Carte nel Vento
periodico on-line
del Premio Lorenzo Montano
a cura di Ranieri Teti
I testi poetici, le note critiche
In questo numero diamo visibilità a una parte del lavoro teorico che costituisce le fondamenta di un Premio come il “Lorenzo Montano”, occupandoci dell’ultima edizione che si è conclusa durante le giornate della III Biennale Anterem di poesia.
I testi poetici delle autrici e degli autori finalisti e vincitori, vera sostanza del premio, sono commentati dai redattori della rivista “Anterem”, esattamente come si è svolto dal vivo durante la “Biennale”.
L’intreccio di poesia di qualità e il suo approfondimento critico rappresenta un avvenimento di rarità nel panorama letterario contemporaneo. Su questa strada intendiamo proseguire, già con la nuova edizione del Premio che scade fine marzo.
Ranieri Teti cartenelvento@anteremedizioni.it
L’inserimento dei testi non ha seguito i risultati del premio ma un percorso che si delinea attraverso le tendenze della poesia contemporanea: tra possibili contiguità, in un itinerario che scorre non solo all’interno di questa sezione ma si connette, nel suo ideale svolgersi, alle altre due.
Chiara Poltonieri, “Clio” [1] [2] [3] [4] [5] [6] [7]
Nota critica di Marco Furia
Clio
“Clio”, musa della storia, è titolo all’ articolata composizione di Chiara Poltronieri.
Si tratta di un complesso connettersi di riflessioni e immagini, nell’ àmbito delle quali il mondo della mitologia viene recuperato a una vivida contemporaneità.
Lungi dal considerare il divenire mera concatenazione di fatti regolati dal principio di causa/effetto, la poetessa dà voce a dimensioni in cui “non solo il futuro / è denso di enigmi”, ma “anche il passato / è un enigma”, in cui, cioè, il misterioso fenomeno dell’ esistere accomuna passato e futuro in un’ attualità imprescindibile.
Tanto è vero che soltanto “gli inspiegabilmente vivi / loro che avevano veramente provato / come ultimo desiderio / il desiderio della vita dell' altro" “loro che avevano veramente provato / un dolore vero / per la scomparsa / non di quello che avevano conosciuto”, unicamente loro “avrebbero saputo ascoltare/ quel che la musa della storia” “aveva conservato”: non una storia per tutti, dunque, bensì per chi possiede certe non comuni caratteristiche, certi purtroppo rari tratti affettivi, di generosità, di comprensione estrema.
Solo a costoro Clio si rivolge.
Elegante, capace di dominare con fermezza una materia enigmatica considerata non ostacolo, ma occasione, attenta anche ai minimi particolari del lessico, senza indulgere a toni scomposti, Chiara Poltronieri offre una Clio che avvertiamo vicina, contemporanea.
Una presenza in più, davvero.
Miro Gabriele, “Le rose di Porto” [1] [2]
Nota critica di Marco Furia
Una limpida offerta
“Limpida” davvero l’ “offerta” di Miro Gabriele che, con “Le rose di Porto”, presenta un articolato componimento in cui allusive scansioni mirano a porre in essere un’ “astratta geografia”, affascinante per la capacità di suggerire immagini interne ed esterne nel contempo, esiti evidenti di profondi rapporti di empatia con il mondo.
Gabriele, sapiente e tenace costruttore di versi, ossia di autonomi linguaggi, si mostra ben conscio delle peculiari potenzialità di un’ opzione artistica, quale la sua, particolarmente ricca di attitudine espressiva.
Siamo in presenza di una salda fiducia nel farsi poetico, di una conferma della tipicità d’ una lingua in grado di offrire non soltanto eleganti tratti descrittivi, ma anche di promuovere un leggere inedito, dalle molteplici possibilità e aperture, secondo orchestrazioni che non costringono entro rigide sbarre, invitando, al contrario, a servirsi dei paradigmi verbali con rinnovata sensibilità.
Con toni armonici, evocativi, contraddistinti da una vena espressionista poco esibita, quasi implicita, eppure intensa, trattenuta da parole che, proprio in virtù di tale scelta , riescono ad assorbire maggiore energia, senza mai cedere alla maniera dello scrivere semplice e comprensibile a tutti i costi, il poeta ci fa dono di una “luminosa pietà”, di un’ affettiva partecipazione all’ umana vicenda secondo accenti il cui “disegno”, “aperto” ma composto, testimonia di una equilibrata cifra stilistica.
Uno “sguardo” “netto”, senza dubbio.
Alberto Casadei, “Ricognizioni dell’ isola” [1] [2]
Nota critica di Marco Furia
L’isola
Come dal mare emergono le rocce e le terre di un’ isola, così dal silenzio affiorano i versi di Alberto Casadei che, con “Ricognizioni dell’ isola”, presenta costrutti poetici esili e robusti nel contempo.
Esili quanto a immagini, certo intense e vivide, ma come ancora prive di schemi utili alla comunicazione, robusti nell’ accorta composizione, frutto d’ impegno coerente e assiduo.
Quello che più colpisce nei versi in parola è proprio la fusione tra i due àmbiti, anzi, nemmeno, poiché per Casadei pare trattarsi di diversi aspetti di un’ unica, poetica, dimensione: egli, cioè, rende davvero conto, nel concreto della sua lingua, di uno stato di fatto in cui non c’è posto per apriorismi di alcun tipo, bensì soltanto per il fluire di energie.
Il suo idioma è già vita, nel senso che, altrimenti, null’ altro potrebbe sottrarre spazio al silenzio: tutto esclude nel momento in cui ogni cosa include, secondo un atteggiamento la cui natura intransitiva testimonia di un’ originale prassi poetica.
Gli ultimi versi “Un giorno arrivò, / un ritorno previsto, / acqua e acqua, / senza risposte / sino alla sabbia / appoggiata sul / vano” sono emblematici di propensioni che, non avvertendo la necessità di scomporre per poter analizzare, nulla escludono per meglio capire.
Un di più quantificabile non in oggetti o fatti, bensì in una scrupolosa attenzione nei confronti di quanto ci capita e ci circonda.
Il tutto senza abbandono, né enfasi.
Silvia Comoglio, “Farfalla” [1][2]
Nota critica di Marco Furia
Un’ aria che parla
Davvero l’ “aria” “parla” nei versi di Silvia Comoglio, forse come accade tra un battito e l’ altro delle ali d’ una farfalla, leggiadro insetto da cui il componimento in parola prende nome: un’ aria a tratti rarefatta, a tratti densa, talvolta tersa, secca, talaltra ricca di vapori, di umide fragranze.
Se il “filo della voce” suscita l’ interesse della poetessa (“della voce”, si badi, non soltanto della lingua), la sua scrittura, sempre rivolta ad accettare le sfide che ogni verso propone, riesce ad offrire non ambigua testimonianza di come si possa fuggire da certi vieti schemi senza negarne a priori le forme, di come, insomma, si possa ben continuare a parlare (e scrivere) senza rivolgersi a quell’ inarticolato nulla che assieme alla malattia annienta l’ infermo.
Occorre un altro dire, quello del poeta.
Egli parla, dunque usa uno strumento, ma non allo scopo di costringere in prigionia: al contrario, per offrire a chi ascolta possibili vie di scampo.
I canoni grammaticali, così, vengono modificati dall’ emergere di un’espressione ordinata ma diversa, in cui colori, suoni, simboli, risultano, più che effetti di un divenire linguistico, elementi inseparabili dalle parole assieme alle quali giungono ad esistenza, come ben dimostra la pronuncia “è il pianto della luce / è l’ ùltima memoria”.
Con cadenze efficaci, incisive, esito d’ incessante lavoro su materiali linguistici rivolti a porre in essere possibili condizioni d’esistenza diverse dall’ usuale, Silvia Comoglio riesce nell’ intento di creare una inconsueta consuetudine in cui il lettore vive, verso dopo verso, con naturalezza.
D’ inedita familiarità, insomma, ci viene fatto prezioso dono.
Mauro dal Fior, “Del bianco”
Nota critica di Marco Furia
A parlare del bianco
Certo parla “del bianco” il testo, così intitolato, di Mauro Dal Fior: un bianco esteso e ridotto, un tutto e nulla o, meglio, un tutto che contiene anche il concetto di nulla.
Resosi ben conto delle ampie possibilità di un linguaggio, quale quello poetico, aperto nei confronti di ogni possibile propensione, ossia del tutto autonomo quanto a direttrici, Dal Fior, memore degli insegnamenti della migliore avanguardia, s’ interroga sul mezzo adoperato e, più nello specifico, sullo strumento adatto alla bisogna dell’ oggi.
La risposta è una scrittura fortemente allusiva capace di legare l’ uso di tratti non troppo lontani dai canoni quotidiani a un’ acuta riflessione su tale stesso impiego: non si è in presenza di forme d’ avanguardia spinta, ma di espressioni poetiche capaci di far rivivere, senza cadere in stanche ripetizioni, lo spirito di certe importanti esperienze del secolo scorso.
Con ritmo battente, ribadendo, per ben otto volte, agile, il verso “Parliamo del bianco”, il Nostro riesce a far balenare immagini vivide, dagli originali lineamenti, nel cui ambito inedite modalità linguistiche, gusto per la provocazione, nonché riferimenti agli oggetti, si fondono in felice connubio.
Così, disponibile a praticare un dire non fine a sé medesimo (“Parliamo del bianco / che gli inganni cancella”), la poesia mostra lo svolgersi di un itinerario che svela nelle sue pieghe linguistiche tratti profondamente umani.
Del resto, nell’ affettuosa “Dichiarazione di poetica” aggiunta, Dal Fior non nasconde, rendendo omaggio, qui anche nelle forme, a una mai dimenticata avanguardia, in quale “mare” gli sia “dolce” “naufragar”.
Citazione leopardiana che la dice lunga.
Massimiliano Finazzer Flory, “Trittico sulla parola” [1] [2] [3]
Nota critica di Marco Furia
La parola
Con “Trittico sulla parola”, Massimiliano Finazzer Flory presenta in forma poetica una riflessione che, fin dalle prime battute, sfugge ai canoni dell’ ordine logico per proporre non tanto un’ idea, quanto un’ ineffabile biologia del linguaggio.
Ineffabile nella sua immensa totalità, ossia non possibile oggetto d’ analisi esaustiva, nondimeno concreta valenza: “il linguaggio è un veliero”, ma i mari attraversati non sono misurabili una volta per tutte, poiché uno scafo siffatto, in perenne navigazione, non risulta nettamente separato dall’ acqua che lo sostiene e le coordinate tracciate possono subire modifiche, scomparire del tutto, ricostituirsi all’ improvviso.
A ben vedere la lingua, qualunque lingua, se viene adoperata è sempre “madre”, nel senso che, comunque, anche là ove tentenniamo usando strumenti poco noti, non possiamo tradire noi stessi, in quanto non coincidiamo con l’ espressione, ma lo siamo.
Tanto, con scrupolosa eleganza, suggerisce Flory il quale, sapiente, si serve di forme piane, di costrutti non troppo inusuali almeno nell’ aspetto, capaci d’ indurre a riflettere sugli “argomenti” proposti, come sulle stesse modalità di proposizione.
Non occorre rivolgersi a ricercatezze di maniera, se è vero che “Domandare la parola è / interrogare una virgola in partenza”, ossia che un utile esame della dimensione espressiva può partire da materiale anche minimo, disponibile, presente, per nulla occulto.
Insomma, il Nostro non ci guida lungo un itinerario, bensì ci mostra una direzione lungo la quale innumerevoli percorsi sono praticabili, invitandoci ad assumere la responsabilità di una scelta.
Evidente, in lui, la radice etica.
Roberto Fassina
Nel biancore mattino
Nel biancore mattino
morde le rètine un livido sole,
in quest’alba monca attendo
l’artiglio del dio radente
(immanente destino l’attesa
di verità diviete)
mia afasica nuvola mia
res incognita,
empio quesito
recito, pie bestemmie
(redimo ai margini
silenziosa equazione d’acqua)
cenere di stelle
fummo senza colpa,
luce difettiva
genetica adattiva
(incognite lievi
perdute nel tempo)
Roberto Fassina, “Nel biancore mattino”
Nota critica di Marco Furia
Verso liquide equazioni
Con “Nel biancore mattino”, Roberto Fassina presenta una concisa composizione in cui a immagini d’ “alba”, accompagnate da riflessioni repentine, ricche di enigmatica pregnanza, seguono vere e proprie asserzioni a proposito dell’ umano esistere: “cenere di stelle / fummo senza colpa”, “(incognite lievi / perdute nel tempo)”.
Questa sorta di cosmogonia, proposta in maniera asciutta e perentoria, mi pare riferirsi, gettandovi luce, alla “mia afasica nuvola mia”: l’ origine, polvere astrale illuminata da chissà quale sole, è “afasica”, non parla, al contrario
dell’ uomo in genere, nonché dello stesso poeta in particolare.
Come conciliare questi due aspetti?
Sembra che a Fassina tale questione non interessi poi tanto: egli insiste su uno stato di fatto e non va oltre.
Si sofferma soltanto su quanto ritiene evidente: lo stupore di siffatta presa d’ atto assorbe ogni altra esigenza espressiva.
Ma, credo, non ci troviamo di fronte a un punto di arrivo.
Non si tratta, ovviamente, qui, di discutere sulla liceità scientifica (o storica) dell’ assunto, interessa, invece, la presenza di tensioni interne alla scrittura dalle quali traspare una partecipazione affettiva ancora tutta disponibile a mostrarsi nel corso d’ itinerari poetici in grado di aggiungere ulteriori fisionomie a certe precise, lucide, scansioni, a certe originali immagini.
Occorrerà ritornare, insomma, a quell’ ineffabile “silenziosa equazione
L’inserimento dei testi non ha seguito i risultati del premio ma un percorso che si delinea attraverso le tendenze della poesia contemporanea: tra possibili contiguità, in un itinerario che scorre non solo all’interno di questa sezione ma prosegue, nel suo ideale svolgersi, anche alle altre due.
Pierangela Rossi, “Kairòs”, Nino Aragno Editore 2007
Testi poetici
*
e la casa la casa era tutta di presenze immaginarie
a te quasi sottratto il cinto del reale in cui abitare
sempre più piccole zone circonflesse ad accento
e più fine più fine si faceva l’interno ascolto
*
- tu capace di durezze imprecisate
e sottili volte
affrescate a buon fine
- essi pure avranno incorrisposti pensieri
al sé dedicati
destinati in ordine
in un disordine lapsus
da ricomporre a te
Nota critica di Rosa Pierno
La similitudine instaurata da Pierangela Rossi, tra la voce dell’amato divenuta voce interiore per una lunga consuetudine, per completata osmosi, e le parole di una vecchia poesia, dichiara che l’amore sentito è l’amore scritto e l’osmosi avvenuta è allora quella fra la realtà e il linguaggio. Il libro è una variegata collezione di espressioni con cui la poetessa investiga le forme di questa miracolosa unificazione: “- giusta è la notte agli amanti \ l’una all’altro sono \ ciò che non sono escluso \ di carezza in carezza \ il buio esaudito”. La Rossi utilizza termini presi in prestito dal linguaggio matematico per dar luogo a un’operazione in cui si possa esprimere la forma dell’amore anche attraverso diagrammi. Le logiche operazionali di inclusione \ esclusione, le valutazioni di aurea proporzionalità, le sottrazioni di presenza e la ricomposizione dell’unità franta, le fasi alterne fanno di questa sintassi frammentaria, soggetta a scarti, a cesure, a inserti inusuali, ad accostamenti spiazzanti il racconto di un amore che ha una distanza siderale da quanto siamo normalmente abituati a leggere su questo argomento spesso trattato in maniera leziosa e banale. L’amore diviene, dunque, lo spazio in cui si fa esperienza: “siamo come un U un P greco \ un segno ostrogoto caro o discaro \ che per amore non riusciamo a districare”. Ma l’amore non è facilmente traducibile, la sua traduzione in linguaggio matematico non è così immediata, anzi appare azione resa complessa, al limite della fattibilità, proprio a causa del fatto che si cerca la via più difficile: la formula univoca per ciò che all’univoco si contrappone per antonomasia. Il tentativo della Rossi è assolutamente equivalente al tentativo operato nei centri universitari e di ricerca di rendere conto con modelli matematici della varietà e della complessità del reale. Ma, a differenza dei risultati non risolutivi e spesso fallimentari della matematica, il testo poetico della Rossi raggiunge il massimo dell’efficacia: quella di mostrare la capacità del linguaggio di esprimere una delle esperienze più basilari e fondanti dell’essere umano. Il lettore ha a disposizione con questo libro un esempio di come l’amore acquisti senso proprio dall’essere espresso. Di come possano essere tradotte in linguaggio quella miriade di sensazioni, percezioni, malumori e felicità legate all’esperienza dell’unione con un altro essere e che solo per una incomprensibile pavida rinuncia accade che si eviti di cercarne una possibile forma espressiva addossando le colpe proprio al linguaggio. Come sia tale espressione, invece, a valorizzarne l’esperienza, a renderla comunicabile ce lo mostra la Rossi, poiché è solo un’espressione povera a rendere povero l’amore. “- cosa diceva la stella e l’interno \ dell’interno in profonda voluptate \ l’ho appreso solo in tarda età \ del giorno: ciechi a volte e giustamente \ ai segni che seganti traduciamo in sorte magna et claritate a evento”. Siamo nei pressi di una poesia che ha altissime e blasonate origini. L’amore è una vetta di cui, dalle pagine di questo libro, vediamo tralucere la cima.
Pierangela Rossi (1956) ha pubblicato le raccolte Coclea e Kata, Campanotto Editore e Zabargad, Book Editore. E’ autrice di saggi di critica d’arte. Vive a Milano dove lavora alle pagine culturali del quotidiano Avvenire.
Vincenzo Di Oronzo, “Mimi e sonnambuli”, Empiria 2007
Testi poetici
*
Al bagliore di lampada, uno soffiò un lume
per leggere la cometa di chi muore tra i passanti.
L’altro suonò un’armonica a bocca,
che sfiata il pianto dei comici.
Incantava in costumi serali l’abbagliante
indifferenza del passeggio,
l’impossibile gioco dell’io.
9 nasse
Oscillano lune come abiti dell’anima.
9 tracce,
cavalieri inesistenti di un viaggio
9 ellissi,
cembali d’acqua. Ruote di un sogno
*
Tu sei la vela di pietra che aspetta se stessa, il gesso che imbianca
il compito dell’ombra. Rotola il vaso cantore sulla porta
senza amore, il cembalo afono
tra i gesti neri.
Non è altrove la città opposta alla mente,
le mani prossime al nulla.
Nota critica di Rosa Pierno
Sulla pagina, vero e proprio teatrino di carta, sfilano personaggi e oggetti provenienti da epoche diverse, da ambiti inconciliabili, alcuni hanno volti in ombra o maschere, mentre alcuni hanno solo labili apparenze, sembrano larve dai contorni indefiniti. L’adunata sulla pagina è caotica, non offre loro un ruolo, una gerarchia. Le facoltà del poeta livellano la loro valenza e li legano attraverso fili trasparenti, velature, atmosfere, affioramenti. E’ una poesia, quella di Vincenzo Di Oronzo, diafana, avente la trasparenza del cristallo e magmatica al tempo stesso per la sua capacità di ammassare sulla pagine i rigurgiti del suo mondo interiore. Il verso stesso si sventaglia, assumendo lunghezza diverse, adeguandosi alla materia da trattare, alle occorrenze da depositare sulla pagina, ma anche al vuoto, alle inevitabili cesure che il flusso di materiale eterogeneo racchiude in sé: “Statue distanti un’eco, l’oppio di un volto. \ è Venezia? \ In una gondola cantano. In una gondola la morte indossa le scarpe di un bambino. \ Qual è la distanza tra le galassie e i cristalli dell’io? \ Nessun segmento. I naviganti dimenticano i loro ritorni nei porti d’Olanda”. Materiali così disaggregati, aventi verbi che corrispondono dal punto di vista grammaticale, ma non semantico, richiedono che il lettore deponga le sue aspettative per aprirsi a una inusitata maniera di pensare. Le associazioni possono avere una logica dissenziente e percorrere sentieri più ripidi e sorprendenti, possono tracciare una visione diversamente valida. Occorre disimparare per imparare, occorre avere il coraggio di giocare come funamboli con le parole. Si vedrà allora che il senso è sempre in agguato, che produce nuove costellazioni in cui ciò che è presente è un assemblaggio di memorie e di percezioni, di assenze e di presenze, di segni e di oggetti: tutte cose restituite attraverso un amalgama di suono \ senso: “Cloni d’uomini e uccelli, aspersi di luce, nella sala del Demiurgo, \ si abituano ai bagliori delle forme, alla cangiante grammatica della vita”. Il regno di Vincenzo Di Oronzo è dunque il mondo dei segni, ma mondo ambivalente dove le immagini, pur trasformate in parole, conservano intatta la loro capacità di materializzarsi davanti agli occhi del lettore. E’ una poesia visiva non solo perché c’è una costante attenzione alla disposizione delle righe in relazione alla dimensione della pagina, ma soprattutto perché sulla pagina si compone e si scompone continuamente un collage visivo con brani di immagini che si sovrappongono o si allontanano: “Figure erranti nei vetri; \ un vassoio di fichi e menta varcò l’uscio lunare. E donne sparite in una brocca d’acqua, \ tra porte d’occhi brillanti. Astri sereni”. Poesia di trasformazioni virulente, di imitazioni effettuate attraverso traslazioni, di risonanze prodotte da letture altrui, di versi franti e ricomposti. Si può considerare “Mimi e sonnambuli” una medioevale vetrata di inesauribili forme e colori, non solo un libro. Ma, appunto, un libro non è forse anche mobile duna?
Vincenzo Di Oronzo, docente di semiotica letteraria e linguistica generale, critico letterario e saggista, ha pubblicato numerose opere tra cui le raccolte poetiche La coscienza dell’acqua e Hanphora hermaphrodita.
Luigi Nacci, “INTER NOS \ SS”, Fondazione Cassa di Risparmio di Modena 2007
Testo Poetico
*
Dirottiamo aeroplani di carta nei giorni di vento
Tramontana ci porta lontano e maestrale ci impenna
Nella stiva fa freddo si ghiaccia si gelano gli occhi
Non si vedono piste e non sono previsti atterraggi
Ci copriamo con pacchi – lenzuola e con coltri – bagagli
Incrociamo gli sguardi ma senza azzardarci a parlare
Che l’ossigeno è poco e il pensiero si ossida presto
Ci conforta il reattore che sparge potente il suo canto
Ed è come l’apnea delle prime nuotate in piscina
O la faccia contratta nel vetro del treno che parte
Ci mettiamo a soffiare a soffiare pensando alla luna
Si potesse saltare aggrapparsi coll’unghie a dei cirri
Poter dire una volta di avercela avuta la testa fra le nuvole
A giorni alterni qui crollano le case in tutte le stagioni
Nelle macerie si gioca a nascondino prima dei soccorsi
Liberatutti canticchiano le ruspe e arrivano i becchini
Scrivono i corvi con tremuli becchi la lista dei dispersi
Con le bombe facciamo palleggi di testa di piede di mano
Piroette sgambetti e passaggi fin quando non cade per terra
E’ un saltare di dita che pare la festa del primo dell’anno
A ciascuno il suo scoppio a ciascuno il tripudio di fuochi che spetta
Come stelle filanti le dita ricadono ognuna al suo posto
Ci si stringe le mani e stringendo si aspetta che faccia mattino
Zoppicando torniamo alle nostre baracche con meno coraggio
E c’è sempre qualcuno che arriva e controlla e ci conta e ci dice
Che nel campo si tace si dorme si muore anche il sogno è proibito
Siamo scorie eccedenze rovine del tempo robaccia che brucia
Riciclarci per cosa e per chi riciclarci per fare che cosa
Mentre grida ha negli occhi decine di metri di filo spinato
Col suo filo faremo una fune che sale alla volta celeste
Poter dire una volta di avercela avuta la testa fra le nuvole
A giorni alterni qui crollano le case in tutte le stagioni
Nelle macerie si gioca a nascondino prima dei soccorsi
Liberatutti canticchiano le ruspe e arrivano i becchini
Scrivono i corvi con tremuli becchi la lista dei dispersi
Nota critica di Rosa Pierno
La morte è presente nella vita attraverso lo squallore della vita stessa. Oppure nel reiterato tentativo di scrivere un testamento. Morte è come uno sfondo, ma non neutro, bensì opprimente e angusto, cappa che incombe e che non travolge solo per martellante crudeltà. Persino il foglio sul quale Luigi Necci scrive diremmo che è grigio, color fumo denso e untuoso persino, eppure nei primi componimenti della raccolta un insistito amore per la rima, per il rincorrersi delle sillabe attesta di un attaccamento alla vita, di una percezione affettuosa delle cose. Non sembra importare né al poeta né ai lettori a chi sia destinato il lascito. Il titolo d’altronde avverte subito che “avrai poche cose ma quelle le avrai”. Appare presto che si tratta di un elenco che individua la persona, visto che non si tratta di denaro, di immobili, di oggetti di valore, anche se la persona viene definita attraverso un ben più misero lascito: “la forfora nei vasetti, i ciuffetti \ di sebo, il pelo perso a primavera”, ma è appena un attimo, un tributo da pagare al fatto che in morte si lascia comunque un corpo. L’autore chiede che la sua urna venga riempita di fiori e di vento e che vengano stappati vini da versare nel corridoio per la festa da dare alla sua dipartita. Chiede che si apra un palcoscenico e si sollevino tendoni, che si rappresenti una commedia multicolore a cui debbano presenziare anche gli acrobati del circo. Un fantastico mondo si schiude dunque al solo paventare la morte, a testimonianza del fatto che nessuna vita è povera e priva lì dove le facoltà umane sono in azione. E se non c’è da lasciare un epitaffio, una considerazione morale, non importa. Non importa se non vi è niente da aggiungere, dopo una vita così ricca. Poiché Nacci traccia un elenco, con la levità e la delicatezza dell’espressione che lo contraddistinguono, di tale tenerezza che riconosciamo essere veri e propri tesori quelli che lui porta a dimostrazione del fatto che la sua esistenza è stato un viaggio all’interno della vita segreta degli oggetti: “le multe della biblioteca, \ i segnalibri parlanti di notte”. Avevamo forse sottovalutato la risonante capacità anderseniana di Necci di costruire favole a partire da oggetti di uso domestico: “le forchette spuntate, le tovaglie \ a quadri, le briciole ballerine. \ Le mareggiate nei boccali \ non ti dovranno spaventare, \ né i terremoti in lavatrice”. E che importa se è malcelato il timore che la persona a cui si rivolge lo dimentichi presto. E’ la vita. La vita, appunto. Eppure un dubbio: “ Abbevera i ragni in cantina. \ Nutri le rondini in inverno. \ Apri ai colombi la cucina. \ Parla in balcone ai girasoli”. Questo suo libro non è forse un testamento diretto a se stesso, per non dimenticarsi delle scelte, delle amate cose che rendono sensata e degna la vita?
Luigi Nacci (1978) organizza e partecipa a reading, festival e convegni letterari in Italia e all’estero. E’ curatore della collana di poesia “I libretti verdi” per Battello Stampatore e redattore del blog letterario “Absolutepoetry. Ha pubblicato Il poema disumano, Cierre Grafica.
Italo Testa, “Canti ostili”, Lietocolle 2007
Testi poetici
*
Venezia
galleggiano ancora le ceneri sul tappeto verde
nella prima luce
come dal fondo risalgono arti trasparenti
al richiamo dei fuochi, dei bagliori
della notte in cui si attraversano le acque
*
Sarajevo
prendi un’arancia, prendine un’altra
allinea 365 arance su di un parapetto
365 macchie sul bordo del fiume:
prendi un’arancia, sbucciala a morsi
scoprine il bianco sotto la pelle
macchia di sangue la linea dei denti
prendi un’arancia, apriti un varco
posa la testa sulla pietra del muro:
365 arance dense di luce
Nota critica di Rosa Pierno
Già fin dalle prime righe ci ritroviamo su un terreno instabile, scivoloso, periglioso e non solo perché la scena è quella di un probabile naufragio, ma soprattutto perché le parole che lo descrivono si mostrano simili a cristalli iridescenti, pure lusinghe o elastici metamorfici: “per non cedere ai topazi del cielo, \ ai topi pazzi di un’altra vita”. E la scena descritta è ancor più disarcionante in quanto ci viene detto che il veliero non c’è. La metafora, dunque, diviene ancora più potente se Italo Testa ci mostra il marchingegno in primo piano, quasi parossistico tentativo di svelarci il funzionamento della poesia: l’artificio per cui si può costruire un’immagine che parla di qualcosa assumendo altro.
Il libro “Canti ostili” è, allora, il resoconto di un viaggio compiuto tra gli strumenti dell’artificio, dietro le quinte, in luoghi dove l’effetto di realtà ha un valore iperbolico: gli scenari di guerra o i luoghi espositivi dell’arte contemporanea. Eppure, i luoghi descritti - di cui solo per precisione ipertrofica, l’autore segnala l’ora e i minuti in cui è avvenuta la registrazione del suo passaggio - sono non luoghi: “Questo non è un pullman. \ queste mani non sono mani. \ visti dall’alto: corpi impagliati sui sedili.\ questo non è un pullman. \ questi occhi non sono occhi: \ non sai distinguere la merda d’artista?”. Se siamo nel puro regno dell’artificio e della comunicazione, esistono, tuttavia, diversi gradi di manipolazione dei segni, diversi livelli di scambio comunicativo. Rappresentare e negare il contenuto della rappresentazione (“questa non è una nave. \ questa non è una notte”), descrivere un paesaggio come fosse un quadro (“ dopo Mostar, i mucchi di sabbia e di terra \ scavati, nella luce, senza ombra,”), utilizzare i paradossi (“ e in mezzo, più verde del verde, il fiume \ e i molti bagnanti nell’acqua, come insabbiati”), sovrapporre ciò che si vede a ciò che si immagina (“ ad ogni istante si crede di vedere un gregge \ e ci si sorprende invece a contare i fori, sulle facciate,”) sono gli strumenti utilizzati da Testa che si susseguono sulle pagine del libro come coralli che stiano fuoriuscendo da una collana rotta e che stiano spargendosi imprevedibilmente in ogni direzione sotto gli occhi del lettore. Ma non è un gioco in cui i segni finiscano con lo sfaldarsi. E in questo senso, proprio come accade nell’arte contemporanea di denuncia, il portato comunicativo non si volatilizza, riesce a porgere messaggi precisi contro la guerra e le ingiustizie. Questo libro si schiera per una valutazione della storia che sia strumento di denuncia dei soprusi; è contro la supina acquiescenza. Le operazioni sui segni danno la possibilità di cominciare daccapo, di ricostruire il mondo secondo visuali differenti da quelle propagandate, di sconfiggere una visione abitudinaria e appiattita della realtà. Se “il mondo disarma” non crediamo che Italo Testa resti mai senza utensili.
Italo Testa (1972) ha pubblicato Gli aspri inganni, Lietocolle 2004 e la raccolta Biometrie, Manni 2005. Suoi testi sono apparsi su diverse riviste e antologie.
Luigi Trucillo, Lezione di tenebra, Cronopio, Napoli 2007
Trascrizione del commento interpretativo di Flavio Ermini
alla terza Biennale Anterem di Poesia, 17 ottobre 2008.
Scrive Luigi Trucillo in Lezione di tenebra: «... tutto ciò che vive / non nasce da ciò che nasce / ma da ciò che muore»
Cosa vuole dirci l'autore con questi tre versi? Trucillo ci indica che l'origine delle cose non deriva da ciò che ha inizio; bensì dal divenire, dal trapassare.
L'origine, insomma, non deriva dalla nascita, ma dalla morte.
Ma è un'origine che è comunque senza speranza quella di cui ci parla il poeta. Perché dopo il trapassare, accade questo - ascoltate questi tre versi: «le parole dei morti / aspettano i primi albori / inutilmente».
Lezione di tenebra registra con lucidità che l'essere umano è la vera vittima sacrificale della vita.
Se scorriamo le pagine della storia - dal primo uomo ucciso per mano di un altro uomo fino all'attentato nella metropolitana di Londra, entrambi esplicitamente richiamati nel libro - sembra inarrestabile il cammino dell'essere umano verso il vuoto.
Qualsiasi meta raggiunta non risulta che una stazione di un cammino; non appare che come una tappa in cui brevemente sostare.
Trucillo scrive: «Altrove / c'è un altrove / sempre più piccolo, / e poi un altro / ancora».
Ogni meta, dunque, appare come una perdita di senso.
Una catena di eventi, annuncia Trucillo, prelude incessantemente a vuoti che producono contorcimenti e strappi, distacco e fusione, urto e reazione, componendo un graduarsi di forze oppositive e non disgiungibili.
Una catena, appunto.
Qui, ci avverte il poeta, c'è: «un quadrante / dove le lancette corrono / immobili / a divorarsi l'un l'altra».
Questo quadrante è lo specchio dell'esistenza umana. La storia dell'essere si rivela in questo correre nell'immobilità.
Insomma, voi lo capite, non c'è scampo.
Pensare il principio, annota Trucillo, è «come immaginarsi un futuro / e ritrovarsi la morte».
L'uomo, infatti, si muove per un mondo sul quale è caduta ogni pesantezza.
Eppure cammina eretto con estrema eleganza. Forse simula, nel movimento, quel suo desiderio che ancora esprime speranza.
Il fiume ideativo di Trucillo ha molti emissari, ma la sorgente è una sola: il vuoto.
Ma a che cosa ci richiama la sostanza di questo vuoto?
All'amarezza, forse, di vedere i percorsi delle nostre rinascite interiori scadere nei gesti ricalcati, nelle parole che non nominano.
Il lavoro di Trucillo ci trasporta su questi fiumi sinuosi verso uno spazio inerte e senza colore.
Non sappiamo mai con certezza se sotto la parola seminata ci sia sabbia o pietra, mascherata com'è dal discorso dell'imposizione e della violenza.
Ci avverte Trucillo: «Nei tunnel / le uscite somigliano / alle entrate».
Non c'è via che porti alla salvezza.
La morte non ha mai guardato molto per il sottile.
Trucillo lo sa. Anche noi ora lo sappiamo.
Per questo le sue poesie sono impregnate di zolfo nativo.
E questo zolfo costituisce il segno dell'interrogazione radicale che la poesia - tutta la grande poesia - incessantemente pone.
Flavio Ermini
Silvia Bre
Sempre perdendosi
Nottetempo 2006
Freccia
Che debole io nel mezzo
a vibrare tra la freccia e il sangue,
disarmato, sfranto, non fosse
per il fiato che mi passa,
per il disegno che lascia da ascoltare,
che trascina, non fosse per il pianto uguale
che ci tiene e vi riguarda
e chiede, e fa che io rimanga.
Ma non capisco. Ho sonno.
Non capisco.
Quello che accade non ha le sue parole.
Non mi serve una tragedia,
basta il coro,
il costante lamento del destino.
Basto io stesso che imploro.
Preso da un grido
senza un argomento da toccare
è per voi che comincio?
Trascrizione del commento interpretativo di Flavio Ermini
alla terza Biennale Anterem di Poesia, 17 ottobre 2008.
Cominciamo con il registrare un'esperienza comune a tutti: le parole hanno il potere di rendere visibili cose e accadimenti che un attimo prima si intravvedevano appena.
Ebbene, con Sempre perdendosi, Silvia Bre rivela quella soglia che unisce un'esperienza storica, ben incastonata nel tempo e che tutti noi conosciamo - cioè il martirio di S. Sebastiano -, con un'altra di natura poetica.
Su quella soglia stanno le questioni decisive e costitutive del destino dell'essere umano.
L'uomo.
Badate bene: un essere pensato originariamente come luce, ma che, per come si è rivelato sulla scena del mondo, appare ora come ombra.
Ascoltiamo le parole che l'essere umano pronuncia e che Silvia Bre fedelmente registra: «Io vengo deportato / vengo allo sguardo».
Cosa vuole dirci Silvia Bre?
Ci annuncia che dall'ombra l'uomo sta per tornare alla luce.
Infatti, ecco che l'essere umano aggiunge: «Mi metto in mostra / come una vergogna».
Il ritorno a quella luce iniziale - ed è questo l'annuncio dell'opera, di Sempre perdendosi - può ancora essere compiuto, ma attraverso un cammino che costituisce il problema più grande.
Nel suo incedere verso la luce - una luce che lo ferisce e che lo porta in giro sanguinante - l'uomo non cerca un riparo che lo protegga; al contrario, offre il suo ascolto.
È un gesto di sfida consapevole quello che l'essere umano ci rivolge.
Le sue parole - l'essere umano - ha dovuto prima sentirle come straniere, per poi rivolgerle a noi da straniero, e potersene alfine appropriare come della propria lingua.
D'altro canto noi non possiamo rispondere.
Ci è data solo la possibilità, a nostra volta, di ascoltare. E condividerne il pianto.
Attraverso le sue parole - così come poco fa le abbiamo ascoltate da Slvia Bre - anche noi dobbiamo fare esperienza dell'estraneità, dello straniamento.
Solo nella non familiarità e nel sentirsi quasi stranieri si illumina finalmente l'essenza dell'essere a casa, dell'appartenenza.
L'ascolto. È questo il primo apprendimento all'uscita dall'antro: ascolto come passività nella quale può prendere forma la passione.
Il mondo era prima silenzio. Ora il mondo parla. Si rivolge a noi. Ci parla di un martirio incessante. Ci rivolge un appello
La voce che rompe il silenzio del mondo - poco più di un soffio, di un leggero respiro - opera uno sdoppiamento: noi ci sentiamo rispecchiati in essa.
Tanto da sentirci portati verso un centro vitale inattingibile.
Dove diventa irrilevante sapere chi testimonia e chi convoca; chi è noi; chi è chiamato a sperare...
Bisogna fidarsi della parola e affidarsi a essa.
È necessario accoglierla con il nostro assenso, in questo lungo cammino verso la luce.
Affinché non ci sia più bisogno di un martirio per diventare consapevoli del progressivo impoverimento al quale sottoponiamo la nostra vita.
Flavio Ermini
Anna Maria Farabbi, “La magnifica bestia”, Traven books 2007
Testi poetici
*
Ho trovato la matria la falda acquifera
l’odore nuovo il suono respirando zitta:
la magnifica bestia nella mollica.
Le ho porto corona e regno:
il mio nome e la mia poesia
senza ululato senza melodia via
faccia e canto:
offro al pane
la soletudine della mia nudità regale.
Oltre le polveri gli acari del vecchio abbecedario
dentro cui il peccato e lo scandalo
il senso di colpa e la vergogna: qui ora:
il viaggio è altro. Oltre.
La bacio
mentre sento il divenire della mia sua saliva
e i semi
di lingua in lingua.
*
Per le cose che sai
barcollo fin dentro casa.
Che manca di tetto e pavimento: è il me
profondo.
L’acqua del cielo prende cadendo
lentamente il vuoto
della mia ciotola
e cresce cadendo
nella creazione di infiniti anelli
che continuano a formarsi formarmi
a sciogliersi sciogliermi.
Il pane nella madia in fondo alla mia cucina offre
odore a tutta la terra. La sonorità del lievito.
Quelle nostre cose case impronte digitali come sai
senti come si aprono ci congiungono ci impastano
ci nascono nella morte.
Nota critica di Rosa Pierno
La mente è localizzata anche nel corpo. E le funzioni vitali possono essere diversamente dislocate: il cuore è nell’ombelico ed è l’ombelico che pronuncia la parola cuore. Cuore “scelto da un fulmine per trasmissione \ di luce potenza e precisione”. La natura è ciò che Anna Maria Farabbi asseconda e accoglie. Si fa coppa per raccogliere la pioggia, ma non sfugge al lettore che essa non viene recepita passivamente dall’autrice. E’ attraverso la percezione e il sentimento che la poetessa sceglie la natura come componente essenziale, letteralmente, parte integrante di sé. Natura che viene captata e inglobata e non estroflessa come componente aliena. La sua poesia è un continuo canto di incitamento rivolto a se stessa per rendersi capace di un ascolto sensibilissimo, fremente, in grado non di accogliere il diverso come simile, ma di sentirlo come componente inscindibile da sé. Diventare uno strumento che registri le più flebili apparenze, le variazioni di colore, il respiro del mare, sentire il battito della terra attraverso i piedi e desiderare che trasmuti - attraverso una vera e propria operazione alchemica - nel suo stesso sangue è progetto che coinvolge tutte le facoltà e in modo totalizzante. L’obiettivo immediato è quello di acquisire la capacità di trasformarsi: “L’acqua del cielo prende cadendo \ lentamente il vuoto \ della mia ciotola \ e cresce cadendo \ nella creazione di infiniti anelli \ che continuano a formarsi formarmi”. Ma è una pratica che ha un doppio obiettivo visto che si propone di produrre testimonianza dell’avvenuta metamorfosi in forma poetica e, dunque, si pone un ulteriore processo di trasformazione. E non a caso la forma delle frasi sembra prosciugata, la sintassi consunta come da una lunga ebollizione, ove accanto a sostantivi, potremmo dire di portata elementare (terra, battito, piedi, corpo), ci sono coacervi non solubili nemmeno da un processo di fusione: “Sale \ in tutto il mio corpo il suo battito. Mi danza \ sangue e liquidissima ambra fossile”. Così che possa sussistere accanto a sangue una liquidissima ambra diviene per il lettore chiave di comprensione del processo a cui l’autrice sottopone il linguaggio attraverso l’immaginazione. Siamo in presenza di una natura ricreata da un essere umano. L’autrice scambia il proprio corpo: “L’invisibile multiforme uccellina \ affonda nel mio petto \ con leggerezza precisa e sibilante”. La precisione con cui avviene la trasmutazione attesta che il processo non lascia scarti. Eppure, è il processo razionale, non alieno da una componente morale, a mostrarsi, al fine, regista occulto di tale operazione. Come può infatti essere esclusa la mente se la Farabbi dichiara: “Per barattarci nell’intimità \ attraverso la creazione. \ Perché fare l’amore \ è agire e ricevere la creazione”. Il cerchio è chiuso. Fra i versi si vedono brillare pagliuzze d’oro.
Anna Maria Farabbi ha pubblicato poesia (Fioritura notturna del tuorlo, Tracce 1996; Il segno della Femmina, Lietocolle 2000), prosa (Nudità della solitudine regale, Zane 2000; La tela di Penelope, Lietocolle 2003), e opere di saggistica con traduzione.
Alessandro Catà, “L’ordine del respiro”, Edizioni La Vita Felice 2007
Testi poetici
*
Tornano fuori tempo
il filo e gli spilli, e un
sangue pieno di vento
è la pianura.
Nel cerchio
dove nessuno arriva
o parte, tu saresti
il mio segreto.
La cena
in cui le posate trattengono
l’universo;
la luce
della finestra di qualcuno.
*
Ricami, e pizzi – cominciano
a cadere le foglie davanti
all’edicola della tua mente –
e svolti su un calendario lento
di pianure; e osservi la riga
di ferro delle partenze.
Tre gradini, per separare
dalla terra una casa.
Un’onda di vetro ha spinto
le sirene al largo.
Impàri il cerchio delle donne.
Dipingi col filo.
Vegli su forme chiuse.
Nota critica di Rosa Pierno
Nella porzione di microcosmo che Alessandro Catà ritaglia di volta in volta per effettuare le sue misurazioni, il risultato è completamente alterato dal fatto che vi vengano confrontati oggetti inconfrontabili e dal fatto che la misurazione venga fatta con bilance non calibrate e con metri di materiale cedevole: è così che ottiene il suo risultato poetico. I paradossi che impila producono un risultato straniante che pare aprire mille direzioni nel nostro spazio abitudinario, sembra sfondare in altri mondi, incongruenti rispetto a questo, ma dotati al loro interno di una ferrea logica. D’altronde, la geometria non-euclidea, al suo nascere, non pareva il lavoro di folli che non si adattavano alle canoniche regole? “ Le \ bilance, a quest’ora segnano zero. \ E non è poi così perfetta \ la simmetria del non comprare o vendere, \ incerto il confine della materia, \ se una bilancia pende \ dalla parte del piatto in cui cade la \ luce”. In un mondo fisico così scombussolato, il polso fermo del poeta guida la materia con grande fermezza. Siamo nel regno della poesia e, dunque, tutto mirabilmente regge. Lo seguiamo in questi percorsi labirintici, in queste dimensioni plurime ottenute non con la proiezione di ologrammi o con la rappresentazione quantistica, ma con le metafore: la vera miniera di ogni cesellatore di versi. Qui, non si può dire che Catà essendo fisico di professione lavori su un terreno per lui più familiare, poiché la fisica da sola non costituisce il sostrato sufficiente e necessario per questo libro. Catà è poeta di professione. E’ soltanto questo che gli consente la duttilità per lavorare la materia, la sapienza della calibratura, la perizia della fusione. “ E vorrei (e ho) una moglie \ che all’aperto non ama le stesse mie \ case degli altri, la luce di \ rimanere piccoli, e ritagliati \ davanti alla carta da parati, \ nella sporgente scena \ di un teatro per sempre”.
A volte con crudele benevolenza, diremmo noi, suoi lettori, oramai già immersi nel suo fare capovolto, Catà prova a far quadrare la realtà in scatole geometriche, dona volume ai pesci, chiude mondi dentro una buccia. Ma è quasi una prova del nove che anziché attestare il risultato, ne dimostra l’inattendibilità. Con quale felicità, lo constatiamo nel brio e nella latente ironia che fuoriesce dai versi come latte non rappreso. E latte non riempie forse il cielo stellato? E le belle bolle non salgono dritte dritte al Paradiso? “Di conseguenza tendeva al biondo l’estetica, a rari insetti di tempo, ai grandi istanti ornamentali.”. Non sfugge ad Alessandro Catà anche la possibilità di utilizzare le parole: insetti \ inserti, istanti \ istinti in un gioco sostitutivo che crea sbilancianti scambi di senso, rotture dell’ordine. Nemmeno il linguaggio quotidiano sfugge all’operazionalità che sembrava possibile effettuare solo su mondi incompossibili!
Per Alessandro Catà: una recensione di Alessandra Paganardi
Alessandro Catà (1951) ha pubblicato in poesia Blocco riassunto, Corpo 10 Editore, il libro di prosa Ascoli, Narciso Editore, e l’antologia poetica La luce, Ila Palma Editore. Ha curato due antologie poetiche per le Edizioni Trifalco ed è autore di scritti e installazioni scientifiche.
Ordine del respiro è un sintagma singolare, che Franco Fortini, nella nota espressione riferita a Pasolini, avrebbe chiamato – più ancora che ossimoro – “sineciosi”. Il fascino di questo libro di Alessandro Catà sta proprio nel riuscire a rendere la corrispondenza fra materia e pensiero con un’esattezza e una profondità che fanno pensare, più che ad antecedenti letterari diretti, all’ardua lezione spinoziana d’etica, di geometria e di vita. Non deve essere difficile per l’autore, esperto di relatività, pensare e scrivere in termini di precisione matematica: stupisce tuttavia che nulla di questo codice rimanga estrinseco all’esistenza, in un libro in cui la carne non è mai ignorata, anzi si risolve in un pensoso requiem per il padre scomparso, per le molte ombre lontane di amici e antenati. «Ci incontreremo ancora, padre; forse una volta ancora dietro/ l’incandescente geometria dei/ morti, quando verrà, è scritto/ la resurrezione dei corpi». E’ una carnalità non autobiografica, ma universale, dove il linguaggio media vertiginosamente fra esperienza e logos e dove il continuum cronologico consente un emozionante scambio fra le generazioni: così anche il poeta può vedere se stesso come futura radice del proprio figlio, nella reiterata parabola del destino: «Ti cerco con il dolore/ con cui un giorno, cercando/ se stesso, mi cercherà mio figlio».Il tempo è anche una curva ciclica, non lineare, che ci riporta sempre all’inizio. «Futura la mano del figlio/ che ti guidava all’asilo». Se il tempo è relativo, se - come direbbe un matematico - è una serie d’infiniti che converge inevitabilmente nel finito della morte, il poeta può smascherarlo perennemente discronico, sbagliato: settembre, novembre, l’alba, il calendario sono la rappresentazione di fusi orari in continua fuga, in una messinscena tragicamente convenzionale. «L’ora che sgocciola su un mattino/ sbagliato, mentre viene la roccia/ a svegliarti […]». «Settembre non esiste; è consolarsi con le navi/ in bottiglia » ; «Novembre vai a fare/ dietro la maschera/ della preghiera». Il tempo che ci consuma, che ci fa invecchiare e morire, colpisce come uno schiaffo in un qualunque pomeriggio alla finestra, nello spegnere una sigaretta, nel veder composta la nostra immagine allo specchio, «superficie della materia – lo scopo, nel buio,/ di una luce in cui veramente/ gli attori non muoiono». La luce è l’altra grande protagonista, oltre al tempo e alla morte, di questa raccolta; ed è spesso una luce tagliente, microscopica e spietata. Possiamo vedere in essa il correlato fisico della cosiddetta “percezione sottile” (di cui uno dei primi ricercatori, non a caso, fu proprio il matematico e filosofo Leibniz, che elaborò tale intuizione insieme con il calcolo infinitesimale). Questa sensibilità poetica, basata sull’estrema concentrazione visiva, si nutre di uno sguardo mentale simile all’attenzione zen, cioè alla preghiera millimetrica dell’anima. E’ la stessa luce misurata dall’astronomo Arthur Eddington nel 1919 durante l’eclissi totale in Guinea e poi illustrata, a sostegno della relatività generale einsteniana, nello scritto intitolato Il peso della luce. Il poeta, come lo scienziato, non ha il compito di cercare significati nebulosi, ma esatte misure; la parola porta, scrive Catà, dove «una bilancia pende/ dalla parte del piatto in cui cade la/ luce». Il peso infinitesimo converge nell’inavvertibile, lo spiraglio nel limite dell’ombra: per questo Catà, nel poemetto La luce di ognuno (forse uno fra i vertici del libro), può comporre un mirabile canto funebre, in cui lo scatto ultimo coincide con la transustanziazione della materia in energia. «Perché da sempre Natale/ è questo: l’ombra di un vetro, i morti/ passeggiano in giardino. E’ la parte/ femminile del tempo.[….]. La luce della luce di ognuno». La poesia di Catà realizza, per usare un’espressione che fu riferita allo stile immaginativo di Botticelli, una dimensione molto particolare di “lirismo esatto”: nulla è di troppo, non c’è mai spazio per il superfluo o per le dichiarazioni di principio; tutto è trasfuso nella parola. Una lezione che la poesia di ogni epoca dovrebbe saper ascoltare.
Alessandra Paganardi
Alessandro Catà, L’ordine del respiro, edizioni La Vita Felice, Milano 2007
Alessandro Assiri, “Il giardino dei pensieri recisi”, Aletti Editore 2006
Testi poetici
*
La nostalgia ha un suo colore, un bisogno di visi, un’assevirsi alle cose; perché ricordiamo facce e desideriamo assenze. Un’atmosfera furiosa, la nostalgia, dalla quale emergono uomini che avrebbero potuto, ma non hanno osato. Poi, dopo, molto dopo, tra gli effluvi del giorno, affiorano sogni possibili.
*
Dove tutto si sfiora e niente si incontra, là siedo io in compagnia dei miei dei, qualche amico al bar che vola nella leggiadria delle cose, di questa vita incurante delle altrui speranze. Vorrei sapermi innalzare, fosse solo per fuggire dal brusio delle mie moltitudini, il plurale che osservo e questa unità che non riesco a trovare. Angoscia, che nasce allora come sublime paura, che rigetta ogni altro insipido timore, per spalancare il baratro sulla ciclicità dell’esistenza, su quella solitudine che non riesco a chiamare per nome.
*
Ogni giorno si spezza qualcosa, un ramo, una schiena, una vita, un frammento e noi passiamo il tempo nel tentativo di aggiustare, di ricomporre armonie. Siamo piccoli artigiani, con l’illusione della saldatura. Questo scomponimento, che a ogni attimo ci rende più piccoli; esaltazione dell’allontanamento o frenesia della dissolvenza.
Nota critica di Rosa Pierno
Si potrebbe definire una collezione di dubbi, un esperimento in cui agitando le cose, imprimendogli spinta e controspinta si saggino i limiti di resistenza delle stesse. Non è chi non sappia che il poeta che investiga sulle cose effettua la medesima sperimentazione su se stesso. L’autore si sente a tratti rigido, a tratti informe: “peregrinazioni incerte, tra esodo ed esilio. Sì, vago e ne sono consapevole, tra parole espresse e quelle da trovare, tra ciò che vorrei fare e l’amor del progettare”. Il dubbio non nasce solo di fronte all’esistente, ma si estende ai mezzi dell’investigazione e non tarda a coinvolgere lo stesso Assiri che, però, tenace, non si lascia travolgere, ritagliandosi un punto di vista esterno. Alessandro, va così tracciando una sorta di autobiografia, scevra però di scansione temporale (tipica, invece, della forma diaristica). Non manca a questa scrittura la prospettiva morale che illumina con un viraggio particolare ogni suo incedere. Si tratta di un percorso in cui, pur denunciando la vaghezza di uno scopo o di un senso, Assiri pone sempre una luce al termine della galleria (obiettivo, progetto, speranza). Allo stesso modo non manca mai una tenera affezione verso gli oggetti della sua perlustrazione, frutto di un amore per le sensazioni, per le percezioni, per la qualità del vivere: “Stringo le sensazioni, le coccolo, le proteggo, ed è vero ne godo del loro appartenermi”. In ogni caso, siamo in presenza di una indagine che non rifiuta nessuno strumento: vengono convocati sogni, pensieri, nostalgia, memoria. Tutto è indispensabile per tracciare con completezza un ritratto, anche se la fisionomia da ritrarre manterrà sempre uno scarto, una differenza non rappresentabile rispetto alla parte rappresentata. L’immaginazione è un elemento irrinunciabile che tesse legami lì dove apparivano lacune, che annoda il contenuto di lacerti nostalgici. Persino i mancamenti, i fallimenti sono degni di essere conservati con amorevole cura: quanto altri reperti servono a tracciare della via che è stata percorsa e che già solo per questo è degna: “e quel piccolo meccanismo che ci tiene avvinghiati, così simile alla mia codardia, così vicino alla mia incapacità”. Non è solo una via tracciata col sé, è anche una via seminata di dialogo con l’altro, di sincera condivisione. Quando l’altro acquista dignità metafisica, il linguaggio piano, smorzato di Assiri si fa acre, venato di rimpianto: realtà a cui sa in anticipo di non poter accedere: “ Tu sei ed io non sono, in uno strano andamento che, come onda, innalza e sommerge, esisti ad una gloria inaccessibile, alla quale vigliaccamente partecipo”. E’ quasi in un’atmosfera rarefatta che Assiri costruisce il suo libro, ma un chiarore costantemente emana: la sua adesione alla totalità si è compiuta, pur in un mondo dislavato.
Alessandro Assiri nasce a Bologna nel 1962. Presente in diverse antologie poetiche, ha pubblicato Morgana e le nuvole, Aletti Editore e Modulazione dell’empietà, Lietocolle Editore. Collabora con riviste cartacee e telematiche.
Luigi Fontanella, “L’azzurra memoria. Poesie 1970-2005”, Moretti & Vitali 2007
Testi poetici
*
Fra pareti bianche
mentre sugli occhi
un soffio
non s’aspetta
un gesto e via:
poi si è dappertutto
e quanto si vuole.
*
Sulla distesa del mare
“enigma d’azzurro e di morte”
lo scalpitio rosso di un cavallo:
un bambino tocca una pianola
dimenticata agli occhi
del suo angelo bianco. Morire è
di nuovo sentire una stagione
un’aria di cielo.
*
Nota critica di Rosa Pierno
La poesia di Luigi Fontanella è una di quelle in cui più saldo appare il legame esistente tra reale, parola e memoria (ove la memoria venga considerata come la facoltà precipua della cultura). Saldo nel senso di risolto. La fusione è stata tale che i tre elementi appaiono avere medesima materia: “per determinare il tuo viaggio \ di fronte a pilastri fuggenti luci \ che intrecciano il volo con le parole \ bisbigliate nell’aria”. E’ in questo senso una poesia dalla forma metamorfica, ove parole trascolorano e trapassano una nell’altra a tal punto che diviene impossibile rintracciarne i punti di giunzione. Al contrario, il verso, quasi come un argine, ha una misura stabile, sponda che consente alla parola le sue escursioni. Una cadenza costante sostiene anche il passaggio tra ciò che il poeta vede e la riflessione su ciò che ha visto, mai sfondo, ma parte integrante, indisgiungibile: “ e questa \ corsa sull’erba il conto \ a ritroso che non lasca speranza. \ Più facile adesso però capirne \ la forza l’importanza, quando \ a passi d’uomo misuri la distanza”. Il fulcro generatore della poesia di Fontanella è, dunque, una capacità visionaria che trascende il dato visivo in quello immaginativo per cui il treno diviene “in uno sferragliare d’anni e di armi \ antico cavaliere o crociato sublime”. Allo stesso tempo, i suoi versi registrano la sua autobiografia. E si sa che ogni autobiografia è sì invenzione, dato artificiato, ma qui, in particolare, si ha la sensazione di un’aderenza assoluta al sé, forse per un certo velo di mestizia e di rimpianto che accompagna le effimere forme dell’esistere. Ciò che gli occhi vedono è in un istante già passato. Nel percorso che la collezione di poesie srotola, il dato visuale va intensificando la sua presenza fino a divenire dominante e la lunghezza del verso si rastrema quasi a significare una rarefazione dello stesso senso estraibile dal consunto dato percettivo. Come un pittore che guardi la bottiglia che vuole rappresentare, Fontanella scrive: “L’ho fissata a lungo \ fino a che è scomparsa \ effusa \ lieve e trasparente \ rosa cosa dell’aria \ palpito \ o diafana medusa”. Eppure, mai è chiusa la partita dell’incessante dialogo tra segni, realtà e sfera psichica. In uno sfavillare di giochi sonori, parole si rincorrono come riflessi sulla superficie dell’acqua. Lettore rincorre le sfavillanti presenze sapendo di non doversi posare su così mobile e volatile sostanza: “Parola lino di broccato \ vasta scienza in agguato \ pianura \ e rivestimento d’un artificio \ oltre ogni limite fisso \ oltre ogni steccato”. E naturalmente, il tempo qui non può essere che un’opinione, non può che ottenere una definizione personale. Oggi è equivalente ad allora. E lo stesso io appare quasi inficiato da una memoria che “tutto avvicina \ e già svapora”. Ma la poesia, esattamente come la certezza data dal cuore che batte, è battito vitale. E’ una lezione, quella impartitaci da Fontanella, sulla capacità operazionale della poesia di mutare la sostanza delle cose in visione perenne.
Luigi Fontanella (1943), Ordinario di Lingua e Letteratura italiana presso l’Università statale di New York, ha svolto intensa attività giornalistica oltre a essere poeta, narratore e saggista. Dirige dal 1982 la rivista internazionale “Gradiva”.
Trascrizione del commento interpretativo di Flavio Ermini
alla terza Biennale Anterem di Poesia, 17 ottobre 2008.
L'essere umano e la natura. Mai come oggi queste due entità sono state così distanti tra loro. È sotto gli occhi di tutti questa lacerazione.
Solo la parola poetica - ai nostri giorni - è forse in grado di farci conoscere la fratellanza che - all'aurora del mondo - univa questi due elementi.
Quando accade? Quando la parola poetica si fa luce.
Lo registra Camillo Pennati in una delle poesie che aprono il volume Modulato silenzio, quando annuncia: «la luce che lambisce il globo / da aurora riabbracciandolo».
Quella luce ha un compito: dislocare la natura nel cuore della parola e da qui tornare finalmente a invadere i sensi dell'uomo.
Questo percorso nella poesia di Pennati si sviluppa per aggiunzioni continue di frasi sospese, echi di sillabe con ritorni all'indietro, ripetizioni avvolgenti.
Lo avete avvertito anche voi - non è vero? - come nella poesia di Pennati il pensiero si sviluppi man mano nel flusso delle parole.
Dalla lettura del poeta si avverte in modo particolare.
Ci troviamo di fronte a una mobilità - una mobilità, a ben vedere, propria della luce - che può espandersi in ogni direzione.
Una mobilità che insegue la sorpresa del dire qualcosa che fino a quel momento non si pensava.
Accade questo. Accade una cosa straordinaria: la natura si fa presente come fatto poetico che dà al pensiero da pensare.
Situare l'immagine primaria non sulla natura ma piuttosto dentro di essa - come fa Pennati - fa sì che la terra diventi il sostegno ideale per la manifestazione dei sentimenti.
Attenzione: si tratta di una terra-tessuto che attraverso l'intreccio delle emozioni impone alla figura umana di generare altri rapporti, altre allusioni, altri sensi.
Tanto da poter a sua volta diffondere la luce della propria essenza.
È allora che l'impegno del poeta si fa estremo, tutto affidato agli equilibri della percezione.
In un mondo di categorie e generi ben definiti, la mescolanza e la coabitazione di molte diversità diventa rivoluzionaria.
È a questo punto che Pennati, in nome della poesia, dichiara l'insufficienza della scienza nella conoscenza della natura, proprio per via di quella razionalità categoriale che la caratterizza.
Razionalità categoriale che Pennati non esita a definire: «quell'ingannevole diaframma».
La luce svela un corpo radioso e insieme le paure che lo aggrediscono.
Svela parvenze, giardini rutilanti, ammassi di pietre preziose.
Rivela un'attenta riflessione sull'avventura umana.
Le pagine assorte di Modulato silenzio si costituiscono come una vera e propria guida.
Ci indicano come attraversare le sensazioni più riposte, quelle sensazioni dalle quali scaturisce una visione avvincente del tempo.
Ma, attenzione, quale tempo? non certo quello progettuale o quello escatologico, bensì il tempo legato ai cicli naturali.
Ma non solo.
Dalla poesia di Pennati emergono con forza le incertezze e le incoerenze della nostra condizione esistenziale.
E questa denuncia impone di aderire senza ripensamenti a tutto ciò che nella natura incessantemente appare.
Flavio Ermini
Evelina Schatz, “Amici Amati”, Karwan Samizdat 2005
Testi poetici
*
Dov’è il luogo che ha affossato la mia passione
la festa pulsante della carne
ora ingoiato dall’oblio, ma forse anche lì
trova senso senza più stimoli
l’erotismo obliquo e trasognato
Scendere agli inferi da soli si sa è impossibile
pietrificata Musa, vuoi cogliere l’ultima occasione?
*
mercati di Odessa
odore di rombi e sgombri
Goethe, il burattinaio
tirava fili del
pensiero al nascere
Scrittura gotica era poesia
il gioco impossibile
tradizioni sconvolte
frantumi di memorie
schegge catalogabili
negli archivi scomparsi
carovaniere lanciate
nello spazio altrove
piste di partenza,
sempre nuove
Nota critica di Rosa Pierno
I lettori sono immediatamente introdotti dalla prima poesia all’interno di un antro che si perde nella notte dei tempi, perché qui l’elemento paradossale è proprio la presenza del tempo: convocato, ma solo per essere rovesciato nel suo contrario. Che esista un tempo che vada in direzione opposta a quello indicato dagli orologi è di lampante evidenza. La Schatz ce lo mostra come un trofeo di cristallo: significati, nomi, storie sono contratte in astanza: i ricordi si presentificano insieme all’atto del sacerdote egizio che cancellava i segni, come in recenti giorni fa Isgrò. L’asse diacronico è compresso. Esiste solo un punto sincronico ed è profondo come un buco nero. Che la poetessa scelga di fatto che cosa far affiorare dal calderone è nondimeno atto casuale: “a Samarkanda il giorno di battaglia \ si parte per la luna: \ spazio amletico e talmelliano”. Compresenza ha questo di peculiare: coesiste. Si vede solo quello che se ne può vedere, quello che emerge dal caotico ammasso. Come si potrebbe d’altronde realizzare la biografia di un essere umano? Ci sono mille modi per narrarsi e nessuno di essi può esaurire l’argomento, ma ogni parola-mattone costruisce un edificio dal quale non si può prescindere. E l’edificio costruito dalla Schatz ha una particolarità indeclinabile: è costruito con la cultura, l’immagine che si viene formando negli occhi del lettore è fatta di citazioni, frammenti di immagini e di parole che non hanno referente, quasi a voler volgere in ostico atto l’atto stesso della comunicazione, appena illuminato dalla soave scorrevolezza del verso: “a dicembre ad Agazzano nel ripetersi del rito \ luce lene gettata sull’amore \ perenne canto dell’universo al lume \ dell’incanto dell’essere. Così Natale!”. Anche la dimensione della scala è alterata: sono presenti soltanto i due estremi: ciò che si vede, gli oggetti quotidiani, la linea dell’orizzonte e ciò che non si vede, l’infinito, il non immaginabile: “Gioire fino all’infinito \ Festeggiando la propria nascita \ nella perdizione scivolare sullo scivolo \ del sestante di Ulug-Beg”. La Schatz ha costruito il suo libro solo in apparenza con materiali eterogenei, in realtà esso risulta coesissimo, forgiato da una temperatura esistenziale che li ha portati a fusione. Così questo libro, biografia di sé e insieme biografia di amici, di amanti, di conoscenti, è insieme libro dell’infinito: “ quel manto di pelle \ madida calda e sfatta \ mi prendeva nel Suo \ infinito - del dopo - \ l’amore - del dopo \ la morte – grembo \ materno”. Esiste un universo possibile dove l’io si fa con gli altri.
Evelina Shatz è nata sul mare di Odessa. Poeta bilingue, scrive in italiano e in russo. Artista, performer, saggista, giornalista, storico e critico d’arte, regista e scenografa, ha pubblicato in Italia, Russia e altri Paesi, saggi, scritti di narrativa e di teatro. L’opera omnia della sua poesia in lingua russa è uscita nel 2005 per la Casa Editrice Russkij Impuls.
Marco Giovenale, “Criterio dei vetri”, Oèdipus 2007
Testi poetici
*
si segna avanti al tempo, ai gradi del meccanismo:
dice goniometro, clessidra dall’archivolto, acqua.
l’ombra lecca il corpo che la getta, va e consuma,
lui passa le età, non avverte i granuli
che queste addensano, corpo come lo straccio cancella
e si elide mentre mangia il parlato o disordine
nelle caselle, dato misura densa.
ha l’inesattezza dell’aria
come ogni volta all’origine
l’airone: oriente del fiume
*
tempo fa, le sei di mattina.
si vede appena, in penombra appena
più freddo, cose – cifre, ciglia quasi
o cilindri della luce, bianchi ritti,
le fabbriche e i silos, i capanni vietati,
o ossa seppellite, male. (niente male.
niente dita). (cosa
su cui contare)
Nota critica di Rosa Pierno
Come un fantasma che riuscisse ad infiltrarsi attraverso la tramatura delle cose, fra la sovrapposizione delle materie, e con precisione vedesse ciò che non è visibile agli altri, Marco Giovenale restituisce la forma delle cose attraverso inversioni, rivolgimenti, rovesciamenti montaggi, alterazioni cromatiche, tagli che non mirano alla riconoscibilità dell’immagine: eppure sono tutte operazioni consentite dalla simmetria, dalla geometria euclidea o non-euclidea che sia e paiono spalancare profondità siderali sia nel reale sia nel linguaggio. Non è, infatti, lontano il gioco delle alterazioni prospettiche (da Escher ottenuta con mezzi più poveri) in cui mettendo tutto sullo stesso piano, oggetti ed essenze, e invertendo gli assi, quelli metafisici con quelli fisici, il risultato che si ottiene è la decontestualizzazione di ciò che è consueto: una vertigine ci afferra, e quasi ci fa perdere i sensi. Vorremmo riuscire a far quadrare i conti col senso, risolvere l’apparente rebus di una consequenzialità negata per la volontà di restituire attraverso oggetti reali una latitante interiorità. Qui parole sono pietre, ciottoli accostati l’uno all’altro che formano una tassellazione solo sovrapponendosi, il che nega l’assunto iniziale proprio della tassellazione. Col linguaggio Giovenale costruisce vere e proprie voragini: “o è molto terso e non si avvera \ o cresce doppio in opacità, e allora \ non ha direzione. Il cane gioca \ a eludere per volere \ il cappio che ha”. Un linguaggio sconnesso, a cui siano stati fatti saltare non solo i consueti legami sintattici, ma anche le dimensioni di riferimento semantico, “e toro \ che chiede senza pagare niente \ di esserci, restare” ha, qui, valenza metodologica in quanto l’impeto associativo non lascia molto spazio alla mimesi. In fondo, se pur si parte da oggetti che si trovano in uno spazio naturale: insetti, ardesia, buio, rumori, parco, laghi, il risultato che Giovenale ottiene è una sorta di scrittura quasi liberata dal reale e aperta all’avvicendarsi di porzioni d’immagine, di visioni fratturate, appartenenti a una proiezione esclusivamente mentale. Un linguaggio che abbindola poiché non abbandona la descrittività attraverso i colori, la geometria, “staglia in terra le cose chiare, \ sono tese non rette, bianche, \ coalescenze, andate”, ma che pure si protende inevitabilmente verso una scrittura liberata da ambizioni descrittive. Nemmeno è pensabile riconoscere una sorta di narrazione in un serie di frasi precise, ma senza legame diretto: “il licenziato piange e pubblica, dedica, vende \ dopo quattro anni le vetrate sono nere \ il casale ci si arriva due tre ore \ di macchina, meno se c’è il sole”. Così Giovenale avendo scardinato la consequenzialità del senso e della sintassi, ci mostra un mondo ricreato attraverso regole di pura visionarietà. Fotogrammi, ottenuti con un’operazione al quadrato, si succedono sulla pagina multidimensionale: rappresentazione di rappresentazione.
Marco Giovenale (1969) ha pubblicato “Curvature”, Camera verde editrice, “Il segno meno”, Manni, “Altre ombre”, Camera verde, “A gunless tea”, Dusie.org. Suoi testi sono apparsi in varie riviste e antologie. E’ tra i redattori di “Gammm.org” e “Sud”.
Roberto Cogo, “DI ACQUE \ DI TERRE”, Joker 2006
Testi poetici
*
ombre allungate sul verde del pendio
le chiazze rosse dei pochi tetti
s’accendono di tanto in tanto
il vento innalza e precipita i suoni
sfalda la materia fugace
delle nubi
l’inesausto pervadere degli umori
di ritorno con il sogno
di un principio impresso sulle cose
*
altro è l’oggetto del suo precipitare
un piede dolente – la sfida notturna
dell’ego – tutto il non-scritto
del mondo
nella pigrizia del risveglio
ripiomba nel sonno – attraversa finestre
di luce tarlata – il rosso dei drappi
cala il filtro canoro dell’usignolo
sul ramo di fronte
tutta un’estasi di calore che s’adagia
sullo scoglio gelido del corpo
Nota critica di Rosa Pierno
Quando tutto è perduto, si può ricominciare dalle percezioni, ove solo apparentemente la mente arretra: in realtà, essa non utilizza un sistema già formulato, ma si apre alla valutazione come se tutto fosse da riscrivere, come se ogni percezione fosse verifica della precedente, utile per costruire un nuovo sistema e anche gli strumenti utilizzati fossero ogni volta da controllare e da ridefinire. Seguendo i versi piani, pacati, al limite del prosastico o dalla rastremata cifra poetica di Roberto Cogo, ci ritroviamo immersi in un quadro impressionista, ove “velature \ di nubi fluorescenti prospettano \ partenze”, ove, attraverso il linguaggio, ogni elemento viene ricreato. Il referente è confinato nell’evento quotidiano “una famiglia prende posto qui accanto, nessun disturbo, sorrisi di comprensione”, a dimostrazione del fatto che i più grandi esperimenti si possono condurre nello spazio quotidiano della propria esistenza, anche nei suoi momenti più poveri di eventi emotivi e mentali. Sarà procurando squarci al telone dove il reale è proiettato come un film che si accederà ad una diversa visione: “tutto accade come frutto di circostanze particolari, solo lì, in quel momento, esiste, si svela e si riflette nella mente individuale”. Siamo giunti al momento individuale in cui la percezione si fa rivelazione: “torna la riflessione sull’arte, sulla possibile riproduzione, quella pretesa di fare da specchio, non mimesi, ma trasformazione”. Il quadro di riferimento è quello della rappresentazione. Il dialogo si attua tra natura e forme attraverso l’inevitabile memoria che concorre prepotentemente nell’atto creativo. Con Cogo, leggendo, verifichiamo che vivere è dare una forma. Che la percezione è già elaborazione, atto creativo che ha una sua singolarità non opinabile. Che nella percezione sono già entrati in azione il pensiero, la memoria, le conoscenze culturali. Che alla percezioni non è necessario aggiungere più nulla, se non la forma che essa assume nella sua rappresentazione: nel prodotto artistico. Si forma dunque, sotto i nostri occhi di lettori, la pagina iridata da fluorescenze, rivoli, ombreggiature, chiaroscuri e pulviscolo luminoso. Roberto Cogo dipinge la pagina con mille sfumature acquerellate, con bagliori metallici: “nel lucido armeggiare delle onde \ tra le increspature \ si rivestono di mobili corazze i bagnanti”. E’ una pagina ambigua, ove il testo cede continuamente all’immagine e viceversa. Siamo nel dominio dell’ecfrasi: “dare un senso alla descrizione? Puro gusto di annotare e fissare fuggevoli impressioni?”. Inutile chiedersi se la poesia così catturata sia una pesca stabile, se “basterà il ricordo a prevenire ulteriori cadute”. La mente non è pietra, la labilità ne è una componente, forse salutare. Se non ci perdessimo non potremmo ritrovarla. Noi intanto collochiamo in un posto sicuro, dove potremo facilmente ritrovarlo, il libro “DI ACQUE \ DI TERRE”.
Roberto Cogo (1963) ha pubblicato Moebius e altre poesie, Editoria Universitaria e, con le Edizioni del Leone, le raccolte In estremo stupore e Nel movimento, seguite da Il profilo della volpe sul vetro, volume di traduzioni.
L’inserimento dei testi non ha seguito i risultati del premio ma un percorso che si delinea attraverso le tendenze della poesia contemporanea: tra possibili contiguità, in un itinerario che scorre non solo all’interno di questa sezione ma si connette, nel suo ideale svolgersi, anche alle altre due.
Domenico Cipriano
Novembre
(2005-2006)
Testi poetici
*
ti guardo con occhi
diversi parola risorta
ogni notte udendo
la voce degli uomini
senza più voce, lontani
sfuggiti dai luoghi.
torni di notte, distante
un respiro e lì germini
frasi distorte che
modifico in vita.
poi credo e non vedo.
*
trema la terra, le vene hanno sangue che geme e ti riempie.
è un fiotto la terra che lotta, sussulta, avviluppa, confonde
la terra che affonda ti rende sua onda, presente a ogni lato
soffoca il fiato, ti afferra, collutta, si sbatte, si spacca, ti vuole
e combatti, chiede il contatto, ti attacca, ti abbatte. è fuoco
la terra del dopo risucchia di poco le crepe: la terra che trema
riempie memoria, ti stana, si affrange, ti strema, è padrona.
Nota critica di Giorgio Bonacini
Scrivere in poesia di un evento tragico e terribile (nel caso specifico il terremoto in Irpinia) comporta spesso il rischio di cadere in un realismo superficiale, dove la sofferenza cede al patetismo e il dolore profondo è ridotto ai luoghi comuni del pianto. Nelle poesia di Cipriano, dedicate al ricordo di questo evento, il pathos è, invece, veramente parola dolorosa che si schianta, che sgretola il senso, che smuove e commuove. Perché il nostro autore sa che la poesia è voce e i fatti sono la materia a cui i versi, man mano che prendono forma, danno significato.
Da subito, nella poesia introduttiva, si capisce la capacità di entrare nelle cose cercandone il segno originario, tanto difficile perché la parola risorge “ogni notte udendo/la voce degli uomini/senza più voce...”. Ma il terremoto (e i suoi effetti interiori più che esteriori) prende vita con un uso fonico del linguaggio, efficacissimo nel far risuonare la catastrofe della terra che “ti afferra, collutta, si sbatte, si spacca, ti vuole/.../la terra che trema/.../ti strema/.../è padrona.” E qui non possiamo non notare con quale efficacia le allitterazioni e le assonanze riproducano la forza devastante della terra che spacca le cose e sgretola la mente. Siamo in presenza di una forte immagine in cui gli effetti del terremoto si riverberano sugli esseri umani e viceversa, imprimendo una vera e propria umanità alle cose (feritoia incancrenita; volti tumefatti delle cose), in una trasfigurazione del dolore provata anche dagli oggetti vissuti.
C’è, in questi testi e nel suo autore, una consapevolezza manifesta di quanto la poesia cerchi i suoi sensi nello sguardo stupefatto (nella gioia e nel dolore) dell’infanzia: non come semplice stadio della crescita, ma più profondamente come primordialità nella creazione e svolgimento di significati esistenziali nuovi, dove “solo i bambini riconoscono i gesti degli affetti/e il gioco nel vivere insieme in un non-luogo”. Le macerie reali sono, dunque, un vuoto detto con parole “semplici” ma cariche di senso emotivo inusuale. E, ad un certo punto il nostro autore arriva, con una piccola inversione sintattica, ad arricchire di nuove significazioni il testo, dicendo che “bastano parole poche”. Non dice “poche parole”, che sarebbe un fatto meramente quantitativo; ma, invertendo i termini, dà un alto valore di qualità alla povertà originaria della lingua, che il poeta sempre ricerca e di cui necessita per scrivere. Questa è l’autenticità della voce di Cipriano: una voce ferita che ci porta dentro a un accadimento di morte con parola limpida, sommessa, ma ferma anche nel grido di “un mucchio di nomi mai sentiti.”.
Mario Fresa
Separazione dalla luce
Testo poetico
*
Così tu segui i portentosi rulli di luce
intervenire su di un sorriso nuovo.
Ma inventare si può
soltanto nell’ingrato seminare di orologi
che preparano discordie:
le rose ti consumano la vista.
*
L’anima cade nella vetrata quando muoiono, d’incanto, le
parvenze. Una semplice arena che cresceva notti lunghe:
era il poema violento della vista,
ma ti accorgevi allora di non essere che un inesatto
gesto, un sonno tutto lieve che scuoteva le dimore.
Nota critica di Giorgio Bonacini
Ciò che contraddistingue fortemente la voce e la scrittura di Fresa è l’andamento costantemente evocativo della sua parola poetica. Ma l’evo- cazione non è mai il segno, per così dire, di una scaltra poeticità dove l’alto livello linguistico è solo un artificio di distanza dalle cose basse; no, qui la lingua stra-ordinaria affiora in un corpo dove “non ci sono amarezze nelle parole divenute/incandescenti...” perché la sua voce “è una severa fuga”. Ed è in questo modo che vediamo affiorare vaste foreste di sentimenti: in forme di sogni, desideri, accenni indistinti a un tu sempre presente ma mai afferrato; e ciò in virtù proprio della consapevolezza, ben ferma nel nostro autore, di chi sente la poesia come un rincorrere costantemente una conoscenza diversa, tesa e lacerata, in cui, leopardianamente, ci si sente parte di un reale, concretamente vitale, di leggerezza e sofferenza, di precarietà e bisogni, di forzature e strappi.
Nei testi di Mario Fresa la metafora non è più un piano sovrapposto a quello della lingua normale, ma è la lettera precisa della sua pronuncia e della sua esistenza. E questo perché, paradossalmente, “il linguaggio è co- mune, sempre”, in una sorgente di figure e di significazioni dal tratto tal- mente sensuale da renderle quasi visionarie: tese a dare luce a una condi- zione di opacità e indistinto. Ciò non toglie, però, che la poesia sia sempre pensiero e lingua di precise attenzioni (anche quando è immersa in una pe- nombra sfumata e sfuocata), in un gioco fisico in cui “accecamenti chiari” e “segreti incoronati al buio” lasciano intendere, ma non svelare, la materia con cui la coscienza poetica diventa la forza dei sentimenti e dei sensi.
D’altra parte la ricerca del senso è certamente la prima intenzione che un autore come il nostro mette in campo: con capacità e conoscenze letterarie, ma più ancora facendo vibrare le corde di un io lacerato che sa quanto il poema possa essere violento e ferire. Ma non ci si può sottrarre da questa condizione, perché “Il pianto ha una mano che ha una solenne forza” e chi fa poesia sa quanto ogni gesto sia sempre all’inseguimento, sempre sul- l’orlo di un precipizio dove anche il suono ha odori e lamenti.
Per Fresa la poesia costituisce veramente una presenza interiore che fuoriesce in una sillabazione di lampi, in cui la scansione dei versi, pur fortemente allusiva e a volte inafferrabile, non è mai sottratta al controllo tecnico. Attenzione, questa, presente ma in disparte, perché “Il libro è la terra” “...sotto un albero di verbi”. E sappiamo che chi calpesta questa terra, ricevendo ombra da questo albero, vive in un felice stadio di assedio e di tensioni, nella mente e nel corpo di ciò che chiamiamo poesia.
Gaetano Ciao
Apparire nell’assente
Testi poetici
*
Ciò che unisce e separa il presente è l’assente
è il senso dell’attesa, il provvisorio, mentre
l’uno e l’altro si avvicinano e si allontanano
senza sosta, al limite dell’appartenenza
nella parola
*
E’ necessario gettare lo sguardo nell’abisso:
di là viene la voce, di là sale l’urlo che squarcia
le tenebre della lingua degli uomini. L’urlo
della tela rapita attraversa un attimo il buio
e si spegne lontano nel baratro, dopo
l’apparizione nell’assente
Nota critica di Giorgio Bonacini
Una delle chiavi per entrare nella poesia di Gaetano Ciao sta, credo, nella sua estrema (e anche combattuta) attenzione per ciò che la scrittura poetica mette in atto nei confronti dell’esterno: e cioè un’autoriflessività in cui “ l’immedesimazione non è quella della parola/con la cosa fuori di sé, ma della poesia/con se stessa...”. Una parola, però, che pur non avendo refe- rente fuori di sé è continuamente in lotta con il mondo: perché la poesia, nonostante la sua vita in condizioni di separatezza, si accompagna al presente “al limite dell’appartenenza/nella parola”. E questa appartenenza (ma potrebbe anche essere solo una parvenza di legame) permette a chi scrive di aderire alla propria voce in modo quasi fisico, corporeo.
Ma la costruzione del poema non è un’attività su cui si ha facile presa: appena si pensa di averla conosciuta, essa sposta il suo senso altrove. I significati si allontanano, barcollano, slittano, fuggono senza per questo pensare che non si possa afferrarne qualcuno: perché se “i nomi sono corpi”, allora la parola che li nomina realizza in sé la concretezza del reale, avvicinandosi alle cose e a qualche interpretazione della realtà.
Gaetano Ciao si avventura con mirabile leggerezza nei meandri di una ri- flessione in cui parola, corpo, pensiero, erranza, assenza, apparenza e silenzio non sono concetti vaghi e sfumati, ma termini che si sostanziano veramente in parola autentica, aperta e disponibile ad andare in più dire- zioni. Perché il poeta sa che la sua voce è sempre sospesa su un vuoto, e questo vuoto si materializza in un’attesa di “pagine bianche” che la poesia sfigura raffigurando se stessa anche nell’altro: nel suo dire altro.
Ma a volte, quando ci si rende pienamente coscienti che “è il buio il primo dono della vista”, stare nell’oscuro ( non “all’oscuro” che è una sua banalizzazione) non vuol dire essere nel non-significante, ma vedere l’oscurità come senso in sé, e poi leggervi dentro. Per Gaetano Ciao scri- vere è rimanere sui confini del reale, avendo ben presente che anche una piccolissima cosa (la casina del Lago, ad esempio, nella poesia intitolata Sum, ergo dubito), nella sua solitudine di oggetto, è rappresentazione di una multiformità (“uno e plurale il senso”, dice l’autore) che a partire dal silenzio illumina innumerevoli sfaccettature.
Anche la poesia, si sa, è una cosa e parla. Ma parla con una voce che si sottrae, per poter anche solo sfiorare la precarietà della realtà che ferisce e confonde: senza mai, però, in questo suo fare vagante e divagante, separarsi da chi la pensa e la pronuncia.
Francesca Monnetti
In-solite movenze
Testo poetico
*
incontro solo passi di nebbia
sulla soglia stretta
fossi di asprezza
sulla via corrotta
corretta
tetra e secca
non la benché minima parvenza di salvezza
qua e là
inciampo
sputo
spargo
mangio fango
detriti di muta mollezza
ciottoli di storpia stoltezza
insipida – insapida – saggezza
strappo
rattoppo
piango
ciuffi goffi e gonfi
di premoriente pienezza
cascate di irrequieta pochezza
in-gorghi di congrua tristezza
ovunque
vado elemosinando
centellinando
centesimi di autentico calore e purezza
non più colore
o stupito ardore
non pura ebbrezza
...niente
più
bellezza.
Nota critica di Giorgio Bonacini
Non succede spesso di leggere, in un testo di poesia non volutamente metalinguistico (in cui, cioè, si dichiara esplicitamente la poetica o, più in astratto, la teoria dell’autore), una così chiara e netta affermazione di come la poesia si formi. L’autrice, infatti, scrive che ciò accade “a labbra semichiuse/con o senza moti evidenti/di denti, lingua, saliva.../...timidi appigli/...sorpresi/tra rari bisbigli.../vocaboli alla deriva”.
Ecco, questo è il suono di Francesca Monnetti. In pochi versi viene detto tutto il lavoro e la fatica che la lingua deve affrontare (in termini di sottrazioni, riduzioni, soffi sempre più alitati) per produrre una parola che riesca a significare la varietà e la complessità del dire, traducendo il tutto in una propria particolare voce. Questa poesia, nella poetica che la sottende, è un vero e proprio laboratorio di oralità; un canto scritto che riceve ulteriori e più fondanti significati nella presenza attualizzata di una parola-suono. Ogni testo è sostenuto da rime, allitterazioni, consonanze, dissonanze, parole anagrammate, ritmi scanditi in una danza fonica che arriva in superficie da una profondità consapevole dei propri mezzi e dei propri corrugamenti interiori. Ma l’oralità del verso che si fa scrittura e che “s’imbroglia, sbroglia/tremulo s’appiglia/a lordo ciarpame/frammisto a sterpaglia” è però anche l’evidenza del gesto visivo di un segno (a volte divertissement per la vista e l’orecchio) sempre legato alla maturazione di un senso, e dunque indirizzato a un pensiero che indaga e raccoglie.
La parola è la materia della poesia, e Francesca Monnetti è abilissima nel plasmarla per dar forma a una sostanza che dia la possibilità di scavare tra le pieghe della vita (anche nei momenti più quotidiani come i lavori domestici o la convivenza), trasfigurando l’esistenza materiale nella parola che imprime senso. Ecco, allora, che una multidirezionalità di lettura si apre, anche con l’uso di felici espedienti: ad esempio nello spezzettamento di una parola di significato compiuto come “con-versi-amo”, possiamo interpretare i trattini sia come divisione sia come unione, in modo tale che una sola parola riesce a dar corpo a un mondo e a un modo di sentimenti.
Altre volte, invece, è il contrasto visivo tra il significato di un verso e la sua forma scritta a creare una forte ambiguità vitale: “ancora di sé espropriata/... m i r i a p p r o p r i o”, dove si vede quanto e quale è il valore di disorientamento di questa voce poetica; si indica un riprendere a sé (riappropriarsi) nell’atto di aprirsi (lo stacco fra le lettere) per dare o lasciare, perdendosi fino a un “segnato vuoto” che rimette in movimento il dicibile
Paolo Ferrari
Saggio-poema del pensare assente
Per una miglior vita nel passaggio dall’aldiqua
Testo poetico
*
Nello spazio alle mie spalle, un segnale
di ricerca. Verifica d’una punta di realtà
che mi era apparsa troppo silenziosa
per essere vera, com’era. E come s’è
attraverso il comune pensiero di
e di dei, a immagine degli uomini
e disposti a vivere/morire come
non risponde alla sollecitazione spasmodica
del senso del non-avere, non-avere
tra le braccia oblunghe, tre le ferite
che il tempo dell’attuale conferma e
giorno dopo giorno, senza attendere il
passeggero, il nocchiero, la donna e
la venuta dell’essere: a mettere in
la vera, la vera-negazione in morte,
Nota critica di Giorgio Bonacini
E’ possibile una poesia della mente che possa attuarsi concretamente in modo tale da superare le forme conosciute della versificazione (non tanto nella forma evidente, ma nelle ragioni che la generano in quella particolare struttura cognitiva), per approdare a una dimensione teorica che salga in su- perficie con una tensione lirica astratta? Certo è difficile produrre un testo simile: un’opera cioè che sia ancora poema, ma altamente distillato in una formulazione estrema del pensiero. Ebbene il tentativo di Paolo Ferrari, con questo Saggio-poema, va decisamente in questa direzione.
L’opera, che si presenta come un insieme di 260 strofe-pensieri, intesi a dare significazione alla sua idea di Assenza, articola questo concetto nel vortice stratificato di un pensiero originale e arduo, che affonda le sue radici nelle discipline conoscitive più importanti: letteratura, filosofia, psicanalisi, antropologia, neuroscienze, sono poste in azione per indagare un’idea di scrittura che sia veramente un processo pensante. Una scrittura, cioè, che se vuole veramente essere tale, non può non manifestarsi come astrazione di un pensiero flessibile e senza contorno, la cui mancanza non è un annul- lamento, ma “un mancamento mancato” che, “all’origine di ogni azione umana”, si presenta come un’assenza che arricchisce. Infatti nel caso della parola il punto più abissale di senso lo si raggiunge nel silenzio: che non è semplice nulla (anzi non lo è affatto), ma è voce che suona nel rovesciamento “di quel suono che ha in sé il silenzio /.../ da cui deriva e che esso stesso conferma”. E per Ferrari questa condizione di silenzio attivo si precisa non nella lingua in generale, ma più in particolare nella scrittura: dove, a volte, dalle sue profondità anche l’indicibile sale in superficie. E qui, in questo primeggiare della scrittura sulla lingua, ci sembra di vedere un’eco di quel “piacere del testo” di cui Barthes aveva, così lucidamente, scritto. Infatti, ad un punto di questo saggio-poema, si legge che “nella lingua in generale non c’è sufficiente verità. Nella scrittura talvolta questa verità affiora”. E ciò anche se le parole spesso escono strozzate, e vivono nella mancanza di un nome che dia senso alle cose e a una realtà non ancora contenuta.
C’è, in questo testo, un’adesione dirompente ai meccanismi che producono i sensi aperti del pensiero: una ricchezza di percezioni cognitive che possono certamente produrre in chi legge “affaticamento”, ma in totale coerenza con la difficile ricerca, in poesia, di parole dai significati plurimi, non consumati ma rinnovati costantemente. Perché scrivere è certamente fare arte, ma è anche un atto vitale, calato in una realtà che da sola non è mai sufficiente se “occorre una ferita, un’assenza” per fare in modo che sia “possibile ciò che chiamiamo esistenza”.
Tino Di Cicco
quando i tempi saranno maturi
Testi poetici
*
devo tutto alla gioia
alla mortalità anche del canto
al giorno con i suoi mille occhi
e al cuore solitario della notte
non ho dovuto scegliere
tra il grano ed il loglio
non ho dovuto scacciare il nulla
dalla casa del divino
è stato tutto bene
*
dinanzi a noi il tempo pacificato
alle spalle qualcosa come un dolore
poteva anche essere diverso il bandolo
per arrivare fino a noi
chi ha deciso così
sapeva cosa fare
Nota critica di Giorgio Bonacini
Il fare linguistico che si svolge nella parola poetica, appartiene a chi legge e a chi scrive con modalità multiformi, in un mondo di mondi (letterari, sociali, artistici, etici, irreali, civili, ecc.) che appaiono in scrittura in modo lineare, ma di cui nessuno (consapevole o no) può illudersi di afferrare il senso compiuto. La poesia di Tino Di Cicco, pur presentandosi senza evidenti sperimentalismi, ha una precisa coscienza di essere linguaggio altro, non codificato da un’ immediatatezza che è solo appa- renza: perché per l’autore, scrivere o dire è “come difendere nella tua balbuzie/il fremito del logos”. Una dimensione, quindi, in cui la forma dei sentimenti che vengono detti, non nasce dalla superficie di una parola chiara e univoca, ma nelle profondità di un balbettio, un farfugliamento, uno sgretolamento in cui la voce, che dovrebbe pronunciare il discorso, ne autentica e ne concentra le sue tante possibilità: i battiti che fremono nella ricerca del senso.
E in queste poesie ciò è reso reale con una leggerezza di pensiero che si avvicina molto all’haiku: alle manifestazioni zen, in cui l’andamento obliquo della mente è fonte di conoscenza.: “se puoi guardare il cielo/ senza ridurlo a te/allora sei il cielo”. Ecco il tocco, in cui nulla di arti- ficioso appare, ma nemmeno nulla di ingenuamente spontaneo: perché la ricerca poetica è rigorosissima e si avvale di un’autoriflessione e di uno sguardo sul mondo senza sbavature. La meditazione nasce da una contem- plazione lenta, fatta di piccole scalfitture da cui filtrano sguardi interiori, affioramenti particolari di chiara consapevolezza:“potevo essere un papa- vero/invece parlo./potevo pensare come la luna/invece sogno con la gram- matica nel cuore”. Di Cicco sa che la conoscenza che si ricava dal pensiero poetico, che è data dalla scrittura, è attenzione a non tuffarsi in modo maldestro, a non debordare dai limiti che stanno nel suono, nello sguardo, nel movimento, negli attriti con cui il poeta si confronta.
E’ necessario, innanzitutto, trovare la parola significativamente valida per quel momento. Per un poeta è certamente importante lo sguardo, ma questo non deve mai ostacolare la presa sul reale, che è creazione e scoperta, perdita e impossibilità. Il reale non può aderire a se stesso se il poeta non vi si immerge completamente, cioè “se prima tu/non perdi te”. Ma tutto questo con la lucidità, che Di Cicco mostra di avere, che non si può essere altro da ciò che siamo, e che è la poesia a renderci più disponibili perché “non sapendo volare/ camminammo//ma senza rinnegare il cielo”.
Gian Paolo Guerini
lì vidi: nero, patio, riso
Testo poetico
*
percorrere le vele velate mare e canto di sogno velato urge al vento mirto esiguo che vento urge guidare sentirlo alitare in sere spettrali orme cominciate con triste passo timido simili a fuochi premono al vento simili a sguardi partono come volti arresi vidi la vista che più non parlava sollevare luci afone come fuggite telare giorni movendo piume lucenti nell’abisso in cielo volate ali rotte lodare le mani roventi e ciglia ispide ossi e preghiere si spiegan come manti nella sera arsa follia presso elmi come campane alitano mostrando oscuri atti a dir la cenere (...)
Nota critica di Giorgio Bonacini
Scriveva Roland Barthes a proposito di Sollers: “E’ tempo di raccontare null’altro che la parola infinitamente vasta che giunge a me”, e io credo che sia proprio questo che Guerini fa quando scrive. Egli, più precisamente, non racconta, ma “dice” le sue parole senza fine, ed è molto difficile far comprendere la sua opera se non la si legge materialmente.
Il testo, tripartito, si presenta come un insieme sintagmatico fatto di cellule (frasi, parole, fonemi) apparentemente indissolubili fra loro, ma se la lettura avviene (come deve avvenire anche nel silenzio mentale) nella sua piena oralità, allora qualcosa si apre: “amori senza luce sassi morti d’aculei torti vòlti dentro tristi ascolti...”, in un flusso continuo, una catena significante di richiami in cui la parola, quando si fa voce, trova in sé il senso del mondo e del pensiero. E lo trova trasformando la lingua alfabetica denotata in un corpo di rappresentazioni e di continua riflessione su di sé, capace di “vedere la vista che più non parlava sollevare luci afone”; dove si evidenzia la capacità della parola “incorporea” di diventare oggetto sonoro fisico, con l’uso di tutte le possibilità fonosillabiche, timbriche, fonematiche che la lingua italiana possiede. Fino alla sonorizzazione pura, con sequenze foniche (“sem ques cos... tav tuc tel... inav ostrev ‘nsuov...”) in cui lo spezzettamento delle parole si avvicina moltissimo all’esperienza di poesia fonetica lettrista, aggiungendovi però il senso di un movimento, di una gestualità potenziale ma intrattenibile.
Insomma, Guerini scava dentro la lingua rendendola concreta e liberan- dola dal discorso, alla ricerca di un nuovo intreccio tra il suono e il senso, per arrivare a vedere “una voce arar la chioma torva della gola impregnata d’erba e fiori sventolar sillabe estive”.
Un’ultima notazione che si evidenzia nella struttura in tre parti, ognuna delle quali termina con la parola “stelle”, è un forte (e direi basilare) ri- chiamo dantesco. Tutto il testo è permeato profondamente, nell’andamento ritmico e vocale dalla Commedia; si sente la carne delle stesse parole, che si scoprono sparpagliate e spezzettate in varie parti del testo, e a volte an- che interi versi uniti in un gomitolo (ad esempio l’ottavo canto del purga- torio“lotrepassicredochiscendesseefuidisottoevidiunchemiravapurmecome- conscermivolessetemp...”) che non necessitano, però, di essere sciolti, per- ché tutto deve scorrere, danzare, sventolare possibilità d’ascolto fluide nel tempo e nello spazio; azioni di parola certamente estenuanti, ma mai insignificanti, mai abbandonate, mai lasciate senza autonoma personalità.
Armando Bertollo
Il teatrino della scrittura
attraverso i sintomi
Nota critica di Giorgio Bonacini
Le pagine di scrittura e segni che Bertollo organizza con grande senso dello spazio, intensa lucidità mentale e profonda capacità di significazione visiva, si inscrivono direttamente e perfettamente all’interno di quella map- pa progettuale che si richiama ai concetti di poesia totale: teorizzata, inda- gata e praticata, con entusiasmo e lucidità, da Adriano Spatola. Una poesia di ricerca contemporanea che in Bertollo ha tanto più valore perché egli vi inserisce delle cellule di linearità pensante che indicano (ma non obbli- gano) un percorso: uno fra i tanti che si rendono possibili al lettore. Siamo quindi di fronte non solo a una poesia, ma a un’opera complessa che mette in campo, in primo luogo, la percezione della vista come “possibilità di let- tura, ma non ancora capacità; poi la voce (anche quella silenziosa di chi legge per sé), dove “vista e voce giocano con la loro influenza”; e, ad un altro livello, il pensiero che ne sostiene la significazione e l’impianto glo- bale in una “esperienza individuale che può diventare esperienza del lin- guaggio; infine la segnicità pura che sembra urtare l’equilibrio, quando in- vece lo tiene stabilmente instabile “con il ritmo e il respiro, che discendono dal primo punto come eco”. L’autore, quindi, si affida a parole delineate e aggrappate a linee che divergono o convergono, vanno a zig zag, tratteggiano e si spezzano e sembrano proporre dei percorsi mentali in varie direzioni, che il lettore può decidere di seguire subito o in un secondo tempo, scegliendo in modo autonomo la propria via.
Il testo è allora disponibile ad affermare e afferrare un senso anche doloroso, non solo estetico, perché “si nasce da una ferita” e “ci si deve porre con la disponibilità di esserne i custodi”. Ed è sorprendente come, all’interno di questa sperimentazione totale, Bertollo attivi e incorpori tra le sue forme visive e sonore, nello spazio bianco della pagina (più che mai importante), l’accoglienza di un senso etico/poetico abitato da una lettura pensante, mai degradato a utilità, mai bloccato o afferrato o violato da un unico significato, iniziale o finale che sia. Il senso è sempre (ed ecco il “teatro” del titolo) re-interpretato e ri-conosciuto. Bertollo lo dice esplici- tamente: “...gli elementi segnici e sonori si attivano, diventano teatrino”, esibizione della loro forma: orma e ombra dell’esperienza. E infatti, la spazialità sonora che si fa parola aperta, concede a chi legge le flessioni di un andamento che si trasforma (nella terza parte del testo) in un dialogo tra due corpi astratti, all’interno di stralci di realtà strappati e rimessi in scena.
C’è, alla fine, una necessità di ricerca, nel mutamento poetico, tesa a fare di ogni scelta, di ogni sguardo sull’opera, una vertigine.
Gianluca Giachery
Geometrica passione
Testo poetico
*
Certo mi illumini
quando t’avanzi
con fare lento al canestro
dell’ambigua scelta,
dipanando l’inverso.
Credenza
è solo il nome
fortuito d’un eccesso,
il sillabario
povero
dell’inganno.
Forse più incerto
ora
il tuo respiro
appartiene agli anni
del rimosso:
tenue il correre
verso ogni fuga:
un’attrazione
che repentina scompare.
Nota critica di Giorgio Bonacini
Gianluca Giachery intitolando la sua raccolta di poesie “Geometrica passione”, mette in chiaro un vero e proprio ossimoro concettuale: la passione, comunemente intesa, è in sé una forma di energia caotica e instabile, quindi una forza che subisce le pressioni dell’emotività e del sentimento: il contrario, perciò, di una struttura ordinatamente geometrica e logica. Bisogna allora intendere bene il titolo, e leggendo i testi si capisce che la “passione” è certamente rivolta a persone che condividono momenti di vita dell’autore, ma sembra anche, e forse più, riguardare il suo manifestarsi in poesia; e la poesia, chi scrive lo sa, è un luogo sia di rigorose precisioni formali, sia di vorticose sensibilità. Ci viene in aiuto, a questo proposito, una poesia di Paul Celan che dice: “NON SCRIVERTI/tra i mondi,//tieni testa/alla varietà dei significati,// fidati della traccia di lacrime/e impara a vivere.” Ecco, allo stesso modo per Giachery la poesia è una passione in cui “le risposte che mimano/il significato/non hanno legami incondizionati”, perché il pensiero poetico è una domanda incessante, ma, come in amore, le risposte sono labili: cercano un significato, lo condizionano, tentando di imitarlo e, quando sembrano afferrarlo, questo si scioglie verso altre esperienze. Ed è allora che si possono usare altre parole, un’altra voce; si può trasportare il soggetto di passione in “giochi di rimando” che “affrancano il desiderio”.
Ma Giachery, che ha ben presente le possibilità, le potenzialità e i limiti della scrittura, sa che l’espressione dei sentimenti e delle emozioni non la si può ridurre all’uso della parola quotidiana, ma diventa reale solo nelle ragioni interiori di un’impossibilità. E che per strappare il velo, la parola, deve imprimere a se stessa una sintassi svuotata e poi rinnovata di sensi. In questo modo la poesia, che è voce, diventa un “impronunciabile balbettio” e l’indicibile, in effusione magmatica, prende forma anche nel mutismo. E’ ancora Celan a svelarci (ma tutti i poeti, intuitivamente e intimamente, lo sanno) come la poesia presenti “una forte inclinazione ad ammutolire”, senza però mai arrivare al nulla. Perciò anche il silenzio è suono, e compenetra la parola, nei suoi tratti distintivi, “con voce disincarnata”. Giachery scrive le sue passioni con una lucidità estrema, affrancandosi da ogni psicologismo e dalla facile dizione, consapevole di dilapidare “le ipotenuse contraffatte/dell’amore.” Sa che “dire” in poesia non è un gesto liscio e pulito, ma è una parola irta di difficoltà: a volte di inganni e di apparenze, dove “le fatiche consacrate al silenzio” conducono anche a contraddizioni vertiginose in cui “terribile e vuoto/è il nome,/pienezza d’assoluto”.