Marco Furia è redattore di “Anterem”.
Raggiunto, ormai, il mezzo secolo di vita, la mail art costituisce fenomeno internazionale molto diffuso: spedire opere d’ arte create in stretta connessione con il mezzo postale utilizzato, si mostra, con evidenza, non privo di seduttive valenze.
L’ associazione “Amici di San Lorenzo”, sorta a tutela di un’ antica chiesa “situata su uno sperone roccioso a picco sul mare tra Varigotti e Capo Noli”, ha proposto ai mail artists di completare una “cartolina” raffigurante il monumento stesso ed una piccola porzione di cielo: ne è nata una ricca pubblicazione suddivisa in ben dieci capitoli.
In un contesto definibile, in generale, di gusto Dada, sono riprodotti numerosi lavori provenienti da ogni parte del mondo, capaci, con svariati richiami (surrealisti, espressionisti, pop, eccetera) mai disgiunti da attenzione per le forme postali, di conferire alla raccolta caratteri di (dinamicissima) imprevedibilità: nello sfogliare,
con meraviglia, le oltre novanta pagine, non si può impedire allo sguardo di essere sedotto da immagini dall’ attrattiva spettacolare.
L’ uso di elementi figurativi e cromatici d’ immediato impatto, proprio di una affascinante dovizia di voci, la cui spiccata individualità non ha impedito a sapienti curatori di far emergere aspetti corali, confeziona, davvero, un “mail cocktail” composto, come rivela una “timbratura”, da “Fantasy”, “Irony” e “Madness” in parti
eguali (da servirsi caldo o freddo, a piacere).
Erede delle Avanguardie che hanno attraversato, rigorose, il secolo scorso, precisa nella sua apparente noncuranza, consapevole del fatto che il gesto creativo, per sua natura, non risulta mai fine a se stesso, la mail art ha saputo conservare intatta la propria caratteristica precipua: l’ essere “simultaneamente un messaggio che è trasmesso e il mezzo con cui è trasmesso”, ossia l’ esistere come espressione artistica inseparabile dal mezzo di trasmissione al quale viene affidata.
Furono, insomma, postali suggestioni.
Marco Furia
(Associazione “Amici di San Lorenzo”, “Behind San Lorenzo, between church and sky, mail art project, a cura di “impos(t)ed art”, Savona, 2007)
Fino a quale punto possono convivere poesia di avanguardia e non?
Fino a quale punto possono essere considerate manifestazione di una medesima entità?
Credo siano questi i quesiti posti dalla ricca e articolata esperienza di Adriano Spatola.
Scorrendo i numeri di “Tam Tam”, rivista da lui diretta assieme a Giulia Niccolai, accanto a interventi visivi e, in genere, sperimentali, troviamo scritture “lineari”, ossia caratterizzate da un uso non estremo della parola.
Un direttore “di cerniera”, si definiva lo stesso Spatola, capace di accogliere espressioni diverse.
Rivolto verso esperienze di radicale neoavanguardia (si veda il notevole saggio “Verso la poesia totale”, Torino, 1978), egli stesso autore e interprete (“Zeroglifici”, performances, eccetera), propugnatore d’istanze libere da qualunque legame, pubblicò, nondimeno, testi nel cui àmbito venivano proposti elementi linguistici di uso consolidato.
Non troppo interessato a definire la poesia, quanto, piuttosto, a considerarne le plurime modalità espressive, il suo fu prezioso lavoro di acuta analisi privo di alcun intendimento di esclusione a priori, poiché ritenne, correttamente, che se di linguaggi si trattava, si potevano operare scelte, ma non istituire gerarchie.
Una lezione di democrazia linguistica, insomma, fondata su profonde conoscenze del fenomeno letterario e, in particolare, di quello poetico: con elegante fermezza, irripetibile nelle sue spiccate peculiarità, venivano accostate esperienze dissimili secondo indicazioni di tendenza, ma non di rimozione.
Si ha occasione, sfogliando le pagine di “Tam Tam”, di comprendere quanto la poesia sia unica e molteplice, quanto le forme, tutte utilizzabili, acquistino valore nell’ uso, nel contesto, come l’ artista della parola sia colui che avverte le specifiche intensità delle espressioni idiomatiche e le connette in maniera più o meno difforme rispetto ai canoni ordinari, come, alla fine, conti soprattutto il suo atteggiamento.
Ne fu cosciente un uomo, un poeta, le cui scelte, tendenti a proporre un oltre che la poesia tradizionale pareva incapace di raggiungere, mostrano, quasi per contrasto, la natura circoscritta del gesto linguistico, qualunque sia il suo genere.
Credo che il celebre pensiero di Wittgenstein, secondo cui i problemi logico- filosofici derivano dall’avventarsi contro gli insuperabili limiti della lingua, non sia estraneo, in qualche misura, al Nostro: non si sfugge, invero, nel caso di Spatola, all’ impressione di avere di fronte un autore che aspira, con genialità, a un dire maggiore, a intaccare, almeno in parte, quell’indistinto, avvertibile, impulso che costituisce fondamento dell’ idioma, ma non può da quest ultimo essere contemplato.
Forse una certa dose di utopia albergò in quell’omone che aveva saputo proporre la corpulenza come grazia, il sanguigno come leggiadro, forse l’ idea di poter andare al di là lo sfiorò e, comunque, lo affascinò, ma la sua estesa, quanto profonda, dimensione intellettuale, la sua sapiente umanità, lo tennero distante da azzardate pronunce, inducendolo a seguire, con noncuranza soltanto apparente, precise (originali) rotte segnate, queste sì in maniera espressa, sulle proprie carte nautiche: in maniera espressa, senza dubbio, ma mai dall’esterno, convinto, come fu, nell’intimo, dell’ importanza precipua, a ogni livello, del concreto farsi di una poesia e di una rivista davvero uniche.
“La poesia non ha bisogno di niente”, ma i poeti, davvero, non possono fare a meno dei migliori tra loro.
Marco Furia
Acuto, lo sguardo di Antonio Prete, in “Della poesia per frammenti”, coglie “l’ esilio dal senso” del poeta quale ìndice di estrema capacità espressiva, assegnando, dopo la “moderna analogia” del Leopardi, al “pensiero poetante” “un solo scopo”: “salvare la lingua dalla sua impotenza” “senza affidarla” al “buon senso”.
Ci si chiede: può uno scopo conferire senso?
Certamente, a mio avviso, a condizione di ritenere l’ istanza poetica un uso
di materiale linguistico del tutto autonomo, a patto, cioè, di considerare tale
istanza vero e proprio campo di energie nel cui àmbito il poeta compie le sue
mosse allentando, a volontà, i legami imposti dai comuni canoni.
I testi raccolti insistono, leggiadri ma risoluti, sul divario tra versificazione
(capace di segnalare “come sia inseparabile la fisicità del suono dalla astrazione
del senso”) e costume idiomatico: immagini, dal pregnante fascino, si alternano
a citazioni proposte con quel garbo tipico di chi individua nella consapevolezza
dell’ inesauribilità del discorso la necessità di continuarlo.
Esiste il ”tu della poesia”, “le cose” stanno nel linguaggio come presenze” ed è
“in compagnia del lettore che il poeta” compie il suo arduo viaggio, offrendo
specifiche opzioni verbali, vere e proprie custodie “del creaturale” , con
riferimento ad un altrove ineffabile e tuttavia avvertito.
La poesia, si suggerisce, opera secondo una duplice direzione: mentre, da un lato, si differenzia dal comune calcolo logico con esiti estetico-artistici,
dall’ altro mostra l’ umana maniera di esistere nell’ espressione più tipica,
quella della comunicazione.
Una maniera di esistere in cui la lingua , nell’ impossibilità di esprimere
l’ impulso vitale che la fonda, risulta (soltanto!) un complesso, sofisticato
reticolo di coordinate tese su muti mondi: non cedendo a disillusioni o
pessimismi, Prete si rivela non ignaro di come visioni perspicue possano
costituire salvifiche prese d’ atto.
Quanto abbiamo costantemente sott’ occhi, come l’ uso linguistico, spesso
ci sfugge nei suoi aspetti più intimi: il verso, con le sue spiccate peculiarità,
sottraendo allo sguardo quotidiane apparenze, riesce a richiamare l’ attenzione
su tale utilizzo, consentendoci di riflettere.
Come “i fiumi” “di Luzi” mostrano “la grazia della pienezza” “in rapporto con l’ affanno dell’ aridità” e “il vento”, proprio in quanto più o meno intenso, scioglie in specifiche evocazioni le modalità dei suoi aspetti, così il “buon senso”, a contatto con la “riconoscibilità” “del poetico”, viene a mostrarsi in tutta la sua umana valenza, privato di qualunque mitico (o metafisico) alone: l’ originale atteggiamento del singolo, insomma, getta luce su comuni consuetudini. Delicata, ma incisiva, la scrittura.
Marco Furia
(Antonio Prete, “Della poesia per frammenti”, Anterem Edizioni, Verona, 2006)
Pubblicato sulla rivista on line “Tellusfolio” ( www.tellusfolio.it )
Si può pensare in maniera corretta, credo, all’ espressione idiomatica quale a vero e proprio campo di energia: energia biologica, strettamente legata alla vita, anzi maniera di vita stessa.
Poiché non esiste alcun “a priori”, possiamo con altrettanta correttezza ritenere che qualunque forma espressiva, qualunque tratto o gesto dotato di “direzione”, sia da considerarsi linguaggio.
Di fronte alla visual poetry, ossia ad una manifestazione definita “poesia”, suscita meraviglia l’ assenza (o la scarsa presenza) di connessioni con la materia e la regola linguistica in quotidiano uso: risulta indubbio, tuttavia, che le opere di cui si parla sono in grado di catturare e affascinare, con immediatezza, lo sguardo.
Ritengo proprio in tale immediatezza consista il carattere essenziale della proposta poetica “visual”: si tratta dell’ offerta di vividi impulsi espressivi, linguistici, privi di affliggenti cadenze.
Senza nulla voler togliere, quanto a importanza, all’ utilità del linguaggio ordinario, appare evidente come la proliferazione di usi vieti, bolsi, provochi sensazioni di fastidiosa inadeguatezza e come utilizzi smodati e impropri sviliscano lo strumento del quale si servono.
Un strumento in sé prezioso: vita e lingua, a condizione di non rivolgersi a opzioni di tipo metafisico, costituiscono tutto quanto l’ uomo ha a disposizione.
Bene, credo che la visual poetry si opponga, incisiva, a tale disagio offrendo forme comunicative capaci di mostrare, meglio di altre, le proprie origini.
A nessuno, sia chiaro, nemmeno al poeta, è consentito dire l’ indicibile (l’ energia vitale da cui l’ idioma scaturisce è destinata a rimanere, comunque, ineffabile) e anche quello del visual poet, perciò, resta pur sempre un linguaggio.
Ma lo è in maniera del tutto peculiare, essendo proposto con intendimenti specifici, originali: consapevole di come i fondamenti di ogni idioma abbiano natura (non logica, ma) biologica, la visual poetry, abbandonando comuni regole o, meglio, creandosene di proprie, mostra uno stato di cose, una condizione tipica della maniera d’ essere umana.
Anche quanto può apparire remoto, forse perduto, risulta, in realtà, disponibile: si tratta di saper agire sulle modalità.
L’ origine non è qualcosa che riguarda più o meno mitici albori, bensì qualcosa di vivo, di presente, tanto che, adoperando un mezzo espressivo, vengono attivati processi e meccanismi che possono giungere a esiti disparati.
Le cose sono come sono, ma anche come potrebbero essere: questo è il messaggio.
Un messaggio, un invito a un pensiero non scontato, a una presa d’ atto della esistenza di molteplici possibilità.
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, in cosa consista la differenza tra visual poetry e arte astratta: chi scrive crede nell’ utilità di abbattere, piuttosto che di erigere, steccati, ma una differenziazione, in senso descrittivo, ritiene di scorgerla.
La visual poetry consiste in un gesto di scrittura, l’ arte astratta di pittura o scultura: la prima tende a creare “immagini”, la seconda dipinti e oggetti plastici.
C’è qualcosa d’ intimamente “schematico” nella visual poetry richiamante, appunto, l’ uso di stilemi, mentre nell’ arte astratta l’ attenzione al colore, ai corposi materiali adoperati, conferisce caratteri differenti, tipici di quanto viene definito “arte”.
Se di “scrittura” si tratta, allora di poesia risulta lecito parlare e se le espressioni umane, tutte, sono costituite da segni indissolubilmente legati a impulsi, la visual poetry, senza dubbio, aiuta a meglio comprendere la natura antropologica del linguaggio.
Marco Furia