L'uso intensivo della memoria, fino al punto da mostrane l'afasia, con il suo venir meno, quasi a causa dell’essere così strenuamente cercata, apre di fatto una separazione netta fra il sé adulto e il bambino che si è stati. Ora proprio questa netta separazione, equivalente a una perdita innaturale, poiché non possiamo essere, nel presente, che tutto quello che siamo stati, offre anche la misura della ferita e del dolore di cui ci parla Valentino Fossati. Confessione centellinata, in pillole, in cui gli "avrei potuto" e i "non sapeva" ci raccontano di un rovello tutto presente che si traveste con verbi all'imperfetto. Un presente che ha necessità di servirsi del ricordo, che parla di un passato riportato in vita come di un fantasma, un’ossessione che scrive una pagina sulla quale gli spazi bianchi sono maggiori di quelli stampati e le parole sulla riga si distribuiscono ricercando la rarefazione, segno ineludibile della difficoltà di rintracciare la continuità, e che inevitabilmente troveranno un epilogo nella perdita del tempo, la cui presenza è il vero tormento di Fossati. Il tempo indistinto, perenne, è il traguardo agognato.
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Inverno,
in quel tempo dei bambini
nascosti,
come palloni sui terrazzi
le ronde
(periferia – nord)
Le ronde dei padri –
tempo dello scoppio
seminati
i bambini sul selciato
in quel tempo…
Poi,
silenzio di tutto
silenzio
di noi
necessario il buio
necessità di noi …
Riprenderanno a parlare dietro ai balconi
Riprenderanno
a ricordare
(di noi)
le luci sui piatti,
bagliori sui corridoi
inabitati…
Nessuno provò tanta gioia
(nessuno)
come il bimbo nella cucina
dopo la scuola,
solo,
(silenzio
Compatto) –
Nessuno.
Oscurità dello sguardo,
oscurità
di noi
bianco di noi
nessuno.
Valentino Fossati (Genova, 1974), si è laureato con una tesi sulle antologie di poesia italiana. Ha pubblicato, in poesia, “Gli allarmi delle stelle” nel 2007 e “La gioia” nel 2014. Per il teatro ha scritto “Quel grido dell’altra notte” e “Alba infinita”.