In cosa credere
C’è qualcosa che resiste nelle interrogazioni di Anna Maria Carpi nell’opera E non si sa a chi chiedere. Così come nelle invocazioni che alzano l’intensità di una scrittura meditativa, pervasa dal senso di impermanenza di tutte le cose e dall’inconsistenza dei riscontri umani. Attraversata dal disagio di fronte alle alienazioni del contemporaneo e alla generale mancanza di umanità. Fino alla difficoltà del chiedere ascolto: «Ma oggi chi sopporta questa piena / da uno solo, da un singolo? / Dov’è più il diritto di dire ascoltami?». Insieme all’amaro riscontro, sia individuale che sociale, per quanto riguarda l’assenza di interlocutori: «Dicono che si scrive per guarire. / Da che dolore? Non c’è più dolore, / solo incertezze / e non si sa a chi chiedere».
Allora a chi si rivolge, nonostante tutto, la poesia? E «perché ci esalta / perché ci dà speranza / questo modo d’esprimerci traslato»? Nell’assenza di fiducia e nella mancanza di ascolto, gli interlocutori privilegiati restano i poeti amati. E, nonostante le disillusioni, rimane ad interloquire proprio la parola poetica con il suo sguardo rivolto agli altri. In questi versi umanissimi, dalla riflessione profonda sul senso della vita, anche quando prevale lo sconforto resiste un’autentica vicinanza. Nell’attenzione ai vinti, ai rifugiati, ai dispersi, condividendone lo stato di erranza e il dolente percepirsi: «we lost in All, noi perduti nel tutto».
E resiste «l’ossessione di scrivere. / Poesia? No, in cima c’è il romanzo: / quella prosa slabbrata ci descrive», scrive l’autrice, riponendo fiducia sulla possibilità della parola di delineare il sentire degli umani. Attraverso una prosa che, lacerata, riesca a tracciarne gli slabbramenti, rispecchiandoli nel proprio sguardo. Mentre la poesia pare necessitare di un confronto diretto con l’alterità, l’Altro-l’altro-gli altri. Con interlocutori imprescindibili, fossero anche lontani, assenti, non contemporanei. Se non ha interlocutori, la poesia come fa, come può? Da qui l’interrogazione: «poesia, sorella pazza / della prosa, / ancora, ancora, che ci stai a fare?». Tutt’altro che un abbandono del campo poetico, però, quello di Anna Maria Carpi. Che, nonostante i dubbi e i disincanti, riesce a trattenere l’incanto della parola. E, insieme, l’umanità del suo sentire. E una scrittura etica che non conosce resa.
Da: GIÀ RISIBILI I NOMI
1
PRIMAVERA NON SAI chi l’ha chiamata
sulla via fuori
dell’ufficio postale. Tra i semafori
esplodono i ciliegi giapponesi
come sessi di bimbe, rosa vivo.
Dai rari lembi d’erba cittadina
guardano in su delle faccine intente
di margherite e bocche di leone
e spilli azzurri – nontiscordardime,
e sulla piazza Sud
davanti alla stazione
è il trionfo dei grappoli maturi
erti potenti degli ippocastani,
una festa regale, pochi i rossi,
i bianchi abbondano, è il bianco delle nozze,
vergini restano solamente i glicini
all’imbocco del parco, nella via parallela,
e tre strade più in là:
esita il lilla pallido, ha paura
di affacciarsi
nell’assoluto di quel verde verde.
Non ti fermi a guardare?
Sì ma per qualche istante,
è così bello
che diventa un tormento.
La natura!
Lo so che io non c’entro.
Io non sono natura.
Da: L’ISOLA
11
IL MARE
qui sotto casa: ascolta,
ha come mani e dita,
sembra scartino e incartino – che cosa?
un messaggio, un regalo?
Di tanto in tanto un tonfo ed un singulto
e sullo scoglio l’onda
schiuma e si spande, poi ritorna indietro.
Che ci voleva dire?
Che è per lei la sponda?
Il senso è al largo, e intanto cala il buio,
e verso terra in fretta con un ultimo
volo prima di notte
anche i gabbiani cercano un rifugio.
Da: I RIFUGIATI
16
SULLA CITTÀ le stelle non ci sono,
qualche puntino in alto, sopra i tetti,
se stacchi gli occhi è subito scomparso,
ma oggi c’è vento, un annuncio di marzo,
e questa sera splendono dovunque,
guarda lassù, c’è Giove, per esempio.
È lo ‘stellato’ che non sa di noi.
“Bello” diciamo, e questa
è la più strana
delle parole umane che ci sia,
nessun altro vivente sa del bello.
Ma non è bello: è vero,
vero e deserto,
we lost in All, noi perduti nel tutto.
E i dispersi
sulle spiagge del mondo
quando viene la notte si domandano:
non era meglio
quando vi scorgevamo la dimora di Dio?
Da: NULLA È COME CREDEVO
44
POESIA: tu lo sai perché si scrive?
È la mano che interrompe la riga,
per impulso ancestrale e va daccapo?
Anche la mano avverte
che il tempo stringe e che non è più il caso
di farla lunga?
Dicono che si scrive per guarire.
Da che dolore? Non c’è più dolore,
solo incertezze
e non si sa a chi chiedere.
47
SUONA SEMPRE PIÙ STRANA la parola
letteratura, in inglese tre sillabe,
gli urli delle platee vanno alla musica
ma non muoiono i nomi –
i casti nomi saggio poesia romanzo
e mai fra noi fu tale
l’ossessione di scrivere.
Poesia? No, in cima c’è il romanzo:
quella prosa slabbrata ci descrive.
Anna Maria Carpi, di famiglia tosco-emiliano-irlandese, vive a Milano. Ha insegnato letteratura tedesca all'Università di Macerata Marche e a Ca'Foscari a Venezia.
E' autrice di saggi, racconti e romanzi (fra cui Vita di Kleist, Mondadori 2005, Rowohlt 2011, e Uomini ultimo atto, 2016) e traduttrice della lirica tedesca (tra cui Nietzsche, Rilke, Benn, Bernhard, Gruenbein), premio Ministero dei beni culturali (2011) e Città di S.Elpidio (2015), premio Carducci (2015).
Nella poesia esordisce con A morte Talleyrand (1993, premio Pisa 1993), cui seguono Compagni corpi(2004, 22005), E tu fra i due chi sei (2007), L'asso nella neve (2011, 2 edizioni), Quando avrò tempo (2013) e L'animato porto (2016). Da Hanser (Monaco 2015) è uscita l'antologia con testo a fronte Entweder bist du unsterblich e da Marcosymarcos, Milano 2016, il complessivo E io che ancora parlo.Sue poesie sono apparse su "Oktjabr' (Mosca,1998), "Akzente"(Monaco 2001 e 2011), e di recente su "Ulisse", "Nuovi argomenti", "Le parole e le cose".