le tendenze della poesia contemporanea: tra possibili contiguità, in un itinerario che scorre non solo all’interno di questa sezione ma si connette, nel suo ideale svolgersi, anche alle altre due.
Domenico Cipriano
Novembre
(2005-2006)
Testi poetici
*
ti guardo con occhi
diversi parola risorta
ogni notte udendo
la voce degli uomini
senza più voce, lontani
sfuggiti dai luoghi.
torni di notte, distante
un respiro e lì germini
frasi distorte che
modifico in vita.
poi credo e non vedo.
*
trema la terra, le vene hanno sangue che geme e ti riempie.
è un fiotto la terra che lotta, sussulta, avviluppa, confonde
la terra che affonda ti rende sua onda, presente a ogni lato
soffoca il fiato, ti afferra, collutta, si sbatte, si spacca, ti vuole
e combatti, chiede il contatto, ti attacca, ti abbatte. è fuoco
la terra del dopo risucchia di poco le crepe: la terra che trema
riempie memoria, ti stana, si affrange, ti strema, è padrona.
Nota critica di Giorgio Bonacini
Scrivere in poesia di un evento tragico e terribile (nel caso specifico il terremoto in Irpinia) comporta spesso il rischio di cadere in un realismo superficiale, dove la sofferenza cede al patetismo e il dolore profondo è ridotto ai luoghi comuni del pianto. Nelle poesia di Cipriano, dedicate al ricordo di questo evento, il pathos è, invece, veramente parola dolorosa che si schianta, che sgretola il senso, che smuove e commuove. Perché il nostro autore sa che la poesia è voce e i fatti sono la materia a cui i versi, man mano che prendono forma, danno significato.
Da subito, nella poesia introduttiva, si capisce la capacità di entrare nelle cose cercandone il segno originario, tanto difficile perché la parola risorge “ogni notte udendo/la voce degli uomini/senza più voce...”. Ma il terremoto (e i suoi effetti interiori più che esteriori) prende vita con un uso fonico del linguaggio, efficacissimo nel far risuonare la catastrofe della terra che “ti afferra, collutta, si sbatte, si spacca, ti vuole/.../la terra che trema/.../ti strema/.../è padrona.” E qui non possiamo non notare con quale efficacia le allitterazioni e le assonanze riproducano la forza devastante della terra che spacca le cose e sgretola la mente. Siamo in presenza di una forte immagine in cui gli effetti del terremoto si riverberano sugli esseri umani e viceversa, imprimendo una vera e propria umanità alle cose (feritoia incancrenita; volti tumefatti delle cose), in una trasfigurazione del dolore provata anche dagli oggetti vissuti.
C’è, in questi testi e nel suo autore, una consapevolezza manifesta di quanto la poesia cerchi i suoi sensi nello sguardo stupefatto (nella gioia e nel dolore) dell’infanzia: non come semplice stadio della crescita, ma più profondamente come primordialità nella creazione e svolgimento di significati esistenziali nuovi, dove “solo i bambini riconoscono i gesti degli affetti/e il gioco nel vivere insieme in un non-luogo”. Le macerie reali sono, dunque, un vuoto detto con parole “semplici” ma cariche di senso emotivo inusuale. E, ad un certo punto il nostro autore arriva, con una piccola inversione sintattica, ad arricchire di nuove significazioni il testo, dicendo che “bastano parole poche”. Non dice “poche parole”, che sarebbe un fatto meramente quantitativo; ma, invertendo i termini, dà un alto valore di qualità alla povertà originaria della lingua, che il poeta sempre ricerca e di cui necessita per scrivere. Questa è l’autenticità della voce di Cipriano: una voce ferita che ci porta dentro a un accadimento di morte con parola limpida, sommessa, ma ferma anche nel grido di “un mucchio di nomi mai sentiti.”.
Mario Fresa
Separazione dalla luce
Testo poetico
*
Così tu segui i portentosi rulli di luce
intervenire su di un sorriso nuovo.
Ma inventare si può
soltanto nell’ingrato seminare di orologi
che preparano discordie:
le rose ti consumano la vista.
*
L’anima cade nella vetrata quando muoiono, d’incanto, le
parvenze. Una semplice arena che cresceva notti lunghe:
era il poema violento della vista,
ma ti accorgevi allora di non essere che un inesatto
gesto, un sonno tutto lieve che scuoteva le dimore.
Nota critica di Giorgio Bonacini
Ciò che contraddistingue fortemente la voce e la scrittura di Fresa è l’andamento costantemente evocativo della sua parola poetica. Ma l’evo- cazione non è mai il segno, per così dire, di una scaltra poeticità dove l’alto livello linguistico è solo un artificio di distanza dalle cose basse; no, qui la lingua stra-ordinaria affiora in un corpo dove “non ci sono amarezze nelle parole divenute/incandescenti...” perché la sua voce “è una severa fuga”. Ed è in questo modo che vediamo affiorare vaste foreste di sentimenti: in forme di sogni, desideri, accenni indistinti a un tu sempre presente ma mai afferrato; e ciò in virtù proprio della consapevolezza, ben ferma nel nostro autore, di chi sente la poesia come un rincorrere costantemente una conoscenza diversa, tesa e lacerata, in cui, leopardianamente, ci si sente parte di un reale, concretamente vitale, di leggerezza e sofferenza, di precarietà e bisogni, di forzature e strappi.
Nei testi di Mario Fresa la metafora non è più un piano sovrapposto a quello della lingua normale, ma è la lettera precisa della sua pronuncia e della sua esistenza. E questo perché, paradossalmente, “il linguaggio è co- mune, sempre”, in una sorgente di figure e di significazioni dal tratto tal- mente sensuale da renderle quasi visionarie: tese a dare luce a una condi- zione di opacità e indistinto. Ciò non toglie, però, che la poesia sia sempre pensiero e lingua di precise attenzioni (anche quando è immersa in una pe- nombra sfumata e sfuocata), in un gioco fisico in cui “accecamenti chiari” e “segreti incoronati al buio” lasciano intendere, ma non svelare, la materia con cui la coscienza poetica diventa la forza dei sentimenti e dei sensi.
D’altra parte la ricerca del senso è certamente la prima intenzione che un autore come il nostro mette in campo: con capacità e conoscenze letterarie, ma più ancora facendo vibrare le corde di un io lacerato che sa quanto il poema possa essere violento e ferire. Ma non ci si può sottrarre da questa condizione, perché “Il pianto ha una mano che ha una solenne forza” e chi fa poesia sa quanto ogni gesto sia sempre all’inseguimento, sempre sul- l’orlo di un precipizio dove anche il suono ha odori e lamenti.
Per Fresa la poesia costituisce veramente una presenza interiore che fuoriesce in una sillabazione di lampi, in cui la scansione dei versi, pur fortemente allusiva e a volte inafferrabile, non è mai sottratta al controllo tecnico. Attenzione, questa, presente ma in disparte, perché “Il libro è la terra” “...sotto un albero di verbi”. E sappiamo che chi calpesta questa terra, ricevendo ombra da questo albero, vive in un felice stadio di assedio e di tensioni, nella mente e nel corpo di ciò che chiamiamo poesia.
Gaetano Ciao
Apparire nell’assente
Testi poetici
*
Ciò che unisce e separa il presente è l’assente
è il senso dell’attesa, il provvisorio, mentre
l’uno e l’altro si avvicinano e si allontanano
senza sosta, al limite dell’appartenenza
nella parola
*
E’ necessario gettare lo sguardo nell’abisso:
di là viene la voce, di là sale l’urlo che squarcia
le tenebre della lingua degli uomini. L’urlo
della tela rapita attraversa un attimo il buio
e si spegne lontano nel baratro, dopo
l’apparizione nell’assente
Nota critica di Giorgio Bonacini
Una delle chiavi per entrare nella poesia di Gaetano Ciao sta, credo, nella sua estrema (e anche combattuta) attenzione per ciò che la scrittura poetica mette in atto nei confronti dell’esterno: e cioè un’autoriflessività in cui “ l’immedesimazione non è quella della parola/con la cosa fuori di sé, ma della poesia/con se stessa...”. Una parola, però, che pur non avendo refe- rente fuori di sé è continuamente in lotta con il mondo: perché la poesia, nonostante la sua vita in condizioni di separatezza, si accompagna al presente “al limite dell’appartenenza/nella parola”. E questa appartenenza (ma potrebbe anche essere solo una parvenza di legame) permette a chi scrive di aderire alla propria voce in modo quasi fisico, corporeo.
Ma la costruzione del poema non è un’attività su cui si ha facile presa: appena si pensa di averla conosciuta, essa sposta il suo senso altrove. I significati si allontanano, barcollano, slittano, fuggono senza per questo pensare che non si possa afferrarne qualcuno: perché se “i nomi sono corpi”, allora la parola che li nomina realizza in sé la concretezza del reale, avvicinandosi alle cose e a qualche interpretazione della realtà.
Gaetano Ciao si avventura con mirabile leggerezza nei meandri di una ri- flessione in cui parola, corpo, pensiero, erranza, assenza, apparenza e silenzio non sono concetti vaghi e sfumati, ma termini che si sostanziano veramente in parola autentica, aperta e disponibile ad andare in più dire- zioni. Perché il poeta sa che la sua voce è sempre sospesa su un vuoto, e questo vuoto si materializza in un’attesa di “pagine bianche” che la poesia sfigura raffigurando se stessa anche nell’altro: nel suo dire altro.
Ma a volte, quando ci si rende pienamente coscienti che “è il buio il primo dono della vista”, stare nell’oscuro ( non “all’oscuro” che è una sua banalizzazione) non vuol dire essere nel non-significante, ma vedere l’oscurità come senso in sé, e poi leggervi dentro. Per Gaetano Ciao scri- vere è rimanere sui confini del reale, avendo ben presente che anche una piccolissima cosa (la casina del Lago, ad esempio, nella poesia intitolata Sum, ergo dubito), nella sua solitudine di oggetto, è rappresentazione di una multiformità (“uno e plurale il senso”, dice l’autore) che a partire dal silenzio illumina innumerevoli sfaccettature.
Anche la poesia, si sa, è una cosa e parla. Ma parla con una voce che si sottrae, per poter anche solo sfiorare la precarietà della realtà che ferisce e confonde: senza mai, però, in questo suo fare vagante e divagante, separarsi da chi la pensa e la pronuncia.
Francesca Monnetti
In-solite movenze
Testo poetico
*
incontro solo passi di nebbia
sulla soglia stretta
fossi di asprezza
sulla via corrotta
corretta
tetra e secca
non la benché minima parvenza di salvezza
qua e là
inciampo
sputo
spargo
mangio fango
detriti di muta mollezza
ciottoli di storpia stoltezza
insipida – insapida – saggezza
strappo
rattoppo
piango
ciuffi goffi e gonfi
di premoriente pienezza
cascate di irrequieta pochezza
in-gorghi di congrua tristezza
ovunque
vado elemosinando
centellinando
centesimi di autentico calore e purezza
non più colore
o stupito ardore
non pura ebbrezza
...niente
più
bellezza.
Nota critica di Giorgio Bonacini
Non succede spesso di leggere, in un testo di poesia non volutamente metalinguistico (in cui, cioè, si dichiara esplicitamente la poetica o, più in astratto, la teoria dell’autore), una così chiara e netta affermazione di come la poesia si formi. L’autrice, infatti, scrive che ciò accade “a labbra semichiuse/con o senza moti evidenti/di denti, lingua, saliva.../...timidi appigli/...sorpresi/tra rari bisbigli.../vocaboli alla deriva”.
Ecco, questo è il suono di Francesca Monnetti. In pochi versi viene detto tutto il lavoro e la fatica che la lingua deve affrontare (in termini di sottrazioni, riduzioni, soffi sempre più alitati) per produrre una parola che riesca a significare la varietà e la complessità del dire, traducendo il tutto in una propria particolare voce. Questa poesia, nella poetica che la sottende, è un vero e proprio laboratorio di oralità; un canto scritto che riceve ulteriori e più fondanti significati nella presenza attualizzata di una parola-suono. Ogni testo è sostenuto da rime, allitterazioni, consonanze, dissonanze, parole anagrammate, ritmi scanditi in una danza fonica che arriva in superficie da una profondità consapevole dei propri mezzi e dei propri corrugamenti interiori. Ma l’oralità del verso che si fa scrittura e che “s’imbroglia, sbroglia/tremulo s’appiglia/a lordo ciarpame/frammisto a sterpaglia” è però anche l’evidenza del gesto visivo di un segno (a volte divertissement per la vista e l’orecchio) sempre legato alla maturazione di un senso, e dunque indirizzato a un pensiero che indaga e raccoglie.
La parola è la materia della poesia, e Francesca Monnetti è abilissima nel plasmarla per dar forma a una sostanza che dia la possibilità di scavare tra le pieghe della vita (anche nei momenti più quotidiani come i lavori domestici o la convivenza), trasfigurando l’esistenza materiale nella parola che imprime senso. Ecco, allora, che una multidirezionalità di lettura si apre, anche con l’uso di felici espedienti: ad esempio nello spezzettamento di una parola di significato compiuto come “con-versi-amo”, possiamo interpretare i trattini sia come divisione sia come unione, in modo tale che una sola parola riesce a dar corpo a un mondo e a un modo di sentimenti.
Altre volte, invece, è il contrasto visivo tra il significato di un verso e la sua forma scritta a creare una forte ambiguità vitale: “ancora di sé espropriata/... m i r i a p p r o p r i o”, dove si vede quanto e quale è il valore di disorientamento di questa voce poetica; si indica un riprendere a sé (riappropriarsi) nell’atto di aprirsi (lo stacco fra le lettere) per dare o lasciare, perdendosi fino a un “segnato vuoto” che rimette in movimento il dicibile
Paolo Ferrari
Saggio-poema del pensare assente
Per una miglior vita nel passaggio dall’aldiqua
Testo poetico
*
Nello spazio alle mie spalle, un segnale
di ricerca. Verifica d’una punta di realtà
che mi era apparsa troppo silenziosa
per essere vera, com’era. E come s’è
attraverso il comune pensiero di
e di dei, a immagine degli uomini
e disposti a vivere/morire come
non risponde alla sollecitazione spasmodica
del senso del non-avere, non-avere
tra le braccia oblunghe, tre le ferite
che il tempo dell’attuale conferma e
giorno dopo giorno, senza attendere il
passeggero, il nocchiero, la donna e
la venuta dell’essere: a mettere in
la vera, la vera-negazione in morte,
Nota critica di Giorgio Bonacini
E’ possibile una poesia della mente che possa attuarsi concretamente in modo tale da superare le forme conosciute della versificazione (non tanto nella forma evidente, ma nelle ragioni che la generano in quella particolare struttura cognitiva), per approdare a una dimensione teorica che salga in su- perficie con una tensione lirica astratta? Certo è difficile produrre un testo simile: un’opera cioè che sia ancora poema, ma altamente distillato in una formulazione estrema del pensiero. Ebbene il tentativo di Paolo Ferrari, con questo Saggio-poema, va decisamente in questa direzione.
L’opera, che si presenta come un insieme di 260 strofe-pensieri, intesi a dare significazione alla sua idea di Assenza, articola questo concetto nel vortice stratificato di un pensiero originale e arduo, che affonda le sue radici nelle discipline conoscitive più importanti: letteratura, filosofia, psicanalisi, antropologia, neuroscienze, sono poste in azione per indagare un’idea di scrittura che sia veramente un processo pensante. Una scrittura, cioè, che se vuole veramente essere tale, non può non manifestarsi come astrazione di un pensiero flessibile e senza contorno, la cui mancanza non è un annul- lamento, ma “un mancamento mancato” che, “all’origine di ogni azione umana”, si presenta come un’assenza che arricchisce. Infatti nel caso della parola il punto più abissale di senso lo si raggiunge nel silenzio: che non è semplice nulla (anzi non lo è affatto), ma è voce che suona nel rovesciamento “di quel suono che ha in sé il silenzio /.../ da cui deriva e che esso stesso conferma”. E per Ferrari questa condizione di silenzio attivo si precisa non nella lingua in generale, ma più in particolare nella scrittura: dove, a volte, dalle sue profondità anche l’indicibile sale in superficie. E qui, in questo primeggiare della scrittura sulla lingua, ci sembra di vedere un’eco di quel “piacere del testo” di cui Barthes aveva, così lucidamente, scritto. Infatti, ad un punto di questo saggio-poema, si legge che “nella lingua in generale non c’è sufficiente verità. Nella scrittura talvolta questa verità affiora”. E ciò anche se le parole spesso escono strozzate, e vivono nella mancanza di un nome che dia senso alle cose e a una realtà non ancora contenuta.
C’è, in questo testo, un’adesione dirompente ai meccanismi che producono i sensi aperti del pensiero: una ricchezza di percezioni cognitive che possono certamente produrre in chi legge “affaticamento”, ma in totale coerenza con la difficile ricerca, in poesia, di parole dai significati plurimi, non consumati ma rinnovati costantemente. Perché scrivere è certamente fare arte, ma è anche un atto vitale, calato in una realtà che da sola non è mai sufficiente se “occorre una ferita, un’assenza” per fare in modo che sia “possibile ciò che chiamiamo esistenza”.
Tino Di Cicco
quando i tempi saranno maturi
Testi poetici
*
devo tutto alla gioia
alla mortalità anche del canto
al giorno con i suoi mille occhi
e al cuore solitario della notte
non ho dovuto scegliere
tra il grano ed il loglio
non ho dovuto scacciare il nulla
dalla casa del divino
è stato tutto bene
*
dinanzi a noi il tempo pacificato
alle spalle qualcosa come un dolore
poteva anche essere diverso il bandolo
per arrivare fino a noi
chi ha deciso così
sapeva cosa fare
Nota critica di Giorgio Bonacini
Il fare linguistico che si svolge nella parola poetica, appartiene a chi legge e a chi scrive con modalità multiformi, in un mondo di mondi (letterari, sociali, artistici, etici, irreali, civili, ecc.) che appaiono in scrittura in modo lineare, ma di cui nessuno (consapevole o no) può illudersi di afferrare il senso compiuto. La poesia di Tino Di Cicco, pur presentandosi senza evidenti sperimentalismi, ha una precisa coscienza di essere linguaggio altro, non codificato da un’ immediatatezza che è solo appa- renza: perché per l’autore, scrivere o dire è “come difendere nella tua balbuzie/il fremito del logos”. Una dimensione, quindi, in cui la forma dei sentimenti che vengono detti, non nasce dalla superficie di una parola chiara e univoca, ma nelle profondità di un balbettio, un farfugliamento, uno sgretolamento in cui la voce, che dovrebbe pronunciare il discorso, ne autentica e ne concentra le sue tante possibilità: i battiti che fremono nella ricerca del senso.
E in queste poesie ciò è reso reale con una leggerezza di pensiero che si avvicina molto all’haiku: alle manifestazioni zen, in cui l’andamento obliquo della mente è fonte di conoscenza.: “se puoi guardare il cielo/ senza ridurlo a te/allora sei il cielo”. Ecco il tocco, in cui nulla di arti- ficioso appare, ma nemmeno nulla di ingenuamente spontaneo: perché la ricerca poetica è rigorosissima e si avvale di un’autoriflessione e di uno sguardo sul mondo senza sbavature. La meditazione nasce da una contem- plazione lenta, fatta di piccole scalfitture da cui filtrano sguardi interiori, affioramenti particolari di chiara consapevolezza:“potevo essere un papa- vero/invece parlo./potevo pensare come la luna/invece sogno con la gram- matica nel cuore”. Di Cicco sa che la conoscenza che si ricava dal pensiero poetico, che è data dalla scrittura, è attenzione a non tuffarsi in modo maldestro, a non debordare dai limiti che stanno nel suono, nello sguardo, nel movimento, negli attriti con cui il poeta si confronta.
E’ necessario, innanzitutto, trovare la parola significativamente valida per quel momento. Per un poeta è certamente importante lo sguardo, ma questo non deve mai ostacolare la presa sul reale, che è creazione e scoperta, perdita e impossibilità. Il reale non può aderire a se stesso se il poeta non vi si immerge completamente, cioè “se prima tu/non perdi te”. Ma tutto questo con la lucidità, che Di Cicco mostra di avere, che non si può essere altro da ciò che siamo, e che è la poesia a renderci più disponibili perché “non sapendo volare/ camminammo//ma senza rinnegare il cielo”.
Gian Paolo Guerini
lì vidi: nero, patio, riso
Testo poetico
*
percorrere le vele velate mare e canto di sogno velato urge al vento mirto esiguo che vento urge guidare sentirlo alitare in sere spettrali orme cominciate con triste passo timido simili a fuochi premono al vento simili a sguardi partono come volti arresi vidi la vista che più non parlava sollevare luci afone come fuggite telare giorni movendo piume lucenti nell’abisso in cielo volate ali rotte lodare le mani roventi e ciglia ispide ossi e preghiere si spiegan come manti nella sera arsa follia presso elmi come campane alitano mostrando oscuri atti a dir la cenere (...)
Nota critica di Giorgio Bonacini
Scriveva Roland Barthes a proposito di Sollers: “E’ tempo di raccontare null’altro che la parola infinitamente vasta che giunge a me”, e io credo che sia proprio questo che Guerini fa quando scrive. Egli, più precisamente, non racconta, ma “dice” le sue parole senza fine, ed è molto difficile far comprendere la sua opera se non la si legge materialmente.
Il testo, tripartito, si presenta come un insieme sintagmatico fatto di cellule (frasi, parole, fonemi) apparentemente indissolubili fra loro, ma se la lettura avviene (come deve avvenire anche nel silenzio mentale) nella sua piena oralità, allora qualcosa si apre: “amori senza luce sassi morti d’aculei torti vòlti dentro tristi ascolti...”, in un flusso continuo, una catena significante di richiami in cui la parola, quando si fa voce, trova in sé il senso del mondo e del pensiero. E lo trova trasformando la lingua alfabetica denotata in un corpo di rappresentazioni e di continua riflessione su di sé, capace di “vedere la vista che più non parlava sollevare luci afone”; dove si evidenzia la capacità della parola “incorporea” di diventare oggetto sonoro fisico, con l’uso di tutte le possibilità fonosillabiche, timbriche, fonematiche che la lingua italiana possiede. Fino alla sonorizzazione pura, con sequenze foniche (“sem ques cos... tav tuc tel... inav ostrev ‘nsuov...”) in cui lo spezzettamento delle parole si avvicina moltissimo all’esperienza di poesia fonetica lettrista, aggiungendovi però il senso di un movimento, di una gestualità potenziale ma intrattenibile.
Insomma, Guerini scava dentro la lingua rendendola concreta e liberan- dola dal discorso, alla ricerca di un nuovo intreccio tra il suono e il senso, per arrivare a vedere “una voce arar la chioma torva della gola impregnata d’erba e fiori sventolar sillabe estive”.
Un’ultima notazione che si evidenzia nella struttura in tre parti, ognuna delle quali termina con la parola “stelle”, è un forte (e direi basilare) ri- chiamo dantesco. Tutto il testo è permeato profondamente, nell’andamento ritmico e vocale dalla Commedia; si sente la carne delle stesse parole, che si scoprono sparpagliate e spezzettate in varie parti del testo, e a volte an- che interi versi uniti in un gomitolo (ad esempio l’ottavo canto del purga- torio“lotrepassicredochiscendesseefuidisottoevidiunchemiravapurmecome- conscermivolessetemp...”) che non necessitano, però, di essere sciolti, per- ché tutto deve scorrere, danzare, sventolare possibilità d’ascolto fluide nel tempo e nello spazio; azioni di parola certamente estenuanti, ma mai insignificanti, mai abbandonate, mai lasciate senza autonoma personalità.
Armando Bertollo
Il teatrino della scrittura
attraverso i sintomi
Nota critica di Giorgio Bonacini
Le pagine di scrittura e segni che Bertollo organizza con grande senso dello spazio, intensa lucidità mentale e profonda capacità di significazione visiva, si inscrivono direttamente e perfettamente all’interno di quella map- pa progettuale che si richiama ai concetti di poesia totale: teorizzata, inda- gata e praticata, con entusiasmo e lucidità, da Adriano Spatola. Una poesia di ricerca contemporanea che in Bertollo ha tanto più valore perché egli vi inserisce delle cellule di linearità pensante che indicano (ma non obbli- gano) un percorso: uno fra i tanti che si rendono possibili al lettore. Siamo quindi di fronte non solo a una poesia, ma a un’opera complessa che mette in campo, in primo luogo, la percezione della vista come “possibilità di let- tura, ma non ancora capacità; poi la voce (anche quella silenziosa di chi legge per sé), dove “vista e voce giocano con la loro influenza”; e, ad un altro livello, il pensiero che ne sostiene la significazione e l’impianto glo- bale in una “esperienza individuale che può diventare esperienza del lin- guaggio; infine la segnicità pura che sembra urtare l’equilibrio, quando in- vece lo tiene stabilmente instabile “con il ritmo e il respiro, che discendono dal primo punto come eco”. L’autore, quindi, si affida a parole delineate e aggrappate a linee che divergono o convergono, vanno a zig zag, tratteggiano e si spezzano e sembrano proporre dei percorsi mentali in varie direzioni, che il lettore può decidere di seguire subito o in un secondo tempo, scegliendo in modo autonomo la propria via.
Il testo è allora disponibile ad affermare e afferrare un senso anche doloroso, non solo estetico, perché “si nasce da una ferita” e “ci si deve porre con la disponibilità di esserne i custodi”. Ed è sorprendente come, all’interno di questa sperimentazione totale, Bertollo attivi e incorpori tra le sue forme visive e sonore, nello spazio bianco della pagina (più che mai importante), l’accoglienza di un senso etico/poetico abitato da una lettura pensante, mai degradato a utilità, mai bloccato o afferrato o violato da un unico significato, iniziale o finale che sia. Il senso è sempre (ed ecco il “teatro” del titolo) re-interpretato e ri-conosciuto. Bertollo lo dice esplici- tamente: “...gli elementi segnici e sonori si attivano, diventano teatrino”, esibizione della loro forma: orma e ombra dell’esperienza. E infatti, la spazialità sonora che si fa parola aperta, concede a chi legge le flessioni di un andamento che si trasforma (nella terza parte del testo) in un dialogo tra due corpi astratti, all’interno di stralci di realtà strappati e rimessi in scena.
C’è, alla fine, una necessità di ricerca, nel mutamento poetico, tesa a fare di ogni scelta, di ogni sguardo sull’opera, una vertigine.
Gianluca Giachery
Geometrica passione
Testo poetico
*
Certo mi illumini
quando t’avanzi
con fare lento al canestro
dell’ambigua scelta,
dipanando l’inverso.
Credenza
è solo il nome
fortuito d’un eccesso,
il sillabario
povero
dell’inganno.
Forse più incerto
ora
il tuo respiro
appartiene agli anni
del rimosso:
tenue il correre
verso ogni fuga:
un’attrazione
che repentina scompare.
Nota critica di Giorgio Bonacini
Gianluca Giachery intitolando la sua raccolta di poesie “Geometrica passione”, mette in chiaro un vero e proprio ossimoro concettuale: la passione, comunemente intesa, è in sé una forma di energia caotica e instabile, quindi una forza che subisce le pressioni dell’emotività e del sentimento: il contrario, perciò, di una struttura ordinatamente geometrica e logica. Bisogna allora intendere bene il titolo, e leggendo i testi si capisce che la “passione” è certamente rivolta a persone che condividono momenti di vita dell’autore, ma sembra anche, e forse più, riguardare il suo manifestarsi in poesia; e la poesia, chi scrive lo sa, è un luogo sia di rigorose precisioni formali, sia di vorticose sensibilità. Ci viene in aiuto, a questo proposito, una poesia di Paul Celan che dice: “NON SCRIVERTI/tra i mondi,//tieni testa/alla varietà dei significati,// fidati della traccia di lacrime/e impara a vivere.” Ecco, allo stesso modo per Giachery la poesia è una passione in cui “le risposte che mimano/il significato/non hanno legami incondizionati”, perché il pensiero poetico è una domanda incessante, ma, come in amore, le risposte sono labili: cercano un significato, lo condizionano, tentando di imitarlo e, quando sembrano afferrarlo, questo si scioglie verso altre esperienze. Ed è allora che si possono usare altre parole, un’altra voce; si può trasportare il soggetto di passione in “giochi di rimando” che “affrancano il desiderio”.
Ma Giachery, che ha ben presente le possibilità, le potenzialità e i limiti della scrittura, sa che l’espressione dei sentimenti e delle emozioni non la si può ridurre all’uso della parola quotidiana, ma diventa reale solo nelle ragioni interiori di un’impossibilità. E che per strappare il velo, la parola, deve imprimere a se stessa una sintassi svuotata e poi rinnovata di sensi. In questo modo la poesia, che è voce, diventa un “impronunciabile balbettio” e l’indicibile, in effusione magmatica, prende forma anche nel mutismo. E’ ancora Celan a svelarci (ma tutti i poeti, intuitivamente e intimamente, lo sanno) come la poesia presenti “una forte inclinazione ad ammutolire”, senza però mai arrivare al nulla. Perciò anche il silenzio è suono, e compenetra la parola, nei suoi tratti distintivi, “con voce disincarnata”. Giachery scrive le sue passioni con una lucidità estrema, affrancandosi da ogni psicologismo e dalla facile dizione, consapevole di dilapidare “le ipotenuse contraffatte/dell’amore.” Sa che “dire” in poesia non è un gesto liscio e pulito, ma è una parola irta di difficoltà: a volte di inganni e di apparenze, dove “le fatiche consacrate al silenzio” conducono anche a contraddizioni vertiginose in cui “terribile e vuoto/è il nome,/pienezza d’assoluto”.