Apriamo questo numero con una nota di Laura Caccia sul primo libro della nuova collana di Anterem edizioni, Piccola Biblioteca: “Anacronia / Blood” di Allì Caracciolo.
Mentre qui in premessa citiamo un pensiero ancora inedito di Flavio Ermini: “La parola poetica è determinata dal pericolo che essa affronta più che dal servizio alla vita. Il carattere della sua figura è del tutto astorico, e come tale annuncia un guardare senza io e un amare senza oggetto; annuncia ciò che crea durata senza misurazione, l’intrecciarsi prodigioso del grido con l’ammutolire”.
Senza misurazione, e nella durata della poesia che vale, nel presente numero di “Carte nel vento” riapriamo libri di anni fa, protagonisti al “Montano” 2019, e testi allora inediti (alcuni nel frattempo pubblicati): Leopoldo Attolico, Claudia Azzola, Franca Maria Catri, René Corona, Gerardo De Stefano, Carlo Giacobbi, Angela Greco, Fernando Lena, Carmine Lubrano, Andrea Marinucci, Paola Nasti, Paola Parolin, Antonio Pietropaoli, Federico Edgar Pucci, Alessandro Ramberti, Giovanna Cristina Vivinetto sono oggi con noi.
La copertina è dedicata ad Alberta Pellacani, sempre al lavoro sul versante visivo, e da molti anni attiva anche con il “nostro” Giorgio Bonacini: la loro collaborazione ha portato, nel 1998, allo splendido volume Falle Farfalle. Qui una loro precedente produzione.
Tra non molto avremo il bando della nuova edizione del “Montano”, che porterà altri libri da pubblicare e testi sui quali lavorare con molto piacere.
In copertina: Alberta Pellacani, In-con-sistenze (1990, con Giorgio Bonacini)
Ranieri Teti
Il silenzio e il sangue della parola
Cercare una lingua oltre. Lasciandone affiorare la potenza intrinseca nella sospensione del dire, nell’omissione della parola. Attraverso, potrebbe apparire un ossimoro, una scrittura fitta e compressa che nulla tralascia, in ogni sua metamorfosi, della realtà della vita e della violenza umana. Esponendone il verso e il sommerso. Una parola oltre. Che penetra nei corpi smembrati e nel corpo, anch’esso smembrato, della scrittura. Misurandosi con l’anacronia, il silenzio, la morte. Una lingua per il sangue e per la morte, impregnata di tonalità che si spatolano dal rosso vivo al nero. Una lingua per il silenzio, che irrompe all’improvviso con il suo chiarore, la sua luce superstite. La mestica della scrittura di Allì Caracciolo in Anacronia-Blood appare intrisa di scarlatto e carminio, con qualche muto biancore. La stesura, in parte fluida e serrata, in parte densa e lenta, asseconda l’imprimitura della pagina. Dal tono di un’apocalisse. Di un disvelamento. Con la premessa della sua inarrivabilità. Poiché «Ineffabile è il sangue. La parola che lo scrive si cancella per non venire pronunciata».
Inaugurare la nuova collana delle edizioni Anterem con Anacronia-Blood di Allì Caracciolo è come dare voce, insieme, al silenzio e al sangue della parola. Testimoniare la ferita da cui l’inchiostro attinge le radici, la lacerazione che ne connota il verso. E, insieme, il silenzio e il vuoto che si fanno luoghi di raccolta del senso. Il corpo, il sangue, la carne nella loro esposizione e decostruzione. Come la scrittura. Poiché scrivere, ne è convinto Jean-Luc Nancy, tocca il corpo: un corpo organico di carne e sangue che si muove nella tensione tra il suo essere dentro e il suo esporsi al fuori, fino a fare del corpo teatro. Qui, tuttavia, alla fisicità del corpo e del sangue fa da controscena il silenzio. Il sangue del silenzio. E il silenzio del sangue. Come leggiamo in Blood: «Solo il silenzio stabilisce la misura del sangue. Il silenzio del sangue è la estrema vicissitudine della morte». E, a specchio, in Anacronia: «Riflettere sulle parole che la scrittura pronuncia, ascetica declinazione affettiva della Phoné, è fare della morte qualcosa che può esprimersi anche in altra forma; è l’atto estremo, e massimamente pericoloso, di silenzio».
In Blood il sangue pervade tutto: la vita e la morte, la parola e il silenzio, la conoscenza e il vuoto. E ognuno di questi elementi si fa pervasivo da un altro punto di vista, facendosi sangue e il sangue, a sua volta, coincidendovi. La distinzione, nell’etimo, del sangue fluido e sottile, sanguis con radice sanguĕn, da quello denso, cruor, invece raggrumato poiché sgorgato da una ferita, dà conto della pluralità delle coloriture di questa scrittura. Il rosso e il nero, la vita e la morte. Dipinte di rosso sono le ombre vermiglie, la colatura di sangue, la notte scarlatta, il tramonto, l’oceano. Di nero le parole oscure, il corpo del buio, le teste nere, i rantoli scuri. Mentre inattesa una luce improvvisa si affaccia su un petalo galleggiante, nel chiarore del margine del foglio, su una mano che sbianca. La tavolozza suggerisce visioni caravaggesche, la pervasività del sangue immagini shakespeariane del Macbeth. Qui, però, insieme al trattare una materia cruenta e sanguigna, la scrittura mette in scena se stessa. La rappresentazione la riguarda. Senza preoccupazioni metalinguistiche. Decostruendo, in un duplice scenario, le trame di un muto invisibile e di un brutale visibile. Il corpo a corpo tra il poetico e l’impoetico.
Mentre in superficie la fenomenologia del sangue pervade la pagina nei suoi novantanove quadri fino all’Uno, non messo in atto, che la farebbe traboccare, la tensione tra le due polarità non smette di pulsare. Mantenendo, sulla «soglia di opposti simultanei, l’indistinguibile differenza, figure d’inaccessibile indifferenziato». Nella scrittura leggibile la cognizione, assillante, del sangue se pure «avversa la dissuasione a far poesia (su argomento tanto oscuro e bestiale) perviene a una sospensione (perplessa e inquietante) ove tutto si azzera: la condanna del male la ricerca del vero la sapiente perizia l’impellente misura». Nella scrittura latente la poesia continua a pulsare. Insieme al vuoto in cui trova voce. Insieme al silenzio con cui scorre carsicamente nel profondo. Un profondo che attiene al sé più intimo, legato strettamente, da un lato, agli aspetti vitali e pulsionali e, dall’altro, al silenzio e alla morte. Dove la parola poetica affonda le radici. Il sangue e la poesia: se da un lato «la poesia non riscatta il sangue», dall’altro anche «la poesia è un sangue Da non vendicare Da rivendicare soltanto».
Uno scarto tra la realtà e il reale, tra il tempo misurato e l’assenza di un ordine temporale, tra l’insensatezza della violenza umana e la ricerca di un senso dell’esistere. Andando letteralmente a pezzi. Attraversando eccidi, corpicidi e pensiericidi, corpi e paesaggi smembrati, pensieri e inchiostri sembrati, seppellimenti e memoria dei defunti. Quadri, alcune volte trittici, di sangue e di morte che si susseguono per dare forma a quanto non ha forma o della forma è stato fatto strazio. Alla ricerca di una consapevolezza di morte e, grazie alla stessa, di essere. E di una possibile rinascita: «Adattarsi ai passaggi è la cosa maggiormente estenuante del nascere del morire del rinascere se c’è, del risorgere se si risorge». Attraversando una metamorfosi difficile, una dura trasformazione, nel disgregarsi di materia e pensiero. Così, in Anacronia, dove i passaggi si fanno sfumati tra «l’incomparabile dissolvenza nel deessere senza mai pervenire a nonessere» e «la parallela distanza tra vivere nonvivere, essere indistinguibilmente entrambe le realtà senza esserne alcuna, il vuoto». E in Blood dove, al termine delle terribili mutazioni richieste dal duro confronto con il sangue e con la morte, si trova alla fine un modo di risorgere, nell’«attendere alla vita con la leggera movenza l’avveduta scienza di nascere ogni giorno con stupore».
La scrittura, da un lato, asseconda il sangue nel suo espandersi diversificato, a fiotti, ininterrotto, raggrumato, dall’altro crea scena al silenzio. Nel suo teatro del visibile e dell’invisibile. Scenografie destrutturate per dare luce al sommerso. Quanto in Anacronia, prosa vincitrice nella relativa sezione del premio Lorenzo Montano XXXV edizione, viene evidenziato, rispetto alla discrepanza tra la temporalità apparente e l’aleatorietà sottostante, in Blood viene messo in atto in una decostruzione della scrittura dove l’imprevedibilità consente al sotterraneo di manifestarsi, pur in una trama fittissima e compressa. E al silenzio di farsi udire. Non solo e non tanto in quello che viene esposto e messo in scena. Quanto attraverso il non verbale, a partire dalla grafica: «Ciò che conta è la grafica: potente esce fuori dal foglio schizza di sangue il volto di chi legge». E, a fondale, attraverso la pagina: «Poi il sereno margine finale, immacolato e bianco, ignora gli altri tre quarti di foglio, la storia che a calde macchie il disegnatore vi ha versato». Soprattutto, però, attraverso i paragrafemi, le irregolari interpunzioni, gli spazi diversificati tra le parole. Nel vuoto in controscena al clamore. Nel luogo non-luogo della scrittura poetica. Che dà spazio al silenzio. E, insieme al silenzio, all’essere. Poiché come viene sussurrato, tra parentesi, in Anacronia, «solo la scrittura rasenta l’essere».
In questo esporsi. Porsi fuori. Porsi oltre. In una scrittura che ha a cuore l’essere e la parola. E, massimamente, il silenzio. Superando le distinzioni di genere, in una ricerca che nulla concede al sollievo, Allì Caracciolo crea spazio in queste prose al pulsare muto della parola poetica. Una parola che nasce dal sangue di una ferita e rinasce nelle mutazioni che ne vengono generate. Una parola che trova luogo dove la scrittura concede lo scenario al vuoto, pur nel fitto estremo del suo dire. Potrebbe sembrare un ossimoro, si è detto in premessa. Piuttosto appare la condizione necessaria di fronte alla violenza e alle contraddizioni umane che fanno strazio, insieme ai corpi, della parola. Nella ricerca di una lingua che rivendichi un luogo per la parola poetica. Una lingua che ne metta in luce la linfa sanguigna e vitale. E, insieme, il suo dire muto, anacronico.
Note brevissime per un volume che raccoglie oltre cinquant’anni di lavoro di Leopoldo Attolico. Un volume “importante” dove si trovano riunite molte raccolte pubblicate, diversi inediti, una notevole bibliografia critica…
Note brevissime allora, come un sorvolare sulle pagine. La veloce cattura di suggestioni trovata nelle prime poesie di “Piccolo spacciatore” dove la parola appare, anche, come cosa da celare, da serbare in un vano, eternamente. In quel rifugio, in quel rifiuto di un dire esplicito, ci si potrà trovare, ancora, tesori. Tra accenni a certe fisicità percettive, a comuni, feriali, vicissitudini o a più private esperienze, ci si potrà ritrovare in una gemma nera.
E’ questa offerta di un mistero non chiarito il senso della parola e, di più, della parola di poesia (la gemma nera, appunto). Il concentrato di significati che sta nell’ambra di un ricordo non è però soltanto messaggio cifrato se si è impegnati, con ironia, anche, a farlo ritornare sillaba sulla terra. Con la consapevolezza, comunque, di essere sempre in bilico tra quello che si riesce a dire e quello che accade, improvviso, unico, inafferrabile, tra scintille di memorie e oro del presente.
ETERNAMENTE
Incagliata nel tempo
c’è una gemma nera,
un’eco che non ritorna,
un’offerta di mistero non chiarito.
Nella fisicità felice di un volo
e nell’ambra di un ricordo
la percezione dell’immenso,
del tempo, della vita.
Nella speranza di sole
la necessità di non morire,
di non morire più,
di restare eternamente giovane
I VERSI
C’è dentro
l’abitudine calata a perdifiato
nel chiamarsi per nome,
storia grande di occhi e di stupore
in visita a un diario affogato nel mare.
Dal fondo si contrae sempre una nota
e ogni volta si scorda del suo peso
per ritornare sillaba sulla terra.
Non ha più nulla:
persuasione, durata, vento di vittoria;
chiede soltanto di non essere delusa.
Non più di tanto
nel lasciarla andare
gli ha promesso
tutelare
l’innocenza
TOCCATA E FUGA
Nella pietra serena scaldata dal sole,
nel pianissimo andante del vento
a capofitto le mie parole
Basta una fredda scintilla alla memoria,
che come ape infreddolita si posa per terra,
per riscaldarsi tutta
Ma l’ape beve la sua pace e non si pente.
Le parole sono solo una folla curiosa e satolla,
toccata e fuga nell’oro del presente
Leopoldo Attolico vive a Roma. Dalla seconda metà degli anni 80 si è occupato di poesia performativa antistress, nutrita di leggerezza lessicale, giocosità, ironia/autoironia e senso del paradosso. Suoi interventi sono apparsi in antologie, repertori, quotidiani e nelle principali riviste letterarie italiane. Una scelta significativa dei suoi testi è stata pubblicata presso Chelsea, New York, 2004. È stato tra i redattori di Poiesis e lo è attualmente di Capoverso.
Mi piace rintracciare nelle stesse parole dell’autrice, in ciò che lei ha versato sul foglio come atto di vita, qualche nota di ciò che la poesia è: una carta istoriata, una terra di confine, materia da rammendo…
Claudia Azzola, sulla pagina bianca aperta alla scrittura, ripercorre l’interrogarsi del poeta sul significato del proprio lavoro, questo atto “friabile” come lo sbriciolarsi della carta nel tempo che pure, nel tempo appunto, connette elementi della nostra memoria antropologica, di civiltà e di pensiero.
Così come è stata individuata una “storia con la s minuscola”, c’è, forse una “parola con la p minuscola”. Al canto alto della parola letteraria si accompagna una parola “approssimativa” ma altrettanto vitale poiché, dice Azzola, non vi sono cose estranee alla poesia.
Perché il gesto del poeta, attento ad ogni vibrazione, scruta e accompagna la curvatura del reale.
GIARDINO A HAMMERSMITH*
Fin dai tempi (operanti) delle streghe,
witches, healers, guaritrici, sono
i fatti avvenuti ai confini: metto
me stessa in questa terra, del confine,
breccia di giardino scavata per la tortora,
per la gazza, le rose,
percorsa dalle granulari formiche,
istoriata terra come di magna carta
su papiri, pergamena e cearlacca,
non c’è giardino
senza nascosto suono d’acqua,
there is no garden void of sound
of hidden water: sono venuta qui
per questo verde.
Non c’è giardino
dei nichilisti, non c’è verde di afasia.
Non c’è giardino senza il verde dell’esilio.
Tanto è preparato,
tanto avviene nell’esilio.
*Londra, mese di luglio, anno su anno.
NELLA DISPERSIONE DEL SEME
Nicchiare, essere dei morti,
rimpinguare le casse: mancano
i giardini, gli orti dorati,
male pagato il lavoro umano,
sparato dalle bocche di fuoco,
nella dispersione del seme,
ma se traboccavano i cuori! era
il progetto, era riconoscimento,
il lavoro è disperso, nel vento,
perdere il senno, il foro interiore,
cuore insonne, materia da rammendo.
TRE PASSI
Tre passi per allontanarmi
dalle bottiglie dai bicchieri
della mensa, dai tavoli di fòrmica,
trecento passi per la distanza
dalla fabbrica, dai manufatti esausti,
dal fatturato, dal posto fisso,
dal pensiero sfiorito, abito stretto,
svestito nel freddo, mesto lavoro,
e pongo domande: quali sono coloro
che hanno la faccia che sia la loro,
che la riconoscano da dentro
l’ingranaggio meticoloso,
delle tue ore dei sacrosanti minuti,
nei passi che sono il tuo giardino.
Oggi è una domenica, una sapienza
per chi sa formulare un dire,
ma sto tra due oscurità,
della lingua e dello stretto sentire.
Claudia Azzola, scrittrice e traduttrice. Tra le sue pubblicazioni Il poema incessante (2007), La veglia d’arte (2012), Parlare a Gwinda (2014). Azzola edita da oltre un decennio l’annuario plurilingue Traduzionetradizione.
Fra il tempo quotidiano degli orologi e il tempo ciclico, sacro, delle stagioni, con passi di sola andatastrong>, si dipana la nostra esistenza terrena.
La scrittura di Franca Maria Catri esplora questi diversi tempi e le loro differenti coloriture, che ci trovano sempre strong>dove non siamo.
Con precisione Flavio Ermini parla a proposito di questi testi di “…ricerca dell’essere che tra la vita e la morte si distende e lì permane, irraggiungibile ad ogni richiamo che non sia quello poetico”.
Nel pugno della materia e dei giorni, forse, strong>il nero vincestrong> … ma è un nero/bruno di terra che germoglia di domande, di ricordi, di odori e di stupori che sempre ci interrogano.
sarà che insonnia
cova scartate storie
arrugginiti arnesi di memoria
ecco che il sogno
entra nel gioco
forza barriere chiama
zitte parole in grazia di note
spazi arroganti di insolente vero
a fermo immagine
oscilla segni il piano perfetto
– in onda è quasi chiaro
asciuga pianti il mare
gocce di sale
e petali di sole tra le ciglia
nel pugno
in fondo al giorno
mangia colori
la penombra degli occhi
(chiedi alla gatta)
per dolce sordità
mi riconosco
in sillabe di fumo
e malincuore
oltre la stanca opacità delle tende
resiste la rosa sopita
nella sera dell’orto
è l’ora delle ortiche
ti chiedo al vento
ti chiedo al vento
respiro gentile che sfiora il mare
scioglie le onde in farfalle di sole
in campo azzurro
pascola nuvole piccole
innamorato accarezza
la luna d’agosto
va sui pini e le rose
si culla sui prati
allaccia case
in confidenza di finestre
odore di pane
e favole antiche
ti chiedo al vento
generoso che lega terre e distanze
racconta voci e silenzi
a medicare sconfinate solitudini
Franca Maria Catri è nata nel 1931 a Roma. Scomparsa nel 2021, ha lavorato per molti anni come medico. Ha ottenuto autorevoli giudizi critici, presenze in antologie e testi di poesia contemporanea, premi di poesia e saggistica a livello nazionale e internazionale. Tra le pubblicazioni più recenti: strong>Uccelli di passostrong>, Gazebo 2013; strong>Ti chiedo al ventostrong> (2018).
Nulla esiste nel presente che non rechi traccia di ciò che è passato e che pure, resta lì infitto, a dare profondità all’insignificanza, valore al transeunte. Anzi sembra fornire un’incrollabile sicurezza la polvere che si accumula e che testimonia della possibilità di leggere, negli eventi più insignificanti, il valore che assumeranno nella totalità di ciò che è trascorso. Tale garanzia si estende al punto che diventano riscontrabili “le stesse malinconie/ la stessa acqua”. Il movimento della raccolta coincide con quello di un tango, ove la passione è un movimento di risulta, un reperto che va alla deriva. E via via è il linguaggio che assedia la scena fino a risultare l’unico convenuto: “ossimoro / e sfuggevoli metafore/ chiamarti dalle terre lutulenti”. Nulla risponde al richiamo, se non le parole con le quali il passato ritorna. Ritessuto. D’altra parte, il passato è una ricostruzione che con la realtà condivide sempre meno, con l’aumentare del tempo. È sull’onda del linguaggio che Corona, sulle orme di Baudelaire, riserva il suo sguardo ad alcuni risvolti della contemporaneità, non mancando di offrircene una critica serrata e tagliente, in un tentativo di recupero di alcune valenze che non può che naufragare, ma che non si può nemmeno evitare di compiere.
certami
le tue pantraccole da sgherro vigile
fanno scompisciare dalle risate il mio animo peritoso
ma alla mia musa non arrivi nemmeno ai talloni
figurarsi ai suoi stivali gatteschi
la tua mente fumida
certo si può rallegrare di tale ferace
vigilanza notturna
ma sappi che
il mio sonno è irenico e le mie notti portano sempre consigli
è questo il vero riposo del guerriero
raumilia anche i cuori più tortuosi di una viottola bagascia
come il tuo
vita vissuta nel tentativo di fermare il tempo
tagliaborse attaccabrighe perditempo
cavadenti strizzacervelli
fannulloni bighelloni scansafatiche perdigiorno
stracca piazze
tirapiedi leccapiedi baciapile pinzocheri bacchettoni
bigotti
capibastone magnaccioni mangiapreti
mangiacrauti mangiarosbif mangiarane macaroni
mi attaccavano bottone per un nonnulla
io avevo altri grattacapi
bancarotte sentimentali
disfunzioni poetiche
rendiconti inutili da stilare
ma non trovavo le parole giuste
per mandarli a quel paese
presi così l’ultimo treno della sera
e al primo passaggio a livello
attraversai e me ne andai
nel frattempo le rose morivano sui marciapiedi
e nel grande vaso annegato nell’acquaio
alcuni tulipani sbocciarono
appena in tempo per il grande rientro
dell’autunno
con anemoni e azalee nella cartella
(e voti di condotta pessimi)
e una matita spezzata per chiudere
con un tratto longilineo obliquo
indeciso
ma preciso
come una freccia nel batticuore
René Corona è docente di Lingua e traduzione francese, presso il Dipartimento di Scienze cognitive, psicologiche, pedagogiche e degli studi culturali dell’Università degli Studi di Messina. Ha pubblicato saggi che riguardano la poetica, la storia della lingua francese, la traduzione, la sinonimia, la letteratura, la sociolinguistica e la lessicografia. È autore di due romanzi e di diversi libri di poesia.
Gerardo De Stefano si misura con un verso lunghissimo di difficile fattura: tanto è enorme, debordante e ipertrofica la materia testuale, quanto è levigata all’inverosimile, curata in ogni minimo particolare, la parola che la sostiene. Siamo di fronte a un testo che mentre lo leggiamo ci guarda dal passato, ci guida nel presente, ci porta verso il futuro; siamo di fronte a un testo che non si risparmia e non risparmia digressioni nello sconvolto ambiente naturale, quasi celate nei versi e allo stesso tempo manifeste. Tutto è coerente con l’impianto verbale.
Gli inserti da altre lingue, che contribuiscono a rendere universale il testo, sono citazioni originali di grandi autori; come il titolo, che riprende quello di un saggio sull’arte di Alberto Savinio. Alcuni scarti testuali, repentini cambiamenti di senso, inserimenti stranianti, aprono la porta e rendono omaggio a tanta arte e a tanta poesia di inarrivabile grandezza del novecento.
Gerardo de Stefano nasce a Napoli nel 1976.
Nel 2012 esce, per la Thauma Edizioni di Pesaro, la sua prima raccolta di poesie: “Stigmate & Stilemi”. È il curatore della collana RigorMortis (Memoranda Editore, Massa).
Una riscrittura del Vangelo che è volontà di vivere l’esperienza diretta del discepolo, assumendo varie vesti, volendo sperimentare la potenza della parola nell’animo umano, non solo ripercorrerla, ma anche ricrearla. Ecco, perché se la voce autoriale sembra esterna, lo è solo artificiosamente. Ogni quadro è un prezioso cesello, una calibrata scelta di lessemi astratti che configurano la flagranza tra la miseria del reale e la spiritualità: “la tua cura è clemenza”. Fra mensa ed Eterno, tra caduta e fede, ancor più che l’oscillazione tra concreto e astratto, si deve mettere in rilievo il moto tra “non invoco e non dispero” che è in qualche modo lo stato dell’incredulità rispetto a ciò che appare una sfida che si desidera accettare pur non sentendosene le forze. La richiesta di perdono si pone come un ulteriore movimento nel testo che si disloca secondo un dialogo complesso. Se la Grazia non si riesce ad arginare, non si può nemmeno comunicare ad altri, affinché lo condividano. Resta il baratro fra ciò che Giacobbi sente come potenza infinita della parola di Cristo e limiti di coloro che ascoltano.
Peregrinazioni apostoliche
(Mac 1, 35-39)
È ancora buio
ma muovi il passo
a lungo appartato -
in ascolto.
Non presti adesione
all’invito dei tuoi -
sei già altrove
rifuggi delle folle il plauso
ti sottrai
per fugare del ministero
la mistificazione.
Guarigione di un sordomuto
(Mc 7, 31-37)
Parola non fa ingresso
né s’esterna.
Starà chiedendo accanto
la tua mano
chi mi porta.
Mi conduci lontano -
ed in me ripeti
la creazione
con un fiato al cielo
che spalanca.
Carlo Giacobbi (1974) lavora a Rieti come avvocato, ma fin dalla prima giovinezza ha manifestato interesse per la poesia, la letteratura, il teatro, la musica ed il canto. Scrive canzoni di musica pop e ha collaborato insieme al Maestro Massimo Di Vecchio alla realizzazione di diversi cd musicali di musica leggera anche a tema religioso. Ha partecipato due volte al Festival di Castrocaro Terme, giungendo alle semifinali. Ha pubblicato quattro libri di poesia: L’Angelo Dannato (Hobo Editore, 2006), Albe notturne (Serarcangeli Editore, 2015), Confidenze (Il Convivio Editore, 2016) Essere qui (Il Convivio Editore, 2017) e nel 2018, con Arcipelago Itaca Editore, Veramente quest’uomo (poesie sul Vangelo di Marco) di cui, alcuni estratti, sono stati letti alla presenza del vescovo Domenico Pompili in occasione dell’incontro pastorale del 2018.
Della poesia e altri oltre
Nome colmo d’aria, un soffio, un vento, una voce. Nome intriso di luce, un chiarore, un foglio bianco. Chi è Claire, personaggio dell’omonima raccolta di Angela Greco?
Tra solitudini e presenze, affetti lontani e vicini, oltranze e “profumo di pane”, memorie e ritorni, Claire distende la sua figura luminosa, dai movimenti reali e irreali, nei sedici testi dall’accento visionario, con distico finale spesso di tono meditativo.
Il linguaggio è ricercato e straniante. La narrazione procede tra reale e surreale, presenza e solitudine, ricordo e abbandono. Leggiamo che “Claire è soglia e attesa. Di una voce che / tarderà nei suoi desideri” e il racconto si illumina nel suo rarefarsi, quasi favola, quasi mito. Non dimenticando riflessioni concentrate e inquiete sulla realtà, in cui “Siamo canti alternati a idi di marzo”.
E se Claire fosse la poesia? Che si aggira “tra le parole non dette” e che “vorrebbe esserti foglio bianco”? Compagna della solitudine che la scrittura richiede, forse. O incarnazione del dire poetico che Angela Greco dispiega nei suoi versi insieme luminosi e dolenti. Dando vita a figure che l’attraversano e ne vengono attraversate. Designando con nomi nuovi le cose. Portando il quotidiano al suo oltre, dove “rette parallele s’incontrano e s’intersecano / in un territorio di confine, oltrepassando il noto fin qui”.
§1
Il pomeriggio è un talismano di ferro e ruggine;
lo raccolgo in un silenzio surreale e sei con me.
Un caso e “Claire” torna a passi lenti, attraversando
la cicatrice che taglia in due la città. Il paese vecchio
la abita ad ogni casa a calce e la piazza ha ancora
il profumo buono di tortine alla ricotta e biscotti
grandi, da immergere, senza troppo pensarci,
nella merenda a ginocchia scoperte di cadute
in bicicletta. Dall’altra parte della strada,
con anni d’anticipo, già sapevi che domani
l’avresti incontrata, per caso, sulla stessa strada.
Il nome non ha importanza; hai sempre pensato
si chiamasse alla francese, forse per via di sua madre.
§2
S’aggira Claire tra le parole non dette, tetti di vecchie
memorie silenziate per antica abitudine; stringono,
i vicoli del quotidiano incedere, gli occhi che anelano
all’azzurro di quando si era fili tra i fili d’erba, acque
di gocciolanti gravine nascoste agli occhi dei più.
Vorrebbe esserti foglio bianco a cui affidare le ombre,
inchiostro che inciti i cavalli di fuoco, perché sia sole,
anche tra le tue nuvole. T’affianca, nell’attesa, nei vuoti
della piazza dove s’allungano le ombre; mulinellano
pensieri sulla soglia di casa. Nel pacco regalo, una clessidra
dice che si può capovolgere questo momento.
Due rette parallele s’incontrano e s’intersecano
in un territorio di confine, oltrepassando il noto fin qui.
§5
Miriadi di stelle a trafiggere una solitudine;
questo incavo incolmo che occupa il petto,
dissonanti sere racchiuse in una fotografia e
poi mattini di ritrovato senso. Claire ha pianto,
ma tu ne hai sentito la risata, invece, poco pima
che crollasse il tempo e s’affacciasse ancora la corsa,
la sabbia troppo veloce nella strozzatura, lo scadere
della concessione a noi dedicata. Il resto è stato cielo
a più strati di piombo. Sei involontariamente bello,
quando non ti accorgi dell’occhio, lontano, nel tuo
mare di bambino senza onde a sconvolgerti.
Lo specchio rimanda a data da destinarsi le parole;
adesso il ricordo è soltanto per carezze lontanissime.
§16
E, quindi, cosa lascio di questi miei trascorsi?
Un’addolorata sbiadita al crocevia, un cancello
chiuso che ha ceduto alla ruggine e una fenditura
d’asfalto fiorita di parole in un giorno di febbraio.
Claire si ferma e guarda la tramontana che azzurra.
Il vento arriccia il tufo e lame di luce seguono
diagonali di pensieri e facciate divise a metà.
«Portami una bocca di leone dal tetto più alto,
scala questa torre di quotidianità per un pezzo di
mondo da mordere a sera, quando la voce va via e
rimaniamo pensierosi sul rosa e sulla nuova luce».
Siede al tavolo l’attesa; dalla finestra il paese vecchio
si svuota persino di preti e campane.
Angela Greco è nata il primo maggio del ‘76 a Massafra (TA). Ha pubblicato: in prosa, Ritratto di ragazza allo specchio (racconti, Ed.Lupo, 2008); in poesia: A sensi congiunti (Ed.Smasher, 2012); Arabeschi incisi dal sole (Terra d’ulivi, 2013); Personale Eden (La Vita Felice, 2015; prefazione di Rita Pacilio); Attraversandomi (Limina Mentis, 2015); Anamòrfosi (Progetto Cultura, Roma, 2017; prefazione di Giorgio Linguaglossa); Correnti contrarie (Ed.Ensemble, Roma, 2017); Ora nuda, antologia 2010-2017 (Quaderni di RebStein LXVII, 2017); Ancora Barabba (Collezione Bocche Naufraghe, YCP, 2018); All’oscuro dei voyeur (YCP, 2019, prefazione di Franco Pappalardo La Rosa).
È ideatrice e curatrice del collettivo di poesia, arte e dintorni Il sasso nello stagno di AnGre (http://ilsassonellostagno.wordpress.com/). Commenti e note critiche sono reperibili all’indirizzo https://angelagreco76.wordpress.com/.
La necessità di esporre l’irrapresentabile di una esperienza durissima trova un valido aiuto in uno stile preciso e in una sintassi piana e ferma, come se con tale armamentario stilistico si potesse guardare con maggior fermezza nelle pieghe purulente di una realtà che ha pochi confronti. Lena punta il timone con decisione verso il dolore per affondarvi il suo sguardo. Ma il suo sguardo non diviene mai un cliché, non è mai pietistico, avendo dalla sua la ragione di colui che parla del dolore poiché vi è immerso. Forse non è inverosimile che si possa superare qualcosa soltanto toccando il fondo. Il poeta riesce a darsi magnifici colpi di reni con sinestesie e metafore che rilanciano la possibilità di agganciare significati che riequilibrano una realtà che Lena sa esistere al di là del muro. Come Ulisse legato all’albero, affronta il terribile silenzio “incomprensibile” che tanta poesia odierna, immotivatamente invoca. Vedere la realtà frantumata, in zolle, come se un vomere vi avesse affondato la lama, va di pari passo con il vederla reintegrata attraverso la capacità autoriale di modellare uno stile che riesce a cogliere le drammatiche oscillazioni di una condizione esistenziale difficilissima.
XVII
Suor Adelaide da vent’anni
aspetta un miracolo
ne parla spesso con Dio
invocando una deriva dolce
per queste cavie
qualche anno fa
ha rischiato di morire
dopo essere stata aggredita
dal suo discepolo più giovane.
Per giorni è rimasta in coma
poi appena sveglia…con un sorriso
ha esclamato che Aversa
non sarà mai
il capoluogo dell’inferno.
XXI
Neppure una parola,
sono ormai cinque anni che Lisa
ha smesso di dirci
quello che la schizofrenia
mette in bocca a donne
fragili come lei.
Il suo tacito presente
fai fatica a comprenderlo
appena sai che è stata
in adolescenza un tenore,
se poi trema quando la musica
dei miei sguardi sfiora
i suoi ricordi … allora capisci
come mantenere l’ equilibrio
sul rasoio della creatività
diventa a volte una ferita corale.
Fernando Lena è nato a Comiso in Sicilia nel 1969 dove da un po’ di anni vive e lavora. È diplomato all’istituto d’Arte. Ha pubblicato diversi libri di poesia, il primo risale al 1995 con il titolo “E Vola Via”, edizioni Libro Italiano. Dopo un silenzio di quasi dieci anni ha pubblicato una piccola suite ispirata da otto tele del pittore Piero Guccione edita dalla Archilibri di Comiso e successivamente, sempre con lo stesso editore, una raccolta dal titolo “Nel Rigore Di Una Memoria Infetta”. Del 2014, per i Quaderni Dell’Ussero, è “La Quiete Dei Respiri Fondati”, edizioni Puntoacapo. “Fuori dal Mazzo”, libro d’arte, Edizioni fuori commercio, dell’anno 2016. Suoi testi e recensioni sono ospitati in diversi blog e riviste di poesia. Partecipa spesso in festival dove la contaminazione poetica si incontra con altre discipline artistiche.
Balza per prima agli occhi l’inconsueta dimensione, esageratamente grande per un libro di poesia. Allo stesso modo era enorme il formato della storica rivista che veniva pubblicata da Carmine Lubrano sul finire del secolo scorso, “Terra del fuoco”.
Pensare in grande richiede adeguati supporti, pretende un ordine logico a prescindere.
Tutto questo trova un senso precisissimo non appena si apre “Letania salentina e altre Letanie”: la fantasmagoria linguistica è trascinante, le parole sono battenti, il ritmo fende il silenzio della pagina senza pause, lo trascende, come se le parole ne uscissero innervando l’aria della stanza con il loro impatto sonoro. Nell’ipertrofia del testo non solo non intervengono pause, non ci sono nemmeno cedimenti né cadute, tutto è strettamente sorvegliato.
Lubrano inaugura un uso felicissimo della lingua, riuscendo, con apparente naturalezza e in maniera mirabile, a fondere in molti testi l’italiano con il latino e con il napoletano. Siamo di fronte a un’opera che, anche se ci immette in un infinito eccesso verbale, si fa cogliere interamente. La direzione è chiara: poesia antilirica, talvolta irridente, a tratti carica di sdegno, in generale colma di letizia, anche nei momenti dolenti: “ma la poesia la poesia / (…) / è lingua inaudita che scopre le sue ferite”.
Il volume contiene inoltre molti inserti grafici che richiamano la straordinaria epoca, attraversata dall’autore, della poesia visiva: queste pagine, frammiste al testo poetico, offrono l’altro lato della poesia lineare, un’estensione di possibilità, uno straniante prolungamento dei versi.
Questa raccolta poetica avvolge il lettore dentro un percorso lentissimo di ondulazioni malinconiche. E lo fa con versi attraversati da un filo costante di leggera nostalgia. Il tema è il luogo dell’abitare: dunque dello stare ma contemporaneamente anche dell’abbandonare. E’ la ricerca di un ascolto a muovere l’andamento del poema: anche un semplice suono in ciò che si disabita. Marinucci compone un canto compatto, ma non forzato; aderente al sentimento ma non rigidamente legato. Un movimento tenuto insieme dalla parola, una visione dei luoghi visitati e dei ricordi sottovoce; uniti tutti da quella speciale sensibilità contenuta in un dire poetico affidato a un tempo senza tempo, a “un dove libero di storie”. Abitare è libertà di andare o di restare, liberando e illuminando ogni intima ombra.
Dalla sezione Elegia del trasloco
***
Si direbbe immancabile tornare accanto
familiare come è colta per caso una voce amica,
nella polvere altre volte raccolta in altre stanze
o in quella opaca avventura di stanze che fuori,
di questo abitare, nutre e trattiene
come un rifugio paterno, un dove libero di storie.
Iniziare da qui nel viaggio la cura d'intorno.
Cercarlo conosciuto più spesso nei giorni
in una cautela di luoghi nostri tra gioie disarmate
di nomi da perdere e senza riconoscere niente
restituire. Eppure dispongo ogni pacco
e al tuo ritorno il mio si accorda
al tuo seguirmi prezioso di passi
tra i mobili vuoti nelle stanze tra noi
tesi e determinati a far bianco il tempo
di un qualche gesto che cancelli
il rimorso di ciò che è nuovo.
Dalla sezione Intorno alla casa
Abitare distanti
Alcuni bambini, com'ero io,
imparano più che altro la distanza.
L'impressione che dietro l'incresparsi
rabbioso di un orizzonte di sassi
come nel fondo gonfio dell'onda di
quando è già troppo tardi per ritrattare
e nascondersi tra i cigli infantili
di una inguaribile colpa da nulla,
ci sia davvero la casa che ti
riconosce suo e che non credevi
potesse chiederti da allora.
Oggi, che cerchi stancamente
il ricordo di com'era, la protesta
muta nella prima ferita della vista
ferma di bambino, scopri viva
quella felicità che sai tradire
in uno stupore
a cui quasi non credi.
Dalla sezione Sulla porta
***
A volte, potendo raccogliere
il delicato istinto nel tempo
di porre all’aperto un angolo intatto
di intimo riparo, ascoltando con la cura
di una mano l’interno stupefatto
di una casa vuota, abitata,
come il dorso caldo che trattieni
quando non vorresti altro che il mio corpo
quando non chiedi che il mio destino,
ti sento in un modo nuovo, più pietoso
di ciò che lentamente si consuma
della nostra memoria e arrende
il colmo del desiderio a nutrire
di noi quel che non sapremo
Andrea Marinucci, nasce in Abruzzo (1983) e, dopo gli studi scolastici, si forma dal punto di vista accademico all’Università di Bologna, dove affina la passione letteraria laureandosi al termine del percorso con una tesi di poetica. Vive e lavora attualmente a Verona. L’opera Case di passaggio è da intendersi come un’opera prima.
In due parti si divide questa raccolta: che hanno però in comune la considerazione di ciò che è l’altro, come figura o come condizione esistenziale. La prima (che dà il titolo) è dedicata alla materia in cui la metafora dell’angelo si incontra e si scontra. E’ una figura estrema, disgregante per il troppo fulgore, che sembra rappresentare ciò che tende alla perfezione: dunque umanamente perturbante, perché si angelizza “credendo/di sfuggire alla sporco e all’ingiustizia”. La seconda parte riguarda la fuga, l’allontanamento, la sparizione. Cose, animali, persone che diventano ciò che sono quando se ne vanno. E’ il movimento che esercita la distanza, con momenti in cui le “prove di sparizione” arrivano dai due estremi del poema: angeli indifferenti e particelle atomiche in fuga in un unico tunnel.
dalla sezione Contro l’angelo
*
si ritrovò cadavere
senza targhetta di riconoscimento
a pezzi spiattellato splitterato
diviso
in decine di stanze
migliaia di caratteri le cellule
sparse sul pavimento
*
adesso furibondo sventoli le ali
sei un immenso elicottero di luce
impossibile rimanere in piedi
nei tuoi paraggi
i nugoli di piume
oscurano ogni cosa
aggiunti all’infinito
fulgore che promani
non c’è spazio per nulla che non siano
le tue ali crudeli
dalla sezione Escapologie
*
ogni tanto facciamo
prove di sparizione
prima le dissolvenze colorate,
lampi di neon scontornano
l’evanescenza che innesta i profili
i tratti umanizzati delle mani
i volti prensili sul nero dello sfondo
non ci accorgiamo mai
dell’attimo che ci rende invisibili
sciolti da ogni abbraccio, le dita
che nel buio non si tengono, ma noi
non lo sapremo
Paola Nasti è nata a Napoli nel 1965, dove vive e insegna filosofia nei licei. E’ fondatrice e redattrice della rivista di poesia Levania. I suoi testi – poesie e racconti - sono pubblicati in antologie, riviste e blog. E’ stata finalista nella XXXI edizione del Premio Montano 2017 con “Cronache dell’Antiterra”, edito da Oédipus nel 2018. Nel gennaio 2019 ha pubblicato per Eureka Edizioni, nella collana CentodAutore, la plaquette “Poesie dello yak impigliato per un pelo della coda”.
Il testo di Paola Parolin dice la distanza che intercorre tra la realtà e il desiderio; o meglio, sente il desiderio ma vede la realtà. Rappresenta un narrato che non è, né vuole essere, profezia, ma che si pone al confine tra astrazione e concretezza. Parolin produce un flusso breve, come può essere il volo di “un’ala su spalle cadenti”, oppure il viaggio di una vela intatta issata su una barca ormai in rovina.
Appare il mondo che si rovescia nel suo contrario. Fatto di freddo, giorni consunti, chiodi, pietre.
E poi c’è l’ostinazione del poeta che racconta quell’attimo attraversato dalla grazia che è la chiusa dell’idea, il finale di un momento: non solo parole che aprono superfici, non solo parole come pietre, ma soprattutto parole che possono essere insieme occasione e baratro, destino.
è un’ala protesa su spalle cadenti di peso e di freddo non avvolge
imprigiona il piumaggio cedevole all’acqua inefficace natura di
uomo diverso nel cuore e ora non vola vede il mondo all’inverso
giorni e giorni consunti di niente chiodi nel muro bianca
superficie aperta a parole le prime in bocca innocente parole le
prime dure pietre miliari e di inciampo
Paola Parolin è nata a Verona nel 1952. Medico in Verona, è sposata con due figli.
Ha partecipato ad alcuni laboratori poetici coordinati da Ida Travi negli anni 1998-2008. Ha pubblicato nel 2003 la raccolta in versi Interni Esterni Interni. Nel 2007 ha pubblicato con altri due autori la raccolta poetica Trittico della sera di carta (Cierre Grafica). Nel 2011 ha pubblicato il libro Parola Corale (Anterem Edizioni, collana Via Herákleia), con prefazione di Gio Ferri. Del 2018 è l’ultimo libro di poesie E uscire alfine (Anterem Edizioni, collana Via Herákleia), con postfazione di Rosa Pierno, recensito da parte di Giorgio Mancinelli sul sito della rivista letteraria libera La Recherche.
Dal 2006 al 2017 è stata segnalata più volte al Premio Lorenzo Montano. È entrata nella selezione dei finalisti al Premio Elio Pagliarani 2020. Ottiene il premio speciale della giuria al concorso Bologna in lettere 2021. È inserita nell’elenco dei poeti italiani del sito web Italian Poetry.
È cofondatrice dell’associazione culturale Spazio Cordis, attiva dal 2018 in Verona, che si prefigge di valorizzare e supportare il lavoro di giovani artisti di arte contemporanea italiana e internazionale presentando mostre monografiche.
Una straripante girandola di concatenazioni semantiche capeggiate da significati assonanti serve come viatico al lettore per insediarsi comodamente nel libro di Pietropaoli, dove già il titolo “Tomoterapia e altro” indica che siamo in un regime di terapia verbale. Il sapore è quello delle parodie o riscritture sanguinetiane che vale anche come argine alla stessa massa di detriti memoriali e culturali. D’altra parte, ogni nuova riscrittura rilancia e conferma, riapre e frattura. Il sanatorio letterario sarà dato proprio dalla possibilità di ricombinare nuovamente le medesime pedine. Il nuovo si costruisce con mattoni vecchi, i quali altrimenti resterebbero inutilizzati e ciò riveste un carattere valoriale di forte impatto. Seppure, proprio l’ironia risulti essere la calce più efficace per tenere insieme il costrutto linguistico. Si veda il piano congetturale per allestire il proprio estremo saluto che nella chiusa si risolve con un “ciao”. La salvifica medicina verbale vagabondando trova, del tutto casualmente oppure condotta solamente dalla guida sonora delle parole, nuovi sensi, nuovi rilanci, anche beffardi.
Nota dell’Autore
A causa di un tumoretto (d'un soffio malignetto) alla prostata, l'autore si è sottoposto a un ciclo di trattamento tomoterapico per ventotto giorni. Ne ha tratto questa suite di poesiole (una al giorno: allo scopo, propriamente terapeutico, di togliersi i medici di torno) che volentieri condivide con i suoi undici (possibili) lettori, malati o sani che siano – sebbene, certo, i primi si sentiranno più in sintonia con il sostrato realistico del testo, mentre i secondi, forse, ne proveranno un po' d'invidia. Ha infine devoluto (a intermittenza) alla terza persona il compito di preservare quella goccia di pudore che gli è rimasta, peraltro divertendosi non poco a giocare a rimpiattino con la sua proiezione cartacea.
1
mani intrecciate dietro la nuca
freddo alle gambe metà dentro metà fuori
ginocchia sollevate piedi ingabbiati
immobile fino allo spasimo
decerebrato devitalizzato
sotto aliti e ronzii di vento furibondo
al frastuono assordante dei rumori di fondo
eccoli partono gli eserciti in marcia della tomo
terapia
tarata-tarata-tarata
sarà quello dell'arrivano i nostri
o le falangi della morte?
6
è litania è cantilena
sono lamelle che si sfregano
mi spiegano
come elitre di una immane mostruosa
macchina-cicala che pertanto frinisce
scoppietta raddoppia s’infoia
spalanca la bocca e m’ingoia
mi mangia o mi arrangia?
oppure nacchere nacchere strepitose
che una mano pietosa misteriosa
agita furiosamente
esclusivamente per noi vitabondi.
Già ordinario di Letteratura italiana contemporanea all'Università di Salerno, Antonio Pietropaoli ha pubblicato numerosi volumi sulla poesia italiana del Novecento, tra cui “Le strutture dell'anti-poesia” e “Fra retorica e metrica. Saggi sulla poesia italiana contemporanea” (Guida, Napoli, 2013 e 2014). La sua attività poetica è raccolta nel volume-omnia “Cartastraccia” (Oèdipus, Salerno-Milano, 2014). Dirige infine «Trivio», rivista semestrale di poesia, prosa e critica (Oèdipus), è presidente di giuria dell'omonimo premio letterario ed è direttore di due collane di poesia presso l'editore Guida (“I segni del destino” e “Resilienze”).
Un arco dissonante
Un linguaggio straniante, contro-verso, colma le pagine di Tiro ad anticipare, in cui Federico Edgar Pucci snoda i suoi temi in un serrato esercizio tra vertigini e aporie, passioni e trasgressioni. Dove “Il peso del mistero gira il capo”. E dove il corpo e l’anima hanno la parola. Tra carnalità e perdizione, dissacrazione e pietà.
Con un’ambivalenza lasciata in sospeso nei testi: sentirsi sotto tiro o, propriamente, tirare ad anticipare? Rassegnarsi ad essere bersaglio o farsi arciere che tenda la parola verso il suo obiettivo?
Tutto il contesto della raccolta, a partire dal titolo, evidenzia il desiderio di ribaltare la situazione: nel tiro dissacrante, nella “indisciplina del cammino”, nel “Trasgredire come altissime orchestre / l’ampiezza del deserto”. Bersagli sono via via molteplici aspetti: imbarbarimenti, atteggiamenti su cui ironizzare, la commercializzazione dello spirituale da mettere a nudo.
E la parola? Da una lingua anch’essa sotto tiro, ridotta all’espulsione, alla possibilità di recuperarne, fisicamente, senso e ardore: “È stato nel tuo nome carnato / invocato un alfabeto di bruciature”, come leggiamo. In uno scardinamento lessicale e semantico che Federico Edgar Pucci mette in atto per fare, del suo arco linguistico dissonante, un nuovo dire.
Da: Quaderno dell’inverno (o la doppia presenza)
Il segno del rosario sul silenzio.
Il tempo cerca luce dilettante.
La strada sale in una pozza d’alberi.
L’uomo invisibile riceve l’ordine
di restare fedele.
Rasenta sponda di ritorno fatta
in due tra voci d’ombra parallele.
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Si stacca e svirgola dal foro
finché scende a rilento dentro altro da quello
che gonfia il suo mistero. Forse un uovo
dai colori del fuoco.
Diresti che uno sguardo ti controlla
da dietro un lungo seghettato scudo di foglie.
Marciando separato, in seme solo
per metà, indefinito suona il passo
rimasto indietro senza impronta ma
rintocca in una cava d’aria o trova
rimpiatto in una venula pneumatica.
Un’eco rasoterra
ammicca al genio soprannaturale.
Il peso del mistero gira il capo.
C’è una pietra promessa sottosopra.
La lingua trasferita insegue le ombre:
parola in ombra estranea con sé sola
irrevocabilmente espulsa.
La ventata non perde il contatto
con lo sfratto alle spalle del reale.
Tutto contiene il tempo e dal nulla è contenuto.
Sul quaderno invernale annoti nomi e linee:
loro curano il sacco trasparente
molto garbatamente.
Pulizia e pietà si rassomigliano.
Da: La buia voliera
Anche l’erba si slega per assaggiarsi.
Ciò che procede soltanto all’indietro
sa di santo e d’oblio.
Sa di salvezza al mai più darsi corpo e anima.
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Che ti è servito suggere dal poro
più ricco della sagoma da tiro?
Da: Perfetta aporia
È stato nel tuo nome carnato
invocato un alfabeto di bruciature.
-----
Trasgredire come altissime orchestre
l’ampiezza del deserto.
Federico Edgar Pucci è nato nel 1986 a Bagno a Ripoli, dove attualmente risiede. Dopo essersi laureato in Filologia Moderna presso l’Università di Firenze, si occupa, come critico letterario, prevalentemente di letteratura italiana del Novecento. Suoi articoli e poesie sono stati pubblicati sulla rivista «Gradiva», edita dalla Casa Editrice Leo S. Olschki di Firenze. Da due anni insegna Letteratura italiana e Lingua italiana presso la Scuola Internazionale Blyth Academy Florence.
Leggendo queste pagine si comprende la capacità della’autore di essere poeta dal sentire totale. Tutto ciò che è il nostro essere – come natura umana, ma proiettata in una dimensione che unisce e fonde stati di materia diversi,”volti mani sensi/si fanno luoghi” – si presenta al mondo dando con un sentimento del senso distillato in parole che hanno il segno di una necessità unica: che non è quella di dire per insegnare (“siamo senza formule”, precisa Lamberti), ma dire per avvolgere ed espandere il canto.. I brevi, ma concentrati testi, con precisa metrica, invitano a una lettura lenta, per poterne vedere e udire il riverbero nella voce di una sapienza discreta, quasi nascosta: in verità lucida e centrale. I concetti sono conseguenze intime che si aprono al desiderio, sfiorando l’oscurità dove tutto è immaginabile: un transito, verso ciò che ha vocazione di silenzio, di pura meraviglia. “Note mute” ma riconoscibili, se solo ci si dispone ad accogliere il loro pulsare. Un percorso di pensiero, allora, dove solo la poesia riesce a cogliere, per subito donare, l’indeterminata contemplazione nella saggezza di quell’atto etico che diciamo scrittura: che ci accoglie e ci cambia con leggerezza assoluta.
BASTA QUASI UN NIENTE
Basta quasi un niente
per incrinarti l’universo
cammello e cruna
diaframma e apnea
dare mezzo manto
Martino agisce prontamente
respiro empatico
performativo
siamo senza formule
desiderando l’assoluto
restiamo in bilico
concetti sfumano
INIZIAMO UN DISCORSO
CI TROVIAMO A UN BIVIO
Ci troviamo a un bivio
disorientati e il vento spira
fumoso e asfittico
deprime e affloscia
sorvoliamo il mondo
con piccoli atti vuoti e frusti
restiamo inerti
demotivati
Rut ha avuto fegato
non è lasciata sola in terra
a lei straniera
si è affidata
DALLA TERRA DI MOAB
VIENE INESPLORATA
Viene inesplorata
la svolta e porta gli occhi vigili
a contemplare
frontiere insolite
anche tu sei altrove
in quel momento preziosissimo
magari instabile
degravitato
brami un nuovo centro
ma è sempre stato lì vicino
un fluido rosso
respiro-sangue
PANORAMA SPIAZZANTE
Alessandro Ramberti (Santarcangelo di Romagna, 1960) è laureato in Lingue orientali a Venezia, ha vinto una borsa (1984-85) per l’Università Fudan di Shanghai. Nel 1988
consegue a Los Angeles il Master in Linguistica presso l’UCLA e nel 1993 il dottorato
in Linguistica presso l’Università Roma Tre. Ha pubblicato qualche saggio, Racconti
su un chicco di riso (Pisa, Tacchi 1991), La simmetria imperfetta con lo pseudonimo
di Johan Thor Johansson (1996) e alcune sillogi: In cerca (2004, Premio Alfonso Gatto
opera prima), Pietrisco (2006, premi Poesi@&Rete e Cluvium), Sotto il sole (sopra il cielo)
(2012, Premio speciale Firenze Capitale d’Europa) e Orme intangibili (2015, Premio
Speciale Casentino, II class. Tra Secchia e Panaro) Con l’Arca Felice di Salerno
ha pubblicato la plaquette Inoltramenti e tradotto 4 poesie di Du Fu.
L’altro da sè
Di quale sofferenza non comune è interamente impregnato il dire di Giovanna Cristina Vivinetto in Dolore minimo? E, insieme al dire, il corpo che vive realmente in sé la frattura della diversità e che nella parola riesce a trovare la possibilità di un’ulteriore nascita?
Certo, un dolore non comune, in questo trittico del pianto, della morte e della rinascita. Sperimentando nella carne, negli organi e nei desideri del proprio corpo quanto filosofi e poeti hanno assunto come paradigmi di riflessione e di versificazione: l’altro, il doppio, l’enigma che si cela dietro l’apparenza, l’invisibile, l’indicibile.
L’autrice ci mostra, in tutti i suoi dettagli fisici ed emotivi, il crescere della percezione dell’alterità che si fa concreta “nel dolore bambino / di avvertirmi a un tratto / così divisa”, nel riconoscimento dell’altro da sé, del “mistero che non si può dire”, del conflitto che ne scaturisce e quindi dell’esigenza di farsi madre dell’altra che chiede voce. In una lunga e sofferta gestazione: nella carne, nel pensiero, nella parola.
Poiché anche i nomi, che “ci scelgono / prima ancora di pronunciarli”, che “legano in nodi / di verità strette da calzare” marcano a fuoco il conflitto e poi la nuova nascita. Dopo la seconda, avvenuta nel dare vita a una figlia da sé, Giovanna Cristina Vivinetto ne mette in versi una ulteriore: portando alla luce il suo essere nascosto, dando nomi alla verità a lungo celata. Del resto, non è proprio questa tensione al vero a rendere autentico, tra indicibilità e apertura, mistero e svelamento, ogni dire poetico?
Da: CESPUGLI D’INFANZIA
A quel tempo ogni cosa
si spiegava con parole note.
Sillabe da contare sulle dita
scandivano il ritmo dell’invisibile.
Tutto era a portata di mano,
tutto comprensibile
e immediatamente dietro l’angolo
non si annidava ancora l’inganno.
La poesia era uno scrupolo
d’altri tempi, un muto richiamo
alla vera natura delle cose.
Così dissimulata da confondersi
con i palloni, con le bambole
dell’infanzia.
In quei tempi non c’erano disastri
da centellinare, difformità
da curare dentro abiti larghi,
padri da rifiutare e nomi
da pedinare in fondo agli stagni.
Finché non è arrivato il transito
a rivoltare le zolle su cui il passo
aveva indugiato, a rovesciare
il secchio dei giochi – richiamando
la poesia invisibile che mi circondava.
Non mi sono mai conosciuta
se non nel dolore bambino
di avvertirmi a un tratto
così divisa. Così tanto
parziale.
Da: LA TRACCIA DEL PASSAGGIO
La verità è che i nomi ci scelgono
prima ancora di pronunciarli.
Sulle pareti, a ridosso delle strade,
nei vasi di garofani e ortensie,
sulle strisce d’acqua che rigano
le finestre al mattino, sulle
scarpe allacciate, sui pulsanti
dei campanelli, nelle stazioni
in disuso. Su tutto si coagula
un nome. Tutto ne risplende.
E chi fugge dai nomi sappia
che non si sfugge alla nominazione
perché i nomi legano in nodi
di verità strette da calzare,
costringono in sillabe da pronunciare
a detti stretti. Da far male.
I nomi che mi hanno scelta
non trovarono angoli da rischiarare.
Cessarono presto i significati
mentre ero intenta a scavare in ogni
lettera. Speravo nelle eccezioni,
in costrutti arcani da indagare
per darmi un senso.
Ci rinunciai e con loro
all’arroganza della definizione.
All’insensatezza di attenersi
alle parole per vedere la realtà.
La verità è che la realtà
dormiva a un palmo dal naso
sepolta da un cumulo muto
di nomi.
Da: DOLORE MINIMO
Per acquietare il male che lo assale
il poeta lo canta. Ne fa bella
mostra nei suoi versi per sbugiardarlo,
quasi a gridargli in faccia l’infinita
piccolezza della sua minacciosità.
Il poeta ha per sé l’arma della luce
a rischiarare i vuoti d’ombra,
le fessure dove s’annida, il male.
Potrai dirmi che si è deboli
mettendo a nudo i vasi incrinati.
La tavola di legno che balla.
Il punto del muro che non regge.
Nessuno – mi sembra udirti – è disposto
a indossare i tuoi dolori come perle
o a portarli in giro come docili
cani al guinzaglio. Eppure è proprio
del poeta indicare col dito
la ferita. I lembi ammalati
che non chiudono. Anche se tu
non assisti, ti sussurra comunque
un segreto che non puoi avere.
Così il mio male si estingue
su ogni mio verso. Lo canto,
lo urlo per liberarlo dal groviglio
di pelle che ha contagiato.
Non voglio che tu lo colga
per salvarmi. Mi aspetto
che lo guardi crescere. E appassire.
Rannicchiarsi sfinito fino a non esigere
più nulla. Mi aspetto che il mio male
non ti faccia più male.
Giovanna Cristina Vivinetto è nata a Siracusa nel 1994. Laureata in Lettere, vive attualmente a Roma, dove è laureanda alla specialistica in Filologia moderna all’Università La Sapienza. Dolore minimo (Interlinea, 2018; Premio Cetonaverde Poesia Giovani, Premio San Domenichino, Premio Europeo Massa, Premio Lord Byron, Premio Senghor) è la sua opera prima, nonché primo testo in Italia ad affrontare in poesia la tematica della transessualità e della disforia di genere. Con prefazione di Dacia Maraini e postfazione di Alessandro Fo, il libro è apparso ed è stato recensito sulle maggiori testate giornalistiche nazionali, tra cui «Il Fatto Quotidiano», «La Repubblica», «La Stampa», «Il Messaggero», «Il manifesto» (Alias, Le Monde Diplomatique), «Il Sole 24 ORE», «Panorama», «Il Corriere della Sera», «La Sicilia» e altri.
Alberta Pellacani (Carpi 1964), studia pittura a Bologna all’Accademia di Belle Arti, e si laurea in Arti Visive al DAMS. Dagli esordi artistici degli anni ’80 conduce una ricerca per sconfinamenti, tra pittura e fotografia, video arte e operazioni d’arte partecipata, documentario, disegno, azioni. Ha esposto in mostre e festival in Italia e all’estero tra le ultime partecipazioni nel 2019 ‘ONDE’, performance di video e musica per ‘Volo IH 870’, a cura di Silvia Grandi, a Bologna al Museo della Memoria di Ustica; ‘Promessa’ mostra personale a cura di Lucia Biolchini e Piero Deggiovanni, presso Dislocata, Vignola; nel 2022 VISIBILIA al Palazzo Ducale di Gubbio.
Marginali accadimenti, minimi movimenti colti nel contatto diretto con le cose per ri-vedere l’ordinaria o straordinaria normalità, è ciò che emerge dalla recente ricerca video, che nelle installazioni affianca al disegno.
Ispirata dalle poesie di Giorgio Bonacini, ha disegnato per ‘Falle Farfalle’, Anterem ed. 1998
Sebastiano Aglieco, Nadia Agustoni, Alessio Alessandrini, Pietro Altieri, Viola Amarelli, Angelo Andreotti, Marcello Angioni, Cristina Annino, Gian Maria Annovi, Lucianna Argentino, Davide Argnani, Giuseppe Armani, Paolo Artale, Gianluca Asmundo, Alessandro Assiri, Daniela Attanasio, Leopoldo Attolico, Dino Azzalin, Claudia Azzola
Luigi Ballerini, Paola Ballerini, Daniele Barbieri, Bianca Battilocchi, Maria Angela Bedini, Carlo Gregorio Bellinvia, Daniele Bellomi, Primerio Bellomo, Franco Beltrametti, Mario Benedetto, Dario Benzi, Riccardo Benzina, Pietro Antonio Bernabei, Armando Bertollo, Vanni Bianconi, Nicoletta Bidoia, Ilaria Biondi, Giorgio Bona, Giorgio Bonacini, Leonardo Bonetti, Simone Maria Bonin, Vito M. Bonito, Doris Emilia Bragagnini, Silvia Bre, Andrea Breda Minello, Fabrizio Bregoli, Luca Bresciani, Alessandro Broggi, Roberto Bugliani, Simone Burratti, Giusi Busceti, Antonio Bux
Laura Caccia, Rinaldo Caddeo, Nanni Cagnone, Giuseppe Calandriello, Maria Grazia Calandrone, Giovanni Campana, Mario Campanino, Enzo Campi, Giovanni Campi, Martina Campi, Emanuele Canzaniello, Maddalena Capalbi, Michele Cappetta, Roberto Capuzzo, Allì Caracciolo, Alessandra Carnaroli, Lorenzo Carlucci, Anna Maria Carpi, Peter Carravetta, Alberto Casadei, Mauro Caselli, Guido Caserza, Marosia Castaldi, Davide Castiglione, Paola Casulli, Alessandro Catà, Franca Maria Catri, Elena Cattaneo, Alessandra Cava, Roberto Ceccarini, Giorgio Celli, Alessandro Ceni, Rossella Cerniglia, Maria Benedetta Cerro, Marilina Ciaco, Viviane Ciampi, Gaetano Ciao, Antonella Cilento, Laura Cingolani, Mara Cini, Gabriella Cinti, Domenico Cipriano, Sonia Ciuffetelli, Roberto Cogo, Gabriella Colletti, Osvaldo Coluccino, Tiziana Colusso, Silvia Comoglio, Federico Condello, Nicola Contegreco, Antonino Contiliano, Morena Coppola, Giorgiomaria Cornelio, Marina Corona, René Corona, Marcella Corsi, Elena Corsino, Erika Crosara, Albino Crovetto, Lia Cucconi, Miguel Angel Cuevas, Vittorino Curci
Mauro Dal Fior, Anna Maria Dall’Olio, Chetro De Carolis, Alessandro De Francesco, Enrico De Lea, Chiara De Luca, Adriano De Luna, Lella De Marchi, Daria De Pellegrini, Annamaria De Pietro, Evelina De Signoribus, Gerardo De Stefano, Riccardo Deiana, Silvia Del Vecchio, Fernando Della Posta, Pasquale Della Ragione, Stefano Della Tommasina, Aurelia Delfino, Tino Di Cicco, Danilo Di Matteo, Vincenzo Di Oronzo, Bruno Di Pietro, Stelvio Di Spigno, Letizia Dimartino, Paola Silvia Dolci, Edgardo Donelli, Paolo Donini, Antonella Doria, Patrizia Dughero, Giovanni Duminuco
Marco Ercolani, Flavio Ermini, Franco Falasca, Mario Famularo, Gabriela Fantato, Anna Maria Farabbi, Roberto Fassina, Silvia Favaretto, Francesco Fedele, Federico Federici, Annamaria Ferramosca, Paolo Ferrari, Aldo Ferraris, Luca Ferro, Paolo Fichera, Massimiliano Finazzer Flory, Zara Finzi, Antonio Fiori, Raffaele Floris, Rita Florit, Ettore Fobo, Giovanni Fontana, Luigi Fontanella, Valentino Fossati, Biancamaria Frabotta, Kiki Franceschi, Tiziano Fratus, Mario Fresa, Lucetta Frisa, Adelio Fusè
Gabriele Gabbia, Miro Gabriele, Tiziana Gabrielli, Maria Grazia Galatà, Marinella Galletti, Carmen Gallo, Gabriella Galzio, Guido Garufi, Paolo Gentiluomo, Mauro Germani, Fabia Ghenzovich, Alessandro Ghignoli, Gianluca Giachery, Carlo Giacobbi, Anna Maria Giancarli, Lino Giarrusso, Andrea Gigli, Patrizia Gioia, Carolina Giorgi, Sonia Giovannetti, Marco Giovenale, Alfredo Giuliani, Lorenzo Gobbi, Marcello Gombos, Llanos Gomez Menéndez, Michela Gorini, Giuseppe Gorlani, Alessandra Greco, Angela Greco, Cesare Greppi, Lino Grimaldi, Maria Grimaldi Gallinari, Iria Gorran, Giovanni Guanti, Ermanno Guantini, Vincenzo Guarracino, Mariangela Guàtteri, Gaia Gubbini, Gian Paolo Guerini, Stefano Guglielmin, Andrea Guiducci
Giovanni Infelìse, Maria Grazia Insinga, Carlo Invernizzi, Stefano Iori, Francesca Ippoliti, Gilberto Isella
Ettore Labbate, Sonia Lambertini, Michele Lamon, Marica Larocchi, Vincenzo Lauria, Leandro, Ferdinando Lena, Alfonso Lentini, Laura Liberale, Nicola Licciardello, Tommaso Lisa, Oronzo Liuzzi, Domenico Lombardini, Andrea Lorenzoni, Francesco Lorusso, Carmine Lubrano, Ghérasim Luca, Antonella Lucchini, Eugenio Lucrezi
Loredana Magazzeni, Giulio Maffii, Franca Mancinelli, Danilo Mandolini, Francesca Marica, Marianna Marino, Andrea Marinucci, Emanuela Mariotto, Attilio Marocchi, Raffaele Marone, Francesco Marotta, Giuseppe Martella, Giulia Martini, Giulio Marzaioli, Vincenzo Mascolo, Stefano Massari, Mara Mattoscio, Ugo Mauthe, Alessandro Mazzi, Luciano Mazziotta, Daniele Mencarelli, Tommaso Meozzi, Manuel Micaletto, Emiliano Michelini, Roberto Minardi, Marco Mioli, Stefano Modeo, Francesca Monnetti, Daniela Monreale, Gabriella Montanari, Emidio Montini, Marcel Moreau, Romano Morelli, Umberto Morello, Sandra Morero, Alberto Mori, Alessandro Morino, Renata Morresi, Chiara Mulas, Gregorio Muzzì
Luigi Nacci, Clemente Napolitano, Paola Nasti, Giuseppe Nava, Stefania Negro, Giulia Niccolai, Davide Nota, Mario Novarini, Marco Nuzzo, Riccardo Olivieri, Francesco Onìrige, Margherita Orsino, Cosimo Ortesta
Luca Paci, Marco Pacioni, Adriano Padua, Alessandra Paganardi, Cristiana Panella, Carla Paolini, Alice Pareyson, Paola Parolin, Giovanni Parrini, Angela Passarello, Sandro Pecchiari, Giuseppe Pellegrino, Camillo Pennati, Gabriele Pepe, Daniela Pericone, Roberto Perotti, Anna Maria Pes, Serge Pey, Mario Pezzella, Luisa Pianzola, Antonio Pibiri, Renzo Piccoli, Rosa Pierno, Antonio Pietropaoli, Roberto Piperno, Pietro Pisano, Stefano Piva, Marina Pizzi, Daniele Poletti, Gilda Policastro, Chiara Poltronieri, Giancarlo Pontiggia, Nicola Ponzio, Michele Porsia, Stefania Portaccio, Claudia Pozzana, Ivan Pozzoni, Chiara Prete, Loredana Prete, Rossella Pretto, Federico Edgar Pucci, Maria Pia Quintavalla
Alessandro Ramberti, Jacopo Ramonda, Giuseppina Rando, Andrea Raos, Beppe Ratti, Filippo Ravizza, Luigi Reitani, Vittorio Ricci, Jacopo Ricciardi, Alfredo Rienzi, Giuliano Rinaldini, Alfredo Riponi, Massimo Rizza, Gianni Robusti, Marta Rodini, Cecilia Rofena, Andrea Rompianesi, Stefania Roncari, Silvia Rosa, Sofia Demetrula Rosati, Lia Rossi, Pierangela Rossi, Giacomo Rossi Precerutti, Greta Rosso, Enea Roversi, Anna Ruchat, Paolo Ruffilli, Gianni Ruscio
Irene Sabetta, Luca Sala, Tiziano Salari, Luca Salvatore, Claudio Salvi, Lina Salvi, Rosa Salvia, Lisa Sammarco, Massimo Sannelli, Irene Santori, Patrizia Sardisco, Francesco Sassetto, Marco Saya, Viviana Scarinci, Antonio Scaturro, Evelina Schatz, Giuseppe Schembari, Fabio Scotto, Massimo Scrignòli, Beppe Sebaste, Loredana Semantica, Luigi Severi, Sergio Sichenze, Ambra Simeone, Stefania Simeoni, Roberta Sireno, Maurizio Solimine, Lucia Sollazzo, Marco Sonzogni, Pietro Spataro, Fausta Squatriti, Giancarlo Stoccoro, Stefano Stoja, Maria Paola Svampa
Antonella Taravella, Gregorio Tenti, Diego Terzano, Italo Testa, Ranieri Teti, Matilde Tobia, Maria Alessandra Tognato, Carlo Tosetti, Eros Trevisan, Silvia Tripodi, Luigi Trucillo, Guido Turco, Gian Maria Turi, Giovanni Turra Zan
Liliana Ugolini, Tonino Vaan, Adam Vaccaro, Luca Vaglio, Roberto Valentini, Camillo Valle, Sandro Varagnolo, Francesco Vasarri, Matteo Vercesi, Cesare Vergati, Maria Luisa Vezzali, Massimo Viganò, Pasquale Vitagliano, Nicola Vitale, Ciro Vitiello, Giovanna Cristina Vivinetto, Annarita Zacchi, Simone Zafferani, Paola Zallio, Claudio Zanini, Claudia Zironi, Aida Maria Zoppetti, Marco Zulberti