Carte nel Vento
periodico on-line
del Premio Lorenzo Montano
a cura della redazione di "Anterem"
Nel 2020 si sono addensate sulla redazione di Anterem le nubi più nere: gestire l’editrice e il premio Montano in lockdowm, senza incontri e senza forum, portare a pubblicazione il numero 100 e quindi chiudere dolorosamente la rivista. L'incidente di Flavio e la pandemia, i problemi di salute e familiari, la giuria ridotta ai minimi termini. Rimasti in pochissimi a poter occuparsi delle note di presentazione.
E, viceversa, come un dono, la qualità altissima delle opere presentate al premio. Un onore grande per noi. La forza di ridare vita all'editrice. Grazie anche alla bellezza degli inediti. E opere edite strepitose. Lo testimonia il numero elevato di segnalati e finalisti. E soprattutto la qualità dei lavori. La forza della poesia.
Abbiamo dovuto attendere il 2021 per ridefinire la nuova redazione, ampliando la giuria del premio e tornando ad essere voci plurali nella recensione delle opere. Per il 2020, invece, ci presentiamo in pochi all'appello per le note e ci perdonerete la presenza pervasiva per l’edito…
Un edito di una forza poetica incredibile, nella ricchezza dei temi e degli stili. Si è già potuta constatare, nel numero precedente, la grande qualità dell'opera vincitrice e delle raccolte edite segnalate speciali. In questo numero sono presentate le diciotto edite finaliste.
Sono opere di grandissima qualità, lineari e sperimentali, liriche e filosofiche, che abitano poeticamente il reale, il sogno, il mito, il pensiero. Tra Cardini e Graffiti, Tavole e stanze, Polveri Squame Piume. In una Scena muta come nel Giardino della gioia. Muovendosi lungo Coordinate per la crudeltà e Levels. Portandoci Notizie da Patmos come da NT (nessun tempo). Aprendo spiragli onirici con scacciamosche (nugae) e speculativi con Colpa del mare e altri poemetti. Costruendo un Taccuino dell’urlo e Teatr/azioni. Modellando mito e tragedia in Figura e componendo Lilith. Un mosaico. Muovendo sulle orme innevate di Lupa a gennaio e proponendoci visioni con Una visita a Hölderlin.
Gli autori Nicoletta Bidoia, Fabrizio Bregoli, Maria Grazia Calandrone, Sonia Caporossi, Silvia Comoglio, Elena Corsino, Bruno Di Pietro, Rita R. Florit, Daria Gigli, Alessandra Greco, Marica Larocchi, Vincenzo Lauria, Fabrizio Lombardo, Alberto Mori, Davide Nota, Fabio Orecchini, Ivan Schiavone, Massimo Scrignòli, sono tutti presentati da Laura Caccia.
Un piacere e un onore occuparsi di opere di così alto livello. Un grande dono per il premio Montano. Premio che, nell'edizione che sta per essere inaugurata, avrà scadenza il 15 maggio 2025: attendiamo le vostre opere inedite ed edite, certi sempre dell'alta qualità dei lavori, così come della partecipazione costante e attiva alla comunità poetica di Anterem.
La redazione
In copertina: Nobis sonavit diabolus (Omaggio a Niccolò Paganini), scultura di Gibo Perlotto
(anno 2022; Materiali Ferro, carta; Dimensioni 81x56,5x133,5 h; Peso 36 kg; Foto di Piero Rasia)
La parola che danza
Perché la parola possa danzare occorre creare silenzio intorno. Fare del tacito il protagonista. Sul palcoscenico, come sulla pagina bianca. E perché possa trovare espressione occorre predisporre fondali di vita in cui fare esperienza di tutto il sospeso, il nascosto, il non detto. Necessita che si metta a nudo ciò che, nel paesaggio visibile, il silenzio accompagna: il biancore delle nevi e dei ghiacci, la durezza della stagione invernale, la stretta del gelo che assidera storia e natura. E che si penetri in ciò che, nel paesaggio invisibile, il silenzio custodisce: l’oscuro, il segreto, l’enigma.
Così Nicoletta Bidoia ci conduce, in Scena muta, attraverso i rigori taciti della realtà e la dolcezza misteriosa del reale più intimo, tra ‘La morsa’ e ‘Il caro enigma’. Cercando di «sottrarre al chiaro / ciò che conta», di esprimere quel «sentimento oscurato dalle labbra» che possa essere reso con la sola forza interiore. Quando il dolore «si imbosca / nelle parole». Fino a che la voce possa trovare, dentro di sé, i suoi passi, così come, nel movimento del corpo, il suo ritmo. A partire da quanto messo in luce dalla danza. Facendo rivivere sia le esperienze adolescenziali, nelle parti in prosa di ‘Ora per allora’, sia quelle di una figura leggendaria del balletto classico, nei versi dedicati a Vaslav Nijinsky in ‘Finiremo per trovarci’, attraverso la rielaborazione poetica dei suoi Diari. Uscendo così dal mutismo, per quanto in grado la danza, nei virtuosismi del ballerino russo, di mettere in luce interiorità e visione, intensità e follia, profondità e vertigine
Una danza che, dopo aver attraversato gelo e oscurità, non possa accontentarsi delle coreografie del visibile. Una danza che si faccia verità. Che, come il principio, scardini e stremi. E che richieda una scena muta intorno per innalzarsi e rimanere in sospeso. Che si nutra di quel sollevarsi nell’aria che più che movimento è immobilità e silenzio. Nella vertigine della fissità. In quell’azzurro che Nijinsky, anche nelle parole dell’autrice, afferma di conoscere, attraverso la sua capacità estrema di alzarsi in volo e di prolungarne la sospensione. In quel silenzio e in quella sospensione la parola poetica di Nicoletta Bidoia si fa anch’essa danza, scegliendo una «scena / da poco», «i versi muti di chi muore a sé / e non ritorna» e «una sintassi nuova / dove i segreti sostano per qualche ora / chiamandosi per nome».
Da: La morsa
Quando finirà
questo secolo lungo di ghiacci
e novene, l’irrigidirsi dei propositi
che cristallizzano col fiato?
Ci chiediamo se sia del bianco
l’invenzione dell’eterno.
***
Abbiamo puntellato le travi
perché non cedano agli inverni
e trovino forza dal basso.
Conversiamo sottovoce di pane
e di vento e di come da tempo
si raffreddi anche la retina
che tutto stenta a trattenere.
Ogni giorno, prima di uscire,
mandiamo a memoria gli alfabeti,
li prepariamo a concentrarsi
su pensieri di tundra
e la durezza che c’è.
Da: Il caro enigma
Eppure in questo esilio
c’è spazio per sussurri,
premure e capogiri
che si appoggiano alla gioia.
La si vede a occhio nudo.
In questa calma teoria di silenzi,
che cova godimenti e pleiadi
più intime, c’è una sintassi nuova
dove i segreti sostano per qualche ora
chiamandosi per nome.
E se è arduo decifrare nelle stanze
le rotte degli amanti, tradurremo
ogni passo in una data,
nell’ora immacolata della notte.
***
Siete tutti così intelligenti, così attivi.
Qui è scena muta, è scena
da poco. Si depongono
le attitudini come chi preferisce
mancare lo scopo e ama solo
i tempi morti.
Da: Ora per allora
III
Tornò settembre, il secolo era diverso; Com-prai al mercato tre rose bianche, una per ogni tomba. Prendemmo il treno per la laguna e puntammo dritte a San Michele. Questa volta il noi era due. Con la mappa del cimitero cercammo le lapidi e una scopa per pulirle. Il sole alto delle undici, il cielo limpido dei mistici. Pregammo Brodskij, Diaghilev e Stravinsky, li implorammo di esistere là dove già erano. Una rosa per chi si spaesa. Una rosa per la caduta. E una per chi resta.
Da: Finiremo per trovarci
I
Abbaglia ancora la bianca e santa Pietroburgo,
la neve appoggia sulle spalle il suo saluto.
Ala Scuola Imperiale ero Nežinka, il ‘tenero’,
ero il nervoso periodare del veggente. Io vedo tutto, io vedo il dolore che si imbosca nelle parole, il sentimento oscurato dalle labbra, io ascolto il mite, i versi muti di chi muore a sé e non ritorna. […] Già da allievo miracolavo nel salto perché se parto alla volta del cielo è per restarvi a lungo a mezz’aria. Non conosco altro azzurro se non quando prolungo l’incontro là in alto e mi sospendo, vi penso, mi calmo. E dopo ogni indugio ritorno a quel fuoco, plano, scendo in me come un perdono. […] II […] Per essermi fedele devo tradire l’aria di prima, il mio mulinare nel vento, devo interrare l’astro e l’arcata perché è venuto un tempo di pietra inatteso, c’è un’altra vertigine. Mai si è visto così tremendo il battito di ciglia dell’immobile. […] III […] Penso spesso alle stelle perciò so chi sono. Veglio il mondo e indovino. Sulla soglia aspetto e col palmo della mano a conchiglia raccolgo le voci all’orecchio, le attendo. Sono il solo in ascolto. […] In Finiremo per trovarci sono in corsivo nel testo le frasi di Vaslav Nijinsky tratte dai suoi Diari, nelle traduzioni di Gabriella Luzzani e Maurizia Calusio (entrambe per Adelphi). Nicoletta Bidoia, è nata nel 1968 a Treviso, dove lavora presso l’ufficio di un ente pubblico, e vive in provincia. Ha pubblicato i libri di poesia Alla fontana che dà albe (2002), Verso il tuo nome (2005, con prefazione di Alda Merini), L’obbedienza (2008, con prefazione di Isabella Panfido) editi da Lietocolle, e Come i coralli (2014) con La vita felice. Nel 2013 è uscito il libro di narrativa Vivi. Ultime notizie per Luciano D. per le edizioni La Gru. Nel 2006, con la cantautrice Laura Mars Rebuttini, ha ideato e realizzato lo spettacolo Un piccolo miracolo. Nel 2019, insieme al cantautore Gerardo Pozzi, ha realizzato lo spettacolo Sotto terra, sopra un prato. Ha inoltre collaborato con altri musicisti in occasione della presentazione dei suoi libri, tra cui: la cantante goriziana Gabriella Gabrielli, i cantanti romani Sara Modigliani e Andrea Belli e l’arpista Tiziana Tornari. Più volte è stata ospite a Fahrenheit di Rai Radio3 nella rubrica giornaliera “Il poeta della settimana”, in occasione dell’uscita de L’obbedienza e di Come i coralli, e nella rubrica “Il libro del giorno” presentando Vivi. Ultime notizie di Luciano D. nel dicembre 2013 (questa registrazione si trova in Youtube). Alcune sue poesie, apparse anche in raccolte e riviste, sono state tradotte in spagnolo nel libro Jardines secretos. Joven Poesìa Italiana, a cura di E. Coco (Sial, Madrid, 2008). Negli anni, è stata ospite al PoesiaFestival di Modena, al Festival di poesia internazionale di Genova, al Festival Vicino-Lontano di Udine, al Festival dei Matti di Venezia e al CartaCarbone Festival di Treviso. Oltre che in provincia di Treviso, ha effettuato presentazioni a Roma (Casa Internazionale delle Donne, Libreria Odradek e Libreria Altroquando), Bologna (Feltrinelli), Venezia (ex Mondadori, Fondazione Querini Stampalia, Libreria Marco Polo), Milano, Reggio Emilia, Cesenatico, Varallo Sesia, Gorizia, Brescia-Padernello, Opi (invitata da Dacia Maraini) e in altre città. Compone collage e teatrini di carta (rintracciabili sul canale stroega di Youtube e stroega di Instagram).
Riparazione e oltre
Ci sono luoghi marchiati dall’abbandono e dall’esilio. Altri dal ritorno e dalla riparazione. Quali Notizie da Patmos ci giungono da Fabrizio Bregoli? Forse la dura arte del rientrare in patria, come ci precisa fin da subito la citazione in esergo dalla Comedia. Forse l’esigenza personale di affrontare il proprio vissuto e di riparare il passato. Forse quella più generale proiettata verso una ricerca di senso e di padri. A partire da ‘Nel nome del padre’, che dà titolo alla prima sezione. E da un quarto comandamento che diventa «Onora il nulla / il solo che ci è dato». Un padre che si dilata nei suoi significati plurimi fino ad arrivare ai fondamenti del cosmo, della vita, della poesia. Non solo per consentire il confronto con il «padre esatto di un teorema sbagliato», ma anche per dare modo di trovare, attraverso la parola, una «paternità restituita», una «Terra salda», l’ordine nel caos.
Non a caso l’autore, per affrontare la complessità, fa spesso utilizzo nella sua poetica delle strutture delle scienze esatte. Qui ne fa esplicita dichiarazione in premessa: per come a colmare una mancanza, suturare un baratro occorra mettere in atto una specifica «Arte della riparazione», propria dell’algebra come della poesia. La riparazione, però, come la poesia, chiede altro. Così questa poetica scarta, cerca «un passo in più, un verso oltre». Cerca un altrove e «in quell’altrove, un oltre». Vuole certo ricomporre, riparare, ma andando oltre, scuotendo il linguaggio consueto e capovolgendo assiomi. Nel solco, tra le molteplici altre suggestioni, della fisica quantistica, della relatività, delle geometrie non euclidee. Così come nell’apporto pluridimensionale delle arti e, a incrociare le domande di senso, delle riflessioni filosofiche e religiose.
Mentre si fa contaminare da matematica e musica, fisica e teologia, cinematografia e poetiche degli autori amati, la scrittura etica di Fabrizio Bregoli pare cercare in Patmos il perno del suo ritrovarsi. Nel rigore matematico e nella poesia degli endecasillabi. Nel pericolo e nel rischio della ricerca di senso. Confidando però nella parola che, nonostante le apocalissi private e collettive, può riparare e portare notizie salvifiche. Patmos: che, secondo tradizione, fu luogo di esilio e di elaborazione dell’Apocalisse di Giovanni, libro colmo di visioni tese allo svelamento attraverso immagini allusive e simboli anche numerici. Patmos: da cui prende spunto Hölderlin nella lirica omonima, densa, insieme, di prossimità e di inavvicinabilità al divino, per indicarci come cresca la salvezza dove c’è il pericolo, proprio al fine di poter partire e quindi ritornare più fedeli al senso.
Da: NEL NOME DEL PADRE
VOCABOLARIO MINIMO
Se scrivo è per non dire, cabotare
il bianco della resa, i giorni miti
del nostro indocile armistizio. Scrivo
la vena innominata della pietra,
veglio l’angolo illeso del respiro
quel suo retaggio fossile.
Accolgo la voce spoglia, il suo sfratto
il corpo intatto del ripudio.
Scrivo di noi, di un verbo contraffatto,
del suo frutto disseccato
sul pegno delle labbra. Scrivo di noi
grammatica di un vento lapidato.
Da: MISTERI INGLORIOSI
QUARTO COMANDAMENTO (RIPRESA)
Rimane la poesia, spietata e imbelle
tutt’intero il suo soldo bucato,
l’ovvio scrivere ciò che non sai dire
– assioma sghembo di un figlio scontato.
Onora il nulla
il solo che ci è dato.
Da:(DIGRESSIONE QUANTISTICA)
(PLANCK
(A invaderci talvolta
è un bisogno d’ordine, disgregare
il continuo indistinto delle vite,
parcellizzarle per addensarne il senso
rendere il vuoto confutabile.
Forse dobbiamo a questo il nostro perderci,
redimere quel ganglio opaco
tutto il suo corpo nero
ed anche noi scoprirci irradiazione
di un fulcro stabile, luce compatta
cifra di una costante universale.
Da: CARTEGGIO CLANDESTINO
NOTIZIE DA PATMOS
Comincia tutto ripetendo un nome
da un buio prossimo, colpo di coda
di qualche creatura d’abisso. Dopo
è la stagione del balbettio – certe
muschiose lallazioni – infine frasi
fatte, proverbi storpiati, eserghi
o falsi. Rovine che non sorreggono.
Comprendi davvero d’essere lingua
quando il futuro diventa ipoteca,
passato da riscrivere, scandire
polso a polso la ruggine dei chiodi.
La poesia non cambia nulla
è il nulla che la cambia. La fa possibile.
Da: BREVIARIO APOCRIFO
JOHN CAGE 4’33”
Nessun verbo migliore per descriverci
dell’intenzione che si fa rinuncia,
quel suo zero assoluto. Boreale.
Tutto il blasfemo
del suo parto gemellare
suono e sua scomunica.
Noi siamo entrambi. Quella voce
inabitata e tutto l’impossibile
del suo silenzio.
Da: COME UN INIZIO
*
Non si scrive d’amore, caro Rilke.
Se ne può dire solo per pudore
la luce impenitente dello scandalo
l’arteria dove si frantuma il legno.
Eppure che cos’è questo tacerne
se non per negazione dirne, ammetterci
imperfetti, cercarci oltre l’assunto
dello sguardo, quel sottinteso sordo?
Ed anche qui
l’amore lo si è scritto, in privazione
ipotesi che non si dà una prova.
Il nostro, un dimostrarlo per assurdo.
**
Quando s’addensa, dove
trapana – è un vuoto. Dopo (dopo, quando?)
in quell’altrove, un oltre:
la resa necessaria, un
silenzio sull’arco della parola.
Celato in quel mai, un ναί
il suo bianco fragilissimo. La neve
delle sue mani.
Fabrizio Bregoli, nato nel bresciano, risiede da vent’anni in Brianza. Laureato con lode in Ingegneria Elettronica, lavora nel settore delle telecomunicazioni.
Ha pubblicato “Cronache Provvisorie” (VJ Edizioni, 2015), “Il senso della neve” (puntoacapo, 2016), “Zero al quoto” (puntoacapo, 2018), “Notizie da Patmos” (La Vita Felice, 2019).
Sue opere sono incluse in “Lezioni di Poesia” (Arcipelago, 2015) di Tomaso Kemeny e in “iPoet Lunario in Versi 2018” (Lietocolle, 2018), sulle riviste “Il Segnale”, “Alla Bottega”, “Le voci della Luna”, “Il Foglio Clandestino”, in numerose altre antologie, sui più noti blog di poesia.
Ha inoltre realizzato per i tipi di Pulcinoelefante il libriccino d’arte “Grandi poeti” (2012) e per le edizioni Fiori di Torchio la plaquette “Onora il padre” (Seregn de la memoria, 2019).
Ha conseguito numerosi riconoscimenti per la poesia inedita, fra i quali gli sono stati assegnati i Premi San Domenichino, Daniela Cairoli, Giovanni Descalzo, Luciano Nicolis, Piemonte Letteratura, Terre di Liguria, Il Giardino di Babuk, il Premio “Dante d’Oro” dell’Università Bocconi di Milano, il Premio della Stampa al Città di Acqui Terme e più volte è stato segnalato e finalista ai premi Guido Gozzano e Lorenzo Montano.
Per la poesia edita gli sono stati assegnati, fra gli altri, i Premi Guido Gozzano, il Premio Letterario Internazionale Indipendente, Città di Umbertide e Rodolfo Valentino.
Collabora come recensore con il sito letterario “LaRecherche.it“, con la pagina Facebook “Poeti Oggi” e fa parte della redazione del blog letterario “Laboratori Poesia” per cui cura la rubrica “Poesia a confronto”.
Il sito dedicato alla sua poesia è: https://fabriziobregoli.com
La cura dell’esistere
L’esistere chiede cure. Il suo giardino attenzioni. Per lo sbocciare del sentire, il gioire al colmo della fioritura, le situazioni infestanti, le calamità. Così come per lo sfiorire, l’appassire, il morire. E per la solitudine, la nostalgia, il dolore.
La poetica di Maria Grazia Calandrone in Giardino della gioia si prende cura di tutto, senza dimenticare alcun elemento del vivere, alcun sentire umano. Tra amore e disamore, bene e male, cura e abbandono, affetti e violenza, attenzione agli ultimi e atrocità di guerra. Oscillando in modo significativo e continuo tra le polarità della vita umana e del cosmo, del visibile e del mistero, del corpo e dell’anima.
A partire dai primi versi della raccolta, in ‘Io sono gli altri’. Dove pare di vedere riflessi i fotogrammi di Corpo e anima di Ildikó Enyedi. E dove si evidenzia, fin dall’esordio, come il prendersi cura riguardi l’attenzione alla fisicità mortale, così come al mistero spirituale. E, proseguendo nei testi, nel testimoniare di questo tutto l’esistere. Anzi ‘Il puro esistere’. Tutto quello che concerne il corpo: il corpo fisico, il corpo dell’altro, il corpo delle cose, la consistenza della materia, la ferita, la violenza, il taglio. E tutto quello che afferisce all’anima: l’emozione, il sogno, il mistero, il sogno stesso della materia. A costituire, con questo insieme, i presupposti delle relazioni sociali: la pietà, la compassione umana, la condivisione. In piena risonanza con l’altro e con gli altri, con la vita e con il cosmo, con la materia e con la storia. Nella convinzione profonda del senso etico e politico del vivere comune.
Una consonanza con l’esistere basata sulla gioia, che ne mette a fuoco l’apertura temeraria. In questo simile all’indagine di Jean-Luc Nancy sulla felicità, in quanto esposizione continua e rischiosa al fuori, in una fame di vita all’infinito che qui si ritrova nel sentirsi «esposti / alla felicita», in un «incessante / inno di gioia». Nel vibrare, a volte felice a volte drammatico, con tutto quanto accade e appare e, insieme, con quanto si cela nell’ignoto che la poesia riesce ad intercettare, per cui «basta il linguaggio, per / essere davanti / al mistero». Ed è una consonanza ancora, questa di Maria Grazia Calandrone, con la poesia stessa, poiché «le nostre molecole consuonano con la musica profonda della poesia, / che è la stessa in ogni lingua: un ultrasuono, un rumore bianco». Nel giardino del tutto.
Da: GIARDINO DELLA GIOIA
ogni cosa che ho visto di te, te la restituisco amata
tutta la vita è stata un esercizio per tornare
al tuo corpo
caldo come la terra
eppure scrivo della solitudine
di cocci d’osso
in conche di sabbia
scavate
con gli occhi delle scimmie che cercano riparo
corpi come scodelle rovesciate
i catini del cranio colmi di cielo
[…]
Da: TEMPO REALE
Non vediamo le cose come sono, vediamo le cose come siamo.
CONTRO L’ESILIO
Siccome nasce
come poesia d’amore, questa poesia
è politica.
*
La prima volta
che incontrai la persona che avrei amato
quando ci salutammo
provai la povertà d’essere al mondo, uno stento
irreparabile
dell’intero
essere emerso. Fu
più che una mancanza
un mancamento:
lo scodamento di un nero
getto di plasma
attraversava la costellazione
MGC 1.9.6.4 (uno.nove.sei.quattro). Il bene
lo riconosci cosi, quando vedi quel microcosmo, capace
di ogni bene e male, allontanarsi
sulla strada assolata
e sai che, se ritorna, smetterà un dolore
lungo tutta la vita, la nostalgia
che non sapevi provare e stava
sconosciuta e vicina come l’ombra alle spalle,
tua in silenzio e miseria
come la gioia che con la neve dura.
Roma, 20 luglio 2018
Da: IL PURO ESISTERE
STRUMENTI
Impara a fare le poesie come si fa il pane.
Impara a fare il superfluo. La nostra specie
si è ingegnata nel costruire oggetti
funzionali all’impianto biologico
del quale è dotata – le mani (forchette, penne, sigarette)
– o le gambe (pedali, automobili). Molto
veniamo rimpiazzati dagli oggetti.
Lo scopo è essere sostituiti nelle cure primarie degli apparati.
[Lo scopo è
essere liberi. Scorporare.
Oltre, stanno le rocce e gli alberi, quiete entità respiranti
che non appartengono a nessuno
e a niente di quanto si dissolve nell’atmosfera prima di toccare
[terra
Parola sostanziale regredita
dalla bocca alla mente
Verde, senza fiori, aromatica, verde di sangue raffermo, verde
[e petrosa, instabile
nella gioia matematica dello spazio
dove il reale è il vuoto della fisica
fra i battitori del grano
sopra una terra diventata immobile per l’attrito rovente delle
[atmosfere
su corpi che la poesia non salva.
Da: NEL SOGNO DELLA MATERIA
CIÒ CHE NON È MAI STATO È CIÒ CHE RESTA
Chiama «sole pomeridiano» un arco di memoria
tra solitudine e solitudine.
La sua lingua non basta, a dire «esilio».
Apre una mappa dei corpi celesti.
Trascrive le corrispondenze con l’atlante
anatomico (australopithecus
afarensis). Chi è il prossimo? «Proxima Centauri
si trova a circa 4,2 anni luce di distanza
da noi, pari a 270.000 volte la distanza fra la Terra
e il Sole». Vuole incontrare i simili. Vuole cominciare
ricordando il colore dello stagno nei pomeriggi estivi, quel ronzio
cosi prossimo al canto. Soprattutto, vorrebbe
ricordare una vita ancora possibile,
dove un gruppo di esseri umani ogni anno ripara
i danni della salsedine e del vento
sulle palizzate. Ma è lontana. È davvero
lontana. Si ripete che niente
è andato sprecato. In embrione
vede la fortuna.
Maria Grazia Calandrone (Milano, 1964) vive a Roma. Poetessa, scrittrice, giornalista, drammaturga, artista visiva, autrice e conduttrice Rai (ultimo ciclo: “Poesia in technicolor”), scrive per «Corriere della Sera» e per il settimanale «7»; dal 2010 pubblica poeti esordienti sul mensile internazionale «Poesia» e divulga poesia a RaiRadio3; è regista del ciclo di interviste “I volontari”, un documentario sull'accoglienza ai migranti e del videoreportage su Sarajevo “Viaggio in una guerra non finita”, entrambi pubblicati da «Corriere TV». Premio Montale 1993 per l’inedito, tiene laboratori di poesia nella scuola pubblica, in carceri, DSM, con i migranti e presta servizio volontario nella scuola di lettura per ragazzi “Piccoli Maestri”. Libri di poesia: La scimmia randagia (Crocetti, 2003 – premio Pasolini Opera Prima), Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier, 2005), La macchina responsabile (Crocetti 2007), Sulla bocca di tutti (Crocetti 2010 – premio Napoli), Atto di vita nascente (LietoColle 2010), La vita chiara (transeuropa 2011), Serie fossile (Crocetti 2015 – premi Marazza e Tassoni, rosa Viareggio), Gli Scomparsi – storie da “Chi l’ha visto?” (pordenonelegge 2016 – premio Dessì), Il bene morale (Crocetti 2017 – premi Europa e Trivio) e Giardino dellagioia (Specchio Mondadori 2019 – seconda edizione gennaio 2020), le traduzioni: Fossils (SurVision, Ireland 2018), Sèrie Fòssil (Edicions Aïllades, Ibiza 2019 – traduzione di Nora Albert) e l’antologia araba Questo corpo,questa luce (Almutawassit Books, Damasco 2020 – traduzione di Amarji); è in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi 2012). Libri diprosa: L'infinito mélo, pseudoromanzo con Vivavox, cd di sue letture dei propri testi (sossella 2011), Per voce sola, raccolta di monologhi teatrali, disegni e fotografie, con cd di Sonia Bergamasco ed EstTrio (ChiPiùNeArt 2016) e Un altro mondo, lo stesso mondo. Una riscrittura del Fanciullino di GiovanniPascoli (Aragno 2019); suoi racconti sono presenti in Nell’occhio di chi guarda (Donzelli 2014), Deaths in Venice (Carteggi Letterari 2017), Princesa e altreregine – a cura di Concita De Gregorio (Giunti 2018) e Un altro mondo, lo stesso mondo, riscrittura del Fanciullino pascoliano (Aragno 2019). Libri dicritica: ha curato e introdotto i volumi di poesie di Nella Nobili Ho camminato nel mondo con l'anima aperta (Solferino 2018) e Dino Campana. Preferisco il rumore del mare (Ponte alle Grazie 2019). Dal 2009 porta in scena in Europa il videoconcerto Senza bagaglio e dal 2018 Corpo reale, musica di Stefano Savi Scarponi e accompagnamento alla batteria di Arturo Casu. Nel 2012 vince il premio “Haiku in Italia” dell’Istituto Giapponese di Cultura e nel 2017 è nel docufilm di Donatella Baglivo “Il futuro in una poesia”, nel progetto “Poems With a View” del regista israeliano Omri Lior e nel progetto internazionale “REFEST – Images & Words On Refugee Routes”, pubblicato da “il Reportage”. Ha collaborato con i programmi di televisivi di Rai Letteratura e Cult Book. Sue sillogi compaiono in antologie e riviste di numerosi paesi. Il suo sito è www.mariagraziacalandrone.it
Una cornice per il caos
Dopo L’urlo pittorico in serie di E. Munch e l’Urlo poetico di A. Ginsberg, Sonia Caporossi, in Taccuino dell’urlo, ci mostra un’altra modalità per esprimere la tensione emotiva che sboccia in un grido di dolore. Un urlo interiore che, in questi versi, si fa riverbero tra l’assenza e il richiamo, l’abbandono e il ritorno, il conflitto e l’oblio. Un urlo che non viene lasciato esplodere come nelle tele di Munch, ma che, dei suoi quadri sul tema, ha il contrapporsi delle figure in primo piano e ai margini. Così come il contrasto delle tonalità dei colori caldi e freddi, che pare rispecchiarsi, nella raccolta, nei dialoghi-scontri di una conclusa, ma ancora tormentata, storia d’amore. Con l’urlo di lui in primo piano e il virgolettato di lei sempre più evanescente sullo sfondo.
Solo una storia d’amore? Più indizi conducono a individuare la messa a fuoco del testo non solo e non tanto su una relazione affettiva drammatica e sofferta, quanto, attraverso di essa, sul rapporto, indagato a livello poetico, psicologico e filosofico, con il reale. Nella frattura tra desiderio e realtà, sogno e inganno, senso e perdita di senso. Nello «scarto tra «sé» e «sé»», nella solitudine che emerge sia dal rapporto amoroso sia in generale dallo stare al mondo. E, insieme, nell’esigenza, che l’urlo sottostante evidenzia, di dare a tale solitudine uno sbocco nella relazione umana come nella scrittura. Così emerge il bisogno di abbracciarsi, simili a «scatole d’assenza / riconoscerci a distanza», a partire da un disagio sociale che trova il suo rispecchiamento nell’Urlo dissacrante di Ginsberg. Così il riuscire a fare sbocciare, dal disagio individuale, la scrittura, tenendo conto di quanto chiaramente preteso dalla poesia. Poiché «per scrivere necessita una rabbiosa solitudine / e un istinto meno che umano».
La scrittura di Sonia Caporossi sperimenta un linguaggio percussivo e dissonante, ad evidenziare la drammaticità della tensione, in vivo contrasto con l’ordine della composizione. Quasi che tale tensione necessitasse di una cornice di contenimento per l’abisso e per il franto del linguaggio e della psiche. Un ordine nel caos. Non a caso il giusto ordine, anche nell’etimo, del Taccuino. Che raccoglie 32 stazioni di appunti-dialoghi numerati e i quadri alfa, omega e, all’interno, phi, dai significati plurimi, a sancire la centralità della riflessione sul desiderio e sulla dimenticanza, sulla «ragione che non trova il senso” e sul «tempo per dire ancora».
I.
si affida a una voce
ode sé stesso nel grembo infecondo degli orecchi
come sentirsi ridere a comando
a piacimento
nel bacchettarsi ieratico dell’imprinting feroce
dell’urlo
del richiamo a chi tace
quando l’ascolto si reitera intonso
nel fingere di prestarsi
di apprestarsi
di arrestarsi
alla domanda gonfia di fiato
quando le labbra si chiudono
nel richiamo
a chi tace
e nessuno risponde
a ciò che ha domandato.
XV.
Nell’assenza
{indesiderata, inerte}
sparge bruciore di :: fumo :: sui pianali del pensiero
quanto di lei gli rimane nel {sogno}
di un’indecenza pagana
nel suo rituale che lo condanna all’attesa
è l’essere scabro delle mani chiuse a pugno
che dentro, nel palmo, nel centro di tutto
concentrano il suo nome-odore-lignaggio
nell’ignobiltà ostentata del peso pericardico
che grava su quel petto illuso di visioni
come se la vedesse a un orizzonte di senso perduto
sorridente, estatica
chiamare il suo nome nel vuoto.
φ.
«mandami un cenno di mancata intesa
eludimi nel sonno
di una ragione che non trova il senso
rapprendimi, comprendimi, prendimi
ama la scorza d’arancia amara che mi avvolge
tocca la mia ovale, imperfetta nudità
sottintendimi, lasciami andare, virami
col timone del timore di paure troppo vuote
rilassami le corde del collo di tensioni
che non sanno duplicare dna d’alienazione
risuonami il colore
di un fonema troppo asciutto
ripetimi le promesse da infrangere
solo perché sei fragile come vetro
annebbiami le certezze, tu che sai di non sapere
abbi pietà e potenza
che c’è tempo per volere
c’è sempre tempo per dire ancora
quando il futuro è malnato e soffuso
come la luce che copre le disgrazie
come l’assenzio che imbeve il pericardio
e poi alla guida non si può mai bere
se non andando incontro
a questo strazio
allacciami le scarpe
per una scalza ingenuità
ricordati dei vuoti di memoria
che lamentavi durante l’impressum
ritorna da dove sei andata
e vieni da dove ti hanno creata
non c’è scampo per l’offesa
e non c’è scabbia sulla mia pelle
perciò toccami, amami, invogliami
incensami intonso e impuro
voglio solo percepire il magro orpello del tuo odore
voglio solo irretire lo scoglio scrostato
del mio assurdo desiderio
non c’è luce
non c’è odore
non c’è amore che possa stare
voglio solo addormentare questa voglia di volere
voglio solo
sempre e solo
rigirarmi dall’altra parte
e poi, stanco di stancarmi
dimenticare.»
ω.
alla fine lui resta in silenzio
nell’abbraccio addormentato
rimando scabro di un lembo di pelle
rabberciato {lungo i bordi} nella fame di poesia
alla fine rinuncia all’amore
si prende in carico l’infarto
l’assassinio autoindotto del cuore
in questa quieta decisione
tanto lo sa che ritornerà
il desiderio del suo {fuoco greco}
perché l’amore non serve poi a tanto
::
per scrivere necessita una rabbiosa solitudine
e un istinto meno che umano, e stanco
di ripensarsi interi
dopo la distruzione.
Sonia Caporossi (Tivoli, 1973), è musicista (con i Void Generator: Phantom Hell And Soar Angelic, Phonosphera Records 2010; Collision EP, 2011; Supersound, 2014; Prodromi, 2017; Anatomy of a Trip, 2019), narratrice (Opus Metachronicum, Corrimano, Palermo 2014, seconda ed. 2015; Deaths in Venice. Racconti dalla laguna, a cura di L. Liberale, Carteggi Letterari 2017; Hypnerotomachia Ulixis, Carteggi Letterari, Messina 2019), critica letteraria e curatrice (Un anno di Critica Impura, Web Press, Milano 2013; Poeti della lontananza, Marco Saya, Milano 2014, con A. Pierangeli; Pasolini, una diversità consapevole a cura di E.Campi, Marco Saya, 2015; Da che verso stai? Indagine sulle scritture che vanno e non vanno a capo in Italia, oggi, Marco Saya, 2017; La Parola Informe. Esplorazioni e nuove scritture dell’ultracontemporaneità, Marco Saya, 2018; La gentilezza dell’Angelo. Viaggio antologico nello Stilnovismo, Marco Saya 2019; Diradare l’ombra, antologia di critica e testi per Claudia Zironi, Marco Saya 2019), poetessa (La consolazione della poesia a cura di F. D’Amato, Ianieri Edizioni, Pescara 2015; Erotomaculae, Algra, Catania 2016; Alla luce di una candela, in riva all’Oceano a cura di L. Leone, L’Erudita, Roma 2018; La forma dell’anima altrui. Poesie in omaggio a Seamus Heaney, a cura di M. G. Calandrone e M. Sonzogni, LietoColle, Como 2019), saggista (La pietà del pensiero. Heidegger e i Quaderni Neri a cura di F. Brencio, Aguaplano, Perugia 2015). Dirige per Marco Saya Edizioni la collana di classici italiani e stranieri La Costante Di Fidia. Dirige inoltre i blog Critica Impura, Poesia Ultracontemporanea, disartrofonie e conduce su NorthStar WebRadio la trasmissione Moonstone: suoni e rumori del vecchio e del nuovo millennio. Vive e lavora nei pressi di Roma
Nel sonoro del tutto
Non ha origine sulla pagina, come non si conclude in essa, la scrittura di Silvia Comoglio, che in scacciamosche (nugae) conferma questo suo essere parte di altro. Di una totalità. Di una partitura più ampia. Una partitura, in questa raccolta per coro e voci, di cui sembrano rimanere solo brani isolati. Dove i diversi interlocutori appaiono a squarci: un tu spesso richiamato, dai volti molteplici, così come i soggetti sottesi ai pronomi della coralità. Dove la voce e le voci sono in dialogo. Una voce che si esprime in tutte le sue molteplici possibilità, conducendo a una visione e a una lingua altre. Una voce che, mentre nomina il visibile, evoca l’invisibile. Mentre provoca gli interlocutori sottesi, convocandoli in superficie, ne revoca l’affioramento. Mentre invoca, per ottenere una possibilità di conoscenza, tiene a trama fitta il mistero. Nel suo dire onirico, denso di immagini richiamanti in «ogni sogno — / uno scandalo», un turbamento, un presagio.
Qualcosa di sotteso si affaccia tra gli spiragli di suoni e visioni. Musicato tra sogno e finzione, immagine e bugia, anzi «in grazia, enorme, di bugia». Grazia e insieme bugia: forse del mondo che con la sua bellezza pare mascherare il vero, forse della parola nella sua tensione a liberarsi dell’apparenza verso una visione altra. Allora sarà il «buio a scacciamosche» a consentire di disperdere le false verità del visibile che disturbano il vero, per cercarne i segni nell’oscurità e nel sogno. Qualcosa sempre nascosto, in ombra, che solo una lingua onirica può riuscire ad amare. Così titolo e sottotitolo della raccolta appaiono scelti forse proprio per occultarne la relazione amorosa, mascherandola come fastidio da scacciare o come inezia, nugae, quale già in Catullo e Petrarca, tra gli altri, per le loro opere non certo minori.
Una relazione aperta invece a tutto quanto di prossimo al vero, sull’orlo del dire e nei suoi intermezzi, pare in attesa di annunciarsi. Nel dialogo tra le parti, in tondo e in corsivo. Nelle aperture sollecitate dei diversi segni grafici. Nei versi che si dilatano nel tempo, proseguendo anche oltre i post scriptum. E che spaziano muovendosi repentinamente dal terreno dolente e condiviso degli umani all’ultraterreno. Così come nel linguaggio, passando dal dire infantile e quotidiano del «dormire-qui-per-terra» al lessico alto in cui «ú- / signoli stupendi chérubinano in cielo / andando, indietro, tutti a ritroso…». La partitura di Silvia Comoglio è musica senza fine. Nel suo espandersi a ritroso e nell’oltre. Nel sonoro familiare, nel canto delle sfere.
ora dite se fu la notte di pubblica fatica
a farsi, farsi in questa stanza, forma —
gocciolata ad acqua! di sola mia coscienza
adorna, per amore, a peso di stupore
Da: I
di lingua congiunta alla tua forma —
tutto, torna, dopo il sonno a fede del suo tempo,
come se del lato dell’ombra fissata al petto
restasse qui sopra, su questa terra, un baciarmi
forgiato ad elmo pre-cosciente
*
Quanti, ancora, i folli folli di saliva? I mutati
te che passa venuti, sull’ombra della sponda,
come se in grazia, enorme, di bugia?
*
“sia tempo a notte di polmoni il dormire,
dormire-qui-per-terra!, ad atto che conosce
tutto del mio sogno : e sia, sia buio,
buio a scacciamosche!, l’ombra di bastone
che, curva di sutura, ruota sulla stella
sulla corsa sul leone
---
*
Saremo visti sui tempi da sognare,
erranti e ancora soli? a tratti già rimasti
di buio sempre in braccio? tenda, di tre passi,
entrata di difesa nell’ombra dell’elmo che ti porto
in grazia, enorme, di bugia?
Da: II
*
“sei stato, disse, così felice!, di grazia —
immota a luna, dove quanto ti sussurro
sono appena gl’occhi del tempo che non viene,
quésta sola fine vista dove spazia l’ál-
bero mortale —
*
se ti amo —
è per il bordo di bugia, per-chi-mi-sembri
quando sogni, sogni e mi nascondi, tutta —
la bugia
*
fu un dormire, un dormire?,
qui-per-terra, unici e prudenti?
un dormire, dite?, guardando cosa fare
e sognando, sognando poi di tutto —
per sapere cosa fare
---
*
“dirvi che vi prendo sempre solo in sogno?
che di terra vi corico per terra e vi prendo
sempre solo in sogno, sempre dove posso —
esservi-chi-sono?
*
è chiuso, disse, in aurora abbastanza,
il rullare di mani? l’ombra, di tutti,
i cambi di bosco che ú-
signoli stupendi chérubinano in cielo
andando, indietro, tutti a ritroso …
---
*
“questo fu mandato in segno di saluto,
il tempo, nel retro della casa, aperto sulla testa,
a morsa di stupore
_______
*
alla fine ci sentimmo —
consolati! baciandoci sugl’occhi,
su forme, a tempo, più sicure
*
p.s.
tu, sai dirmi?, dei grandi
baci a rispondi del mare di dio
Silvia Comoglio, laureata in filosofia, ha pubblicato le sillogi Ervinca (LietoColle Editore, 2005), Canti onirici (L’arcolaio, 2009), Bubo bubo (L’arcolaio, 2010), Silhouette (Anterem Edizioni, 2013), Via Crucis (puntoacapo Editrice, 2014), Il vogatore (Anterem Edizioni, 2015 – Premio Lorenzo Montano – XXIX Edizione - Sezione raccolta inedita), scacciamosche (nugae) (puntoacapo Editrice, 2017), sottile, a microchiarore! (Edizioni Joker, 2018), Afasia (Anterem Edizioni, 2021), În ape de tăcere/ In acque di silenzio (Editura Cosmopoli, Bacau, 2023), Il tempo ammutinato (partiture) (Book Editore, 2023).
Per Il vogatore è stata composta nel 2015 una partitura dal compositore e pianista Francesco Bellomi e per Via Crucis nel 2016 sono stati realizzati quindici disegni dall’artista Gian Paolo Guerini.
Suoi testi sono apparsi, tra l’altro, nei blog Blanc de ta nuque e La dimora del tempo sospeso, nel sito di Nanni Cagnone, sulle riviste Il Monte Analogo, Le voci della luna, La Clessidra, Il Segnale, Italian Poetry Review, Osiris poetry, nella rivista giapponese δ e nella rivista romena Poezia, e on-line nelle riviste Carte nel vento, Tellusfolio, La foce e la sorgente, Fili d’aquilone. Il portale BombaCarta le ha dedicato La lettera in Versi n. 56 curata da Rosa Elisa Giangoia. E’ presente nei saggi di Stefano Guglielmin Senza riparo. Poesia e Finitezza (La Vita Felice, 2009), Blanc de ta nuque, primo e secondo volume (Edizioni Dot.com.Press, 2011 e 2016) e La lingua visitata dalla neve (Aracne, 2019), nell’antologia Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta(puntoacapo Editrice, 2012), in Fuochi complici di Marco Ercolani (Il leggio, 2019) e in Anni di Poesia di Elio Grasso (puntoacapo Editrice, 2020).
Dal 2021 fa parte del Comitato di Lettura di Anterem Edizioni e della Giuria del Premio di Poesia e Prosa Lorenzo Montano.
Graffiare la lingua
Una parola concentrata, trattenuta tra i lembi di un graffio, di una crepa. Sottratta a tutto il superfluo del dire. Lasciata esposta nel suo farsi sfregio. In Graffiti,nel reciproco rispecchiarsi di versi e di immagini, le poesie di Elena Corsino e le fotografie di Max Carcione concorrono alla rappresentazione del distillato di un senso preciso relativo alle cose e alla lingua. In particolare, l’essere accomunate, la materia e la parola, da uno stesso destino. Resti sopravvissuti alla casualità degli eventi e alle scalfitture del vivere. Tracce superstiti del vuoto e del caos primigeni e, insieme, effetti degli urti, visibili e invisibili, del tempo e dell’esistere.
La materia e la parola. Una parola che necessita di portare alla luce quanto resta sottostante alla trama apparente del visibile, attraverso «i graffi della lingua lacerata». Una materia che esprime il bisogno di liberare l’energia che scaturisce dalle crepe e dalle increspature. E che, insieme, riflettono una stessa condizione, quasi fossero le pagine di un foglio smarginato, graffiato, strappato. O la tela su cui l’incisione di tagli spalanca, come nei lavori di L. Fontana, un varco verso uno spazio altro. «Tagli lasciare / su retina o tela, / lo fa anche il vento» scrive l’autrice, mostrandoci come anche lo sguardo si lasci incrinare e fessurare: «Niente è il vissuto / se non invisibile urto / con scie di crepe, / di figli e ferite, / e luminosi attriti».
È una parola «scabra» quella inseguita da Elena Corsino, cercata tra le crepe di una «lingua / sberciata», nei graffiti da cui germogliano luce e «soffio, respiro vivo». Dai tagli della tela la luce va oltre. Dai graffi della materia trapela il nascosto. Attraverso quelli del dire, scrostato dal «babelico quotidiano», si affaccia «L’oltreterra». E il soffio, che riesce ad emergere, abbraccia la totalità, «nel corpo / che respira audace», come nei movimenti del cosmo. Così è la voce, quando sboccia dal corpo e dal caos «fino al frutto, all’urlo dall’ugola». Così la poesia, quando riesce ad oltrepassare il visibile, a partire da minuscoli sfregi per «infrangere l’infinita trama / a graffi crepe tracce», fino a musicarne il respiro lungo gli «spazi siderali / in battere/ pausa/ e levare».
Tra i graffiti della lingua
sberciata cerco la parola
scampata all’artiglio
delle conseguenze
e delle cause naturali.
Nella fascinazione del caos
e dell’elencazione
inseguo la parola scabra
a nutritura e a calore
della mia forma contratta,
misura e arto del nome.
Sgraffio sfregio scrivo
– la glottide che si contrae –
per un soffio, respiro vivo.
***
Dai corpi primi, quando per vento
tratti e da oscuri dèi congiunti,
dall’oscillante canto degli amanti
fuori del tempo, in spazi siderali
in battere/ pausa/ e levare,
in battere/ pausa/ e levare
nella tensione estrema –
nell’ampiezza prodiga del respiro
vive la sequenza elicoidale:
orme di corpi nella fanghiglia,
bava di parole e di baci,
materia della vita sulla selce –
in battere/ pausa/e levare,
in battere/ pausa/ e levare
nello slancio all’immenso moto.
***
Nottetempo caddero
dall’equamente nero
gocce
tratte da vortice d’omphalos,
da vento di smistamento:
imperdùte e attese
schegge di fuoco e semi,
erronee, scarti
per terra, e cieli.
***
Nell’equilibrio dello zero,
nella casualità del moto
– infrangere l’infinita trama
a graffi crepe tracce:
vacuo per pieno – vana
l’infinitesimale essenza:
la goccia di sangue sul lenzuolo,
la macchia della vita sui lini.
***
Riposano gli occhi
nelle cavità oculari,
s’addensa e si disperde
il mondo –
luce senza segni.
L’oltreterra
è nel corpo
che respira audace:
raccolto nell’alveo quieto
di un momento.
***
Le forme semplici, le spirali
elicoidali della vita, –
radure immense del mio verso
tratto dalla sintassi puntuale
del corpo e del caos –
con la morte dentro
la vita che esplode nel ventre
a moltiplicare l’imperituro gesto
della semina, l’odore del grano.
Fluire, salire, a–cadere
senza dimora fino alle radici
tre le umide zolle
fino al frutto, all’urlo dall’ugola,
nel vortice del vomere
e degli abbracci – vuoto su vuoto
dove un seme è morto
***
Tra i graffi della lingua lacerata
da te-a-me – team – te amo
rimuovo – cado nel cancellare
sgrattare vuoti.
Incido infiniti segni nel tempo
saturo del babelico quotidiano.
da te-a-me – team – te amo
Rimuovo – cado scalfita,
sono muro carta parete pietra,
a sangue da lacerti primordiali
di oscure memorie
di alfabeti sgangherati,
a sparpagliati echi.
Rimuovo – cedo: incido
parola che innervi il gesto
da te-a-me – team – te amo
da te-a-me – team – te amo
Elena Corsino (1969) è traduttrice e insegnante. Ha tradotto opere di poeti e scrittori russi, tra cui M. Cvetaeva, I. Brodskij, F. Tjutčev, F. Dostoevskij. Dal 2017 conduce laboratori di lettura di poesie nelle scuole superiori.
Per la poesia ha pubblicato le raccolte Le pietre nude (Il Filo 2005) e Nature terrestri (puntoacapo 2013). L’opera presentata Graffiti è stata pubblicata nell’ottobre del 2018 da puntoacapo.
Sulla riva del dire
Sulla riva: dove la marea porta il respiro dell’origine e insieme la corrente del divenire. In particolare sulla riva eleatica dell’essere parmenideo. E, in generale, nelle acque in cui confluiscono sia il principio unitario sia lo scorrere del molteplice eracliteo. Nell’opera antologica di Bruno Di Pietro Colpa del mare e altri poemetti tutto questo resta sotteso, ma risonante nella figura archetipa del mare, «nei rumori dell’acqua sempre al ciglio / dell’essere del dire del non dire». In una poetica che trattiene il respiro ontologico nella sensuale e sensoriale adesione alla bellezza luminosa della realtà come nei suoi aspetti più intimi e nascosti, tanto che, rimarcato dalle parentesi, «(il reale si ama se è segreto)». Dove la riva accoglie i richiami oscuri del principio e la marea vi deposita, insieme all’incanto, elementi di dubbio sulla possibilità del pensiero e della parola, quasi ‘Velieri in bottiglia’, di poter davvero dire, se non la precarietà e l’inesorabilità del divenire.
Colpa del mare? La dialettica tra essere e divenire fa da sfondo, insieme alle contraddizioni dell’esistere, a quella che emerge in modo conflittuale e dichiarato tra un reale aperto alle sue antinomie e un sapere, al contrario, problematico. Dove il mare, da archetipo, si fa metafora: «Colpa del mare / del pendolare dubbioso / tra il frutteto in rigoglio / e l‘orgoglio della scienza». E dove il rapporto con la realtà passa dalla sensualità e dall’adesione alla meraviglia e alla dolcezza della natura mediterranea all’esigenza di utilizzare alter-ego e travestimenti per affrontare gli aspetti biografici e storici in opposizione agli abusi del sapere. Ecco allora le figure dell’eresia in campo matematico, quali Ippaso e Liside, e in quello teologico, quale Francesco Pucci. E le figure della transizione e dell’antipotere, incarnate dai poeti Massimiano Etrusco e Ovidio. Figure di confine. Sul ciglio. Sulla riva.
Questa poetica, insieme lirica e speculativa, musica di continuo lo stare sul bordo. Sull’orlo del principio e del confine. E se, a livello ontologico, anche qui tra parentesi, «(le parole confessano indigenti / la poca confidenza con il vero)» e, a livello esistenziale, «non trovano la strada / per dire quest’esilio», è alla parola che Bruno Di Pietro affida comunque il suo sentire. Una parola immersa nel respiro del mare, nel battito dei versi brevi, nel ritmo degli endecasillabi. Dove ragione e immaginazione, metafisica e metapoetica, etica ed estetica, al loro interno e nel rapporto reciproco, muovono i versi con lo stesso movimento, altalenante tra abbandono e ritorno, della marea.
Da: ELEATICHE
I
forse l’indisciplina degli eventi
forse l’incerto dire inesistenti
l’identico la trama la ragione
concedono alle volte un’occasione
ma com’è disadorno il divenire:
gettati alle correnti senz’appiglio
nei rumori dell’acqua sempre al ciglio
dell’essere del dire del non dire
cosa accadrebbe poi se il maestrale
venisse a dirti al termine del giorno
che il sentiero in fondo è sempre uguale
e non c’è altra via che del ritorno
VIII
la semplice struttura del reale
batte ogni giorno puntuale un chiodo
come a dire che il modo del male
è vicino allo sciogliersi del nodo
nella prossimità discreta della scelta
più dell’attesa di un fato onnipotente
per dirti quanto sia inadempiente
non superare la soglia divelta
così incolpa ogni tuo tergiversare
fra il battere dell’ora e il suo passare
ma non ti dice nulla di concreto
(il reale si ama se è segreto)
Da: COLPA DEL MARE
I
Mi dicevo
gli Dei possono niente.
Edificio colonne palatine
catturo il fuoco con le lenti.
Non mi accechino i tuoi occhi
Lampi irridenti
sulle opere
dei giorni.
VIII
Colpa del mare
del pendolare dubbioso
tra il frutteto in rigoglio
e l‘orgoglio della scienza.
Colpa della tua assenza
se il barlume di aprile
non lucida i capelli
di giallo di arancio
e costringe al bilancio
al conto del fare
e disfare il disegno.
Colpa dell’ingegno
che chiude le sere
fra poca luce
e un pugno di olive nere.
Da: CANTO DI LISIDE
IV
Amici morti per il fuoco
se l’acqua è inizio
ora interrogate il dopo
conoscete lo scopo
del pensare.
La cenere ha confuso il mare
deluso il cielo.
Il nostro era un viaggio terreno
e questa è terra di ulivi
di tramonto
terra di sale
da Elea a Metaponto.
Da: VELIERI IN BOTTIGLIA
(I)
i
di certo non mancavano i dettagli
costruito come eri nel pensiero:
amore senza pianti senza sbagli
chiuso in bottiglia inutile veliero
Da: AVARI FIORI
ii.
ma te li immagini i sofisti antichi
gravi pensosi sgranocchiare chele
senza quest’uva dolce questi fichi
traboccanti di resina, di miele
Da: PICCOLA SUITE
(Andante)
le parole non trovano la strada
per dire quest’esilio, lontananza
dalla luce che subito digrada
come evolve il suono in dissonanza
Bruno Di Pietro(1954) vive e lavora a Napoli esercitando la professione forense.
Ha pubblicato le raccolte poetiche: “Colpa del mare” (Oédipus, Salerno-Milano 2002)“[SMS] e una quartina scostumata” (d’If,Napoli 2002) “Futuri lillà”( d’If, Napoli 2003) “Acque/dotti. Frammenti di Massimiano” (Bibliopolis, Napoli 2007) “Della stessa sostanza del figlio” (Evaluna, Napoli 2008) “Il fiore del Danubio” (Evaluna, Napoli 2010) “Il merlo maschio” (I libri del merlo, Saviano 2011) “minuscole” (Il laboratorio/Le edizioni, Nola 2016) “Impero” (Oèdipus, Salerno-Milano 2017) “Undici distici per undici ritratti” (Levania Rivista di Poesia n° 6/2017) “Colpa del mare e altri poemetti” (Oèdipus ,Salerno Milano 2018) “Baie” (Oèdipus ,Salerno-Milano 2019).
È presente in diverse antologie fra cui: Mundus. Poesia per un’etica del rifiuto (Valtrend, Napoli 2008) Accenti (Soc. Dante Alighieri, Napoli 2010) Alter ego. Poeti al MANN (Arte’m, Napoli 2012) Errico Ruotolo, Opere (1961-2007) (Fondazione Morra,Napoli,2012) Polesìa (Trivio 2018, Oèdipus Edizioni).
Articoli e interventi sulle sue opere sono presenti in riviste e blog (Nazione Indiana, Infiniti Mondi, ClanDestino, Trasversale, Versante Ripido, Frequenze Poetiche, Atelier, Levania , Trivio , InVerso, Menabò, Poetarum Silva). E’ stato cofondatore con Gabriele Frasca e Mariano Baino della Casa Editrice “d’If” e socio della Casa Editrice “Cronopio”.
La rosa dei versi
Si muove lungo le coordinate spazio-temporali che delimitano l’orientamento nel mondo Cardini di Rita R. Florit. Nel microcosmo, come nel macrocosmo. Nella realtà visibile, come in quella mitico-sacrale. Delineandone i riferimenti, sia fisici che meta-fisici, nelle due parti della raccolta, rispettivamente i punti cardinali nello spazio e le fasi stagionali nel tempo. Un ordine che cerca di dare voce alla complessità dell’universo e che viene declinato nei testi attraverso l’impasto di una materia, insieme, terrena e celeste, mitologica e divina. Tra le polarità opposte che coesistono nell’intero. Un intero non più indistinto, come l’essere primigenio, ma già condotto ad una visione umana e poetica che circoscrive il proprio mondo. Dove la ciclicità della rotazione cardinale e della successione stagionale evidenzia un continuo ritorno, poiché «dimorare è tornare».
Nella prima parte la parola plasma i cardini geospaziali, nel loro incessante creare e ricreare. Dalla luce aurorale di Oriente e del suo «oro nascente» all’ombrosità di Occidente e della sua «rosa occidua». Dal sole di Mezzogiorno e del suo «cromo-inferno» all’oscurità di Mezzanotte e della sua «notte cava». Colmando i versi di richiami alla grecità, all’induismo, alla mitologia norrena. E di camei di poeti, da Lucrezio a S. Beckett, da E. Dickinson a M. Zambrano, da S. Plath a E. Villa. Nella seconda parte la parola fa danzare le stagioni, in una complessa mobilità concettuale e linguistica, tra le parti in lingua occitana, i riferimenti a detti e leggende che riguardano la natura e ancora i camei di poeti, da Y. Bonnefoy a S. Heaney.
Le parole orientano? E la poesia, nel suo farsi stella polare? E i versi dei poeti, chiamati a divenire cardini essi stessi? Il linguaggio di Rita R. Florit, denso di rimandi e teso di continuo oltre quanto mostra, plurisemantico e multilingue, pare orientare in direzioni molteplici. Nella rosa dei versi dell’autrice e dei poeti convocati è come se il polo magnetico si spostasse di continuo. A costituire di volta in volta un perno di attrazione per terra e cielo, umano e divino, nel calamitare, da angoli prospettici diversi, l’origine e la fine, l’ignoto e il visibile, l’oscurità e lo splendore del mondo.
Da: CARDINI
Nel mezzo d’un universo che promana propaga e
prolassa centrifugo distopico disforico crudo anelito al che?
si dimena diradandosi dilatandosi ...
toh! sarà l’antaura che dilania, l’accetta nella testa;
l’occhio stroboscopico, bianca polpa del nulla; sarà l’insulso
schermo protervo stante il fibrodelirio,abbattuta volgendo al fuori
dall’ego-centro al quadrivio vede-va
(a) Oriente oro nascente perla perfetta soavità del(la)rosa
Aura Au-r-ora fionda sferza il neogiorno appena nato già
muore (1)
gravide grida nel chiaro
il coro greco sullo
sfondo sbiadisce l’arcana nyctadea amata dalla cicuta lei la sola
la perduta fuggita dalla casa del padre (2)
mattino cupola d’oro e lapislazzuli quando vaticinava a Delfi quae
tripode ex Phoebi, lauroque profatur (3) la ressa il soffoco
l’inascoltata voce
desolata cassandra
più a Est l’animale sacrale rumina micro-giungle
domestiche; Ganesh alla catena da secoli; Vembanad
stende il suo tanfo viola inedia invasiva liquefa scivola
nelle retro acque piatte, squarci di spazio tempo sulle
strade di polvere, scotomi.
Orienti dominatori sventrarono città fasciate;
onde prue protese polene; i lenti accecamenti
Mater-puella nell’abbaglio argento petraie, orde
scagliate nelle gole degli dei divoratori di luce
l’Athanatos dannato nei tuoi forzieri aperti.
[…]
Da: CES SONS SESONS
Vēr
Vēr primo vere invera
veritas, in vino no! in campo
in bosco in prato ego virido
mi irido rido
genera la terra i fiori
pori tutti fuori di sé
dal seno aperto sciamano
abhelas, reptilia, nòus anima-lia
en saut (1) in balzi in neve
di lanugine ver-tigine
tiepidi serici nidi
gemmano cori e mugolii
nugoli et nugae
arbor arbita arbitra Carnea
viridat e reti and thirsts
my nightly shadow feasts (2)
blu crudo incombe
arioso maggio d’erba voglio loglio
manger son blé en herbe (3)
Verno
Verno perno firmamentum
oldest seasonson endurci
gris in-tingo rame lingue ignee
camini pini querce noci
rovi torvi corvi neri eri
invasione di tronchi
mantelli folti di volpi latte
di lupe perdute galaverne
nevi solenni evi fondi fate
H’eman Kalash (1)
aquila chiôm-ata (2) coltre alata
vernis d’iverns (3) glace-soupir
te soit la grand neige (4)
Iarnă (5) - arnia del nero
in-chiostro signo in hoc
locus iste scoscesa
tana lana bianca vitalbe
ringhia scarno giaciglio falco
calco interno Verno.
Note
Cardini
(1) S. Beckett, Mal visto mal detto, Einaudi, 1986
(2) M. Zambrano, Chiari del bosco, B. Mondadori, 2004
(3) M. Zambrano, I Beati, Se, 2010
Ces sons seson
letteralmente ces sons dal francese questi suoni e sesons dal dial.
friulano stagioni, hanno simile pronuncia
Ver
(1) in occitano: api serpi nuovi anima-li in salto
(2)“e seti le mie notturne feste d’ombre” S. Heaney, Station Island,
Mondadori, 1996
(3) manger son blé en herbe, detto risalente al XVI° secolo: poiché il
grano acquisisce valore quando arriva a maturazione, chi mangia il
grano in erba dilapida il suo denaro
Verno
(1) Kalasha popolo di uomini liberi come si autodefinicono i Kefiri
dell’Hindu Kush, mai islamizzati, h’eman è l’inverno nella loro
lingua come hêman lo è in sanscrito
(2) Chiôm neve in greco
(3) Vernis è anagramma di Iverns che è inverno in occitano
(4) “te soit la grand neige le tout le rien” Y. Bonnefoy «La grande
neige», in Début et fin de la neige, ripreso in Ce qui fut sans
lumière, Gallimard, 1995
(5) Iarnă inverno in romeno
Rita R. Florit ha pubblicato "Cardini" (2018), “Nyctalopia" (2018), "Passo nel fuoco" (Premio Mazzacurati-Russo 2010), "Lezioni inevitabili" (2005). Più volte finalista al Premio Montano. Ha tradotto Louis Zukofsky, Ghérasim Luca, Joyce Mansour e autori contemporanei. Ha ideato e realizzato vari videopoemi tra cui: Inside me-mories (2018), Aestas (2016), Passionement (2015)
L’epifania poetica
Non si tratta propriamente di una visita, se pur letteraria, come precisa Daria Gigli in premessa a Una visita a Hölderlin. Appare piuttosto la scelta di assumere un punto di vista, tenere aperta una finestra, nel modo desiderativo del vedere, come specifico dell’etimo di visita. Così visitare è vedere: spalancare la visione su un mondo, attraverso lo sguardo del poeta tedesco. Un mondo sotteso all’apparenza. Dove il senso del divino, anche se smarrito, anche se difficile da afferrare, continua a permanere. Ad abitare le cose, pur essendone stato allontanato. Ed è uno sguardo insieme colmo di straniamento e di prossimità quello che muove le teofanie della raccolta, dove le varie manifestazioni del divino si fanno vicinissime, dalla complicità mitica degli dei greci fino all’epifania de ‘Il dio dentro’.
L’epifania di un dio che è vento, soffio, suono. Un’apparizione che trascina i nomi «a sorsi infocati» e insieme sussurra. E che, nel passaggio dalle teofanie mitologiche alle poesie sulla realtà, trasforma anche le cose in divinità. Così l’autrice ci mostra «l’occhio di neve come un dio», l’innaffiatoio verde che dorme nella nebbia, la pioggia che «ha incantato le persiane». Anche i luoghi fisici e antropici, dalla natura al museo, dalla biblioteca alla sala da concerto, appaiono risuonare di visioni d’altrove. Come quelli interiori, dove «Manca sempre qualcosa», «dove non sai chi sei», a indicare il bisogno di una presenza altra. E, ancora, come quelli letterari, dove scrittori e musicisti irrompono nel testo, lungo «le stanze come un sogno di Baudelaire», «in mezzo alla Tempesta di Beethoven» o nell’orchestra di un «Mahler metropolitano».
Nella sua epifania poetica, la parola di Daria Gigli porta in visita, e a vista, sia il divino che il sentire intimo, umano e personale. Dal riecheggiare delle figure archetipe e delle divinità mitologiche fino al vibrare dei temi esistenziali e letterari, riuscendo a condurre a manifestazione, secondo il concetto di alétheia rivisitato da Heidegger, le cose come entità del reale. Portando a presenza l’occulto, il mistero. Un disvelamento che la parola poetica può rendere possibile. In un percorso anche personale dell’autrice verso sé stessa. Muovendo dalla visione del mondo esterno a quello interiore. Dalle rivelazioni del sacro alle manifestazioni dell’inconscio e dell’onirico. Fino al volteggiare nel sogno del ‘Decalogo’ finale. In fondo ancora un’epifania. Ancora ‘Il dio dentro’. Poiché, ed è sempre Hölderlin a ricordarcelo, l’uomo è un dio quando sogna.
Da: UNA VISITA A HÖLDERLIN
Musa
Musa,
stanotte ti piace giocare con me
e ti diverte – ne sono certa –
la mia incapacità di leggerezza.
Tu sai le vicende della terra e del cielo stellato
e passi lieve:
puoi dirmi perché altro non so fare
che coniugarmi su confuse ossessioni,
siano anche – ora – gli occhi chiari
e visionari
di Wilhelm Kempff
in mezzo alla Tempesta di Beethoven?
Il dio dentro
Un dio a volte di notte
mi tiene compagnia,
mi sussurra all’orecchio tutti i tuoi nomi
e poi – un prestigiatore non potrebbe di più –
li trascina giù dentro
a sorsi infocati.
Sottovoce sibila una litania
e pasticcia malinconia in mania,
ossessione in beata visione.
Il teologo, turbato,
ha già pronta una definizione
che pare una diagnosi letale:
trasfigurazione consustanziale!
Ma lui, divelto il chiavistello della notte,
guizza via flessuoso in una maschera di luce.
Solo in certe mattine zitte zitte d’estate
siede su una panca di Borgogna
a masticar litanie,
le mani compunte in grembo
per un dolce scempio
e una cocolla pietrosa
calata fino in fondo
su un volto senza volto.
Da: UNA LEZIONE D’ORCHESTRA
Mahler metropolitano
Fagotto scordato di un fusto nano,
Mahler metropolitano
in un tristeroico azzurro di castello!
Porge l’oboe il la e verrà
verrà un accordatore
a intonare svariare emendare.
Non senti come scuote l’asfalto il corista?
Pare un rabdomante
in cerca di una vena profonda
che trovi infine nel baccano
l’armonia delle acque d’Oceano!
Da: IMPROVVISI
***
“l’allegoria del mito” recita il testo
e gelido rimane e impassibile
l’occhio di neve come un dio
***
guardami con occhi visionari,
fa’ che sia in questa mezza luce,
ti prego, chi non sono
***
minaccia giorno,
in un rapido gorgheggio tutto il buio d’inverno,
le stanze come un sogno di Baudelaire
Da: FUNAMBOLESCO MUSICALE
***
Manca sempre qualcosa
perché qualcosa sia,
nulla è mai
che niente importi,
le notti intere
e un giorno pieno mai.
Scivola di mano
la fiaccola alla sera
e cade
dove tu non vai.
Decalogo
Scrivi un rondò per Praga
o se vuoi, una ballata;
prendi il bastone e va dentro alla giuncaia
dove lirica fa rima con sterpaglia,
e tu buttala sulla brace universale
finché non fa più male.
Impara a vagare
dove non sai chi sei,
suona la glassarmonica
e coppa dopo coppa scoppiala:
bello è lo scoppio e il non restare,
come in sogno caracollare.
Daria Gigli, nata a Firenze nel 1949, ha insegnato Letteratura greca presso l’Università di Firenze. Si è occupata di onirocritica greca anche con un approccio psicanalitico, di retorica di età imperiale, ma soprattutto di poesia epica tardoantica nei suoi vari sottogeneri di poesia mitologica, cosmogonica, oracolare-teologica, innodica ed ecfrastica. Predilige lo studio della poesia a carattere filosofico e in particolare di tradizione platonica e neoplatonica. Oltre a numerosi contributi su riviste scientifiche nazionali e internazionali, miscellanee e Atti di convegno ha pubblicato i seguenti saggi:
Metafora e poetica in Nonno di Panopoli, Firenze 1985
La ‘Cosmogonia di Strasburgo’, Firenze 1990
Nonno di Panopoli, Le Dionisiache (Canti I-XII) Volume primo. Introduzione, traduzione e commento di D. Gigli Piccardi, Milano BUR 2003 (che ha avuto varie ristampe. Sua la direzione scientifica degli altri tre volumi che completano l’opera)
Giovanni di Gaza, Tabula mundi. Introduzione, testo critico, traduzione e commento a cura di D. Gigli, Alessandria. Edizioni dell’Orso (in corso di stampa).
Per quanto riguarda la poesia ha pubblicato la raccolta “Una visita a Hölderlin”, Moretti&Vitali, 2019.
Per nodi e passaggi
Le pagine di NT (nessun tempo) di Alessandra Greco si mostrano come luogo connesso e continuo di una ricerca linguistica articolata secondo i principi topologici e, insieme, di una scrittura desiderante in tensione verso la totalità. Una scrittura labirintica e rizomatica che non avviene su uno spazio piano, bensì su una superficie non orientabile, ottenuta modificando la pagina, e sé stessa, senza strappi né lacerazioni. Senza prima né dopo. Dove il movimento continuo non ha successione temporale. Senza sotto né sopra. Dove, per penetrare nel profondo, non si può agire rovesciando il visibile. Occorrono invece varchi. Passaggi psichici, esistenziali. Porte. Una ‘porta del passaggio’ che si declina, tra le altre, nella ‘porta profonda’ come in quella ‘del rifugio’, nella ‘porta della fenditura’ come in quella ‘del mutismo’.
Una scrittura che si prende perciò cura dei nodi critici e delle connessioni. Con un bisogno di sovrapporre sopra stati liquidi o indistinti, quali acqua, sogno o suono, precise reti di relazioni con grafi e nodi, ‘rami e archi’. Reti e nodi insieme topologici e quantici. A deformare la realtà, a cercarvi il reale nascosto. Un’esigenza che appare evidente nelle immagini prodotte dall’autrice, in apertura agli otto ‘settori-nodi’ in cui è articolata la raccolta. A mappare l’insieme così come ad affrontarne le zone ignote, non mappate. In modo che possa emergere una visione altra del visibile e dell’invisibile, dell’onirico e dello psichico, del desiderio e del mistero. Senza le prospettive separate del soggetto e dell’oggetto. Come fossero, questi, figure topologiche dove l’uno si deforma nell’altro. Così come si modificano e trasformano reciprocamente la corporeità e la coscienza, la vita e la morte, il compreso e l’inconosciuto, nei loro passaggi e nelle loro reciprocità e connessioni.
E la sfida, che ne consegue, appare il tentativo di portare anche il linguaggio a figura topologica, facendone deformazione continua, non solo strumento conoscitivo o poetico, ma esso stesso modificato e modificante l’apparire. Tra fluidità e nodi, la scrittura di Alessandra Greco introduce varchi e passaggi, consente transiti. Creando ponti e relazioni. Schiudendo porte di accesso. Aprendosi soprattutto all’inconosciuto e all’imprevedibile, in ogni tentativo di riconfigurazione o interpretazione che comporti «una rinuncia al ‘rifugio’ trovandosi sul limite di ciò che può venir compreso».
Da: porta del passaggio
(nessun tempo)
il corridoio limbico ha numerose porte che corrispondono ad altrettante possibilità
le porte sono chiuse
si osserva aprirle in successione e richiuderle senza varcarle
l‘osservazione di quello che c‘è oltre le porte non è pervenuta
apparentemente osservatore e osservato non hanno una reale possibilità di incontrarsi
altrimenti si produrrebbe l‘immagine
forse si incontrano e si dimenticano subito dopo forse si produce un‘immagine che
tuttavia non ricordano
non hanno immediata coscienza l‘uno dell‘altro perché la scelta viene sempre rinviata
ciascuna porta è bianca da un estremo all‘altro non si vuole essere simili
l‘esperienza insegna che per differenziarsi da qualcosa bisogna averne percezione
oltre le porte vi sono possibilità che l‘osservato si produca se l‘osservatore lo compone
deve poter mettere un riferimento lasciare una giacca un odore una storia
allora potrebbe svegliarsi e sapere di aver fatto un sogno che lo riguarda molto da vicino
--- -- - potrebbe parlarne - -- --- -- - --
Da: (SETTORE-NODO I) porta profonda
(BALEEN) lupo_struttura dell’abitare in superficie
• PARTE CHE DESCRIVE LA STRUTTURA ANIMALE
spazio parola forma accesso a
profondo baleen lupo Nūn et Mīm et
et lungo facciate forma enti evocate
fulgore igneo vampa fluente corpo forma parola
ombre passanti nel ritaglio di tutte le figure
dentro del bianco del giorno del nero della notte
tracciare. 3 evoluzioni off & vedere accesso a senza istruzioni per mostrare il rientro dentro corpo a incasso corpo entrata a natura tendineo connettiva erba e olfatto liquida messa se stessa in un frame quasi trema
nienet. varco in metropolitana sul circuito aperto dal corpo vedente al corpo visibile che ha fatto della voce risonanza in forma di profondo e altezza macchine dorso treni convessi all‘orecchio in rilievo di ossa e sinovie del corpo grande capacità di sistema filtro forma trachea e apparati tempie goût a goût pelle sistema dorsale e udito sequenza di tutte le figure di volo e caduta verso l‘immane fondazione de eredità et iter sagoma – vela di quello che resta
[…]
Da: (SETTORE-NODO II) porta communicans
Nodi
Contrario alla folgore che riceve l'istante, il silenzio sottomette il tempo.
Un nodo, in generale, deve avere tre caratteristiche:
la semplicità di esecuzione,
una buona tenuta,
la possibilità di essere sciolto agevolmente.
• NODO SENNEH
dicono che nel silenzio si nasconda sommessamente tutto ciò che è passato
teleidoscopio minuscola piccola ballata un piccolo giro nel bosco attraverso
praterie e ripidi sentieri miniatura fortificata nel cuore risolto quando ha lasciato
allora il distacco sul colore
l‘image – di quello che era prima – non corrisponde più alla sua descrizione
è un déjà vu
con moltiplicati rami e campi gruppo doppi
simula inquadrature di situazioni familiari nodature
(contigue al corpo in modo da
formare angoli
di spola sul retro verso della pelle) – l‘apertura si cangia e si assorbe
[…]
Da: (SETTORE-NODO VIII)al lato della carne_ramo aggiunto (pars addita)
nessun tratto di penna può percorrere senza salti una e una sola volta il percorso dei
sette ponti di Königsberg
la soluzione a questo primo problema di topologia fu data dal matematico Leonard Euler nel 1608
sarebbe stato necessario costruire un ottavo ponte una riconfigurazione
le riconfigurazioni non hanno sempre conseguenze prevedibili comportano una
rinuncia al 'rifugio' trovandosi sul limite di ciò che può venir compreso
--- questo approssimarsi – disnodarsi – frantumarsi ---- teorie delle frontiere e incidenti di frontiera ---- includendo in habitat ---- anche strettoie in cui non vi sia autonomia ---- mutando forma -- in ogni caso autoregolandosi con la rapidità del proprio tempo di pensarsi ---- ridisponendo ---- porosità ---- ché le diverse interpretazioni – a volte non si intendono – ---- – se si insiste eccessivamente si soffre
la colorazione indica di solito l’origine di una disarmonia
ci sono aperture immediate che lasciano passare con facilità altre porte vagliano nient‘altro che fili sottili come la seta i più piccoli cambiamenti
e questa continuazione
Alessandra Greco, Roma, 1969. Vive e lavora a Firenze.
Ha scritto Del venire avanti nel giorno, Libro Azzurro (Lamantica Edizioni 2019). La memoria dell'acqua_Grésil sur l'eau pour faire des ronds, silloge finalista al Premio Lorenzo Montano XXVII Edizione (2013), Opera Prima Poesia 2.0 (2014). Press Soundtrack_Colonne sonore dalla cronaca, racconti brevi, per i Quaderni di Cantarena (2012), ai quali l‘emittente Ryar Web Radio ha dedicato la puntata n° 26 della trasmissione Scritti Parlanti condotta da Stefano Ferrara (2013). Rabdomanti (2016), a contributo per il sito Descrizione del Mondo, Installazione collettiva d'immagini, suoni, scritture, a cura di Andrea Inglese. Couplets, Relazioni tra i recinti e l'ebollizione (2016) con le sonorizzazioni di Luca Rizzatello (soundcloud. com/couplets). La OT Gallery, spazio installativo virtuale, a cura di Giulio Marzaioli, ospita un suo contributo, International Date Line_Meridiano 180° (2014), sulla linea del 180° meridianoterrestre. Ha realizzato performance e letture con attenzione al suono e la sua ricerca si è estesa alla fotografia.
Ha ideato ed è tra i curatori del festival PartesExtraPartes, micro-rassegna di musica sperimentale, scritture e arti visive (Firenze, 2018-2019).
Suoi testi sono antologizzati in oomph! – contemporary works in translation / a multilingual anthology, vol. 2 (2018), nella traduzione di Marcella Greco, e in Poesia di Strada 1998/2017 (Seri Editore 2018). Sue scritture sono apparse in riviste e lit-blog tra cui “Carteggi Letterari”, “eexxiitt.blogspot.com”, “Nazione Indiana”, “Niederngasse”, “L‘Ulisse”, “Versodove”.
Nel vibrare della lingua
Una parola oscura e illuminata, profonda ed eterea, cosmica e prossimale, colma di sonorità e di visioni, quella di Marica Larocchi che, in Polveri Squame Piume, conferma il suo percorso poetico, introducendovi nuove immersioni nelle risonanze e nelle vibrazioni originarie del cosmo e del dire. Le dualità che, insieme ad elementi di fulgore, avevano caratterizzato, a partire dal titolo, le precedenti raccolte, tra le tonalità della parola e del mondo, gli elementi del macro e del microcosmo, lo splendore e l’impervio della materia reale ed esistenziale, qui si fanno tripartite e apparentemente più opache. In un’opera che mantiene lo stretto legame, intrecciato in precedenza, tra l’universale e il particolare, l’eco dell’enigma e la complessità del dire, ma che vi intensifica gli elementi di mutazione e di trasformazione.
Composta da quattro sezioni in scrittura poetica e una centrale in versi sull’arte di Mosè Bianchi al lavoro nel duomo di Monza, tutta la raccolta ruota sui processi compositivi - cosmici, artistici e poetici - e sulle loro disgregazioni. Tra Polveri, materie dell’origine e del dissolvimento, Squame, elementi di metamorfosi e di trasformazione, e Piume, palpiti dei nidi e dell’altrove. Nuclei del formarsi del mondo e residui della corrosione del vivere. Materiali dell’arte, anche. E della parola. Minimali, ma vividi e risonanti. Ad esprimere le vibranti mutazioni cosmiche e interiori. Gli strappi e i disordini. Le passioni e gli attriti. I vuoti e le rigenerazioni. Dopo «vacanze agli inferi o scorribande nell’orto». Ora tra «zoppia dei versi» o «sopra l’orizzonte del soffio più audace».
In una lingua fulgida e plurisemica. Concentrata e dislocante. Dall’affondo fermo e arrischiato e dal riverbero interminato e lieve. Una parola perturbata, quella di Marica Larocchi. E sempre illuminata, anche quando il materiale si fa più essenziale e dolente, meno sfolgorante. Quando prevalgono ‘polveri’ e ‘squame’ su ‘oro’ e ‘cobalto’, ‘rugiada’ e ‘cristalli’. Quando viene chiesto alla parola di spogliarsi di orpelli, di farsi cicatrice del lutto e di varcare «nell’ultima capriola lo spiraglio che s’apre vorace sul preludio dei fulgori. Là, ogni furore, ambascia e ustione potrebbe finalmente valicare la griglia dei segnali, mente e soggetto abrasi».
Da: L’ALTRA PLACENTA
1
Prima del senno mattutino promettiamo di triturare afflizioni e cilici, anche se qualcosa ci storna, ci transenna, quasi un divieto bleso o l’indice virtuale di chi ha gia centellinato la sua pozione di melassa e zolfo. Lei ci accoglie, ospitale come un prudente orzaiolo; c’invita a svuotare il sacco, a rimuginare il fato con sillabe disarcionate. Poi ci tranquillizza affinché ci prepariamo insieme a doppiare l’etimo più rischioso del passaggio in salotto. Allora: eccoci appesi al filo dei pronostici, imbozzolati dentro la gerla greve di sinapsi ancora in germe.
Ci avverte che non udremo né il bisbiglio dei bulbi sotto le membrane, né lo squittio stroboscopico di memorie contumaci: nemmeno un rantolo di foia che si squami dalle sue commessure sapienti. Sentiremo, piuttosto, uno strappo di cedole molli, di frazioni o di eclittiche in mezzo al disordine di antiche decalcomanie. Oppure sarà come se l’orma del suo dito ci rigeneri nel menù variabile dei cicli, degli zodiaci sempre impegnati nelle loro staffette… Nascite mercuriali, quindi, per sinossi fosforescenti e vaporose.
7
Il vaticinio, infine.
D’ora in poi: esentati dal soggiorno nel monolocale periferico con modanature di orazioni in rilievo tutt’intorno alla buia cavea del cuore. Altro che zaffiri e lapislazzuli! In realtà, lei l’aveva gia affittato senza scrupoli d’oblio a un giovane, inquilino insigne, ma per brevi scadenze... In effetti, se consenzienti, non fruiremo più di visioni avvampanti né di ricambi d’alfabeto. Niente più vacanze agli inferi o scorribande nell’orto. Invece fileremo, senza interruzioni di carattere, il nostro bozzolo di vocali asettiche, di dittonghi al minio, di ricicli e tremoli come dentro le minugia di una larva ad interim, per diatesi tronche tra crepe di acidi, capriole basiche e lampi corrucciati, immutabili. Da vera amica, ci assicura che ci sarà accanto per sempre, come rosa alla tempia per caso sfogliata senza antonomasie sul bordo di borragine smorta.
Da: NEL PAESE DEI TOTEM
5
Si. Li abbiamo visti slittare insieme sopra la cute metallica dei sogni dentro piroghe di corteccia e muschio; e nel berretto, penne d’aquila reale per incidere profili allucinati. Filavano via – ve l’assicuro – più impercettibili delle comete traverso l’arco di Ulisse all’orizzonte.
Notizie di qui? Avvistamenti a iosa di scafi e carcasse per la fame adunca di vampiri nababbi, quasi sul greto d’agonie in frantumi. In effetti, Caronte mai rinuncia al suo turno di guardia sulla battigia dove ragli e litanie fanno da contrappunto agli esiliati d’ebano a cui spuntano in premio cuori occhiuti.
Da: AUTOBIOGRAFIA
9
Del resto, dovete infine accasciarvi qui, sul foglio. Anche se vi esorto a disperdervi adagio come certi semi prillati fuori da capsule gremite di desideri in conflitto, di giubili dolenti e di appelli desueti. Ormai àptere, piumette o caruncole di misteriose transverberazioni, ora non siete che trottole minuscole al loro estremo volteggio prima dell’approdo - della caduta? - sopra questo silenzioso candore dove già s’intravedono tracce spettrali, prossime e remote.
Spogliatevi d’ogni orpello, imprimetevi, dunque, colate come bronzo fuso, minuzie mie! Fatevi cicatrice, solco e memoriale del vostro medesimo lutto; e, pari a effimere fiacche, varcate nell’ultima capriola lo spiraglio che s’apre vorace sul preludio dei fulgori. Là, ogni furore, ambascia e ustione potrebbe finalmente valicare la griglia dei segnali, mente e soggetto abrasi.
Da: SOPRALLUOGO
13
No, non è una resa. Vorremmo scalare ancora il dorso gibboso di certi suoni male pronunciati, quasi sfiato di mantice frusto; e infine issarci con agile piede sopra l’orizzonte del soffio più audace; ma i tracciati ormai sbordano sulle mappe di questa dizione, quasi per un colpo di frusta. E noi, svelti, c’immergiamo nello scafandro di penombre abilissime a compattarsi contro luci irrimediabilmente in fuga dalla reticella ormai fiacca del nostro appetito.
Viene da lontano; è qui, accanto all’avida fonte del nostro vuoto, e rintocca come voce piena.
Marica Larocchi, lombarda di madre slovena, vive e lavora a Monza.
Ha pubblicato diverse raccolte di poesia, fra le quali Lingua dolente (Milano 1980, Premio Cittadella 1981), Fato (Milano 1987), Solstizio in cortile (Novi Ligure, 2009), La cometa e l’ibisco (Varese, 2013), Di rugiada e cristalli (Ferrara, 2017); opere in prosa narrativa e saggistica, da Trieste (Verona, 1992) a Rimbaud, un racconto (Lecce, 2005), da Luogo e formula, per una lettura d’Illuminations (Lecce, 2009) a Fantasmi (Lecce, 2013).
Ha curato e tradotto Primi versi e Ultimi versi di Arthur Rimbaud, un’Antologia dei poeti parnassiani (Oscar Mondadori, Milano 1992-1996); opere di R. Radiguet, di P. J. Jouve, di Charles Baudelaire (Milano 2005-2012) e L’infinitude di Jean Flaminien (Ferrara, 2012, Premio per la traduzione, Universita di Bologna 2013).
Collabora a riviste letterarie italiane e straniere con testi in poesia, in prosa e traduzioni
Nel rovescio delle parti
Quale scenografia viene messa in opera da Vincenzo Lauria in Teatr/azioni per dare luogo ai gesti poetici che capovolgono cliché e stereotipi? Si tratta di metateatro? Oppure di un teatro nel teatro? Qui, in realtà, la parola non si fa riflessione sulla rappresentazione scenica, né messa in atto di un’animazione dell’assurdo con l’abbandono di trame e linguaggi consueti. Qui la parola si fa propriamente teatro: «luogo/non luogo» di pubblico spettacolo. E insieme azione-non azione. Un’azione che spalanca e rovescia sé stessa, riuscendo a mettere in luce non solo quanto si nasconde dietro le quinte, ma quello che, nel suo ribaltamento, ogni volta accade davanti ad esse. Invisibile però ad uno sguardo che colga solo l’apparire e non quanto, «per un andar del vero / in opposta direzione», si mostri al contrario «irrealisticamente verosimile».
Tutto, nel retroscena come «nell’al di qua / del vero», dalle scenografie alle luci, dal palco alla platea, dalle prove ai monologhi, dal plauso all’inchino, viene sottoposto, «di cliché in cliché», a continue mosse di capovolgimento. Così, sulla scena-non scena teatrale, viene eliminato il sipario, il palco diventa platea e viceversa, gli spettatori diventano attori e ad applaudire è un pubblico assente. E così la parola entra in azione: rovesciando cliché e luoghi comuni, con continui colpi di scena. In una finzione, implicita nel senso stesso del recitare, come del resto dello scrivere, che viene ribaltata da un’ulteriore finzione, da questa annullata e, nello smarrirsi del senso apparente, condotta ad un senso più veritiero.
Non solo la parola fa di sé teatro e, insieme, antiteatro. Il poeta fa di sé stesso teatro e antiteatro. Nel rovesciare le parti, si ritrova «Innanzi al palco / far la propria conoscenza» quando “fatale è lo svelamento / per l’inganno si dice il vero / e in suo onore / il saper stare al gioco / si fa baratro». Con una particolare modalità di scrittura, Vincenzo Lauria mette in scena veri e propri coup de théâtre nella realtà e nella propria interiorità: dallo svelare le finzioni del visibile al ricercare un senso oltre a quello apparente, fino alla discesa nel proprio abisso. E il tratto che ne caratterizza la scrittura, quello di separare con barre oblique le parole al loro interno ponendone in luce la pluralità semantica, evidente già nel titolo, trova in questi testi il suo significato scenico e insieme più autentico: spalancare ogni volta il sipario dell’apparenza che vela ogni parola, mostrando la scena nascosta dei suoi doppi, multipli sensi. La sua voragine. Il suo baratro.
TEATR/AZIONI
(Il teatro, luogo/non luogo, percorso, di cliché in cliché,
al buio di una maschera)
¶
L’inconsistenza
ci traccia nel non essere
in lunghi avvita/menti
è nel chiamarsi
un rinnegarsi per i conosciuti nomi
per apparire al solo desueto.
E in quel cappotto a quadri
scalderei nuda la mia ri/conoscenza
il sapersi per un verso bisbigliato
in bocca/scena.
Farò di me teatro
per un voler di sorte
senza un sol sipario,
fuliggine nell’aria
nel tutto retroscena.
Cliché II
La messa in scena
Pavide le menti
i para/venti
collimano con lo svelarsi
poco a poco
un négligé oblige
la noblesse d’âme à se détruire.
La mise en scène
au ralenti – dice un improbabile vero
mentre piove il virtuale.
S’intingono le pelli
di mutanti colorazioni
e nell’accingersi
segna la distanza il plauso mancato
per l’aprirsi al pubblico
di un boudoir privato.
Cliché IV
Il palco
Scale
dai gradini di neve
l’algido apparire
di me a somiglianza.
In recitar respiri e pause
solitudini escludi
e ammanti l’aria del circostante
di un’aura
nell’imminenza d’altra presenza.
Contar fra il pubblico
di un rapimento in maschera
e quel che è
non rassomiglia al nulla
al privato accaduto
al viso degli astanti sfigurato.
Innanzi al palco
far la propria conoscenza
salire
e scontar di verità la penitenza.
Cliché XIII
La scena
La ricostruzione della scena
sa di delitto annunciato
le maestranze si curano del luogo
per il replicarsi delle parti.
S’incendiano le luci
nel tratteggio delle sagome
e il sangue scorrendo ancor
si fa spettacolo.
Il movente oscuro
nell’infittirsi del mistero
accresce il campo del sospetto
l’indizio dice di un unico colpevole
tra il pubblico cadavere
Cliché XVII
Il plauso
Chiuse sale
in raccoglimenti
prima di un inizio.
La voragine ci sospende ai bordi
prima dell’attrazione,
fatale è lo svelamento
per l’inganno si dice il vero
e in suo onore
il saper stare al gioco
si fa baratro.
Confondersi al fondo
in uniforme annullamento
né luci violeranno i contorni
per la mimesi in corso.
La voce narrante rimase muta
per un sorprendersi sul palco
l’andar in scena di un pubblico scrosciante
nel colmare il vuoto dello spettacolo.
Vincenzo Lauria inizia nel 2001 la condivisione del suo percorso in Stanzevolute, gruppo di 11 poeti selezionati da Domenico De Martino. Dal 2010 collabora con Liliana Ugolini ai progetti multimediali “Oltre Infinito”. Ha collaborato dal 2012 al 2019 con l'associazione Multimedia91-Archivio Voci dei Poeti.
La sua prima raccolta edita "Teatr/azioni" (Puntoacapo Editrice) è stata finalista al Premio I Murazzi (8^ edizione) e al Premio Lorenzo Montano (34^ edizione).
Nel 2021 ha pubblicato con Liliana Ugolini la raccolta "Oltre Infinito" (La Vita Felice) che ha ricevuto la segnalazione speciale alla 35^ edizione del Premio Lorenzo Montano.
Suoi testi sono presenti nel periodico on-line "Carte nel Vento" e nel blog "Casamatta".
A crudo del resistere
Non appare tanto la messa in luce di parametri per affrontare la ferocia del vivere, lungo le ascisse e le ordinate del vissuto e del sociale, come il titolo dell’opera di Fabrizio Lombardo, Coordinate per la crudeltà, indurrebbe a pensare. Quanto piuttosto, parrebbe, una messa a nudo, o meglio a crudo, seguendo l’etimo di crudeltà, dei nodi irrisolti del sentire dal punto di vista di chi tale brutalità, esplicita e implicita, subisce. Senza poter trovare criteri di riferimento per resistervi. In più, avendone perso o scordato le coordinate. Appare una precisa scelta. Non solo e non tanto un mettere l’accento sugli elementi di violenza del potere storico-sociale contemporaneo come delle avversità che sottraggono affetti e speranze. Quanto posizionarsi su un piano altro: quello del riconoscersi, operando un ribaltamento di prospettiva, nella percezione di tutto ciò che è falso, mancato, dimenticato.
Nell’oscillazione del senso, nei rovesciamenti dei punti di vista, nella sottrazione progressiva del dire. Rovesciamenti che appaiono visivamente nelle barre oblique interne ai versi ad evidenziare, nella separazione di dati ribaltati o contrari, il capovolgimento continuo, in «questo disfare/ e trattenere», della percezione e del sentire. Tutto mostra segnaletiche e confini e tutto sfugge, resta indecifrabile. Nel dolore personale, «lasciandosi dietro la vita intera». Nei percorsi esistenziali delle ‘false partenze’ e della mancanza di un «punto fermo / o coordinata da ricordare». Nel sociale degli spazi commerciali e del profitto dove con maggiore intensità si mostra la ferocia della «dittatura del contemporaneo». In una continua sottrazione, che è anche «sottrazione di sé».
La parola è crudele? Sicuramente nel dire del potere, nel «freddo tagliente delle frasi fatte», nel mescolare «vergogna e vita vera con la sintassi / della menzogna». Tanto che Fabrizio Lombardo, di questo svendere parole, non può che dichiarare: «Non chiamarlo progetto di poetica / geometria binaria, o gioco d’ombre». Non conosce invece crudeltà, se non il mettersi a crudo, quando la parola ammette la propria insufficienza, quando si mostra a nudo, quando riconosce che «solo la dissonanza ci descrive». Ed è proprio questa posizione, etica e poetica insieme, ad apparire in piena luce: un dire senza potere, senza ordine né geometrie. Poiché mettere ordine non è compito della poesia. La poesia non si muove per coordinate. Lascia libere le discordanze, la loro intensità, la loro resistenza, il loro dolore.
Da: FALSE PARTENZE
***
È molto più onesto ora farsi da parte, dirsi fuori quota
per gare come questa. Ammettere che non è il terreno
adatto. Che è stata solo una falsa partenza. Dire
che la pazienza è andata. O anche scrivere
delle solite cose, ripetere i fondamentali
e risparmiare fiato per i giorni che verranno
per l’ennesimo novembre di silenzio e allenamenti mancati.
***
Ora che la geometria dell’occhio mostra la città
tra le rette parallele dei binari cominceremo
a contare gli anni, le voci e i silenzi, gli addii
che lì si sommano. Grammatica del vuoto/ snodo del futuro.
D’estate, la sera, qualche volta si vedono le ombre
venire da lontano/ passarci il cuore da parte a parte.
***
Scrivo il falso – spesso – e svendo le parole
mischiando vergogna e vita vera con la sintassi
della menzogna. Non chiamarlo progetto di poetica
geometria binaria, o gioco d’ombre. Serve più coraggio
a vivere i pochi gesti possibili/ quelli rimasti.
Qualche respiro preso in prestito. La notte, nelle case.
***
solo la dissonanza ci descrive. un modo per dire
che tutto quello che è venuto a mancare – non l’amore
intendo (non qui), ma il rancore/ la gola che brucia,
la voce inceppata, raccolta dietro i vetri,
fra i libri, o fra le giunture delle mani – è un altro
silenzio ancora/ una memoria che dobbiamo – tu e io –
mescolare a questo rumore/ perché possa appartenerci ancora.
Da: COORDINATE PER LA CRUDELTÀ
***
Nella camera solo la resistenza dell’aria contro
le vetrate. Tu sai quello che mi consuma:
il vento freddissimo/ l’attesa. Inutile
spostare il cappio che indosso come un regalo
d’addio/ molto alla moda però. I nervi
ancora fuori posto. La traccia curva lasciata dalla luce
confonde/ cede a questo falso lirismo/ irrita anche le parole.
***
Ho dimenticato ancora una volta le coordinate per la crudeltà.
Riprovo con i vetri aguzzi, il ghiaccio tra i denti,
l’incertezza/ la resa. Abito vestiti soliti.
Con poche sfumature di grigio e di nero
per mimetizzarmi meglio con la ghiaia davanti a casa.
***
raccogli la mia morte senza nessuna parola
cercando di non concedere saldi all’esistenza ed evitare
sconti alla vita. almeno oggi, metti ordine alle cose
rimaste indietro, pulisci casa, indossa la mia ombra.
***
ora che anche il verde è venuto a mancare
rimane solo il muro, qui, appena fuori dalla porta.
ti ho cercato anche oggi, ma con pudore,
sperando che non ti accorgessi di nulla
nascosto tra le righe scritte storte a matita,
in apnea dentro ai giorni. storti anche loro.
***
Provo a spezzare questo dolore in due parti
come pane appena fatto. Lento, mastico la mia
e faccio briciole della tua sperando che i merli
ne mangino. Che non ritrovi la via di casa nostra.
Da: PER I GIORNI DI PIOGGIA
***
senza dare peso alle cose. a nient’altro. in questa
stanza chiusa come per un trasloco fatto in fretta.
contare i giorni/ la vita arrugginita alle pareti
e cancellare ogni traccia. dire di non esserci
stati. dentro alla storia. in questi anni. abitare
l’ombra/ e perdere. anche quel poco.
Da: RETAIL
***
Continua a chiedere se voglio un’altra birra il grassone
dietro al banco nella Zum Uerige a Düsseldorf. Tra facce
d’affari e ubriachi abituali ripenso
a come quello che abbiamo visto oggi sarà superato
e vecchio tra pochi anni. L’innovazione degli spazi
commerciali – siamo qui per questo – suonerà vuota
dentro al freddo riflesso dello smart shopping:
dittatura del contemporaneo/ monopolio di mercato.
***
Piove cenere. Con trent’anni di meno fotograferesti
questo sole mancato, questo cielo da Instagram
nel tentativo di una descrizione in atto. La questione non
è più privata. Ti è concesso solo di guardare la serratura
né buco né chiavi. Ricominciare da capo. L’ululato dei lupi
che non sono lupi, tutt’attorno.
Fabrizio Lombardo (Bologna, 1968), ha fondato nel 1994 “Versodove, rivista di letteratura”. È direttore operativo di una catena di librerie. Cura la rassegna di poesia Passaggi di versi all’interno del festival di saggistica Passaggi (Fano). Ha pubblicato Carte del cielo, (VersodoveTesti, 1999), di quello che resta (Fara,1998), Confini provvisori (Joker, 2008) e Coordinate per la crudeltà (Kurumuny 2018): finalista al premio Tirinnanzi, segnalato ai premi Pagliarani e Bologna in lettere.
È presente in: Il grande blu, il grande nero (Transeuropa), Sesto Quaderno di Poesia Italiana (Marcos Y Marcos), Ákusma (Metauro) Parole di passo (Aragno), Parola Plurale (Sossella). Suoi versi sono apparsi su Il Verri, Poesia, Tratti, Atelier, La clessidra, L’Ulisse, e su numerosi quotidiani.
Ha curato le note del volume Yellow, di Antonio Porta (Mondadori)
Passaggi a livelli
Quanti piani si intersecano in Levels, opera in cui Alberto Mori esplicita alcuni livelli e altri ne lascia intravedere? Appare un graduarsi dal basso verso l’alto, evidente nei titoli delle tre sezioni: ‘low’, ‘medium’, ‘high’. E, insieme, un convergere dei livelli, nel punto in cui si incontrano i desideri del cielo e della terra, come viene anticipato dalla poesia, posta in esergo, di Kikuo Takano, che nell’immagine dell’albero fa confluire, in una sola, le forze opposte di cima e radice, quale unità dei contrari nell’intero. E, ancora, un mantenere i piani in equilibrio, dall’etimo stesso di livello, come esemplificato in alcune poesie a due colonne separate e allineate, in contrappeso come una bilancia a due bracci oppure come una livella. E, nello stesso tempo, un posizionarsi ad un livello di soglia, che i passaggi testuali lasciano scorgere, per l’accesso, in sequenza e insieme in affinità, al principio, al corpo, all’oltre.
I livelli appaiono mobili, spesso invisibili, come viene dichiarato in premessa: «Livelli mobili scompaiono alterni». Scandendo i transiti, gli attraversamenti, le contaminazioni nei tre specifici stadi in progressione. «Verso radici senza immagini»: lungo le impronte e le tracce dei passaggi e della scrittura nell’estensione orizzontale delle acque, delle strade, dei fogli e dei loro sostrati oscuri, in ‘low’. «Fra gli sguardi del corpo»: attraverso gli affioramenti di natura e civiltà, da cui emergono le luci e «la voce sfarina», nella dimensione corporea, in ‘medium’. «Nel volo avveduto di sole arie»: tra orbite e «nubi oscure all’aria / Invisibili al segno terrestre», nella tensione verticale verso la sospensione e l’assenza di gravità, in‘high’.
Attraverso la compressione essenziale del senso e il distillato della parola, Alberto Mori prosegue la sua ricerca nel concentrare elementi concreti e rarefatti, quali stazioni e silenzi, vagoni container e balzi d’umore, creando microtesti densi e ariosi al tempo stesso: «Valichi bianchi sopra il foglio / La mano mancina scrive aria / Rarefa grafia esitata e ripresa». Dove i movimenti poetici coinvolgono la percezione della realtà esterna come della corporeità, della mente, dell’inconscio. E anche, nei suoi diversi livelli, della parola: scritta, a voce, pensata. Se l’oralità è il punto di forza dell’autore, gli altri livelli, di pensiero e scrittura, sono ugualmente e intensamente presenti. Quale in basso e quale in alto? Come per l’albero di Kikuo Takano, nella poesia si incontrano, fino a coincidere in un’unica forza, i desideri della terra e del cielo, delle profondità e dei voli, delle radici e delle cime della parola.
Da: Low
Prelude attesa per bikers
Immagine franta dai tempi espositivi
Struscia sfreccio curvo del passaggio
Crome sfocate nella pedalata sottile del ritmo
***
Le ruote ormai improntano il foglio
Fra le tracce sulla carta
scrive di non conoscere gelosia per lei
La ama da sempre
Lo scritto resta a perire sulla ciclabile
***
Le spalle delicate
Valichi bianchi sopra il foglio
La mano mancina scrive aria
Rarefa grafia esitata e ripresa
***
La stazione disgrega inagibile
Qui preme tempo naturale
Incrina strati
Accorda piccoli sterpi nei sassi
dove fra efflorescenze sparse
respirano silenzi d’aria e polvere
Da: Medium
Corpo seduto Capelli disciolti
Dalla nuca equilibrio in riannodo
***
Dove sticker non incolla & scrosta
il millimetro mancato sillaba
La voce sfarina sulla pellicola del muro
***
Qui puro balzo d’umore vitreo
materia traluce spaiata dai bagli
L’altro lato senza ottica rifrange
***
Nell’aria umida profondano margini bui
La piccola strada discende e risale
Le luci affiorano vicine e lontane
Da: High
Gravità dissolta
Tempo dismesso
Perdura vacante
***
Il buio dilegua alla prima luce
La terra allenta ombre
Depone arie accese
Concresce cielo
Millimetri di spazio
Corpi migrati dalle sillabe bianche
***
Tratto illetto
Nuvola illesa
Piogge papille
Lingua nasconde
Ripassa veglia
Neutro crea
Sapore del cielo
***
Ondulo diviene solco radiale
L’anello ruota ad accerchio
Orbita
Porta nubi oscure all’aria
Invisibili al segno terrestre
Alberto Mori, Crema 1962, poeta performer e artista, sperimenta una personale attività di ricerca nella poesia, utilizzando in interazione altre forme d’arte e di comunicazione.
Dal 1986 ha all’attivo numerose pubblicazioni. Nel 2001 Iperpoesie (Save AS Editorial) e nel 2006 Utópos (Peccata Minuta) sono stati tradotte in Spagna.
Per Fara Editore ha pubblicato: Raccolta(2008), Fashion(2009), Objects(2010), Financial (2011), Piano(2012), Esecuzioni(2013), Meteo Tempi (2014), Canti Digitali (2015), Quasi Partita (2016). Minimi Vitali (2018), Levels (2020). Nel 2017 Direzioni (edizioni del Verri). Dal 2003 partecipa a Festival di Poesia e Performing Arts fra i quali: V Settimana della Lingua Italiana nel Mondo (Lisbona, 2005), Biennale di Verona (2005 e 2007), IX Art Action International Performance Art Festival (Monza, 2011), Bologna in Lettere (2014, 2015 e 2016 e 2018). La produzione video e performativa è consultabile nell’archivio multimediale dell’Associazione Careof / Organization For Contemporary Art di Milano.
La lingua di un nuovo occhio
In un intarsio di prose poetiche, tra scrittura del quotidiano e tensione all’altrove, si compongono le tessere di LILITH. Un mosaico. Novantanove frammenti, raggruppati in tre parti di 33 tasselli ciascuna, in cui Davide Nota dispone un materiale smembrato e plurimo, denso e fluido insieme. Isolando, nei reperti di un montaggio che infrange il succedersi della narrazione, inquadrature sul visibile, vivide percezioni e stati di coscienza. A partire dalla messa in crisi della visione e della decifrazione della realtà, poiché «Difficile vedere. Ma descrivere è impossibile». Ed evidenziando le diverse fenditure che attraversano ogni tentativo di ricomposizione. Poiché la tensione verso un intero sempre irraggiungibile, così come ad un divino inaccessibile, chiamato in causa anche nella numerazione dei frammenti, può solo manifestarsi attraverso brani, tasselli, lacerti.
Lilith, figura che si declina nei suoi molteplici aspetti, quale demone nella religione mesopotamica o prima donna creata per l’ebraismo o simbolo dell’emancipazione femminile, trova nell’opera la sua contemporaneità. In una storia smembrata tra città di provincia e aule universitarie, ordinaria quotidianità e suspense, depravazione e trascendenza. Mentre la scrittura, che attraverso una registrazione neutra ne costruisce il montaggio, si pone sul bordo di più sguardi, tra fisico e inconscio, mitico e metafisico. Nel fitto di contaminazioni e metamorfosi. Dei soggetti, delle storie, dei pensieri. Del quotidiano e del mito, del visibile e dell’oltre, dell’etico e dell’estetico. Poiché «Esistono stadi lucidi della coscienza in cui anche la più turpe depravazione torna ad essere raccolta tra gli eventi estetici della materia che muta».
Anche la lingua subisce metamorfosi, a partire dall’essere una voce muta. La parola del poeta è muta, necessita di un passaggio estremo, di una radicale, rinnovata espressione, visiva e sonora. Contro il linguaggio abusato della comunicazione ordinaria, infrangendo e variando l’ordine delle cose, Davide Nota cerca uno sguardo iniziale e una lingua inedita. Un occhio inconscio e sorgivo per una parola libera, ibrida e vitale. «Qual è la nuova lingua del nuovo occhio?», si chiede l’autore. Disseminando, in risposta, molteplici indizi: la «vitalità dell’improvvisazione», il montaggio spontaneo di «nuovi reperti» e “brandelli di repertorio», così come «(il “gesto” di un “suono”)», con cui viene identificata la poesia, e ancora il suono stesso, «il flusso musicale, non un ritorno all’ordine, ma alla canzone». Nel trapasso dello sguardo. Nel collasso dell’alfabeto, mentre torna alla sorgente.
Da: Lilith
4.
L’inquadratura è pianificata per omettere ogni elemento riconoscibile della stanza. Un individuo non esiste più, è solo un lembo di camicia, una cerniera di jeans che si apre come un binario un binomio due brani speculari di tessuto anonimo da cui sporge oltre la terra nera il fallo lombricoso della rovina è una testa indigena da leccare assieme in cerchio. Lo guardo come un altro me che avviene in questo specchio elettrico striato dai pixel della connessione. Chi agisce non si sa. Lilith scrive: “quanti anni hai”. Endimione risponde: “42. e tu?”. “21”. Si slaccia il reggiseno e lascia rotolare le sue mammelle ruvide africane nella visione.
12.
Le foglie cadute di notte di chi erano da chi sarebbero state raccolte? Noi eravamo così impassibili di fronte a un troppo grande mistero. Camminammo alla ricerca del sentiero che conduce ad un’antica quercia. (Essa apparì così come l’avevamo immaginata.) Oh se la vita fosse questo eterno esterno oh se la vista fosse questo esercito di occhi erosi rossi parassiti assedianti il travertino poroso tra i coppi di sangue dove una rondine cadde sul tetto era il cielo sognato una volta di stelle al contrario era un petalo forse di oleandro o di geranio tra le dita spezzato ma non ridere di me ti prego non riderne. Lui dice una rosa era di certo un petalo sanguinante tra le crepe purpuree della grotta e fuori un grande mare immenso scintillante e sempre il sole. Ti ricordi? Per questo (dice) sono giunto a te, Cibele. Lei risponde la mia vita è la morte precedente di un dio. Quando l’immagine nasce l’eternità è già corrosa. Ha inizio il grande esodo nella separazione.
25.
Non c’è oggetto sacro senza un altare. E non c’è altare senza uno spazio vuoto da attraversare. Il miracolo è in te che ti fai viandante in questo eterno errare dal silenzio a un silenzio più esteso. Dacché il dio non rispose rispondendo per te una risposta più grande.
26.
Perché un occhio significa un albero. E un albero è la sua tribù di sacerdoti e fabbri. Essi furono deposti dal dio a custodia della soglia. Ma una soglia è visibile solo dopo un labirinto. E attraversare il labirinto significa danzare. Eppure la danza non è realmente una danza. Ogni rivelazione ci è data attraverso immagini che la circondano.
32.
Difficile vedere. Ma descrivere è impossibile. La torre in una nebbia gotica. Petra tossisce, chiude la porta della stanza, carica un pezzo dei Black Sabbath su youtube. Era tutto di una banalità tragica. Gli ombrelli riaperti agli scrosci, tutto franava si inzuppava era impossibile mantenere una distanza dalla decomposizione. Io non avrò mai una casa disse (pensò). Era in treno. Era distesa sul letto di una stanza universitaria. Un occhio denutrito che non vede, vede. Scopare (dice) fino alla morte dell’io. Un organismo monocellulare che si espande fino a sciogliersi, questa è la mia dipendenza, my addiction is this obscenity (oskené) (fuori di scena) (fuori di me).
Da: Giorgio uccide il drago con la forza del pensiero
56.
Quando dicesti: Tutto sarà inghiottito dal sisma solare, prepariamoci. Il nostro fine è questo: precipitare al centro di quell’occhio nero. Iride. Questo significa volare.
Ho raggiunto l’orizzonte degli eventi. Anello dove il tempo si riposa mentre lo spazio, suo fratello, muore. Allora torneremo in uno a ritroso leggendo come capovolti la legenda dell’icona.
(La nuova prole di metallo e ottone circumnavigherà la nostra estinzione.)
64.
Lenisci le ferite metafisiche.Lei chiuse la sua bocca cavalcandogli il volto. Perdette così anche l’uso della parola.
Da: Legenda dell'icona
74.
Il filosofo rivela l’apocalisse, la sua parola è fine (il fine, la fine; aggettivo e sostantivo). Il suo ghigno è feroce e anche nel gioco è inconsolabile. Il poeta prega la palingenesi, la sua parola è muta.
80.
Una lingua del silenzio. Non uno stare in silenzio ma un adibire il vuoto. Per abitarlo. Essere in grado (nella grazia) di silenziare l’abbaglio storico.
87.
Così è la poesia (il “gesto” di un “suono”), questa nemica naturale della comunicazione.
88.
Lirica, ibrida. In polimetria e libertà rimica trobadorica, dove la rima muti agevolmente in assonanza. Data una norma la vita assume senso nella sua infrazione e variazione spontanea. Ciò che conta è adesso il flusso musicale, non un ritorno all’ordine, ma alla canzone. (Nella vitalità dell’improvvisazione, che ciò che non cerca trova.)
Davide Nota è nato nel 1981 a Cassano d’Adda, in provincia di Milano, da padre lucano e madre marchigiana. È cresciuto ad Ascoli Piceno, ha studiato a Perugia e ha vissuto a Roma per alcuni anni. Nel 2015 si è trasferito a Macerata. Ha pubblicato i libri di poesia Battesimo (LietoColle, 2005), Il non potere (Zona, 2007), La rimozione (Sigismundus, 2011), l’ebook I rovi (2016) e una raccolta di racconti dal titolo Gli orfani (Oédipus, 2016). Ha svolto alcuni esperimenti di video-arte installativa con il duo Ermes Daliv (Amateur, Uno (Trittico), Come crescono le piante la notte) e di teatro multimediale con il Collettivo ØNAR (Ppss). Nel 2019 è uscito per Luca Sossella Editore il romanzo di poesia Lilith. Un mosaico.
In morte e in vita della lingua
Alcesti si fa figura. Certo, lo era già, personaggio mitico e protagonista della quasi-tragedia di Euripide: personificazione dell’amore disinteressato fino alla scelta della morte al posto dell’essere amato. Fabio Orecchini, però, in Figura ne fa, da soggetto di una trama, emblema di una molteplicità di sensi, sdoppiamenti, finzioni, creazioni. Figura dell’inquieta condizione esistenziale, della ricerca identitaria, dell’alterità e dell’incorporeo, così che «nelle pause dire l’altro sommessamente adire abito un nome non un corpo […] un io / residuo». Figura quindi da modellare, dall’etimo stesso di figura e del suo tema in fingĕre, plasmare. Fingere e fingere di fingere. Figurare e sfigurare. Figurare altrove.
I titoli delle quattro sezioni, in cui si articola la raccolta, ne evidenziano i molteplici piani. Dalla tanatomorfosi di ‘cercatemi e fuoriuscite’, dal richiamo rosselliano, ai canti figurati di ‘la circostanza del doppio’, dallo stralcio della ‘deposizione di Admeto’ alla vertenza di ‘essere pendente’. Piani che polarizzano sdoppiamenti e divari. Con la ripresa dei frammenti del testo euripideo e, per contrasto, nell’assenza di continuità con cui ne vengono rielaborate le sequenze. Con l’inserimento di citazioni poetiche e, insieme, dei linguaggi della contemporaneità. Con accenti sulle opposizioni tra visibile e altrove, vita e morte, corpo e incorporeità, presenza e assenza, figura e controfigura. E con l’uso di registri plurimi: poetico ed etico, estetico e giuridico, lirico e politico. Nei quali si evidenzia la pendenza sul falso e sul vero. Il condurre a dimensione storica la lingua e la vicenda mitica. E, nello stesso tempo, portarla altrove. In un figurare che si modella e rimodella rispetto all’identità, all’altro, all’oltre.
Anche la parola si fa figura. Un canto figurato del dire-non dire, di una voce che, per Fabio Orecchini, «detenga detenuta | diurno il regno dell’ombra». Una voce che accetti di morire e poi di tornare a vivere trattenendo in sé la morte. Una parola che, nella responsabilità di dire, metta in discussione la comunicazione ordinaria e abusante, attraverso i «guasti metrici», paradigmi dei guasti esistenziali e linguistici. Così da definirsi in una poetica del plasmare se stessa e il proprio canto in figura, non tanto nella forma classica del testo scritto, quanto in quelle della voce recitante e della parola visiva. Nel farsi figura, come Alcesti, dell’incorporeo e dell’ombra. E, insieme, dell’incarnazione del dire negli inferi della violenza storica. Da cui uscire alla luce. Rinascendo al mondo colma del proprio autentico tornare alla lingua.
Da: cercatemi e fuoriuscite | tanatomorfosi
“...tre giorni al confino Alcestina
tre giorni e tutto torna come prima..”
***
al dire lontano
che fu sapersi detta, circoscritta nella forma o figura
appena pronunciata, figurante asservita alla scena
appena trascorsa -evocata- qualcuno provi a soccorrermi
a sfigurarmi
almeno, figurarsi altrove
***
fuoriuscita dalla prigionia
neuma dei morti anche il vento impietrito, addio addii,
interdetta risata della notte-abituro del dire cercatemi e
fuoriuscite mi dissi ha detto ripeti o, rientrare nel covo
covo mortalmente chiedere ai restanti minuti di vivere
soltanto, il tempo di morire
***
dopo nei giorni
ritrovi ancora schegge -parti di parti di un discorso- o più
semplicemente ora, la gola è un gelo l’arcata del cielo
non detiene, le viscere calde amputate sul pavimento e
poi il lutto
pulire ciò che detto, le parole buttate sul letto
***
Le voci plateali
a fare peso, dove tutto è solo forma già compiuta nelle
pause dire l’altro sommessamente adire abito un nome
non un corpo o ancora un filo che attraversa un io
residuo uni-sonante come un silenzio elettrico
uno sparo, siamo deserti fertili di bombe
Da: la circostanza del doppio | canti figurati
S t a s i m o / libera trascrizione per cori da Euripide
***
Si segnalano guasti metrici.
***
Vita è già presso?
ombrosa notte sopra gli occhi
crepe le mani d’ombra muove Alcesti
braci, acconsente che s’avventi
l’inverno e l’infezione
se taci, si, resti
per quanto cercassi, nulla vidi mai
che più forza avesse della morte
della vita gli incanti d’Orfeo la voce estinta
Da: deposizione di Admeto | stralcio
***
Oltre il canto figurato pura funzione del volo i suoi passi
figura tangente i corpi dati ad usodi norma
del vero, di circostanza
dai piedi ombra un rapace si tende ai miei passi, pura
finzione del volomi figuro tangente la norma
del vero, della decenza
***
il sospetto che a mentire sia il verdetto
imputata la parola il giudice il corrotto
dimmi Alcestina dimmi
l’inferno bianco Alcestina, color di falena
Da: essere pendente | vertenza
***
se poi parliamo siamo ombre
di parole, o dentature
a calco, per masticazioni
brevi, non vere, Alcestina,
scadenti risa attonite
al trapianto dell’anima
***
si disse altro per non dire oltre:
***
La sua voce detenga detenuta | diurno il regno dell’ombra
Fabio Orecchini (Roma, 1981) è poeta, antropologo, artista. Ha pubblicato Dismissione (Luca Sossella Editore, libro+cd, Roma, 2014),Per Os (Sigismundus editrice, Ascoli Pieno, 2017) e Figura (Oèdipus, Salerno, 2019). Suoi testi sono apparsi su numerose riviste tra cui Alfabeta2, Versodove, L’Ulisse e Nuovi Argomenti ed è presente nel documentario GenerazioneY – Poesia italiana ultima prodotto da Rai5. Ha eseguito installazioni site-specific in spazi quali l'Ex G.I.L di Campobasso, il Palazzetto dei Nobili de L’Aquila, la Mole Vanvitelliana di Ancona, e,a Roma, presso la Biblioteca Nazionale, l’Accademia d’Ungheria, il Teatro Argentina e la Fondazione Primoli. Con l'installazione TerraeMotus si è aggiudicato il Premio "Elio Pagliarani" 2018. Con alcune opere inedite si è aggiudicato il Premio "Poesia di Strada" (XVII ed.) e il Premio "Città di Gallipoli". Collabora con la rivista Argo e la casa editrice Argolibri, per la quale dirige la collana "Talee"; ha inoltre curato la prima edizione italiana di After Lorca di Jack Spicer (Gwynplaine/Argo,2018) e il volume L'altra voce (Giometti & Antonello, 2019), epistolario della poetessa argentina A.Pizarnik.
Olografia dell’erranza
Parlare di erranza quando, a partire dal titolo, l’opera Tavole e stanze di Ivan Schiavone ci conduce a immagini circoscritte sul foglio e nella realtà, potrebbe apparire incongruo. D’altro canto l’errare e il dimorare si mostrano, nella raccolta, quali polarità della condizione umana, in cui «randagio sotto il sole della mutazione va l’uomo» e le delimitazioni di rendono necessarie come «argine al nulla». Mappe etiche per affrontare la ferocia del presente storico, stanze esistenziali per assaporare l’abitare nell’altro. Dove non si smorza però la percezione dell’erranza, dell’estraneità esistenziale. E dove il linguaggio «è orma in cui l’uomo nominando incede / quale estraneo nella sua propria casa a cui la lingua non nasconde, ruba».
Quali tavole, quali stanze spalancano i versi? L’apertura delle tavole, da un atlante multiforme, illumina un quadro di assenza, scissione e sradicamento. E, insieme, un bisogno di riparazione, come in Giappone l’uso dell’oro per colmare le crepe di un vaso. Tavole e stanze preziose, allora. Riparatrici e riverberanti. Tavole e stanze del mondo. Del visibile e dell’oltre. Dell’uno, del mistero. Come della barbarie e della corruzione. Anche tavole e stanze interiori. A segnare la divisione dell’uomo dall’uno e il suo riflettersi nell’alterità. E ancora tavole e stanze della lingua, dove la parola veicola assenze e, «nel miraggio della totalità, veicola il proprio essere riflesso».
Il riflesso crea dislocamenti continui, riverberando una realtà a più dimensioni. Quasi fosse il fascio di raggi laser di un’olografia e, insieme, il suo riflesso speculare. Che la raccolta appaia simile ad un’olografia, come, del resto, dal suo etimo, diviene interpretabile fin dall’accento iniziale: «tutto nel tutto s’intrica e compenetra». Anche se poi la totalità è un miraggio e del reale non si conosce tutto, «soltanto gli istmi e i margini del nostro linguaggio / all’interno del quale solo accadono verità ente ed evento». Il fascio di luce appare allora essere la parola poetica. Nelle tavole e nelle stanze della lingua, nel loro montaggio labirintico, «attraverso la maieutica del discorso caotico», la parola di Ivan Schiavone mostra i suoi riverberi. Non solo riflessi però. La parola appare propriamente l’oro che, sul piano poetico, illumina. E, sul piano etico, ripara.
Da: postulati e apostasie
tutto nel tutto s’intrica e compenetra, dalla brama d’inerte della macchina
alle rotazioni lungo le ellittiche, mosso e irretito in una sola legge
l’infinitesimale e l’infinito, animato da un palpito, da un soffio
lo spirare manifesto nel verso di una bestia, nella lingua che traccia
un perimetro in cui la nostra psiche edifica, schermo al reale, il mondo
lucerna effimera per scarno lume contro le ampie volte della notte
***
non possiamo che trovare rifugio nell’immaginario e in esso abitare
poiché di tutto ciò che è a noi più prossimo la contemplazione ci annienterebbe
della realtà conosciamo soltanto gli istmi e i margini del nostro linguaggio
all’interno del quale solo accadono verità ente ed evento, ed il mondo
la disponibilità assoluta, è orma in cui l’uomo nominando incede
quale estraneo nella sua propria casa a cui la lingua non nasconde, ruba
Da: tavole da un atlante
dall’assenza, dalle scissioni, dall’anestesia, dai deradicamenti,
dall’ibrido; talmente fragili
che ogni passaggio di intensità minima — quando un vaso si rompe,
in Giappone, connettono le crepe con dell’oro
riparandolo
chiamano questa pratica kintsugi — come dopo forzata apnea il respiro
come quando comparsa l’ascia a un cavaliere
lasciate le redini
rimessosi all’istinto del cavallo
estinta la volontà
affidato a — tre gocce di sangue stillò sulla neve lo squarcio dell’oca ferita dal falco
il rosso ed il bianco (mysterium coniunctionis) —
per nostalgia della sposa perduta
di una fanciulla smarrita
che non impresse mai traccia sulla pelle del mondo
in cerca di un corpo
reale
e interiore al contempo
su cui verificare il collimare del riflesso — all’alba, attoniti, per stordimento
per il disparire lento dei fantasmi
all’acuminarsi dei raggi
tra le feritoie dei cumulonembi — per nostalgia di un futuro terso
ci siamo consegnati a vicenda testimonianze d’orrore
di dolore
quasi — sino al punto più estremo del viaggio
il ritorno
lì dove sorge la nostra casa
e a noi la nostra immagine assomiglia
***
a Adriano Padua
non sappiamo più nominare il fuoco
per non essere noi da tempo prossimi
al fuoco — o
per troppa prossimità al domestico
all’addomesticato — o per la vanità
uno dei modi della fame
uno dei modi della ferocia che dilania questo tempo
in cui agape è lo scandalo
aggressione l’abitudine — o come il giardiniere
che al ritmo circadiano della cura
contrasta con la forma il naturale — astro assurdo
sordo all’urlo
mezzato da un balcone
da un fiore in controluce — indugiando tra le crepe
tra le tracce materiali del conflitto
non tra crolli ma tra moniti ad occuparsi della statica
— e formiche che si agitano
tra i decori floreali di tovaglie impressionate
dalle cene e dagli avanzi — prestasti ascolto al suono e il mondo scruti
di quel dolore avendo pena
per compassione
all’ascesa rinunciasti — quando tra le navate di una fabbrica
l’empatia tra i bassi, l’alba e le sostanze assunte
disegnava le mappe chimiche dell’estasi — riposando in te sereno
in te radiosa tra i gesti minimi
di un quotidiano che la fame estingue
— nella convalescenza del cielo e dei suoi influssi
Da: variazioni artiche
da moto impercettibile i lembi discosti, frammenti
frammisti percorsi da fremiti tra il vasto ed il vano
pianissimo, poi piano si spaia
il bianco coeso, una linea affilata che si staglia
a orizzonte, scissura in cui filtra una luce da strozza
che scucendo riduce il paesaggio ad un raggio introflesso
a mosse menomate che alternano soste e latenze
al passo di una lenta carrozza
avvolta dall’alone soffuso emanato da un vano
nel piano elemento isolato che impressiona un tracciato
sull’elitra esile del ghiaccio
Da: cantico piano
soltanto per celare la dimora che a me fu disvelata dal tuo sguardo
la quiete in sé vibrò, per risonanza, e fu la luce, fu, dal cosmo all’atomo
la legge che sorregge la meccanica perfetta del reale, fu splendore
soltanto perché sia in stella binaria il nostro centro, i nostri fuochi e l’orbita
***
trasfigurato hai in iconostasi dei quotidiani oggetti la presenza
l’acqua, il tavolo, il letto, gli indumenti compresi nella luce per te acuita
che non adombra usata consuetudine di scale anzi rischiara, sino al limite
il punto a cui s’arresta la domanda e il dimorare è quiete ed evidenza
Ivan Schiavone (Roma, 1983) ha pubblicato : Enuegz ( Onyx, Roma 2010 e, in versione ebook, 2014), Strutture ( O èdi pus, Salerno/Milano 2011), Cassandra, un paesaggio ( O èdi pus, Salerno/Milano 2014), Tavole e stanze ( O èdi pus, Salerno/Milano 2019). Ha curato diverse rassegne letterarie tra cui Giardini d’inverno e Generazione y – poesia italiana ultima (da cui il documentario omonimo realizzato da Rai5); ha diretto, con la poetessa Sara Davidovics, la collana di materiali verbali Ex[t]ratione per le edizioni Polìmata. Dal 2016 dirige per la casa editrice O èdi pus la collana di poesia Croma k.
La parola estrema
Tra le falde di parole innevate. Di paesaggi oltre. Nell’affondo delle tenebre. E nel preludio della fioritura. Così lascia le sue tracce, sulla pagina bianca, Lupa a gennaio di Massimo Scrignòli. Nello stesso tempo, assecondandone altre, percependone i richiami, «seguendo della lupa di Gennaio le tracce delle prossime notti». Nell’aprire la parola al mistero. Nel corteggiarne l’ombra gravida, come la sposa, insieme, predestinata e rivelata. Così il plenilunio di gennaio, quello che per i nativi americani è la Luna del lupo, segna il periodo dell’attesa, «l’ingresso docile degli occhi nella neve oscura», e del silenzio, «un silenzio maternale», fonte degli atti creativi della riproduzione come della produzione poetica.
Il paesaggio, visibile e invisibile, percepibile e interiore, è disegnato dal biancore e dall’attesa. Dall’assenza e dal desiderio. Dalla morte e dalla rigenerazione. E dalla musica. Tutto è avvertito, dai sensi e dalla mente, attraverso la visione e l’ascolto. Un sentire che consente di vedere. E viceversa. Un vedere e un sentire oltre. Un oltre che giunge imprevisto. Tra i fondali dove affiora «l’anfratto di un dio dimenticato». Nell’apparizione di cose e animali come aperture significanti. Sotto la pelle, dove «se anche l’infinito finisce […] si muore nuovamente». E ancora, e soprattutto, nella rivelazione che risveglia la verità, il suo «valore indiviso». Anche se non manca la sua attesa continua, quando, nella tensione verso di essa, «conquistare il contorno di un vuoto è di nuovo spostarne le origini».
Tra questi estremi, nell’attesa del vero e nell’apertura al suo manifestarsi, si muove la parola. Non il linguaggio ordinario che ha il compito di dire, ma una lingua sempre sull’orlo dell’albore e dell’annuncio. Come «rugiada quando abita la soglia». Parola dell’origine e dell’oltre. Mentre la storia, invece, «inganna la meta». Parola del desiderio e del rivelarsi. Anche se manca sempre qualcosa tra il visibile e l’invisibile, tra il verde ostinato di un prato e «l’aria che respirano i morti». La scrittura poetica di Massimo Scrignòli raccoglie, nell’assenza e nell’attesa, questo respiro intermedio. Il respiro che avverte il soffio del principio, il respiro su cui «la morte si è arresa». Attraverso una parola che, proprio come la lupa, lascia le sue tracce, tra gli echi di René Char e di Paul Celan, su pagine dense di «fiducia in questa lingua che ci parla». Una «parola che non deve dire». Una «parola estrema, qui, ritrovata».
***
Poi sarà l’improvviso. Musica. Non suo-
ni in punta di penna; musica da leggere
sull’impronta, come solo spiraglio dentro
l’oscuro del sentire quel Tu che lúmina la
fiamma delle urne di Primavera.
E le ombre, tutte, incendia.
Così io muovo. Vado dove sono.
1.
Così anche noi. Scendendo alla nave
con la marea del giovane naufragio già
pensavamo alle alture e alle rocce nel
deserto. Eppure anche noi, senza averle
sentite, stavamo seguendo della lupa di
Gennaio le tracce delle prossime notti.
L’oltre arrivò imprevisto: il ritorno verso la
fronte.
2.
Ha inizio nuovamente in una parola.
Viene da lontano, la sola che atterra da
un silenzio maternale. E respinge ogni
possibile teoria, fino a quando il fondo,
in noi, diviene cima.
Niente altro se non tutto questo è il
grano sotto la neve, in Gennaio.
11.
Cercando il marmo oscuro di Paul, diviso
tra il canto dei corvi ingigantiti dalla
pioggia e l’inizio inseguito, avanzano
verso di noi pochi piccoli sassi colorati:
un nome dorato scritto con il nero latte,
sette schegge di specchio tedesco, neve
fossile ghiacciata.
Tutto invita verso il lato più scuro del
cielo, nell’ultimo retablo dell’anno. Ar-
cipelago in movimento e già rallentato
dalla parola estrema, qui, ritrovata.
12.
E nonostante ritorna, tutta, ritorna,
l’acqua ammutolita della Senna. Per
concessione suprema di Eraclito questa,
oggi, è quella stessa acqua. Così anche
noi continuiamo a toccare il freddo del
gorgo, che solleva lo sguardo oltre il viso.
Nell’attesa della parola che non deve dire
c’è l’istituzione della rugiada quando
abita la soglia. Come una madre, prima
del fianco ostinato della foglia.
23.
Tuttavia si avanza togliendo. E conqui-
stare il contorno di un vuoto è di nuovo
spostarne le origini.
Anche Novembre non lascia più cadere
le sue foglie. La storia accelera i nostri
passi, ma da lontano ci sopravanza e
inganna la mèta.
26.
Tuttavia mai, mai sapranno che è scrit-
to. Anche questo non sanno. In nessun
momento conosceranno. Né potranno
sapere che non siamo ciò che cerchiamo:
ma siamo, per il viaggio dell’arca, il suo
compimento.
Tuttavia mai ascolteranno il sonno
materno della Sposa rivelata: lei sola,
dormendo, dell’alba risveglia la verità.
Questo soltanto: tutto il valore indiviso
della verità.
28.
Insiste a farsi vedere, il sole. Non teme
nessuna malattia incurabile.
Ma in Gennaio, se ci pensi, per unire il
verde ostinato di un prato del nord, per
unire il suo verde all’aria che respirano
i morti, manca sempre qualche cosa: un
sentiero, una scala, o una mano chiusa
piena di neve.
La vita non è tutto.
***
Viene in visita la neve, ma sopra l’Oceano
a Gennaio l’inverno si ritira.
Forse non si potrà mai pronunciare il
luogo silente anche se è stato nominato.
L’indicibile purifica l’azione
corteggiandone la luce.
Eppure dorme, questo secolo: è un sonno
senza sogni, adagiato sul fondale di un
tempo tuttora indifeso dalle antiche
profezie di Vulcano.
E noi non abbiamo ancora messo in salvo
la cenere.
Massimo Scrignòli, bolognese di adozione, vive in provincia di Ferrara. Nel corso di un trentennio di dialogo e collaborazione con i più importanti critici e poeti italiani del secondo Novecento, ha pubblicato, con prefazioni, tra gli altri, di Raboni, Ramat, Pampaloni, Sanesi, diversi volumi di poesia: dal libro d’esordio Notiziario tendenzioso (1979) a Vista sull’angelo (2009), tutti raccolti nel volume antologico Regesto (2014, seconda edizione 2023). Presente in numerose pubblicazioni antologiche e didattiche in Italia e all’estero, sue poesie sono state tradotte in inglese, spagnolo, portoghese, croato.
Ha partecipato ad autorevoli festival internazionali di poesia e letteratura; nel 2006 e nel 2009 ha rappresentato l’Italia all’International Poetry Festival di Zagabria.
A testimonianza di una costante attività culturale, anche come “compagno d viaggio” di artisti contemporanei, sono le edizioni d’arte in collaborazione con pittori di fama internazionale, come Baj, Chia, Benati Pozzati, Bonalumi.
Da molti anni svolge un’intensa attività nel campo dell’editoria, curando e coordinando collane di poesia, critica letteraria, filosofia, in cui sono stati pubblicati, tra gli altri, scritti di Leopardi, Poggioli, Sanesi, Crovi, Porta, Sanguineti, e in cui hanno visto la luce anche nuove traduzioni di Auerbach, Eliot, Tagore, Yeats, Bauchau, Flaminien, Char; sue sono la versione e l’introduzione critica di Relazione per un’accademia e altri racconti di F.Kafka (1997).
Nota per Alle amiche di Patrizia Dughero
In queste poesie Patrizia Dughero rivolge il suo sguardo a fotografie in cui figure amiche di donne del passato, alcune forse conosciute (la nonna?) altre forse no, vengono tutte rese vive e ri-conosciute fin dalle prime parole: “Appena sveglia restituisci/chiarore e lucentezza”. Inizia così un’intensa rappresentazione dove le parole della poesia riescono, avvolte da un incanto di inattualità, a farci sentire quella consistenza aerea che sola può oltrepassare l’incessante fuggire del tempo, con uno sguardo che coglie il prima e il dopo, il vicino e il lontano. Un parlare “oltre” che restituisce la necessità di un tempo mobile e sospeso, in cui passato, presente e futuro si richiamano nel fluire delle immagini. Ed è con questa bella espressione che l’autrice apre i passaggi tra il vedere e il pensare, tra l’osservare e l’immaginare, superando il contesto fotografico verso la meraviglia di una scrittura cristallina che è vita e dà vita. Ad esempio l’amica Luigia, “umile che cerca lume”, dove il chiarore sta tutto dentro la semplicità, la riservatezza che sola può, cercando delicatamente, arrivare non alla luce - che sarebbe un eccesso, un sopravanzare chi possiede solo “poche intime verità”-, ma avvicinarsi a ciò che illumina. E in questo sta la visione immaginativa che realizza una scena fatta di emozione e sentimento, insieme al trasporto che affiora verso una conoscenza rimodellata da una domanda o da un gesto. Provando anche a valicare i limiti dell’immediato, verso le trasformazioni a cui il dire tende per aderire alle cose: senza spazio e senza tempo, in un gioco mai usato di nuove geometrie. Dunque non trasfigurazioni ma relazioni fra sensi e percezioni, e gentili minuscole azioni in tempi e luoghi diversi eppure corrispondenti. Un divenire che rende leggeri e cambia un paesaggio di forme naturali in musica interiore, lì dove “il canto si compone”. Perché la storia personale, puntualizza con precisione Patrizia Dughero, se non ne “percepisci gli oggetti, se non li scrivi”, non esiste ed è solo in questo modo che possono rivivere le esistenze: nei particolari. Ecco allora: lo sgabello di velluto, le scarpe nuove, il fiocco tra i capelli, l’abito frusciante, le calze color panna, i drappi sulle tende (cose di buon gusto, capovolgendo Gozzano, a cui però, siamo certi, sarebbero piaciute queste poesie) che rendono quel mondo unico. Un mondo prezioso, speciale, dove però non è sufficiente il ricordo: ciò che serve è la testimonianza, il segno che imprime l’esserci dentro al “giardino dell’amica con le amiche”. E qui l’autrice cerca negli occhi e tra i pensieri, ipotetici ma veritieri, ciò che pensa l’amica Anna affacciata alla finestra: quasi un’immedesimazione, un abbraccio al passato. Ma anche l’amica Alma, con cui dialoga partendo dalla malinconia di una domanda :”Sarò ricordata qualche volta?”. Mettendo in risalto condizioni esistenziali possibili e sicuramente verosimili, per i luoghi vissuti, le cose sperimentate, la stessa immagine di lei che risalta all’esterno nella sua intima essenza. E allora ecco un’abbondanza nell’infanzia, una carità nell’adolescenza, uno spavento, una colpa e l’incertezza in una sua vita anteriore. Con queste parole, ma specialmente per il modo in cui ricombinano il pensiero in poesia, Patrizia Dughero ci dimostra, ancora una volta di più, come la poesia sia sostanza materiale, una forma di vita anche lì dove sembra esserci solo vuoto. E lo fa attraverso la figura di Livia che riesce, nonostante gli “occhi allenati allo sguardo/verso terra” , e malgrado l’evento della grande guerra che ha travolto il mondo generato per amore , in cui lei si riconosceva, ad accerchiare la realtà con parole buone. Ecco la cura: la capacità di dire, portando una parola di guerra come “accerchiare” al suo contrario, la bontà. Solo la scrittura nella dimensione poetica riesce in questo, ponendo domande che non interrogano ma considerano attentamente la presenza fisica e impellente di un futuro presente al suo passato: Quali parole porteremo, Come finiremo. E allora si capisce perché, insieme all’elenco delle Amiche, nella poesia finale vi siano elencate, solo per nome ma riconoscibili, alcune tra le autrici a cui va la sua gratitudine: “Amelia, Antonia,/ Ingeborg, Elisabeth, Ida e le altre/piene di grazia,/che avete donato fatti al futuro,/non solo parole…” Giorgio Bonacini>09.03.2024
MEME
Un meme decade dal suo detto
avocando in remoti frammenti di linguaggio.
Indescritti “geni egoisti” replicano
nuovo logos, di ogni culto afoni, fecondi
all’insipiente clone gravido di nulla.
Una genetica difforme crea esistenze
mediatiche, relazioni tra realtà e parvenza
del cui stato rituale si imbeve l’esperire.
A spersi fotogrammi divampa
la solitudine dell’imperio straniato
Offusca in diagonale. Confina
ogni lirismo a sua minaccia.
Ruminatio sottesa al violato limen
emersa in sotterfugio linguistico
parafrasi dell’anemico adagiarsi in linea retta.
Abdica oltre il crogiolo temporale
Accogliendo variazioni nel potenziare
sviluppo di istantanee derubricate
alla “Santa Inquisizione “di Sua Vastità la Rete.
Il vuoto campo di liturgie simboliche
in apparizioni devote a lemme sconfinante
il nitore del cogitante paradigma, naufragano
l’Archetipo a messe gravida di scorie emozionali.
Isole emerse da generanti veli sterili
Condensa in stille disarmoniche
Offuscate da torpide allucinazioni condivise.
Rifulge in mugghiante anomalia
Homo sacer asceso in spazi paralleli
“il futuro è solo una malattia dell’enigma”
che promana in dissacrata, spenta liturgia.
Un vocabolario ricercato, attualissimo e antico, attraversa questa poesia di Marina Petrillo: già nel titolo c’è il “meme”, uno dei simboli del nostro tempo, ci sono “esistenze mediatiche” e allo stesso tempo latinismi e termini recuperati da un dire passato.
Tutto questo produce una lingua ibridata, metamorfica, che è la base per la costruzione di un testo che via via diventa una forma di resistenza.
In questa poesia si crea un cortocircuito linguistico tra contaminazioni e versi memorabili: questo spaesamento è lo stesso che si coglie nel suo senso complessivo, come se l’autrice osasse andare sempre un po’ più in là, verso dopo verso. Non c’è tregua, nessuna sospensione: l’opera chiede all’autrice di evitare “ogni anemico adagiarsi”.
No*bis sonavit diabolus (2022)
Cristiana Panella
« Paganini le fantastique/Un soir, comme avec un crochet/A ramassé le thème antique/Du bout de son divin archet/Et brodant la gaze fanée/Que l’oripeau rougit encore/Fait sur la phrase dédaignée/Courir ses arabesques d’or »
Théophile Gautier, Émaux et Camées, 1852
No*bis sonavit diabolus è un’opera dello scultore Gibo Perlotto in omaggio a Niccolò Paganini. cela nel ferro l’alito fatuo del djinn, il genio femminile e maschile di lisiera che stanzia tra selva e villaggio, tra integrazione e disintegrazione, tra il fuori e il dentro, ora doppelgänger, ora entità altra di straniamento. mago ctonio che governa i riti di possessione attraverso la musica, guardiano dell’ombra cui in Africa occidentale i cercatori d’oro si raccomandano con il sacrificio del gallo prima di violare la terra. questo stato di ambiguità liminare affiora dalla copresenza tra la staticità del tavolino e gli spartiti volatili, il violino sospeso per incantamento, l’archetto che interseca il bordo come una linea di fuga. prima di accorgersi che in questo ordine apparente tutto pulsa in un vortice impalpabile. il tavolino stesso, che dovrebbe assicurare una centratura, una simmetria, come nel caso di Le sorgenti di Arturo, opera coeva dedicata ad Arturo Toscanini, ha una vibrazione liberatrice e allo stesso tempo déroutante, cioè che porta fuori strada, su un’altra strada. che porta via. le zampe del tavolino diventano nero malmignatta, l’argia, la velenosa Latrodectus tredecimguttatus, che nella taranta prenderà le spoglie simboliche della più innocua Lycosa tarantula. nella pizzica salentina che animava il rituale coreutico domestico di depossessione dal morso della taranta, il violino era strumento maestro per scazzicare la bestia del disagio, ossia pungolarla, attraverso la danza carnale delle tarantate, i piedi abitati che, come si imputava alle « strie », non riuscivano a chetarsi. la chiave di lettura di questo impercettibile Moto perpetuo, per riprendere il titolo di un’opera di Paganini, è celata nei due spartiti. il Capriccio #24, l’ultimo, il più ardito e arduo, dei Capricci, e Le Streghe, variazione del 1813 sul tema del balletto Il noce di Benevento, messo in scena da Salvatore Viganò, sulla composizione di Franz Xavier Sïssmayr, a La Scala di Milano l’anno prima, di cui Paganini riprende l’annuncio dell’oboe : l’entrata delle streghe e il patto col diavolo.
il foglio del Capriccio si increspa nella curva dell’arabesco. arabesco e fantastico. le arti del Romanticismo considerano « fantastico » il movimento randomico, una fantasmagoria che svela dietro un unico sipario il demonico, la manifestazione del divino nel mondo, l’appuntamento degli opposti di Goethe, e il demoniaco, l’azione mefistofelica che uccide Eros : la bizzarria, lo spavento di meraviglia, il grottesco, l’attrazione che ripugna. il fantasque, intraducibile con un aggettivo solo in italiano, più rutilante del weird. imaginarium di falesia tra bellezza e inquietudine. nel 1790, Christian Steiglitz allaccia le arti attorno all’arabesco mettendo in dialogo gli arabeschi ferici di Raffaello con la romanza picaresca di Ariosto, preparando il terreno alla teoria dell’arabesco di Friedrick von Schlegel, « questa misteriosa aspirazione segreta verso il caos incessantemente al lavoro ». il racconto di Klingsohr, parte dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis (1802), è un viaggio epico alla ricerca del « fiore azzurro » (die blaue Blume), il ricettacolo della forme di conoscenza attraverso il compimento dello stato d’amore. qui il poeta interpreta l’arabesco in termini musicali, descrivendo il movimento sincopato, eppure armonico, di una melodia cangiante che compone immagini sulla tavola dei commensali durante la festa in cui Enrico incontrerà Mathilde, figlia del poeta Klingsohr, riconoscendovi il volto in cui si era mutato il fiore azzurro nel sogno che apre il racconto. un rimando alla magia sospesa dell’oscillazione degli astri, la musica delle Sfere che Berlioz riprenderà nella Sinfonia fantastica (1830), nel solco di von Schleger e del grottesco hugoliano. in particolare, Le Orientali di Hugo (1829) e la sua « chanson de pirates », ispira al compositore quell’« accompagnamento di tempesta » di cui egli scriverà in una lettera del 2 febbraio 1829 all’amico Humbert Ferrand. il ritmo frastagliato del crepitìo di fuoco fluisce così nella Sinfonia e nel suo ultimo movimento, «songe d’une nuit de Sabbat ».
la definizione di Gautier sostantiva un aggettivo federatore tra le arti di alta pregnanza simbolica. pertanto, definire Paganini « fantastico » significa metterlo al centro del maelstrom artistico del suo tempo e del retaggio della sua figura-opera. colui che con il divino archetto del « Cannone », il Guarnieri del Gesù, che Hoffman paragona alla scopa delle streghe, fa scorrere arabeschi d’oro, non è fantastico. È il fantastico. nel bene e nel male. l’editore e critico Jules Janin testimonierà di questo coacervo di astio e ammirazione : Paganini, il « misérable italien » ha rotto tre corde del suo violino per conservarne una sola, « une seule corde pour tant de passion ! Une seule pour toute cette âme ! ».
fedele alla linea dello svelamento del quotidiano, No*bis sonavit diabolus restituisce il reale meraviglioso, quell’ipermetropia delle anime capienti lontana, tuttavia, da un iperrealismo distopico e ipertecnologico. un occhio di veglia che ha disimparato, che si è dilatato nella materia accogliendo l’esperienza estetica, la senzienza di una semplicità verticale. Gibo è estraneo alla natura gotica e bifronte di Paganini, al suo artificio di stupefattura. è figlio delle terre interne del Vicentino e del Trevigiano. calca le orme di cima di Rigoni Stern, di Meneghello, di Zanzotto, artigiani della luce che abbracciavano il creato dalle radici attraverso i suoi araldi di umiltà, quelli che fanno cintura : le bisacce di trincea, gli scarponi, il silenzio. « un tempo povero, sì, ma ricco forse di altre cose che abbiamo perduto », scrive Rigoni Stern sul complesso scultorio di Gibo « Memoria contadina » (2001). dal ferro, nella sua restituzione della venatura, della grinza, della crepa, prende forma una riconoscenza ecumenica, una fedeltà alla vita che si incarna nei doni del creato attraverso un’ars che non soverchia. il cespo di verza di Madre Terra (2013) non è verosimile, è parola del ferro che chiama ‘verza’. così come gli spartiti di No*bis sonavit diabolus, leggiadria paradossale per vulcanizzazione, non sono riproduzione ma specchio « da un’altra lingua ». Gibo e Niccolò, pur appartenenti a emisferi celesti opposti, formano la sfera in quell’intercapedine che è il momentum di creazione, il giusto tempo che avvince intuizione e azione. Gibo sublima un ferro già addomesticato per intenzione chiara, coagula nella forma il soffio di un’anima mundi trascendente che posa il suo sguardo a terra, che diventa immanenza e per bocca delle semplici cose coniuga umiltà e potenza. Niccolò travaglia il ferro interiore : la sindrome di Marfan, identificata soltanto alla fine dell’800, e l’intossicazione da assunzione cronica di mercurio a seguito di diagnosi errate, sempre più invalidante. finché riesce a suonare, piega il suo talento di zoppìa al ritmo scosceso dell’archetto, scazzica l’impossibile tra inerzia e volo. piange sfidando. ognuno a mani sue fa voto.
Riferimenti bibliografici
Gautier, Th. [1852] 1981. Émaux et Camées. Parigi : Gallimard.
Janin, J. 1863. Contes fantastiques et contes littéraires. Parigi : Michel Lévy Frères, Libraires Éditeurs. Projet Gutenberg : https:// www.gutenberg.org
Loisel, G. 2017. « ‘Cette confusion ordonnée avec art’ : la Symphonie fantastique comme œuvre arabesque ». In C. Bayle & E. Dayre (eds) L’Arabesque, le plus spiritualiste des dessins. Parigi : Kimé, 57-73.
Menichetti, A. 1984. « Dal ‘Noce di benevento’ alle ‘Streghe’ », Quaderni dell’Istituto di Studi Paganiniani, 4, 27-31.
Mango, E. G. 2007. « Un muet dans la langue », Annuel de l’APF, 1, 49-68.
Novalis [1802] 1997. Enrico di Ofterdingen. Milano : Adelphi.
Rubycki, M.H. 2000. « Janin e Paganini », Quaderni dell’Istituto di Studi Paganiniani, 12, 37-44.