L’altro da sè
Di quale sofferenza non comune è interamente impregnato il dire di Giovanna Cristina Vivinetto in Dolore minimo? E, insieme al dire, il corpo che vive realmente in sé la frattura della diversità e che nella parola riesce a trovare la possibilità di un’ulteriore nascita?
Certo, un dolore non comune, in questo trittico del pianto, della morte e della rinascita. Sperimentando nella carne, negli organi e nei desideri del proprio corpo quanto filosofi e poeti hanno assunto come paradigmi di riflessione e di versificazione: l’altro, il doppio, l’enigma che si cela dietro l’apparenza, l’invisibile, l’indicibile.
L’autrice ci mostra, in tutti i suoi dettagli fisici ed emotivi, il crescere della percezione dell’alterità che si fa concreta “nel dolore bambino / di avvertirmi a un tratto / così divisa”, nel riconoscimento dell’altro da sé, del “mistero che non si può dire”, del conflitto che ne scaturisce e quindi dell’esigenza di farsi madre dell’altra che chiede voce. In una lunga e sofferta gestazione: nella carne, nel pensiero, nella parola.
Poiché anche i nomi, che “ci scelgono / prima ancora di pronunciarli”, che “legano in nodi / di verità strette da calzare” marcano a fuoco il conflitto e poi la nuova nascita. Dopo la seconda, avvenuta nel dare vita a una figlia da sé, Giovanna Cristina Vivinetto ne mette in versi una ulteriore: portando alla luce il suo essere nascosto, dando nomi alla verità a lungo celata. Del resto, non è proprio questa tensione al vero a rendere autentico, tra indicibilità e apertura, mistero e svelamento, ogni dire poetico?
Da: CESPUGLI D’INFANZIA
A quel tempo ogni cosa
si spiegava con parole note.
Sillabe da contare sulle dita
scandivano il ritmo dell’invisibile.
Tutto era a portata di mano,
tutto comprensibile
e immediatamente dietro l’angolo
non si annidava ancora l’inganno.
La poesia era uno scrupolo
d’altri tempi, un muto richiamo
alla vera natura delle cose.
Così dissimulata da confondersi
con i palloni, con le bambole
dell’infanzia.
In quei tempi non c’erano disastri
da centellinare, difformità
da curare dentro abiti larghi,
padri da rifiutare e nomi
da pedinare in fondo agli stagni.
Finché non è arrivato il transito
a rivoltare le zolle su cui il passo
aveva indugiato, a rovesciare
il secchio dei giochi – richiamando
la poesia invisibile che mi circondava.
Non mi sono mai conosciuta
se non nel dolore bambino
di avvertirmi a un tratto
così divisa. Così tanto
parziale.
Da: LA TRACCIA DEL PASSAGGIO
La verità è che i nomi ci scelgono
prima ancora di pronunciarli.
Sulle pareti, a ridosso delle strade,
nei vasi di garofani e ortensie,
sulle strisce d’acqua che rigano
le finestre al mattino, sulle
scarpe allacciate, sui pulsanti
dei campanelli, nelle stazioni
in disuso. Su tutto si coagula
un nome. Tutto ne risplende.
E chi fugge dai nomi sappia
che non si sfugge alla nominazione
perché i nomi legano in nodi
di verità strette da calzare,
costringono in sillabe da pronunciare
a detti stretti. Da far male.
I nomi che mi hanno scelta
non trovarono angoli da rischiarare.
Cessarono presto i significati
mentre ero intenta a scavare in ogni
lettera. Speravo nelle eccezioni,
in costrutti arcani da indagare
per darmi un senso.
Ci rinunciai e con loro
all’arroganza della definizione.
All’insensatezza di attenersi
alle parole per vedere la realtà.
La verità è che la realtà
dormiva a un palmo dal naso
sepolta da un cumulo muto
di nomi.
Da: DOLORE MINIMO
Per acquietare il male che lo assale
il poeta lo canta. Ne fa bella
mostra nei suoi versi per sbugiardarlo,
quasi a gridargli in faccia l’infinita
piccolezza della sua minacciosità.
Il poeta ha per sé l’arma della luce
a rischiarare i vuoti d’ombra,
le fessure dove s’annida, il male.
Potrai dirmi che si è deboli
mettendo a nudo i vasi incrinati.
La tavola di legno che balla.
Il punto del muro che non regge.
Nessuno – mi sembra udirti – è disposto
a indossare i tuoi dolori come perle
o a portarli in giro come docili
cani al guinzaglio. Eppure è proprio
del poeta indicare col dito
la ferita. I lembi ammalati
che non chiudono. Anche se tu
non assisti, ti sussurra comunque
un segreto che non puoi avere.
Così il mio male si estingue
su ogni mio verso. Lo canto,
lo urlo per liberarlo dal groviglio
di pelle che ha contagiato.
Non voglio che tu lo colga
per salvarmi. Mi aspetto
che lo guardi crescere. E appassire.
Rannicchiarsi sfinito fino a non esigere
più nulla. Mi aspetto che il mio male
non ti faccia più male.
Giovanna Cristina Vivinetto è nata a Siracusa nel 1994. Laureata in Lettere, vive attualmente a Roma, dove è laureanda alla specialistica in Filologia moderna all’Università La Sapienza. Dolore minimo (Interlinea, 2018; Premio Cetonaverde Poesia Giovani, Premio San Domenichino, Premio Europeo Massa, Premio Lord Byron, Premio Senghor) è la sua opera prima, nonché primo testo in Italia ad affrontare in poesia la tematica della transessualità e della disforia di genere. Con prefazione di Dacia Maraini e postfazione di Alessandro Fo, il libro è apparso ed è stato recensito sulle maggiori testate giornalistiche nazionali, tra cui «Il Fatto Quotidiano», «La Repubblica», «La Stampa», «Il Messaggero», «Il manifesto» (Alias, Le Monde Diplomatique), «Il Sole 24 ORE», «Panorama», «Il Corriere della Sera», «La Sicilia» e altri.