L’inserimento dei testi non ha seguito i risultati del premio ma un percorso che si delinea attraverso le tendenze della poesia contemporanea: tra possibili contiguità, in un itinerario che scorre non solo all’interno di questa sezione ma si connette, nel suo ideale svolgersi, alle altre due.
Chiara Poltonieri, “Clio” [1] [2] [3] [4] [5] [6] [7]
Nota critica di Marco Furia
Clio
“Clio”, musa della storia, è titolo all’ articolata composizione di Chiara Poltronieri.
Si tratta di un complesso connettersi di riflessioni e immagini, nell’ àmbito delle quali il mondo della mitologia viene recuperato a una vivida contemporaneità.
Lungi dal considerare il divenire mera concatenazione di fatti regolati dal principio di causa/effetto, la poetessa dà voce a dimensioni in cui “non solo il futuro / è denso di enigmi”, ma “anche il passato / è un enigma”, in cui, cioè, il misterioso fenomeno dell’ esistere accomuna passato e futuro in un’ attualità imprescindibile.
Tanto è vero che soltanto “gli inspiegabilmente vivi / loro che avevano veramente provato / come ultimo desiderio / il desiderio della vita dell' altro" “loro che avevano veramente provato / un dolore vero / per la scomparsa / non di quello che avevano conosciuto”, unicamente loro “avrebbero saputo ascoltare/ quel che la musa della storia” “aveva conservato”: non una storia per tutti, dunque, bensì per chi possiede certe non comuni caratteristiche, certi purtroppo rari tratti affettivi, di generosità, di comprensione estrema.
Solo a costoro Clio si rivolge.
Elegante, capace di dominare con fermezza una materia enigmatica considerata non ostacolo, ma occasione, attenta anche ai minimi particolari del lessico, senza indulgere a toni scomposti, Chiara Poltronieri offre una Clio che avvertiamo vicina, contemporanea.
Una presenza in più, davvero.
Miro Gabriele, “Le rose di Porto” [1] [2]
Nota critica di Marco Furia
Una limpida offerta
“Limpida” davvero l’ “offerta” di Miro Gabriele che, con “Le rose di Porto”, presenta un articolato componimento in cui allusive scansioni mirano a porre in essere un’ “astratta geografia”, affascinante per la capacità di suggerire immagini interne ed esterne nel contempo, esiti evidenti di profondi rapporti di empatia con il mondo.
Gabriele, sapiente e tenace costruttore di versi, ossia di autonomi linguaggi, si mostra ben conscio delle peculiari potenzialità di un’ opzione artistica, quale la sua, particolarmente ricca di attitudine espressiva.
Siamo in presenza di una salda fiducia nel farsi poetico, di una conferma della tipicità d’ una lingua in grado di offrire non soltanto eleganti tratti descrittivi, ma anche di promuovere un leggere inedito, dalle molteplici possibilità e aperture, secondo orchestrazioni che non costringono entro rigide sbarre, invitando, al contrario, a servirsi dei paradigmi verbali con rinnovata sensibilità.
Con toni armonici, evocativi, contraddistinti da una vena espressionista poco esibita, quasi implicita, eppure intensa, trattenuta da parole che, proprio in virtù di tale scelta , riescono ad assorbire maggiore energia, senza mai cedere alla maniera dello scrivere semplice e comprensibile a tutti i costi, il poeta ci fa dono di una “luminosa pietà”, di un’ affettiva partecipazione all’ umana vicenda secondo accenti il cui “disegno”, “aperto” ma composto, testimonia di una equilibrata cifra stilistica.
Uno “sguardo” “netto”, senza dubbio.
Alberto Casadei, “Ricognizioni dell’ isola” [1] [2]
Nota critica di Marco Furia
L’isola
Come dal mare emergono le rocce e le terre di un’ isola, così dal silenzio affiorano i versi di Alberto Casadei che, con “Ricognizioni dell’ isola”, presenta costrutti poetici esili e robusti nel contempo.
Esili quanto a immagini, certo intense e vivide, ma come ancora prive di schemi utili alla comunicazione, robusti nell’ accorta composizione, frutto d’ impegno coerente e assiduo.
Quello che più colpisce nei versi in parola è proprio la fusione tra i due àmbiti, anzi, nemmeno, poiché per Casadei pare trattarsi di diversi aspetti di un’ unica, poetica, dimensione: egli, cioè, rende davvero conto, nel concreto della sua lingua, di uno stato di fatto in cui non c’è posto per apriorismi di alcun tipo, bensì soltanto per il fluire di energie.
Il suo idioma è già vita, nel senso che, altrimenti, null’ altro potrebbe sottrarre spazio al silenzio: tutto esclude nel momento in cui ogni cosa include, secondo un atteggiamento la cui natura intransitiva testimonia di un’ originale prassi poetica.
Gli ultimi versi “Un giorno arrivò, / un ritorno previsto, / acqua e acqua, / senza risposte / sino alla sabbia / appoggiata sul / vano” sono emblematici di propensioni che, non avvertendo la necessità di scomporre per poter analizzare, nulla escludono per meglio capire.
Un di più quantificabile non in oggetti o fatti, bensì in una scrupolosa attenzione nei confronti di quanto ci capita e ci circonda.
Il tutto senza abbandono, né enfasi.
Silvia Comoglio, “Farfalla” [1][2]
Nota critica di Marco Furia
Un’ aria che parla
Davvero l’ “aria” “parla” nei versi di Silvia Comoglio, forse come accade tra un battito e l’ altro delle ali d’ una farfalla, leggiadro insetto da cui il componimento in parola prende nome: un’ aria a tratti rarefatta, a tratti densa, talvolta tersa, secca, talaltra ricca di vapori, di umide fragranze.
Se il “filo della voce” suscita l’ interesse della poetessa (“della voce”, si badi, non soltanto della lingua), la sua scrittura, sempre rivolta ad accettare le sfide che ogni verso propone, riesce ad offrire non ambigua testimonianza di come si possa fuggire da certi vieti schemi senza negarne a priori le forme, di come, insomma, si possa ben continuare a parlare (e scrivere) senza rivolgersi a quell’ inarticolato nulla che assieme alla malattia annienta l’ infermo.
Occorre un altro dire, quello del poeta.
Egli parla, dunque usa uno strumento, ma non allo scopo di costringere in prigionia: al contrario, per offrire a chi ascolta possibili vie di scampo.
I canoni grammaticali, così, vengono modificati dall’ emergere di un’espressione ordinata ma diversa, in cui colori, suoni, simboli, risultano, più che effetti di un divenire linguistico, elementi inseparabili dalle parole assieme alle quali giungono ad esistenza, come ben dimostra la pronuncia “è il pianto della luce / è l’ ùltima memoria”.
Con cadenze efficaci, incisive, esito d’ incessante lavoro su materiali linguistici rivolti a porre in essere possibili condizioni d’esistenza diverse dall’ usuale, Silvia Comoglio riesce nell’ intento di creare una inconsueta consuetudine in cui il lettore vive, verso dopo verso, con naturalezza.
D’ inedita familiarità, insomma, ci viene fatto prezioso dono.
Mauro dal Fior, “Del bianco”
Nota critica di Marco Furia
A parlare del bianco
Certo parla “del bianco” il testo, così intitolato, di Mauro Dal Fior: un bianco esteso e ridotto, un tutto e nulla o, meglio, un tutto che contiene anche il concetto di nulla.
Resosi ben conto delle ampie possibilità di un linguaggio, quale quello poetico, aperto nei confronti di ogni possibile propensione, ossia del tutto autonomo quanto a direttrici, Dal Fior, memore degli insegnamenti della migliore avanguardia, s’ interroga sul mezzo adoperato e, più nello specifico, sullo strumento adatto alla bisogna dell’ oggi.
La risposta è una scrittura fortemente allusiva capace di legare l’ uso di tratti non troppo lontani dai canoni quotidiani a un’ acuta riflessione su tale stesso impiego: non si è in presenza di forme d’ avanguardia spinta, ma di espressioni poetiche capaci di far rivivere, senza cadere in stanche ripetizioni, lo spirito di certe importanti esperienze del secolo scorso.
Con ritmo battente, ribadendo, per ben otto volte, agile, il verso “Parliamo del bianco”, il Nostro riesce a far balenare immagini vivide, dagli originali lineamenti, nel cui ambito inedite modalità linguistiche, gusto per la provocazione, nonché riferimenti agli oggetti, si fondono in felice connubio.
Così, disponibile a praticare un dire non fine a sé medesimo (“Parliamo del bianco / che gli inganni cancella”), la poesia mostra lo svolgersi di un itinerario che svela nelle sue pieghe linguistiche tratti profondamente umani.
Del resto, nell’ affettuosa “Dichiarazione di poetica” aggiunta, Dal Fior non nasconde, rendendo omaggio, qui anche nelle forme, a una mai dimenticata avanguardia, in quale “mare” gli sia “dolce” “naufragar”.
Citazione leopardiana che la dice lunga.
Massimiliano Finazzer Flory, “Trittico sulla parola” [1] [2] [3]
Nota critica di Marco Furia
La parola
Con “Trittico sulla parola”, Massimiliano Finazzer Flory presenta in forma poetica una riflessione che, fin dalle prime battute, sfugge ai canoni dell’ ordine logico per proporre non tanto un’ idea, quanto un’ ineffabile biologia del linguaggio.
Ineffabile nella sua immensa totalità, ossia non possibile oggetto d’ analisi esaustiva, nondimeno concreta valenza: “il linguaggio è un veliero”, ma i mari attraversati non sono misurabili una volta per tutte, poiché uno scafo siffatto, in perenne navigazione, non risulta nettamente separato dall’ acqua che lo sostiene e le coordinate tracciate possono subire modifiche, scomparire del tutto, ricostituirsi all’ improvviso.
A ben vedere la lingua, qualunque lingua, se viene adoperata è sempre “madre”, nel senso che, comunque, anche là ove tentenniamo usando strumenti poco noti, non possiamo tradire noi stessi, in quanto non coincidiamo con l’ espressione, ma lo siamo.
Tanto, con scrupolosa eleganza, suggerisce Flory il quale, sapiente, si serve di forme piane, di costrutti non troppo inusuali almeno nell’ aspetto, capaci d’ indurre a riflettere sugli “argomenti” proposti, come sulle stesse modalità di proposizione.
Non occorre rivolgersi a ricercatezze di maniera, se è vero che “Domandare la parola è / interrogare una virgola in partenza”, ossia che un utile esame della dimensione espressiva può partire da materiale anche minimo, disponibile, presente, per nulla occulto.
Insomma, il Nostro non ci guida lungo un itinerario, bensì ci mostra una direzione lungo la quale innumerevoli percorsi sono praticabili, invitandoci ad assumere la responsabilità di una scelta.
Evidente, in lui, la radice etica.
Roberto Fassina
Nel biancore mattino
Nel biancore mattino
morde le rètine un livido sole,
in quest’alba monca attendo
l’artiglio del dio radente
(immanente destino l’attesa
di verità diviete)
mia afasica nuvola mia
res incognita,
empio quesito
recito, pie bestemmie
(redimo ai margini
silenziosa equazione d’acqua)
cenere di stelle
fummo senza colpa,
luce difettiva
genetica adattiva
(incognite lievi
perdute nel tempo)
Roberto Fassina, “Nel biancore mattino”
Nota critica di Marco Furia
Verso liquide equazioni
Con “Nel biancore mattino”, Roberto Fassina presenta una concisa composizione in cui a immagini d’ “alba”, accompagnate da riflessioni repentine, ricche di enigmatica pregnanza, seguono vere e proprie asserzioni a proposito dell’ umano esistere: “cenere di stelle / fummo senza colpa”, “(incognite lievi / perdute nel tempo)”.
Questa sorta di cosmogonia, proposta in maniera asciutta e perentoria, mi pare riferirsi, gettandovi luce, alla “mia afasica nuvola mia”: l’ origine, polvere astrale illuminata da chissà quale sole, è “afasica”, non parla, al contrario
dell’ uomo in genere, nonché dello stesso poeta in particolare.
Come conciliare questi due aspetti?
Sembra che a Fassina tale questione non interessi poi tanto: egli insiste su uno stato di fatto e non va oltre.
Si sofferma soltanto su quanto ritiene evidente: lo stupore di siffatta presa d’ atto assorbe ogni altra esigenza espressiva.
Ma, credo, non ci troviamo di fronte a un punto di arrivo.
Non si tratta, ovviamente, qui, di discutere sulla liceità scientifica (o storica) dell’ assunto, interessa, invece, la presenza di tensioni interne alla scrittura dalle quali traspare una partecipazione affettiva ancora tutta disponibile a mostrarsi nel corso d’ itinerari poetici in grado di aggiungere ulteriori fisionomie a certe precise, lucide, scansioni, a certe originali immagini.
Occorrerà ritornare, insomma, a quell’ ineffabile “silenziosa equazione