Dedichiamo l’apertura di questo nuovo numero a Marosia Castaldi (1951-2019) che, negli anni centrali della sua vita, ha fatto parte della redazione di “Anterem”. Alla rivista ha offerto testi di grande valore: uno di questi, caratterizzato da senso, forma e tensione, è qui ripreso nell’ultima pagina, insieme con i lavori dei sodali di un’esperienza ormai irripetibile, come racconta Marica Larocchi. Antonella Cilento e Mara Cini intervengono, l’una a tutto tondo, l’altra focalizzata sugli anni anteremiani, a delineare il percorso letterario di Marosia.
Inoltre, in “Carte nel vento 49”, in continuità con il numero precedente e grazie alla nota teorica e alle nuove traduzioni di Cristiana Panella, si definiscono la figura e l’opera di Serge Pey, presentato in poesia per la prima volta in Italia su questo periodico.
Infine continua la pubblicazione di poeti, prosatori e saggisti selezionati nell’ambito dell’edizione 2019 del Premio Lorenzo Montano: siamo lieti di ospitare Gianluca Asmundo, Ilaria Biondi, Martina Campi, Antonio Fiori, Sonia Giovannetti, Oronzo Liuzzi, Cristiana Panella, Anna Maria Pes, Irene Sabetta, Sergio Sichenze, tutti presentati dalla redazione di “Anterem”.
Il lavoro intorno al “Montano”, svolto dalla giuria, è praticamente inesauribile: riteniamo che questo lavoro dia un senso perdurante al Premio, che continua a riverberare e non si esaurisce con la proclamazione degli esiti.
Ricordiamo che la nuova edizione è in corso scarica il bando della 35^ edizione
In copertina: “Questa cosa”, plaquette verbovisiva nata nello studio di Marosia Castaldi
Ranieri Teti
Mentre penso a Marosia Castaldi e alla sua opera, e al mio personale ricordo di lei, ho tra le mani una nuova edizione de I Sonnambuli di Hermann Broch e leggo la nota di Milan Kundera dove si dice dei grandi personaggi che fanno, epoca dopo epoca, la forma di un paese o una teoria del tempo: i personaggi di Kafka, di Brock, di Hašek, di Musil e Mann e Fuentes.
Nelle grandi topografie del romanzo novecentesco, nel romanzo come teoria, le donne sfuggono sempre, anche le più grandi, le più famose. Non fanno teoria, occorre per forza che facciano teoria di genere, se e quando la teoria di genere se ne occupa.
E dunque non dovrei stupirmi che l’opera sperimentale, immane, complessa e libera di Marosia sia non solo poco conosciuta ma quasi introvabile e ignorata e che persino la sua scomparsa, nel novembre 2019, sia passata del tutto sotto silenzio, senza che nessuna delle persone, che pure l’avevano incontrata e apprezzata, a volte sostenuta, muovessero un dito, dicessero una parola o fossero informate dell’accaduto.
Sì, c’è un mistero nel nostro destino, c’è un silenzio che nessuno vuole esplorare, a volte nel timore di riconoscervisi. Ci sono, in ogni epoca, voci autoriali strombazzate e celebrate e voci quasi del tutto silenziate.
Ma c’è nella nota di Kundera una frase di Carlos Fuentes che d’improvviso mi sembra adatta alla teoria di donne, la càrola, la parabola delle cieche e delle veggenti, che Marosia ha descritto pagina dopo pagina, romanzo dopo romanzo, mescolando prosa, biografia e invenzione, trasfigurandosi continuamente, trascendendosi continuamente con la consunzione di sé e del proprio corpo che anche la malattia comportava.
Scrive Fuentes: “Ci vogliono molte vite per fare una sola persona”.
E che tutti i libri di Marosia Castaldi, e tutte le sue opere pittoriche e visive, cercassero disperatamente di comporre quel che forse per gli uomini è più facile ricomporre, grazie a maschere autorizzate e scelte (mentre per le donne ogni ruolo è l’eredità di una schiavitù, di una servitù data per scontata), mi appare ora ancor più evidente.
Temi, parole, immagini tornano ossessivamente nella sua scrittura, che è corpo e compulsione, che è spesso frenesia (quel disordine così poco apollineo che sfugge ai lettori maschi, che spaventa anche i lettori di una scrittrice non meno sperimentale e geniale come Clarice Lispector) ma non assenza di disciplina.
Forse, ripetendo un paesaggio, una memoria, un luogo, sottraendo il cibo e sottraendo il corpo, Marosia Castaldi ha cercato di dar spazio alla sua opera, un’opera potente, ne restassero anche solo frammenti, come per i lirici greci.
Mia suocera, che è stata insegnante di filosofia di Marosia, un’insegnante molto amata, la ricorda giovane come una “ragazzona con una lunga treccia”, intelligente, brillante, mobile. Si sono reincontrate, milioni di anni dopo, in una delle lezioni che organizzo, ruoli invertiti, Marosia che insegnava e mia suocera allieva, ascoltatrice.
Avremmo tutti dovuto fare e dire di più per Marosia Castaldi: confesso, dopo averla invitata diverse volte a tenere lezione per Lalineascritta, di aver avuto paura a farla viaggiare per la delicatezza della sua condizione e di aver rimandato, anche se lei mi chiedeva di tornare.
Mi aveva scritto una lettera bellissima in occasione dell’uscita, seguita da polemiche, di un mio libro dedicato alle difficoltà di far cultura a Napoli (ma in Italia, ormai), quelle difficoltà che lamentiamo invano, che me l’aveva fatta sentire subito vicina.
Sospetto che ognuno di noi, che ha conosciuto e magari frequentato Marosia, sappia comunque poco o troppo poco di lei: il rigore della sua arte, la precisione geniale delle sue lezioni, lo sguardo aperto ed eclettico che ha mantenuto in ogni sua produzione meritano studi e riscoperta.
Per paradosso, come spesso capita, della letteratura delle donne italiane contemporanee si stanno occupando le università estere più delle nostre.
Uno studio più sistematico del corpus degli scritti di Marosia, una produzione trentennale iniziata con Abbastanza prossimo nel 1986, proseguita con Casa idiota (1990), La montagna (1991), Piccoli paesaggi, che pubblicò nel 1993 proprio Anterem, che oggi così gentilmente mi sollecita ed ospita questo breve ragionamento, continuata con Ritratto di Dora (1994), Fermata km 501(1997), approdata e all’editore Feltrinelli nel 1999 con Per quante vite, Che chiamiamo anima, Dava fine alla tremenda notte e Dentro le mie mani le tue (Tetralogia di Nightwater) e negli ultimi anni seguita dalla cura attenta di Agnese Manni che ne ha stampato La fame delle donne (2012), cui si aggiungono altri titoli, da Il dio dei corpi (2006) all’opera teatrale Calco (2008), In mare aperto (2001) e ai saggi dedicati alla punteggiatura pubblicati da Holden, è attesa e auspicata.
“…ero divisa tra realtà e finzione, tra ciò che si vede e ciò che non si vede”, scrive ne Il dio dei corpi, struggente controromanzo di un ricovero.
Ai lettori ora l’occasione di entrare, perché poesia, pittura, romanzo, immagine e parola hanno agito tramite Marosia Castaldi facendone un’allieva estroversa e indipendente di Virginia Woolf in Italia, tracciando una scia nuova, libera e potente.
Del tutto esterna alle piatte logiche del mercato.
Di Marosia Castaldi ricordo la figura elegante e la presenza austera (ma con qualcosa di fragile) agli incontri della nostra redazione.
Ora che è mancata (ma tutti noi l’abbiamo saputo con molto ritardo) ritrovo casualmente Marosia in un refuso del suo nome (Mariarosa!), sulla quarta di copertina di un’edizione economica de La signora delle camelie dove è riportata (non so con quale pertinenza) una sua frase sulla passione… È questo improbabile cortocircuito di senso che mi riporta sulle sue tracce.
Ritrovo i testi pubblicati molti anni fa su Anterem: Paesaggio delle citazioni notturne sul numero 44 nel 1992; Paesaggio del mobile sul numero 47 nel 1993; Natura morta sul numero 49 nel 1994; Non paesaggi sul numero 53 nel 1996.
Ritrovo il volume Piccoli paesaggi, edizioni Anterem, 1993, che la nota critica di Lucio Klobas inquadra con grande perfezione: Nella scrittura di Marosia Castaldi, l’io narrante non solo si espande in tante psichiche proiezioni che preludono al suo dissolversi, ma riassume in sé la memoria del tempo trascorso che continua a vivere nell’immaginario. Oscilla a pendaglio tra l’assorta rappresentazione di un passato vischioso e, attraversando le ceneri di un presente inafferrabile quanto misterioso, giunge a sperimentare un’infinità di futuri possibili (…).
Intensità e densità, scrittura labirintica e ossessiva (Klobas parla di riferimenti a Bernhard, io citerei anche Uwe Johnson) dove tutto è paesaggio perché la scrittura tutto dispiega, sottopone e sovrappone allo sguardo. Ci sono paesaggi “reali” o plausibili, geograficamente esistenti (Paesaggio di Assisi) riprodotti alternativamente in una prospettiva a volo d’uccello e in una visione che sgrana le figure fino all’astrazione. Paesaggi della mente, infiniti, pullulanti di icone, di vuoto, di ansia fisica. E c’è un Paesaggio etrusco, un paesaggio notturno, un Paesaggio delle pareti del mondo (dove in molti hanno tentato di arrampicarsi scivolando sempre giù). Paesaggi che come i sogni si levano forti sopra le teste eppure sono contenuti nelle teste.
In una delle ultime collaborazioni alla rivista, 1996, troviamo i testi, di Non paesaggi, lucidi compatti, specchianti, assurti quasi a una sorta di still life, linea d’ombra, ricordo del limite, pienezza della vita che dà, in quanto tale, la prossimità costante della morte.
L’ “oggetto” (nei primi anni Novanta il termine s’imponeva come il più consono e attuale per indicare il prodotto di un lavoro creativo) potrebbe adesso definirsi più equamente una ‘raccolta di parole e immagini ‘ realizzata in maniera casalinga nel corso di due /tre anni da una manciata di amici artisti e poeti. I quali incollano, cuciono, sigillano con tanto di ceralacca rossa l’esito delle loro conversazioni zeppe di spunti, di scambi e passaggi d’idee, di revisioni, fino a trarne il ‘quaderno’ denominato “Questa cosa”. Ma l’animatrice -l’anima-, collante e calamita, e del progetto in sé e delle numerose riunioni, distribuite a turno nell’alloggio di ciascuno dei partecipanti, quasi membri di una setta speciale; il fulcro di “Questa cosa” è stata lei, Marosia.
Un po’ titubante, se non proprio timida, sulle prime, quindi sempre più armata di volontà acuta e ardente, ci propose di riflettere sull’ ‘amicizia’, sedute/seduti intorno a un tavolo, sovente in cucina, per ricavare pensieri, colori e figure che testimoniassero del breve periodo durante il quale, noi, segreti speculatori e amanuensi segregati, dopo riflessioni, incontri e scontri, elaborammo finalmente una sorta di sinossi del nostro piacevole confinamento meditativo. Sul quaderno bene appuntato, stretto fra due fogli - bianco su nero di costellazioni caserecce ma di mallarmeana ascendenza- risaltano vocaboli che sono i capisaldi, les points de capiton lacaniani, della scrittura di Marosia Castaldi, in particolare dei suoi primi libri: ‘purga’ ‘vuoto’ ‘tempo’ ‘voglio’ ‘privazione’ ‘pienezza’.
Ora, rileggendo i suoi Piccoli Paesaggi (Verona, Anterem 1993) e Ritratto di Dora (Loggia de’ Lanzi, Firenze 1994) sono percorsa da un brivido che segnala e marca sia il dolore per la sua perdita, direi ‘precoce’, sia la scoperta sempre più sorprendente dell’originalità e della forza che si sprigionano ancora dal suo linguaggio. E’, il suo, un linguaggio paradossale che nega e afferma simultaneamente; ipergenerativo, grazie alla sua specifica abilità nell’allungare e accorciare il nastro tagliente del tempo/spazio come fosse un elastico flessibile allo scopo di fare esistere e d’insistere, nel tratto più corto di scrittura -frase, sintagma, lemma- le più numerose e puntute antitesi.
‘Un letto di spine. Si fa tutto nei letti. Si nasce nei letti si muore nei letti si fa l’amore nei letti ci si soffre e ci si gode ci si adagia e ci si divincola come in catene si urla si ride si sospira si geme. I letti sono di roccia di rose di spine di erba di magre lenzuola di morbide piume. I letti sono tombe. Milioni di tombe come letti sotto la volta enorme del cielo. Ognuno che dorme ignaro del suo destino e ignaro del destino dell’altro. Quando s’incontreranno tutti questi letti?’ (Paesaggio delle citazioni notturne, pag. 17, Op. cit.)
La ripresa ossessiva dei vocaboli, la predilezione per la sintassi paratattica con periodi brevi e brevissimi, nei quali passato e futuro si contraggono dentro un presente verticale, teso tra conflitti verbali inesauribili poiché fondati sulla specularità, costituiscono le caratteristiche più evidenti del suo stile. E risaltano oggi come l’esclusività della sua pratica linguistica, feroce e soave, impietosa e generosa, sempre innervata dall’impeto verso il sublime. Le sue parole si rivestono di quella sostanza immateriale che io chiamo il Femminile nell’atto poetico creativo: si tratta di materia ironica e spirituale, sottile e pungente che attraversa e compone tutte le visioni dei suoi paesaggi, quasi mattoni sganciatisi da ogni legge gravitazionale, come nel duetto interiore di Dora.
‘Sì, non riesco a sentire la vita del corpo ma solo la sua morte.’
‘E’ per questo che tendi a nasconderlo, come se potessi essere io il tuo corpo e tu farne a meno.’
‘Sì, potresti essere tu la madre e quindi il corpo.’
‘E tu stare sempre all’interno di questo corpo in una fantasia fusionale irrisolta.’
‘Per questo non posso staccarmi da te e io sono te e tu sei me.’ (Ritratto di Dora, pag.91)
Forse la carne della sua scrittura, muscoli, tendini, pelle e ossa, si è lentamente, senza che lei, l’Autrice, se ne avvedesse davvero, sostituita agli elementi essenziali della sua vita terrestre, senza che noi, lettori, ci accorgessimo della metamorfosi, se non apprendendo tardi la mesta notizia della sua scomparsa terrena.
‘Quando conversiamo è come se un immenso vuoto si facesse intorno e dentro di noi e le parole ruotassero e volassero privandosi a poco a poco della sostanza concreta di ciò che dovrebbero connotare e alla fine si equivalgono e io potrei assumere il suo ruolo e lei il mio. Tuttavia, queste parole ci servono, come il battito del cuore il rumore incessante del corpo e della vita. Così ce le diciamo anche se alle volte ci sembrano insensate. Ma è forse più insensato il battito del cuore o il fluire incessante della vita?’ (Op. cit., pag. 91/92)
Marica Larocchi, settembre 2020
INFINIZIONE, TESTIMONIANZA, INVERSIONE, penso, mentre ascolto Serge Pey e Chiara Mulas. « Infinizione » coniuga l’accezione di moto e quella di contrario. La prima è quella di Lévinas, l’infinizione come ospitalità, la capienza nell’accogliere quello che non si può contenere ; la seconda è la non-finizione, l’anti levigatura, che riporta alla prima, all’infinizione come non-intenzionalità. Contrariamente all’infinizione, l’intenzionalità, scrive Lévinas, presuppone già l’idea di infinito ; è l’inadeguazione per eccellenza. Pertanto, contenendo l’idea di infinito che non può contenere né prefigurarsi, il poema di Serge Pey « non è mai finito ». E questa in-finitezza si manifesta nell’incarnazione della parola. Pey è banditore dell’oralità, della testimonianza attraverso il corpo e la voce, e con corpo e voce l’avvento poetico fa luogo, fa cerchio, si fa « creatura » intrinsecamente e incompiutamente futura. Mostra come « crier » (gridare) sia « créer » (creare) : di come, nell’abbraccio aereo dell’assonanza, il grido sia atto di creazione. « Net cuer crie en mei, Deus » (Liber psalmorum). « Dio, crea in me un cuore puro ». E una volta generata, la criatura prende la forma della sua strada. In The Life of Lines (2015), l’antropologo Tim Ingold, nel solco della sua riflessione sulla forma come movimento continuo già proposta in Being Alive (2011) e in Making (2013), propone un’interrelazione alternativa rispetto al concetto di rete, comparando il pellegrino al navigante. Per il pellegrino la destinazione è il cammino ; il suo tracciato prende forma strada facendo. Diversamente, i movimenti del navigante procedono punto per punto secondo tappe intermedie calcolate in parte prima di iniziare il tragitto. Il passo pellegrino procede come la ragnatela : non è una rete di nodi, giunture che sottendono la testura, l’impalcatura, l’ossatura ; è una dinamica di congiunture, di (s)nodi, che il ragno crea nel suo movimento di tessitura. Il cuore stesso, dice Ingold è congiuntura, mentre le ossa si incontrano nella giuntura. La forma e la traiettoria di un movimento sono quindi imprevedibili prima del movimento. Nell’interrelazione umana ciò si traduce nella risonanza, nell’ « attenzionalità » più che nell’ « intenzionalità » (Ingold, « On human correspondence », JRAI, 2016), nell’andare verso più che nel trovarsi dentro. Il poema di Pey scende in strada a cercare i suoi ospiti, fa casa per chi si avvicina, per chi c’è. In questo senso non è mai finito, privo di levigatura. L’ultima parola sarà quella dell’ultimo commensale, di colui che deve ancora prendre posto alla pubblica mensa del poeta. Così il poema rimane aperto, collettivo. La parola è veste aderente al suo messaggio. Non si specchia, ne se cherche pas. Non deve fare « opera volontaria di differenza. È il poema stesso che fa quest’opera », dice Pey. Il poema opera per chi ha ceduto il passo, per gli invalidati. Braccio di testimonianza che ripete e scandisce in verticale, incarnando un memento di giustizia, diventando cahier de doléance(s). « Ci sono morti », ripete il poeta ; marca l’impronta per chi è diventato sabbia. Testimonia per i vivi e per i morti di tutti i tempi, seduti alla stessa tavola, in abitudini di uno stesso tempo. « Ci sono morti che escono dal parrucchiere/e altri che vorrebbero recuperare/semplicemente i loro olivi e le loro capre dalle corna limate ». I morti sono invocati, ringraziati, sollecitati nel ricordo. La rimembranza ravviva l’esperienza di compagnia, riporta il passo. Esplicitato in diverse interviste, il dialogo con i morti, così come il passaggio tra mondo dei vivi e mondo dei morti, è tema caro alla poetica di Serge Pey, in particolare nel libro di racconti biografici « Le trésor de la guerre d’Espagne » (Éditions Zulma, 2011) : « Uno dei miei maestri di poetica è stato mio padre, elettricista, che un giorno fece un gesto fondamentale davanti a me: poiché il nostro tavolo era troppo piccolo per accogliere gli ospiti, scardinò la porta di casa e la posò su un cavalletto. Abbiamo pranzato su una porta. Sul luogo di passaggio. La mia tematica viene da lì ». Un’inversione senza coordinate spazio-temporali. L’inversione è nell’atto di creazione stesso, non risponde all’unità di misura ; come il sogno, non discrimina tra incombente e remoto, tra semafori e fette di arancia blu. Tutto è orizzontale, scevro da giudizio. Ancora una volta, è il canale aperto dello sguardo poetico, lo sguardo celeste dal basso, che unisce il verso, l’avverso e l’inverso ; che chiama il décalage comunanza. « Il pennello è un coltello » realmente, come la porta fu da sempre tavolo.
Serge Pey e Chiara Mulas
Azione da Occupation des Cimetières (Éditions Jacques Brémond, 2018)
Chiesa di Sigale (Vallée de l'Estéron), 2017
Foto: Sabine Venaruzzo
Il peso dei morti
I morti pesano uguali ovunque
ma quando li si sotterra
non si recita per ognuno la stessa preghiera
sulle tombe
I morti pensano che la terra sia un orecchio
fatto per udirli
almeno una volta sola
anche cantando in falsetto
Ci sono morti che pesano
più di altri
e non sapremo mai perché
eppure le bilance non sono truccate
né gli aghi storti
Ci sono morti più leggeri di altri
E altri più pesanti dei primi
Ci sono anche morti
che non esistono
talmente li abbiamo dimenticati al mercato
delle resurrezioni
e dei trapezi.
Ci sono morti che sono grandi farfalle
Ci sono morti che sono magri serpenti
che perdono le vertebre
Ci sono lunghe lucertole che fanno i nodi all'aria
Ci sono morti che nuotano come piccoli pesci
in boccali rossi
Mi hanno chiesto di scrivere
un poema sul peso dei morti
sul bordo di un'enclave
in un territorio di Giove
È quello che faccio ma non riesco
perché la bilancia ha un piatto solo
e tutti sgomitano per farsi pesare
Su Marte quest’anno
sono stati abbattuti
133 politici
ma nessuna radio ne parla
Dal 2002 su Venere
sono stati assassinati 124 giornalisti
su Plutone
sono stati soppressi 200 poeti
In un pianeta lontano
della costellazione di Quetzalcoatl
ci sono stati 800.000 morti
Ma la televisione interplanetaria non dice niente
lo stesso
Su Nettuno
si collezionano le foto
dei bambini morti sotto le bombe
o decimati dai cecchini
Sulla luna
al mercato del sabato
si vendono francobolli
con i loro nomi a colori
per i collezionisti
Sull’Orsa Maggiore
in particolare
vengono sgozzate donne a decine
Erano compagne coraggiose
che inventavano il mondo
e difendevano il diritto all’aborto
Così un po’ dappertutto
su Urano ad esempio
gli aerei di una grande monarchia petrolifera
bombardano gli autobus degli scolari
Ci sono morti di cui non si parla
Ci sono morti con la bocca aperta
Ci sono morti che non hanno più la dentiera
Ci sono morti a cui hanno strappato la lingua
con un colpo solo affinché non possano parlare
Ma credetemi
Nessun poeta va a passeggio
con una bilancia per pesare i morti
e constatare che ci sono morti più importanti
di altri
I morti hanno lo stesso peso
anche se le bilance mentono
Tuttavia una cosa è certa
il poeta sa che i morti
si beffano delle preghiere
ed è per questo d’altronde
che scrive poemi senza peso
Insisto di nuovo
I morti non pesano tutti uguale
Sono le foto che fanno la differenza
l’inquadramento
la maniera di appenderle
e soprattutto la natura del loro assassino.
Ci sono morti
né leggeri né pesanti
Ci sono morti che non esistono
a forza di esistere
Ci sono morti alla moda
Ci sono morti senza patria
Ci sono morti nudi e morti vestiti
Ci sono morti che fanno l’appello nelle scuole
Ci sono morti senza telefono
E altri in abito nuziale
Ci sono morti nascosti negli ospedali
Ci sono morti che sono bambini
con camicie rosse naufragati su una spiaggia di Syrius
o di Sicilia
Ci sono morti che escono dal parrucchiere
e altri che vorrebbero recuperare
semplicemente i loro olivi e le loro capre dalle corna limate
Questo poema non è una preghiera
né un volantino di propaganda destinato ad essere
distribuito in un cimitero perduto
di Alfa Centauro o Plutone
né un ritornello canticchiato sui morti che dimentichiamo
e su quelli che non si dimenticano
D’altronde non si prega che per i vivi
perché il regno dei coglioni appartiene loro
nei cieli
in mezzo alle fiche profumate delle vergini
dei cecchini del purgatorio
davanti a un fabbro chiamato Pierre
o a un marmista che risponde al nome di Maurice
sul Sinai
I morti, loro,
si sono messi in Comune
da lungo tempo
e condividono il poco pane che hanno
sul bordo delle loro tombe
invitandoci a un pranzo
dell’avvenire senza marmellata
sempre nel passato
al bistrot degli assassini
I soli monumenti ai morti
che conosciamo
sono quelli dei vivi
che ammazzano i vivi
nell’altissimo della costellazione
della Croce del segno
o della scimmia
che sputa alfabeti
che nessuno comprende
Correggere Dio
Il busto di quest'uomo
è un'onda del mare
tagliata a fette di arancia blu
Non si dipinge mai un paesaggio su una tela
Si dipinge sempre su un paesaggio
che si ricopre con la tela una volta terminato
perché il paesaggio è sempre fatto male
L'uomo dice
Noi correggiamo Dio
Questa macchia rossa è il sangue di un toro
di plastica a sinistra di una geografia
Qui risiede il segreto di quest'uomo
Qui non si vede una tela
ma un paesaggio su cui si stende
il liquido rovesciato da un bidone di sangue
Per fare questo l'uomo
si è coperto il viso con una maschera da scimmia
Dietro di lui uno spettatore autoritario
sorveglia il cielo
Forse una spia o un inviato dei morti
che non sanno più dipingere
Questa spia nasconde il sesso dietro agli occhiali
Uno spaventapasseri blu
coglie ciliegie multicolore per il mercato
dei macellai della luce
Il paesaggio è una bandiera
La tavolozza dell'uomo è verticale
Il pennello è un coltello
Il paesaggio trema di paura
Dio è una donna
che fa colare le sue mestruazioni
L'uomo beve il sangue che versa
sul paesaggio poi lo scambia col nostro
con un tubo nascosto
in tutta la luce.
Carogna
Il poeta di oggi
non è un raccattatore di libri
ma di immondizia e rifiuti
A volte è un macellaio
o un cernitore di rifiuti
o anche un parrucchiere di escrezioni
o di peli di naso
La poesia resuscita le carogne
in particolare quelle degli uccelli
per farle volare
un'altra volta
o quelle dei cani
per dare voti ai loro latrati
su grandi quaderni contabili
scambiati per partiture
di free-jazz
La poesia è malata
La luce ha mal di fegato
e vomita pezzi
di metallo brillante
e liquido
I cani sono calvi
I loro crani rilucono al sole
come olio di ricino
Un cieco chiude il viso
in un armadio dopo essersi
a lungo guardato
in uno specchio
Gli orologi sono rotti
E anche le bussole
che si fanno gioco delle direzioni
Il poeta
è colui che lascia colare sale
sulla coda del lupo
senza farsi mordere
Questa è la sua arte poetica
perché in fondo vuole divorare
i lupi
anche se non ha denti
Lancette rotte arrugginite sfuggono
agli orologi
per fare flebo
sulle carte d'identità
è la condizione della bellezza
delle nostre foto
Ti amo davanti alla tua carogna
ritrovata
sotto un ammasso di foglie di platano
Avevi cinque anni o mille
o non eri neanche nato
Sono le iene che conobbero davvero
la tua età
La poesia è monosillabica
Quando gli uccelli recitano i poemi
hanno la bocca piena di piume
e di becchi
Hanno i sandali ricoperti
da una pelle stropicciata
rubata a Dio
sudando nel suo retrovisore
I morti hanno i bicchieri
mezzi riempiti di vino
Non riescono a terminare
le ultime gocce
del sangue perso da una statua senza testa
sulla croce della sua liberazione
I corvi ci rimpiazzano
ogni vertebra
con un uovo
è per questo che non ci si può alzare
senza farli crepare
I mendicanti ci seguono
per sbattere frittate fredde
Fumiamo due sigarette
insieme
una per il morto che culliamo
sulle ginocchia
l'altro per inchiodare una stella
alla notte
Gli angeli fanno bruciare le biciclette
e si scaldano
tra le ruote
Un poeta è un ladro di portafogli
e di quaderni
La tua carogna
è un'opzione d'interlinea
su un programma della vita
al centro di una zuppa di pesce
o di un mucchio di merda
I morti ricominciano
a tornare
bambini
giocando a quello che morirà per primo
mangiando terra
Li si sente già camminare
Sono come fiumi in piedi
che scendono verso il mare.
Il precedente intervento di Cristiana Panella su Serge Pey, che contiene anche la nota biografica dell'autore, si trova qui: https://www.anteremedizioni.it/prima_pagina_cristiana_panella_presenta_e_traduce_serge_pey
Nel periplo umano
Si muove in un’erranza spaesata la raccolta Lacerti di coro di Giovanni Luca Asmundo, quasi un periplo intorno all’umano: una mappa di attese e di ipotesi, una rotta smarrita e desiderante, disillusa e dolente, che l’esordio ipotetico della maggior parte dei testi evidenzia: “se inerti giaceremo senza terra // lacerti di coro noi saremo / di sagome disarticolate / danzanti su crinali impietosi”.
Ad ogni “Se”, con cui iniziano molti testi, veniamo mossi in un ondeggiare continuo, in cui ogni cosa può mostrarsi nel suo contrario, ogni pensiero passare da sogni a ombre, da corpi a carta, “nell’assoluta diacronia del vero”.
In un percorso, insieme, cosmico ed interiore, reale e mitico. Tra numerosi riferimenti a elementi naturali, metafisici, onirici, come suggeriscono anche i titoli delle sezioni interne. Tra corpi e coste, cosmi e caos, sogni e dissolvenze. Tra infinito e finito, inizio e fine. Passando dalla realtà mitizzata al pensiero metafisico, dal desiderio sognante all’impietoso declinarsi della condizione umana.
Giovanni Luca Asmundo ci coinvolge nel suo dire navigante e sofferto, metafora del vivere umano tra erranze e naufragi, sconforti e consolazioni, smarrimenti e stupori. Permettendo di sentirci parte di questo coro: lacerti, certo, ma anche voci ed echi della comune sofferenza del vivere, tra i richiami del principio e dell’oltranza.
Da: Parte I
I. Corpi
II.
Se di cenere sigillerà gli occhi
sfocati già da nera caligine
quest’orrida fertilità non scelta
scarna, pestata, materna, agognata
se per braccia non daremo nuovi getti
di sanguinelle che suggono lava
dolci vampando di zagara i clivi
se inerti giaceremo senza terra
lacerti di coro noi saremo
di sagome disarticolate
danzanti su crinali impietosi.
II. Coste
III.
Se il mare arenasse le voci dei dispersi
tutti i fasciami distesi sul basalto
tra colpi di remi senza cetra né versi
risacca perpetua e per rispetto muta
recherebbe conforto agli scogli anneriti
da oblio di gasolio e stasimi ed esodi
macchiati da cori arrochiti
prenderebbe in custodia la costa che arretra
per gli altri addolcirebbe il limone promesso
per noi serberebbe nell’abisso
quest’ancora buona, di pietra.
Da: Parte II
I. Onirica
I.
Se non sapremo la fine delle onde
resteremo così, a baciarne il senso
ne terremo in mano una dipinta
su ceramica rossa e sorridendo
ci addormenteremo in un frammento
di spume, di poemi, di orizzonti.
IV. Dissolvenze
I.
Se accetteremo i lacerti di coro
se accetteremo la dissoluzione
che importerà ormai di questa immanenza
palpebre arance al medesimo sole
i nostri corpi troveranno posto
nell’assoluta diacronia del vero.
Giovanni Luca Asmundo (Palermo 1987) vive a Venezia, dove attualmente svolge un Dottorato presso l’Università IUAV e lavora nel campo dell’architettura, della ricerca universitaria e della didattica internazionale.
La sua prima silloge è pubblicata nel volume Trittico d’esordio, a cura di Anna Maria Curci (Roma, Cofine Edizioni, 2017). Il libro Stanze d’isola (Premio Felix 2016, introduzione di Domenico Notari) è edito per i tipi di Oèdipus (Salerno, 2017).
Sue poesie sono inoltre pubblicate su riviste e blog letterari tra i quali Poetarum Silva, La poesia e lo spirito, La macchina sognante, La foce e la sorgente (allegato a Perìgeion), Un posto di vacanza, Poliscritture, Prospektiva, La Masnada. È presente in antologie cartacee internazionali, tra le quali Poesia e luce: Venezia, a cura di Marco Nereo Rotelli (2015), nonché in tre ebook antologici a cura del blog La presenza di Èrato.
È risultato vincitore in diversi concorsi di poesia, narrativa e prosa lirica, tra i quali il Premio Letterario Castelfiorentino, il Premio Nazionale di Prosa Lirica del Centro Studi Campaniani (2016), L’Italia dei paesi, Le radici tra abbandoni e ritorni (2018).
Negli anni partecipa a vari reading, tra i quali Vitàcora de Maya alla 57a Biennale d’Arte di Venezia, La Palabra en el Mundo a Venezia, Èrato a Matera, festival dell’Arte e della Poesia.
È tra i fondatori del progetto intermediale di poesia e fotografia Peripli.Topografia di uno smarrimento ed è stato co-curatore di Congiunzioni Festival internazionale di poesia e videoarte, ideato da Maria Grazia Galatà (edizioni 2015 e 2017).
Come può la parola dare voce ad atrocità e strazi al limite dell’indicibile? Facendosi gemito e balbettio oppure lingua razionale di analisi o ancora, piuttosto, sussurro intenerito che offra un diverso sguardo, un altro dire nel toccare il dolore?
In Madri dolorose Ilaria Biondi, nelle sue venti storie poetiche, lasciate nude, di madri abusanti e abusate, maltrattanti e maltrattate, riesce a portare la sofferenza ad altezza e leggerezza tali da consentire di trovare parole che possano musicarne il respiro.
La voce che racconta si fa spesso roca, spezzata, “le parole si seccano” così come “un verso scordato inciampa”, ma è soprattutto il linguaggio lirico a prendere il sopravvento. Quasi un controcanto in opposizione alle efferatezze che mette in luce, cullando la sofferenza “col passo lieve del pettirosso in volo”.
Come a sottrarre le storie tragiche di maternità dolenti da altri modi di narrarne e interpretarne il buio. Con un diverso modo, ci mostra Ilaria Biondi, di considerarne la sofferenza qualunque ne sia l’origine, senza retorica, senza esibizione, senza valutazione di giudizio. Curandone l’ombra, le pieghe nascoste. Cercando di toccarne il silenzio, di dargli voce: tutto quello che di autentico, di fronte al dolore, la poesia ha la grazia di offrire.
VI
Mi è cresciuta fra le mani
questa conchiglia al sapore di vento
la accosto al petto
nella stagione chiara delle ciliegie
quando il mattino rincorre le spore
irrequiete dell’estate
io la sento, sfiorare sottile i miei capezzoli
orfani di figlia
nell’inganno di quiete
che fa vuota la pancia
VII.
Ti porterò nell’erba bianca di neve
col passo lieve del pettirosso in volo
sotto l’ombrello celeste di baci
e di canzoni al sole
la gonna corta e le scarpette a fiori
avremo frange di cielo e specchi di stelle
ventagli di gigli a chiamare l’estate
il profumo giallo delle ginestre
sulle tua fronte piccola senza più capelli
per cancellare nelle sere d’argento
l’odore di fenolo che piange la pelle
XI.
Ritrovata carrozzina abbandonata
nell’aria d’inverno il pianto bianco
di una neonata
Mi divori di latte e sangue
col tuo pigolio di bucaneve
mi sfondi le asole del cuore
e cancelli la grammatica spaurita
delle mie parole
non ha peso il mio pianto
né il silenzio delle mie carezze
sono una lucertola stanca
che raccoglie le ultime schegge
di un’estate bianca
mi nascondo fra le gambe dei salici
impazienti di chimere
mentre annego nella placenta abortita
delle mie ferite
ficcate – una a una – nella brocca del buio
XIV.
Non sono pronta a spostare le parole
sul palmo di una mano sconosciuta
– le parole si seccano
come panni stesi sugli spigoli del vento
si stacca, nel vuoto della testa,
la meridiana smarrita dei miei pensieri –
le gonne dei sogni di maggio
si scolorano nei cassetti spalancati
dei ricordi all’ombra
di una memoria fragile, di me
di chi ero e sono
di chi, forse, sarò ancora
appoggio il silenzio delle unghie
sul filo esiguo delle ultime sillabe
allo sbando
un verso scordato inciampa
nelle mie cellule dementi
– dimmi, figlia,
per quanto tempo sarò ancora
io?
Ilaria Biondi nasce a Parma nel 1974 e vive in un piccolo borgo dell’Appennino Parmense. È laureata in Lingue e Letterature Straniere e Dottorato di Ricerca in Letterature Comparate.
Attualmente si dedica all’insegnamento, benché a tempo parziale, con incarichi presso la scuola primaria e come titolare di corsi di lingua straniera e di letteratura per adulti. Ama lavorare con i bambini e organizza periodicamente, in forma gratuita e volontaria, letture animate, laboratori poetici e creativi.
Si occupa di poesia, traduzione letteraria e critica della traduzione, con particolare interesse per la letteratura al femminile, la letteratura fantastica e la letteratura per l’infanzia. Sue aree di studio principali sono la letteratura francese ultracontemporaine e quella belga francofona.
Sue traduzioni e suoi contributi sono apparsi su diverse riviste letterarie cartacee, tra cui “Quaderni di Synapsis”, “Comunicare Letteratura”, “Ottocento”, “Experience” e “Leggere Donna”.
Collabora con alcuni blog e siti letterari (“Cultura al Femminile”, “Gli Scrittori della Porta Accanto”, “La Bottega dei Traduttori”, “Sognaparole Magazine”, “La Stanza di Virginia”) con articoli, recensioni e traduzioni (dal francese all’italiano e nella combinazione inversa).
Nel 2011 pubblica il volumetto a carattere biografico-critico, Raymond Radiguet. Giovinezza perduta, eterna giovinezza (Delta Editrice). Nel marzo 2017 pubblica la sua prima silloge poetica, In canti di versi (Edizioni Il Papavero) e nel dicembre dello stesso anno una raccolta di haiku, L’età dell’erba (Fusibilia Libri). Nel settembre 2018 esce la sua terza silloge poetica, Corpo di vento (Controluna Edizioni), che le vale una Menzione d’Onore al Concorso nazionale di poesia e narrativa Va Pensiero.
Sue poesie sono presenti in diverse antologie: Antologia del Premio Letterario «Age Bassi 2003» (2004, Milano, Montedit); Tracce 04. Lo scarto, Antologia della Quarta Biennale di Giovani Artisti e del Primo Premio Letterario per Giovani Autori «Effetto Notte», (2004, Felina (RE), Nuova Tipolito); Veglia. 24 agosto 2016 (2016, Selfpublishing); Caro papà. Le parole non dette, in collaborazione con “Gli Scrittori della Porta Accanto” (2017, Selfpublishing); ChiaroScuro, in collaborazione con “Gli Scrittori della Porta Accanto” (2017, StreetLib); Perle d’amore – volume IV (2018, Apollo Edizioni).
La sua poesia Le sonagliere dell’alba è stata selezionata per l’agenda 2019 Il segreto delle fragole dell’editore Lietocolle. Un suo racconto figura nell’antologia Mille voci contro la violenza (La Strada per Babilonia, 2018), a cura di Emma Fenu. Di prossima pubblicazione il racconto “Il mio nome era Silvia” all’interno dell’antologia Caro maschio… che mi uccidi (in corso di stampa-FusibiliaLibri). Un suo racconto per bambini è inserito nell’antologia Favolando–I colori della diversità (Apollo Edizioni, 2017), di cui è anche co-curatrice. È di recente stato pubblicato il breve racconto per bambini Lettera alle Parole (FaLvision Editore), di cui è disponibile anche la trascrizione in lingua Braille.
In collaborazione con la Community “La Bottega dei Traduttori” ha pubblicato la sua traduzione dal francese del breve romanzo di George Sand, Cora (ottobre 2017) e il racconto di Paul Arène Il buon vischio, facente parte dell’antologia in due volumi Cosa c’è sotto l’albero? Fiabe, racconti e leggende dal mando da scartare insieme (2018, Youcanprint).
Una scrittura poetica che si apre sotto il segno di Emilio Villa pone subito il lettore di fronte a una consapevolezza precisa: la lingua che pensa e scrive la poesia è significante in ogni sua determinazione e tratto distintivo. Martina Campi dentro questa ricerca – che è esistenziale più che sperimentale – ci offre il suo dire speciale: che attinge dal suono ovunque siano grafia e fonia. Ciò, però, non si rivolge a un’ingenua cantabilità dei versi, anzi, la sua voce ci sorprende per una lucida concettualità, unita in modo inedito (e inaudito si può ben dire) a un sentimento di apprensione per la forma sofferta di quelle
parole mai pronunciate. Perché la poesia che leggiamo in questi testi butta fuori e recupera anche quei momenti di impossibilità a parlare, lì dove la schiusa dei sensi vocali sembra impossibile.
*
Sulla terra il tempo è memoria.
Musica, giorno, fuoco,
perdendo i confini del viso che si scioglie
di espressioni divenute ormai indistinte.
Rompersi le ossa nella coerenza
occorrente al semplice, solitario, contemplare
il disagio di un sentirsi meno disabitati
Bere molta acqua, non pensare al fuoco
agli infiniti altri, cuciti nella tasca,
agli infiniti altri, polverizzati, nella borsa.
Occorrerà ricordare almeno
d’esser stati
uno.
*
Le correzioni si mostrano,
nei tratti dolci di qualcosa
che non c’è più per cancellazione.
Sono i fuochi concepiti dal dramma muto
entrando di soppiatto nelle stanze come in scena
per sorprendere e partecipare alle continue
trasformazioni della materia.
*
Gli allontanamenti creano sobbalzi
particelle smosse dagli occhi.
Pulsazioni che saltano in resistenza separando
il ritmo accurato dal cuore.
Qualsiasi apertura come una granata
acronica è lasciata alla sua fine
inesorabile, annientata dallo spazio-turbine,
esplosione nell’aria e nei polmoni di parole mai pronunciate.
Sapere di esserci è contenere una paura, una
gioia scomoda del salvarsi che non fa passeggeri,
senza fermate, appartenere alla venuta al mondo
(che riporta a casa) che richiede proprio e soltanto il bene.
Martina Campi, autrice e performer, ha pubblicato: Quasi radiante (Tempo al libro, 2019), La saggezza dei 9corpi (L’arcolaio, 2016), Cotone (Buonesiepi Libri 2014), Estensioni del tempo (Le Voci della Luna Poesia, 2012 – Vincitore Premio Giorgi), e la plaquette È così l’addio di ogni giorno (Corraino Edizioni 2015), con il poeta V. Masciullo. Curatrice, con A. Brusa e V. Grutt, di Centrale di Transito (Perrone Editore 2016). Fa parte del Comitato Bologna in Lettere. Co-fondatrice, insieme al compositore polistrumentista Mario Sboarina, del progetto Memorie dal SottoSuono – The poetry music experience.
La complessità della silloge di Antonio Fiori “Nel verso ancora da scrivere. 1999–2017” si gioca sul continuo trapasso tra fisico e mentale e, in successione tra questi due estremi, tramite dislocamento di segnali per ciò che non è possibile conoscere. La figura dell’inversione è un potente mezzo per ribaltare l’importanza delle cose, così il “Campo dei miracoli” equivale al pianerottolo della propria esistenza, l’ultima alba del mondo non farà perdere alla natura le sue caratteristiche, la possibilità di predire i suoi comportamenti. Ciò che è mobile trova sempre un riferimento in ciò che è fisso. Fino all’ultimo istante, Fiori sembra non sapere come evolveranno le situazioni, come si disporranno gli eventi; altre volte disegna con assoluta precisione ciò che accadrà: è lo spazio della poesia, dell’imprevedibilità eppure della sua conclamata certezza. Spesso il senso delle cose appare precario e l’esistenza stessa sembra legata alla catena delle convenienze e delle abitudini, ma è al contempo scolpita nel marmo, se basta un lieve ricordo proveniente dall’infanzia a rendere eterno il rapporto con i propri genitori. Le parole sono come l’ago della bilancia in questi trascorrenti sentimenti, in questi errabondi percorsi. A volte mancano, altre volte sembrano ineludibili. L’amore è certamente un propulsore che infonde fiducia nel linguaggio e le poesie su questo tema appaiono maggiormente effervescenti, rilanciando nondimeno un’oscillazione negli spazi dell’attesa e dell’incertezza degli incontri.
Potessimo tutti
Potessimo tutti fare pochi passi
ogni giorno verso il nostro Oriente spirituale
giungervi pure disillusi e stanchi
o nemmeno arrivarvi
ma certi della direzione presa
della visibilità delle tracce, certi
che il soccorritore possa ritrovare
i nostri corpi esausti.
Al nuovo anno
Col fiato sospeso
tra un Brindisi e un attacco
in attesa, noi vivi
di un atto di coraggio
di una battuta a sorpresa
quando s’apre il sipario
— che si compia un disegno
o un miracolo.
Antonio Fiori è nato nel 1955 a Sassari, dove vive e si occupa di poesia. Al suo attivo ha prestigiosi premi letterari, collaborazioni a riviste specialistiche, sei raccolte poetiche e la presenza in varie antologie. Con Manni nel 2002 è uscito Sotto mentite spoglie.
(Nel video qui proposto Sonia Giovannetti presenta la prosa finalista al “Montano” 2020, mentre il testo che segue è quello segnalato nel 2019: abbiamo così un doppio sguardo sull’attività saggistica dell’autrice. rt)
Il nucleo significativo delle riflessioni di Sonia Giovannetti mi pare risieda in questa frase: Occorre…guardare con speranza all’arte, convincere ed educare gli uomini al senso e al valore dell’estetica affinchè anche l’etica…possa riacquistare valore.
E, ci dice Giovannetti, tra le forme dell’arte da coltivare, la poesia rivendica un ruolo particolare in quanto capace di reinventare il tempo, libera da tutte quelle sovrabbondanti icone visive nelle quali sembra ormai abitare il nostro presente tecnologico e virtuale.
Un testo che potrebbe essere considerato una polifonia teatrale, assorbendo, la voce narrante, migliaia di voci, le quali vengono trascinate sulla scena, tutte travolte dalla stessa condizione esistenziale. È, infatti, “Lettera dal mare”, immersione in una delle tragedie della contemporaneità: la necessità di emigrare. Oronzo Liuzzi riesce a immaginare le condizioni insopportabili a cui i migranti devono sottostare e a fare nostri i loro pensieri. La scrittura, scansionata da ripetizioni e da ritornelli, quelli tipici delle cantate, determina un andamento calmo, intriso di nostalgia e di dolore, strutturando lo svolgimento del racconto come un’infilata di perle. Ciò che è franto, franto resta: il pensiero è spezzato, quasi un coacervo di tutti i possibili pensieri che costituiscono l’identità del migrante, ma non è mai abbandonato dalla partecipazione dolente del poeta. La poesia rende, infatti, possibile la condivisione dell’esperienza, affinché essa divenga consapevolezza e presa di posizione da parte di tutti.
*
“dormo sveglio vedo dentro fuori questo mondo un pensiero orribile un maledetto dramma crea inquietudine in mio fratello mio fratello che osserva attentamente la scena e la subisce è incazzato mio fratello l’angoscia soffre di angoscia troppo il suo corpo l’energia in continua rivoluzione mastica la rabbia si morde terribilmente le mani scarica nella mente una sottile linea di informazione per nuove idee mio fratello sogna il viaggio insieme in transito ama discutere mio fratello mio fratello nei suoi occhi la pace nei suoi occhi il desiderio la speranza indossare vestiti puliti nei suoi occhi la pancia piena di sogni un lavoro mio fratello mio fratello non ho paura di e non ho paura non ho paura ancora mio fratello guarda il mondo guarda il cielo coglie i segni del destino mio fratello guarda il mare è bello il mare dice”.
Oronzo Liuzzi, nato a Fasano (BR) nel 1949, vive e lavora a Corato (Ba). Ha conseguito la laurea in Filosofia Estetica presso l’Università di Bari. E’ attivo nel panorama artistico-letterario con numerose mostre personali e collettive a livello nazionale ed internazionale, libri d’artista, libri oggetto, scrittura verbo-visuale e mail art.
In poesia ha pubblicato: L’assoluta realtà (Firenze, 1971), Poesie (Albatros, Roma, 1975), Teresa/Attunico (Schena, Fasano-BR, 1977), Poesie (Albatros, Roma, 1977), Bio (Edizioni Tracce, Pescara, 1987), Ronz (Campanotto, Pasian di Prato-UD, 1989), Canzone antica (micronarrativa, Pensionante dè Saraceni, Caprarica di Lecce, 1990), Plexi (Campanotto, Pasian di Prato-UD, 1997), Nuvole di gomma (Edizioni Riccardi, Quarto-NA, 2001), Poesie (1972-1977) (Edizioni Riccardi, Quarto-NA, 2002), L’albero della vita (Portofranco, Taranto, 2003), Chat_Poesie (Edizioni Spazioikonos, Bari, 2004), Pensieri in_transito (Fermenti, Roma, 2006), Poesia Povera (SECOP Edizioni, Corato-BA, 2009), Via dei barbari (Edizioni L’Arca Felice, Salerno, 2009), Io e Caravaggio (SECOP Edizioni. Corato-BA, 2010, In Odissea visione, 2012; Condivido, 2014, DNA, 2015. Conversazione con Proust, antologia a cura di Giuliano Brenna e Roberto Maggiani (LaRecherche.it, eBook, 2011). Ha realizzato numerosi video di poesia.
…ero venuta a dirti…
È una trina il testo di Cristiana Panella, un pizzo lacerato, umido, macchiato, costellato di punti di sutura.
È un abito di sirena ferita e sporca con la coda di pece.
È un testo mendicante e materno …conservo almeno le braccia per covarti nell’impronta spiaggiato, richiedente asilo di parola.
Cristiana Panella (Roma, 1968) è senior researcher in antropologia sociale e culturale in Belgio. Vive all’estero dal 1994. Dopo la laurea in Lettere Moderne all'Università La Sapienza si è trasferita a Parigi, dove ha ottenuto un master (DEA) in Storia dell'Arte Africana alla Sorbona per poi conseguire un dottorato in Scienze Sociali all'Università di Leiden, nei Paesi Bassi. Tra il 1995 e il 2005 ha effettuato lunghi soggiorni di ricerca in Mali sul commercio clandestino di reperti archeologici e sui cercatori d'oro, prima di dedicarsi allo studio del commercio informale a Roma. Attualmente la sua ricerca è orientata sulle implicazioni etiche della corporeità. I risultati delle sue ricerche sono stati presentati in decine di pubblicazioni e convegni internazionali in Europa, in Canada e negli Stati Uniti. Di prossima pubblicazione, un volume sul rapporto tra etica individuale, norma e costruzione politica dell’illegalità. Parallelamente alla sua attività di ricerca, tra il 2015 e il 2018 ha collaborato con una casa editrice di Bruxelles orientata sulla poesia performativa e la prosa poetica, in qualità di editor e di lettrice. Alcuni suoi testi di poesia sono stati pubblicati su retabloid (rassegna stampa di Oblique Studio, 2018); nel 2019 è stata finalista al Premio di poesia e prosa Lorenzo Montano per la sezione “une prosa inedita”, e membro della giuria critica del Premio nel 2020. Nel 2019 ha auto-pubblicato il non-romanzo in cielo e in terra. Nel corso del 2020 ha curato e tradotto per Carte nel Vento testi di poesia francofona contemporanea inedita in Italia (Marcel Moreau, Serge Pey e, prossimamente, Christophe Manon e Hélène Dorion). Un suo testo figura tra gli Atomi 2020 di Oblique Studio (#20).
“Dietro quinte fragili” agisce questa poesia di Anna Maria Pes. Tra finzione e realtà si incunea il poeta: quello che è sembra non essere, quello che non è sembra prendere una forza inesausta. Mentre un mondo cadente viene definitivamente spogliato dalla poetessa, un mondo in attesa della prova mostra tutta la sua fragilità.
Al termine del testo soccorre il tornare al titolo, a questo “esisto” scritto con la seconda esse tra parentesi, che nella rappresentazione grafica porta il senso di un esistere esitando, porta all’incerta presenza di fronte al mondo, alla consapevolezza di esservi provvisoriamente parte.
Non ci sono certezze nel “quotidiano esistere” se non un vano girovagare, un disfarsi tra “dissonanze e assonanze”.
Là, dove cadono fittizie impalcature, il poeta registra con la massima attenzione il disfacimento.
Esi(s)to
Nel personaggio – non personaggio
Nel proscenio del quotidiano esistere
Nell’Io – non Io dell’esistenza effimera
Nel baleno dietro nuvole annodate di giorni incerti
Ossimori differenze obbligate dall’umano persistere
Di azioni insulse negate offuscate da nebbia vile
Nel girovagare notturno di attori scalzi svestiti
Maschera / Trucco Pubblico distratto Annoiato
Senza trama Senza luci Senza musica
Velluti cremisi di sipari impazziti alla ricerca di
Personaggi – non personaggi
Dietro quinte fragili
Protagonisti in attesa Copioni vuoti Suggeritori assonnati nel buio
Pantomime in agguato Dissonanze/Assonanze Sincronie metafisiche
Apparenza insolente Mefistofele del giorno Enigma provvisorio
(alle spalle ti aspettano per abbattere impalcature)
Anna Maria Pes (già docente nella scuola media statale), opera in campo artistico dal 1978 (acquerello, ceramica, incisione) e in campo letterario dal 1998.
Dal 1998 le sue poesie sono state pubblicate in riviste letterarie: SILARUS Battipaglia, POESIA Crocetti Editore (Testi dei lettori) e in Antologie: “Andar per poesia“, “Luci ed ombre“ (Ibiskos Editrice Empoli), “Scriviamo un libro insieme“ (ALI Penna d’autore Torino), Circolo Culturale Identità Pontedera, Spazio Donna Striano Napoli, “L’emozione del ricordo” Armonia delle Muse (Ibiskos Editrice Empoli) (Fiera del Libro 2006 Torino, Fiera del Libro Roma 2006), “Incontri di Poesia“ (Ibiskos Editrice Empoli), “Officina della Percezione”, “Percorsi del dire I” (Anterem Verona), “Città di Salò 2006” Riviere del Benaco, “Solchi di Scritture”, “Poeti e scrittori contemporanei allo specchio “, “Tendenze di linguaggi “ (Edizioni Helicon).
Riconoscimenti e premi nei Concorsi: “ G. Gronchi” Pontedera , “Gli Etruschi” Vada-Livorno, Circolo Culturale Sardo Brescia, Concorso Nazionale Ibiskos - Risolo ( sez. Poesia singola, sez. silloge inedita), “Spazio Donna” Striano-Napoli, “Città di Salò” Ibiskos Ed.Risolo, “Mondolibro” Roma, “Casentino” Poppi-Arezzo, “Maestrale San Marco 2006” Sestri Levante-Genova, CEAC 2011 Milano – “Citta di Pontremoli” La Spezia, “L. Montano” Anterem – Verona: 2003 /2013 /2014 / 2016 /2017/2018/2019 (sez. Una poesia inedita), 2006 (sez. Raccolta inedita)-; Premio “Il Delfino” 2015/2016/2017/2018/2019 (sez. Poesia) Marina di Pisa.
1° premio Concorso “Il Delfino 2014” Marina di Pisa –Pisa sez. Poesia: ” Come gabbiano” (da “Solo sentire”).
Opere edite:
2002: “TRASPARENZE” Ibiskos Editrice Empoli (Fiera del libro 2003 Torino).
2007: “SOLO SENTIRE” ( Fiera del Libro 2007 Torino, 2006 Roma ) Ibiskos Editrice A. Risolo -Empoli (segnalazione d’arte Premio Internazionale “L’integrazione Culturale per un Mondo Migliore” 2011; finalista sez. Poesia Concorso di poesia “Terzo Millennio” XIV Ed.2014 C.A.P.IT. Roma)
2015: “IN DIES” (Book Festival di Pisa 2015) Ibiskos Editrice A. Risolo - Empoli (Premio della Giuria “Città di Pontremoli” 2016)
Opere presenti presso le Biblioteche:
Biblioteca Universitaria Cagliari, Biblioteca Comune di Cagliari, Biblioteca Provinciale di Cagliari, Biblioteca Universitaria di Sassari, Biblioteca Comune di Sassari, Biblioteca Nazionale Centrale V.E.II Roma - Biblioteca Civica Terzo Alessandria, Biblioteca di “Presenza”, Striano - Napoli, Biblioteca Nazionale Centrale Firenze, Biblioteca Marucelliana Firenze, Biblioteca Comune di Poppi ( Arezzo), Biblioteca Civica Verona.
Nel rovescio del trittico
Contrariamente a quanto il titolo induca a pensare, nomi cose città di Irene Sabetta, non dispiega solo i temi familiari, naturali e urbani, indicati dalle tre sezioni dell’opera, ma ne rovescia le superfici, ne capovolge le prospettive.
Quasi un trittico che, come le antiche decorazioni d’altare ad ante richiudibili, ci mostra sul lato visibile situazioni e pensieri manifesti e sul lato interno, nascosto, un sentire più in ombra: “Nel prato di maggio / ho trovato nascosto / un fiore sotterraneo”. Di fronte i nomi delle figure familiari o amate, le cose, le città. Sul retro l’orfanità, l’invisibilità, l’erranza.
In tutte le sezioni a permearne i versi sono le zone d’ombra, segrete l’invisibilità che quindi vi risuona, la difficoltà di farne parola, così che “Come un usignolo, / voli di notte e non canti”. E, insieme, l’erranza che spinge oltre l’apparenza, il nomadismo che intride i testi e la distanza che chiede cammini di incontro.
E la poesia? Mostra anch’essa il suo lato nascosto, indica Irene Sabetta: “Incontriamoci / nell’ottava stanza di una poesia / dove il silenzio non è mai troppo / e l’alfabeto non basta”. A custodire tacitamente, nel rovescio del suo trittico, un nuovo alfabeto, una voce che ancora possa cantare.
Da: cose
Light in May
Nel prato di maggio
ho trovato nascosto
un fiore sotterraneo.
Nella cripta luminosa
la luce proietta da oriente
l’immagine di un dio
che viene.
Nel libro aperto dei muri affrescati
angeli tristi
sospendono il giudizio
e ripudiano il volo.
Con le ali abbassate
il dono delle stelle nere
è nelle loro mani.
Vivremo sempre
o non vivremo affatto.
Eppure a luci spente
è facile e sensato
scorgere nella cripta un chiarore
d’arte o di fuoco
che emana dal muro
e ci accompagna allo scoperto.
Usignolo
La forma del mondo
non ti precede
e neanche ti accoglie
con collane di fiori
ai piedi della scaletta.
E tu non precedi la forma.
Nessun architetto ha firmato il progetto.
Nel gelo dell’inverno
il chiarore del pensiero
risplende sulle montagne
e annichilisce ciò che non si adatta.
Mortali i sensi e gli uccelli.
La forma baratta il metodo con la complicità.
E tu non essendo complice ti disfi di metodo e forma.
Come un usignolo,
voli di notte e non canti.
Da: città
Rio bound
Obliterami
con la tua potenza.
Dimentichiamo il mondo
e ricostruiamo la parola,
tra gli alberi tropicali
e le piume dei pappagalli
impazziti di gioia.
L’anima violenta
scalpita in quiescenza
sulla montagna
e vibra di musica.
La senti solo da lontano.
Acqua azzurra e acqua nera
nelle insenature minime.
Corpo inerte della cultura
smembrato e adagiato
sulle spiagge
nei rituali
dell’estate eterna.
Non c’è luce più vera
di quella che non vuoi vedere
né città più concreta
nelle vie di fuga.
Siamo gente nomade
in una galassia di periferia
e negli angoli soltanto abbiamo dimora.
Irene Sabetta vive ad Alatri dove insegna inglese al liceo e coordina, da oltre venti anni, un laboratorio teatrale per gli studenti con il regista Marco Angelilli. Ha pubblicato, con FrancoAngeli, un saggio per il volume La mediazione scolastica. Scrive poesie e molte di esse sono presenti in antologie curate da vari editori come Perrone, Aletti, Poetikanten, Il Foglio Clandestino, Pagine, Bertoni. Nel 2015, si è classificata prima al concorso Augusto Tacca e, nel 2017, è stata finalista al Festival della Lentezza con un racconto breve e al premio letterario Don Luigi Di Liegro. La casa editrice LietoColle ha scelto alcune sue poesie per l’Antologia iPoet 2018 e per l’ Agenda poetica Il segreto delle fragole. Recentemente ha pubblicato una plaquette dal titolo Inconcludendo con l’editore Escamontage e ha ricevuto una menzione di merito al premio Lorenzo Montano. Suoi testi sparsi si trovano sulla rete (Poetarum Silva, Patrialetteratura, Neobar, Gateway to the fourth dimension, I poeti del parco).
Collabora con il sito Atlante delle residenze creative di Tiziana Colusso e un suo articolo è incluso nel volume Residenze e Resistenze creative, Luoghi Interiori ed.
L’altezza del momento fermato in “La versione dell’enigma” ci dona un controllato soprassalto, ci porta dove la vita è enigma e doloroso passare, la terra è fragile, la memoria è abissale.
Sergio Sichenze, da grande arrischiante, si sporge fino all’ultimo centimetro possibile di un ideale crinale, fino a quella sospensione, a quel lembo in cui non c’è distinzione tra terra e aria, in un mutuo rovesciarsi.
In questa poesia tutto è sempre in bilico, come nella vita. Tutto ciò che viene osservato o registrato è già stato mediato nel pensiero: a esempio la voce, nella verticalità del testo, da “calligrafia aerea” diventa un insoluto silenzio.
La complicità del ritmo all’idea, il versificare breve, un vocabolario sceltissimo e coerente, la tecnica compositiva, rendono possibile l’aderenza perfetta di senso e ritmo.
La versione dell’enigma
Incerta geometria
della voce, calligrafia
aerea, straniato
suono: spezzato lascito
di parole.
Inaccessibile piega
del labbro: crinale con zelo
affilato. Abisso
della memoria: rantolio
terreno.
Oscillare
di toni: vertici, arrendevoli
conche, aline
plaghe.
Sussurri, bisbigli, insoluti silenzi.
Consumato
ansimare, rappreso
alito: apnea di sfiorito
tempo.
Tardivo vivere
nell’altro.
Sergio Sichenze è nato a Napoli nel 1959. Vive e lavora a Udine. Ha pubblicato racconti e raccolte poetiche, tra cui “Nero Mediterraneo” (Campanotto Editore, 2008), “BOBBIO Y MOSTAR” in “La natura dell’acqua: almanacco di letteratura rinnovabile 2011” (Marcos y Marcos Editore, 2011), “Nei chiaroscuri del tango” con Elisabetta Salvador (Campanotto Editore, 2018), “Il futuro cede al ritorno” (Convivio Editore, 2019), “Tutto è uno” (Terra d’ulivi edizioni, 2020), “Incantazione” (Màrgana edizioni, 2020). Sue poesie compaiono in alcune raccolte. Nel 2018 ha vinto il Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio. Dal 2019 è membro della giuria Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio. Fa parte del comitato di redazione del quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria “Menabò” (Terra d’ulivi edizioni) per il quale cura la rubrica “Pi greco”.
Immagini da “Questa cosa”: Marosia Castaldi, Gio Ferri, Milli Graffi, Marica Larocchi, Maria Pia Quintavalla, Fausta Squatriti
Autori di “Carte nel vento”
Sebastiano Aglieco, Nadia Agustoni, Alessio Alessandrini, Pietro Altieri, Viola Amarelli, Angelo Andreotti, Marcello Angioni, Cristina Annino, Gian Maria Annovi, Lucianna Argentino, Davide Argnani, Giuseppe Armani, Paolo Artale, Gianluca Asmundo, Alessandro Assiri, Daniela Attanasio, Dino Azzalin
Luigi Ballerini, Paola Ballerini, Daniele Barbieri, Bianca Battilocchi, Maria Angela Bedini, Daniele Bellomi, Primerio Bellomo, Franco Beltrametti, Mario Benedetto, Dario Benzi, Riccardo Benzina, Pietro Antonio Bernabei, Armando Bertollo, Vanni Bianconi, Nicoletta Bidoia, Ilaria Biondi, Giorgio Bona, Giorgio Bonacini, Leonardo Bonetti, Simone Maria Bonin, Doris Emilia Bragagnini, Silvia Bre, Andrea Breda Minello, Fabrizio Bregoli, Luca Bresciani, Alessandro Broggi, Roberto Bugliani, Simone Burratti, Giusi Busceti, Antonio Bux
Laura Caccia, Rinaldo Caddeo, Nanni Cagnone, Giuseppe Calandriello, Maria Grazia Calandrone, Giovanni Campana, Mario Campanino, Enzo Campi, Giovanni Campi, Martina Campi, Emanuele Canzaniello, Maddalena Capalbi, Michele Cappetta, Roberto Capuzzo, Allì Caracciolo, Alessandra Carnaroli, Lorenzo Carlucci, Anna Maria Carpi, Peter Carravetta, Alberto Casadei, Mauro Caselli, Guido Caserza, Marosia Castaldi, Davide Castiglione, Paola Casulli, Alessandro Catà, Elena Cattaneo, Alessandra Cava, Roberto Ceccarini, Giorgio Celli, Alessandro Ceni, Rossella Cerniglia, Maria Benedetta Cerro, Marilina Ciaco, Viviane Ciampi, Gaetano Ciao, Antonella Cilento, Laura Cingolani, Mara Cini, Gabriella Cinti, Domenico Cipriano, Roberto Cogo, Gabriella Colletti, Osvaldo Coluccino, Tiziana Colusso, Silvia Comoglio, Federico Condello, Nicola Contegreco, Antonino Contiliano, Morena Coppola, Giorgiomaria Cornelio, Marina Corona, Marcella Corsi, Elena Corsino, Erika Crosara, Albino Crovetto, Lia Cucconi, Miguel Angel Cuevas, Vittorino Curci
Mauro Dal Fior, Anna Maria Dall’Olio, Chetro De Carolis, Alessandro De Francesco, Enrico De Lea, Chiara De Luca, Lella De Marchi, Annamaria De Pietro, Evelina De Signoribus, Riccardo Deiana, Silvia Del Vecchio, Fernando Della Posta, Pasquale Della Ragione, Stefano Della Tommasina, Aurelia Delfino, Tino Di Cicco, Danilo Di Matteo, Vincenzo Di Oronzo, Bruno Di Pietro, Stelvio Di Spigno, Letizia Dimartino, Edgardo Donelli, Paolo Donini, Antonella Doria, Patrizia Dughero, Giovanni Duminuco
Marco Ercolani, Flavio Ermini, Franco Falasca, Mario Famularo, Gabriela Fantato, Anna Maria Farabbi, Roberto Fassina, Silvia Favaretto, Francesco Fedele, Federico Federici, Annamaria Ferramosca, Paolo Ferrari, Aldo Ferraris, Luca Ferro, Paolo Fichera, Massimiliano Finazzer Flory, Zara Finzi, Antonio Fiori, Raffaele Floris, Rita Florit, Ettore Fobo, Giovanni Fontana, Luigi Fontanella, Valentino Fossati, Biancamaria Frabotta, Kiki Franceschi, Tiziano Fratus, Mario Fresa, Lucetta Frisa, Adelio Fusè
Gabriele Gabbia, Miro Gabriele, Tiziana Gabrielli, Maria Grazia Galatà, Marinella Galletti, Carmen Gallo, Gabriella Galzio, Guido Garufi, Paolo Gentiluomo, Mauro Germani, Fabia Ghenzovich, Alessandro Ghignoli, Gianluca Giachery, Anna Maria Giancarli, Lino Giarrusso, Andrea Gigli, Patrizia Gioia, Carolina Giorgi, Sonia Giovannetti, Marco Giovenale, Alfredo Giuliani, Lorenzo Gobbi, Marcello Gombos, Llanos Gomez Menéndez, Michela Gorini, Giuseppe Gorlani, Alessandra Greco, Angela Greco, Cesare Greppi, Lino Grimaldi, Maria Grimaldi Gallinari, Iria Gorran, Giovanni Guanti, Ermanno Guantini, Vincenzo Guarracino, Mariangela Guàtteri, Gaia Gubbini, Gian Paolo Guerini, Stefano Guglielmin, Andrea Guiducci
Giovanni Infelìse, Maria Grazia Insinga, Carlo Invernizzi, Stefano Iori, Francesca Ippoliti, Gilberto Isella
Ettore Labbate, Sonia Lambertini, Michele Lamon, Marica Larocchi, Vincenzo Lauria, Leandro, Alfonso Lentini, Laura Liberale, Nicola Licciardello, Tommaso Lisa, Oronzo Liuzzi, Domenico Lombardini, Andrea Lorenzoni, Francesco Lorusso, Ghérasim Luca, Antonella Lucchini
Loredana Magazzeni, Giulio Maffii, Franca Mancinelli, Danilo Mandolini, Francesca Marica, Marianna Marino, Emanuela Mariotto, Attilio Marocchi, Raffaele Marone, Francesco Marotta, Giulia Martini, Giulio Marzaioli, Vincenzo Mascolo, Stefano Massari, Mara Mattoscio, Alessandro Mazzi, Luciano Mazziotta, Daniele Mencarelli, Manuel Micaletto, Emiliano Michelini, Roberto Minardi, Marco Mioli, Francesca Monnetti, Daniela Monreale, Gabriella Montanari, Emidio Montini, Marcel Moreau, Romano Morelli, Umberto Morello, Sandra Morero, Alberto Mori, Alessandro Morino, Renata Morresi, Gregorio Muzzì
Luigi Nacci, Clemente Napolitano, Paola Nasti, Giuseppe Nava, Stefania Negro, Giulia Niccolai, Davide Nota, Mario Novarini, Marco Nuzzo, Riccardo Olivieri, Francesco Onìrige, Margherita Orsino, Cosimo Ortesta
Luca Paci, Marco Pacioni, Alessandra Paganardi, Cristiana Panella, Carla Paolini, Alice Pareyson, Paola Parolin, Giovanni Parrini, Angela Passarello, Giuseppe Pellegrino, Camillo Pennati, Gabriele Pepe, Daniela Pericone, Roberto Perotti, Anna Maria Pes, Serge Pey, Mario Pezzella, Luisa Pianzola, Antonio Pibiri, Renzo Piccoli, Antonio Pietropaoli, Roberto Piperno, Pietro Pisano, Stefano Piva, Marina Pizzi, Daniele Poletti, Gilda Policastro, Chiara Poltronieri, Giancarlo Pontiggia, Nicola Ponzio, Michele Porsia, Stefania Portaccio, Claudia Pozzana, Ivan Pozzoni, Chiara Prete, Loredana Prete, Maria Pia Quintavalla
Alessandro Ramberti, Jacopo Ramonda, Giuseppina Rando, Andrea Raos, Beppe Ratti, Filippo Ravizza, Luigi Reitani, Vittorio Ricci, Jacopo Ricciardi, Alfredo Rienzi, Giuliano Rinaldini, Alfredo Riponi, Massimo Rizza, Gianni Robusti, Marta Rodini, Cecilia Rofena, Andrea Rompianesi, Stefania Roncari, Silvia Rosa, Sofia Demetrula Rosati, Lia Rossi, Pierangela Rossi, Giacomo Rossi Precerutti, Greta Rosso, Enea Roversi, Anna Ruchat, Paolo Ruffilli, Gianni Ruscio
Irene Sabetta, Luca Sala, Tiziano Salari, Luca Salvatore, Rosa Salvia, Lisa Sammarco, Massimo Sannelli, Irene Santori, Patrizia Sardisco, Marco Saya, Viviana Scarinci, Antonio Scaturro, Evelina Schatz, Giuseppe Schembari, Fabio Scotto, Massimo Scrignòli, Loredana Semantica, Luigi Severi, Sergio Sichenze, Ambra Simeone, Stefania Simeoni, Roberta Sireno, Maurizio Solimine, Lucia Sollazzo, Marco Sonzogni, Pietro Spataro, Fausta Squatriti, Giancarlo Stoccoro, Stefano Stoja, Maria Paola Svampa
Antonella Taravella, Gregorio Tenti, Diego Terzano, Italo Testa, Ranieri Teti, Matilde Tobia, Maria Alessandra Tognato, Carlo Tosetti, Silvia Tripodi, Luigi Trucillo, Guido Turco, Giovanni Turra Zan
Liliana Ugolini, Tonino Vaan, Adam Vaccaro, Luca Vaglio, Roberto Valentini, Camillo Valle, Sandro Varagnolo, Francesco Vasarri, Matteo Vercesi, Cesare Vergati, Maria Luisa Vezzali, Nicola Vitale, Ciro Vitiello, Annarita Zacchi, Simone Zafferani, Paola Zallio, Claudio Zanini, Claudia Zironi, Aida Maria Zoppetti, Marco Zulberti