Tra lacerazioni e suture, tra abbrivi e destinazioni, un titolo, una frase, un verso, ci chiedono di pensare diversamente: alcune prospettive dinamiche, di notevole rilevanza, della poesia e della prosa contemporanee vengono presentate in questo nuovo numero di “Carte nel vento”, che accoglie opere segnalate e finaliste nell’edizione 2017 del Premio Lorenzo Montano.
Ancora una volta l’esperienza della parola è duplice: da un lato i testi, prosastici e poetici, dall’altro le note a commento prodotte dalla redazione di “Anterem”, che coincide con la giuria del premio.
Questo 39° numero di “Carte nel vento” si apre e si conclude con l’arte: grazie a Bianca Battilocchi con un reportage da Dublino e, in chiusura, documentando per immagini la mostra allestita dal Liceo Artistico “Nani-Boccioni” di Verona sul tema Figure dell’immaginazione, avvenimento finale del Forum Anterem 2017.
Continuerà anche nel 2018 la collaborazione del premio con Licei e Istituti superiori attraverso i temi della filosofia, dell’arte, della prosa e della poesia.
Entro il 20 aprile attendiamo le nuove opere al “Montano 2018” per proseguire, con le stesse modalità, un appassionato lavoro che dura da trentadue anni: scarica il bando della 32^ edizione
In copertina: scene dal Forum 2017 (immagini di Laura Liberale e Massimo Girelli)
Perfomative Arts Today è il titolo di un evento multidisciplinare tenutosi lo scorso 2 febbraio presso Trinity College Dublin, in una data che casualmente è venuta a coincidere con il genetliaco di un grande irlandese auto-esiliatosi in Italia, lo scrittore James Joyce. Promossa e organizzata dalla Dr. Giuliana Adamo e dalla dottoranda Bianca Battilocchi, con direzione artistica di Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi, la giornata ha ospitato studiosi e artisti provenienti da differenti campi di indagine, poesia e traduzione, pittura, scultura, land art, cinema, fotografia e teatro. Il sottotitolo Like the Grave of a Stone, Like the Cradle of a Star – come tomba di un sasso, come culla di una stella – suggerisce orficamente lo spirito eletto a protagonista di una ‘rete’ che si è voluta iniziare ad intessere tra gli ospiti e il pubblico per recuperare il senso del ‘fare artistico’. Una rete di connessioni che inserisce autori incisivi e produttivi soprattutto dalla seconda metà del secolo scorso, ma ancora troppo oscurati e poco frequentati dai maggiori canali della cultura italiana. Ci riferiamo innanzitutto a Emilio Villa, Alberto Burri, Carmelo Bene e Salvatore Sciarrino.
Giuseppe Sterparelli, con Variazioni: a Visual Polyphony, suo film sul connubio tra Villa e Burri, Gianluca Pulsoni e Maurizio Boldrini con una doppia lezione su Bene e Cosimo Colazzo, allievo di Sciarrino ed esecutore di pezzi tratti da Villa, hanno reso esplicito il potenziale ancora fertile che questi artisti ci offrono. Partendo da una rivalorizzazione di questi, ci siamo proposti di guardare al presente e al futuro. Antonio Presti, fondatore di Fiumara d’Arte, avviando la conversazione, ha incarnato perfettamente questo slancio che non si apre solo temporalmente al ‘domani’, ma è anche geografico, con messaggi universali che vogliono spaziare dall’Italia all’Irlanda e ovunque ci sia il desiderio di ritrovare l’energia del creare bellezza attraverso le arti; eredità che l’epoca contemporaneo-capitalistica sembra aver dimenticato, troppo spesso annebbiata dalla volgarità e superficialità imperanti, dalla crisi delle università, dei centri culturali (e del loro senso) e quindi da potenti barriere, recentemente rese più spesse da infelici revival nazionalisti. Il G37 della poesia, summit siciliano promosso dallo stesso, il 25 maggio 2017, è una traccia di questo necessario andare controcorrente, e ha riunito 37 poeti e scrittori di diverse nazionalità in nome di un futuro basato sulla politica della bellezza.
Pieghevole con il programma della giornata
a cura di Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi.
In sintonia con questa iniziativa, nell’arco della giornata abbiamo tentato di eliminare barriere linguistiche e disciplinari, e voluto mostrare inoltre come, tra Italia e Irlanda, ci siano dei vasi comunicanti ancora attivi, a partire dagli archetipi, come quello del labirinto, esplorato in profondità anche da Joyce. Per questa ragione è stato scelto, a copertina dell’evento, un poema visivo di Vincenzo Consalvi che raffigura il poeta Emilio Villa e, in filigrana, un suo appunto sul labirinto, leitmotiv, mitologema che lo appassionò quasi ossessivamente e che, in analogia, ritroviamo inciso in forma spiraleggiante sulle pietre millenarie di Newgrange, all’ingresso di Dublino.
Nell’insonnia di avere in sorte la luce, il film presentato da Cornelio e Rossi, indugia particolarmente su queste migrazioni di simboli e vuole delineare le corrispondenze tra artisti contemporanei italiani – tra cui Magdalo Mussio, Silvio Craia, Franco Ferrara, Mariano Prosperi e Stefano Scodanibbio (le cui partiture sono inserite nella colonna sonora del film) – e la mitologia irlandese, sviluppando le riflessioni dell’Atlante Mnemosyne di Aby Warbug. L’Atlante è stato infatti esposto in una mostra curata dagli stessi, ad integrazione visiva degli interventi che si sono succeduti, e ospitante opere originali di Corrado Costa, Silvio Craia, Mario Diacono, Franco Ferrara, Osvaldo Licini, Magdalo Mussio, Nuvolo, Remo Pagnanelli, Pinuccio Sciola, Stefano Scodanibbio, Aldo Tagliaferri, Emilio Villa, tra i nomi più noti; tra gli altri Andrea Balietti, Bianca Battilocchi, Giuditta Chiaraluce, Vincenzo Consalvi, Giorgiomaria Cornelio, Simone Doria, Valentina Lauducci, Elisabetta Moriconi, Mariano Prosperi.
Picatrix Variations © Radek Przedpełski 2018.
Catalogo dell’evento a cura G. Cornelio e L. Rossi.
Un’altra prova di questa comunanza è il legame che si è intrecciato tra le due poetesse e traduttrici Antonella Anedda e Eiléan Ní Chuilleanáin, invitate a dialogare sul loro operato e a farci entrare nel loro immaginario poetico. Se Anedda non è potuta partecipare fisicamente, ‘la conversazione’ ha potuto avere luogo ad ogni modo. La poetessa irlandese ne ha letto alcune poesie tradotte da lei in inglese e gaelico e, a loro volta, sono state lette le parole della prima di cui riportiamo alcune righe eloquenti per i simboli evocati: “La poesia di Eiléan così autorevole e così priva di arroganza, ha la naturalezza di questo dicendo, di questo andante del gerundio. È un’oscurità luminosa, quella che viene dai chiari del bosco, dalla luce che filtra dai cespugli, ha a che fare con l’acqua, le pietre, la memoria”. La giornata si è conclusa proponendo nuovi intrecci con un concerto di Cosimo Colazzo e Patrizia Zanardi dedicato alle poesie di Pascoli, Villa e alle voci femminili di Anedda e Attanasio, entrambe protagoniste del G37 della poesia.
Poster dell’evento musicale a cura di G. Cornelio e L. Rossi.
Dublino, 23.03.2018
Bianca Battilocchi
Fra parole e cose traghetta, senza mai toccare riva, la scrittura di Nadia Augustoni. Ma anche tra passato e futuro. Forse incollocabile è l'oggetto, insituabile il luogo, indecidibile il tempo. Eppure la memoria è tangibile, offre come su un vassoio le certezze, "gli odori delle lunghe estati", il colore delle foglie. Tuttavia è da registrare che nei verbi è la distanza e che "le parole sono un nome". Di conseguenza, gli oggetti, con le percezioni a cui danno luogo, sembrerebbero fornire, nel tempo della presenza, l'unica concreta sponda dell'esistenza. Se le parole tessono racconti, lo fanno adagiandosi come polvere sulla fitta rete degli alberi, delle case. La pacata voce della Agustoni, con il suo vocabolario ridotto alle cose prime, ci introduce in un mondo diradato e sul punto di dileguarsi. Eppure con esse tramiamo la rete di relazioni che aggancia anche l'altrove, il passato al presente. Se dovessimo restare deprivati del mondo, ancora ci resterebbero parole per ricostruirlo e allora sarebbe la memoria la salda tavola che ci sorregge.
***
nell’esilio degli alberi nel fragore dei secchi
o l’eleganza della volpe nel tracciato di neve
il bianco porta il silenzio l’ora scende ovunque
e resta uguale:
il tempo delle parole riempie le stanze
il silenzio ripara i gesti mentre il cuore
finge un’altra cosa.
***
parli con un gesto quel segno da solo ti scrive
:non posso raccontarti né raccoglierti ma siamo
nelle frasi: ora il mondo è perduto per sempre
sentiamo l’arrivo del vento, un’aria tra le mani
colpisce le parole :scriverò il mare dopo le
onde e prima del mare come cominciava:
***
i fiori sono uno a uno uno alla volta il prato
ti chiedo una frase senza la parola vento
un’immagine della solitudine
senza abbandono –
:i residui della luce diventati colore:
un’altra luce e i girasoli
le mani senza duello.
Nadia Agustoni (1964) scrive poesie e saggi. Suoi testi sono apparsi su riviste, antologie, lit-blog. Del 2016 è Racconto Aragno, del 2015 Lettere della fine Vidya e la silloge [Mittente sconosciuto] Isola Edizioni; del 2013 è il libro-poemetto Il mondo nelle cose (LietoColle). Una silloge di testi poetici è nell’almanacco di poesia Quadernario (LietoColle 2013). Nel 2011 sono usciti Il peso di pianura ancora per LietoColle, Il giorno era luce, per i tipi del Pulcinoelefante, e la plaquette Le parole non salvano le parole, per i libri d’arte di Seregn de la memoria. Del 2009 la raccolta Taccuino nero (Le voci della luna). Altri suoi libri di poesie, usciti per Gazebo, sono: Il libro degli haiku bianchi (2007), Dettato sulla geometria degli spazi (2006), Quaderno di San Francisco (2004), Poesia di corpi e di parole (2002), Icara o dell’aria (1998), Miss blues e altre poesie (1995), Grammatica tempo (1994). Vive a Bergamo.
Collasso e apparizione
Il giorno della scomparsa aveva ancora due nomi. Il mio nome, il tuo nome.
Aveva lo scontro, aveva bisogno. Il fallire, ancora – e adesso, invece, di tutto questo niente, niente più.
Metteva da parte il sonno e si dimenticava. In un momento.
È tornato ad essere io, è tornato ad essere te. Bambino, buttava mille oggetti giù dal suo balcone. Per la strada. La forma che si rompe il suo diletto. Infante, incosciente. Dopo, ogni singolo frantume rinveniva: tutti quanti a riempire le grandi buche sul retro.
Ogni volta un collasso, una apparizione.
Sono, meno che. Inalo ed esalo, ma non respiro mai. La irriconoscibile creatura sotto il peso di valanghe immense. Continua esitazione. Non ne ho parlato mai. Lascio un biglietto, bianco senza parole. “Come stai?” Nulla da capire. Non più per le strade appartengo alle fessure. Ci ho messo molto tempo a morire. Perché mi guardi in faccia oh sapessi un altro nascondiglio. Qui pare non ci sia più nulla da imparare. Che non si possa più fare amicizia. Gli sconosciuti resteranno sconosciuti. Così mi siedo al tavolo, e mi presento a tutti: tacendo. Pesante di cose nascoste, il cuore non cede. Nessun mancamento. Nessun rinvenire.
Ogni volta un collasso, una apparizione.
Una cosiddetta deriva, oppure dono. La contraddizione che cammina. Parla. Chiede indicazioni e aspetta. Aspetta. Aspetta. Segue il suo istinto. Si perde in un volo di secondi. Finisce nei campi, la terra senza strade. Né angoli. Controlla, paziente, il suo dispositivo. La mappa differisce in gran misura. Prende poco, lontano dalla rete. Chi ha chiamato, chi ha scritto. Adesso non importa.
Vede in lontananza verdi gambi con le spine. Petali che brillano al sole del mattino.
Ricorda, ricorda. Ricorda il sole i rovi. Ricorda le lacrime il sangue. Le rose che cercava e che ha trovato.
***
In questa breve prosa di Riccardo Benzina il titolo è un manifesto esplicito e coerente di tutto il testo.
Non si tratta della descrizione di un flusso della percezione continuo, per certi versi rassicurante; le parole qui si donano ad un pensiero assalito contemporaneamente dall’esterno, dalle frenetiche immagini del mondo, ma anche dall’interno, dai balzi della memoria o di una esperienza logica priva di costrizioni.
Nella lettura si viene scaraventati in un mondo di ritmi irregolari, a volte sincopati, in cui la lingua si nega a qualsiasi funzione naturale che non sia il puro pensiero.
In questa prospettiva l’uso frequente dell’interruzione segnala il dialogo perenne fra la caduta e l’emersione. Nella caduta, nel collasso, un pezzo di mondo in qualche modo sparisce nell’assoluto oblio, trascinandosi dietro tutte le sue logiche; in ogni emersione e apparizione le parole testimoniano logiche completamente inedite.
È un pensiero minoritario, poetico, cui questo testo riconosce la necessità di venire alla luce.
Riccardo Benzina è nato in Italia nel 1988.
Risulta fra i finalisti del Premio InediTO 2016 (Sezione Poesia) e del Premio letterario russo-italiano Bella 2016.
Ha ricevuto una menzione speciale per la prosa inedita al Premio Lorenzo Montano 2016.
Suoi testi sono apparsi nei volumi antologici Zenit Poesia (La Vita Felice, 2015) e Novecento non più (La Vita Felice, 2016).
La scelta di una scrittura del tutto libera, in cui predomina il verso libero, che si vuole accampare tra cronaca giudiziaria e racconto dalla diretta voce dei protagonisti dei terribili eventi è, in realtà, immediatamente ricondotta alla voce autoriale: il linguaggio subito ci indirizza verso un'esposizione a tratti filosofica o lirica che denuncia l'artificio della voce narrante, o meglio rende tale voce dichiaratamente 'attoriale'. La volontà di comprendere, di spingersi negli oscuri meandri esistenti in ciascuno di noi, è il vero oggetto di questi testi: ecco perché ascoltiamo invero la sola voce della Calandrone senza interruzioni. Indossare abiti altrui non è tout-court il modo per essere l'altro, forse quello per rivivere le proprie paure o fascinazioni, per affrontare le angosce personali. Il teatro istituito dalla carta e dalla penna rende fluida la scrittura di quest'ultima prova, catturante, capace di restituire la dimensione della perdita e del riscatto, del lutto e della relazione affettiva e di porgere il messaggio di chi è andato e di chi resta. Eppure parola, quando troppo piena narra d'altro, non della morte, non di quelle esperienze necessariamente afasiche.
[...] ora sappiamo, poi che ne abbiamo rimosso il corpo
azzurro e cedevole, che lei era stata una cosa che non opponeva
resistenza e adesso era
esaudita, mentre tubercoli
di larve ne intaccavano gli occhi e la canala dei liquami era stata
scavata profondamente
quanto
il fatto che chi se n’era andato non era più
con lei da molto tempo e lei aveva concluso nel corpo quel separarsi lentissimo come in presenza di ostacoli e scendendo le scale quella
mattina
con la fronte addolcita dal sole
sulla spalla
della piccola indiana con il nome da uccello aveva detto questo
essere stata in mani estranee è stata
la vita mia
Roma, 22 gennaio 2010
Diceva sempre
ditele che la amo
e ditele che ho fatto tanta strada
per amarla.
Ditele che se uscivano
angeli e diavoli dalla sua bocca,
io vedevo soltanto la sua bocca.
Ditele che mi abita
per sempre.
Diteglielo, vi prego. Diceva sempre.
30 aprile 2016
Maria Grazia Calandrone (Milano, 1964, vive a Roma): poetessa, drammaturga, artista visiva, performer, autrice e conduttrice per Radio 3, scrive per “Corriere della Sera”, “il manifesto” e “Poesia”. Tiene laboratori di poesia nelle scuole (applicando un metodo associativo da lei stessa ideato per studenti, da elementari a universitari), nelle carceri, nei DSM, con i malati di Alzheimer e con i migranti e presta servizio volontario in "Piccoli Maestri", scuola di lettura per ragazzi. Collabora con Rai Letteratura e Cult Book. Libri: La scimmia randagia (Crocetti, 2003 – premio Pasolini Opera Prima), Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier, 2005), La macchina responsabile (Crocetti, 2007), Sulla bocca di tutti (Crocetti, 2010 – premio Napoli), Atto di vita nascente (LietoColle, 2010), L'infinito mélo, pseudoromanzo con Vivavox, cd di sue letture dei propri testi (sossella, 2011), La vita chiara (transeuropa, 2011), Serie fossile (Crocetti, 2015 – premi Marazza e Tassoni, rosa Viareggio), Per voce sola (ChiPiùNeArt, 2016), raccolta di monologhi teatrali, disegni e fotografie, con cd allegato di Sonia Bergamasco con EstTrio e Gli Scomparsi – storie da “Chi l’ha visto?” (Gialla Oro pordenonelegge, 2016); è in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012). Sue sillogi compaiono in antologie e riviste di numerosi paesi. Porta in scena in Europa il videoconcerto Senza bagaglio. www.mariagraziacalandrone.it
Invocazione
“Invocare, e se fosse / questo la poesia?”, si chiede Anna Carpi che, nella raccolta “I rifugiati”, colloca il suo dire dalla parte di chi è in cerca di senso: una condizione comune a tutti i viventi, di fronte all’ineluttabilità che domina l’esistere, inasprito dalla brutalità umana e dall’incuranza che sancisce il contrasto tra l’orrore del mondo e il quotidiano passivo sconforto: “A noi, scrive l’autrice, qui sul divano / rimane impressa solo la rovina, / mezzo milione i morti, solo numeri atroci / e un'idea confusa dei motivi”.
La ferita non appare solo storica, contingente; è uno strappo più profondo, certo privato, umano, ma forse rintracciabile ancora più a fondo, a livello ontologico: “Il senso è al largo”, precisa Anna Carpi.
Una condizione umana che riguarda tutti, dalla perdita di senso allo stato di erranza e di esilio: rifugiati, per l’autrice, sono certo i profughi e i clandestini “affamati, gelati, senza dove”, ma ugualmente la situazione riguarda chi, dall’altra parte, assiste impotente e trova rifugio nella quotidianità, ”E rifugiati siamo anche noi, / a tavola in cucina che ceniamo”.
Così tutti possiamo sentirci esclusi: oltre che dai più elementari diritti, anche dalla natura, dalla comunicazione e dal contatto reale. E tutti considerarci smarriti, confusi nella solitudine e nella lontananza dal divino, nell’autentica sofferenza come nella falsa commiserazione, come leggiamo: “Ma quel po' di pietà durante il giorno / per le sventure altrui / non lo chiamare il bene, / piomba nel sonno insieme a te ogni sera. // Così anche tu sarai fra gli smarriti”.
E la poesia? È anch’essa da includere tra i rifugiati, come implicitamente i versi lasciano intravedere, sbigottita tra follia e incuranze, tra guizzi di senso e oblio, tra speranza e abbandoni? E che cosa invoca?
Forse “nel suo strazio invoca un altro mondo”, come scrive l’autrice nei versi dedicati a Rilke, un’invocazione che è desiderio, non supplica, forse il “desiderio di un oltre oltre oltre” con cui si conclude il testo dedicato a Nietzsche.
Un’invocazione, nella ricerca insoluta del divino e nella sofferenza per la precaria condizione umana, che richiede fiducia: “Invocare, e se fosse / questo la poesia? / Ci proviamo: con minimi / travasi di dolore e di speranza”.
E che presuppone soprattutto, come ci mostra Anna Maria Carpi, un grande amore per la parola.
***
RILKE CHE SCRIVE lettere
a migliaia, a poeti
e a nobildonne primo '900,
e le sue oscure e splendide elegie
e i suoi inni ad Orfeo
il padre d'ogni canto, canto umano.
Ma ogni momento supplica
in prosa e in versi:
vi prego non mi amate,
è un inganno l'amore,
chi m'ama mi sfigura,
sta a me di amare,
a me questa violenza che mi salva.
"Lascia suonare, dice, ciò che in te fa strazio"
e cerca le parole e poi le trova
questo genio-fanciulla d'altri tempi
e nel suo strazio invoca un altro mondo
fra le braccia degli angeli,
e non solo per sé. Per tutti noi.
Invocare, e se fosse
questo la poesia?
Ci proviamo: con minimi
travasi di dolore e di speranza.
***
DUE I NOSTRI COMPAGNI.
Uno è il passato –
mezzobastardo dell'immaginario –
e ognuno ha il suo
o un muto un tremebondo un coda bassa,
o un inquieto che latra, un lupo, un labrador.
Poi verrà l'altro
anche lui un fedele. Però non scelto, però insospettato,
un disguido da poco sulle prime
giù nella dépendance, nel caro corpo,
un nulla, intermittente. Cosa vuole?
Non ascoltarli, guarda: fra gli ignoti,
ce n'è tanti
che ti toccano il cuore.
Anna Maria Carpi, di famiglia tosco-emiliano-irlandese, vive a Milano. Ha insegnato letteratura tedesca all'Università di Macerata Marche e a Ca'Foscari a Venezia. E' autrice di saggi, racconti e romanzi (fra cui Vita di Kleist, Mondadori 2005, Rowohlt 2011, e Uomini ultimo atto, 2016) e traduttrice della lirica tedesca (Nietzsche, Rilke, Benn, Bernhard, Gruenbein e a.), premio Ministero dei beni culturali (2011) e Città di S.Elpidio (2015), premio Carducci (2015). Nella poesia esordisce con A morte Talleyrand (1993, premio Pisa 1993), cui seguono Compagni corpi (2004, 22005), E tu fra i due chi sei (2007), L'asso nella neve (2011, 2 edizioni), Quando avrò tempo (2013) e L'animato porto (2016). Da Hanser (Monaco 2015) è uscita l'antologia con testo a fronte Entweder bist du unsterblich e da Marcosymarcos, Milano 2016, il complessivo E io che ancora parlo. Sue poesie sono apparse su "Oktjabr' (Mosca,1998), "Akzente"(Monaco 2001 e 2011), e di recente su "Ulisse", "Nuovi argomenti", "Le parole e le cose".
Una sacra dissacrazione
Nella ricerca di coniugare arte e poesia e, nello stesso tempo, di creare una rottura di prospettiva, si muove la scrittura contaminata di Morena Coppola nella silloge “Sgorbie e Misericordie di Fratelli Elettrici”.
Molteplici sono le rivisitazioni nel mondo dell’arte, dal dipinto di Rembrant, Il filosofo in contemplazione, alla video-intervista, Il sogno di una testa, di A.Giacometti, così come nel corpus poetico, con citazioni da D. Campana a J. Brodskij, da P.P. Pasolini ad A. Zanzotto. Non solo: unitamente ai richiami a diversi poeti ed artisti e a molteplici opere musicali, letterarie e pittoriche, l’autrice mette in atto la reinterpretazione di narrazioni bibliche, con l’invenzione di nuove, laiche, dissacrate parabole.
Parrebbe che tutto il dire di Morena Coppola si faccia, laicamente, parabola: un dire allegorico in cerca della sua verità, o post-verità, una parola in cerca di sé, propriamente, come precisa l’autrice, delle “sorgenti di segni primordi che segnano le linee dell'avanti parola”, una scrittura che arde “nell'apice di un estremo, nelle profondità nascondiglie di coni a rovescio. / In quei cunei roventi, noi stiamo” e che dissoda, trafigge e perfora: “Con pseudo dotta giuntura trivello il reale … Opus incertum; in ciò sta il fine, la teleologica rissa tra scavi e reinterri”.
Il tutto attraverso fratture di visioni, pluralità dei punti di vista, rovesciamenti di senso, nello stesso modo con cui operava l’artista G. De Dominicis, più volte citato in exergo.
Con tensioni e accentuazioni espressive, che ci conducono anche a Pasolini, che l’autrice ci mostra in una reinventata crocefissione e di cui fa dire: ”Veramente quest'uomo era Poeta di Dio!”. E con l’uso di figure del doppio, in particolare espresse in “Due Pater come due Frida”, che danno titolo a diversi testi.
Pare proprio di scorgere in tutta la raccolta, come nel doppio autoritratto di Frida Kahlo, Le due Frida, con il loro doppio cuore, la duplicità del sentire e della parola di Morena Coppola, tesa tra il sacro e la sua dissacrazione, tra passioni ardenti e immagini stranianti, tra “mete oltresoglia” e “recapito certo”, e, come si conclude la raccolta, tra “salvezza distante e apocalisse privata”.
Dalla sezione: .II. Utensili Nuziali
***
sottratta l'anemica anatomia al vedere
il cemento armato di espiro sospeso
ostruiva la vista
non l'effettiva esistenza
scarnificata da visioni
incrociate a sempre uguali
In pozzo di mari noi indosseremo reciproci archetipi
LE DEDICHE
Ti vedo girare dietro angoli chiari senza sporgenze.
Architravi smontati di mattoni e cemento esistono nei luoghi dell'incerto e del dove.
So che sei in alto e pascoli nuvole cieche.
La luce offuscata manda attimi e tremiti.
Paura riarde che occhi vacui contagi germoglino. Non voglio languire per questo.
Sono anni che conservo il tuo viso, lo raggiungo così.
Dietro la pietra, delle ali di marmo sembrano dire Vieni a vedere.
Il santo è disteso nel campo, ma è andato a morire lontano da qui.
Pupilla opalina proietta memorie, apostrofe senza video né audio.
L'umano non si distacca da Nulla, soltanto lo accetta e lo inventa.
ALTRE DEDICHE
Non riesco a raggiungerti ora.
Ricordo pianti e sorrisi che ci fecero fanti di picche.
Non potrei pensarti senza le spine negli occhi.
La bellezza del vivo si ripercuote sulla fotoceramica sbianca.
Sotto lo choc dei giorni trasuda perennità di pensiero.
Aspettami ancora in quel tuo posto appartato.
Morena Coppola è nata a Roma nel 1958. Ha vissuto a Venezia, attraversando lo studio letterario e poetico nell'Associazione La Settima Stanza di Grazia Sterlocchi e Laura Guadagnin. A Roma, frequenta letture lezioni e laboratori; in particolare, gli incontri di lettura poetica tenuti da Daniela Attanasio negli spazi della casa editrice Empirìa. Si interessa delle forme calligrafiche rintracciabili nell'espressività visiva e di arte contemporanea. Le sue sillabe, e il flusso che porta all'esterno logos e pensiero, spesso rilasciano immagini stipate nel magazzino retinico. E' stata selezionata al Premio Lorenzo Montano, nel 2013 per la sezione della poesia inedita, nel 2014 per quella della prosa poetica inedita. Nel 2016, in occasione della pubblicazione di Avrei fatto la fine di Turing, di Franco Buffoni, un suo scritto è stato pubblicato sul sito del poeta. Finalista al premio letterario Interferenze – Bologna in lettere, edizione 2017. Un suo testo accompagna l'immagine xilografica dell'artista Andreas Kramer per le Edizioni PulcinoElefante.
Nelle prose poetiche di Giovanni Duminuco sentiamo immediatamente l'assenza di un referente esterno e del corpo che dovrebbe esserne il ricettore. Siamo già implacabilmente nel mentale, con tutti i suoi dubbi, con una logica che è inoltre inficiata non solo da sé stessa, ma anche dall'immaginazione, la quale proietta sul tendone, tutto visivo, virtuali aperture, fughe e pieghe. La parola vi ha però una posizione egemonica, perché è l'unica con cui poter risalire la corrente, dominare l'onda (fra emozioni e logica), venire a capo perlomeno del filo che può consentire l'uscita dal labirinto. Ed essa, scorre fluente, senza interruzioni, svolgendo sotto i nostri occhi un vero e proprio resoconto diaristico relativo a un viaggio, in cui la coscienza è attiva almeno quanto lo è un'onirica visione. Le parole indicano simboli e questi simboli sono boe nel passaggio, le quali non costituiscono un obiettivo e non offrono una salda presa. Eppure, solo la parola consente almeno di passarci attorno, di toccarle.
***
Sono le circostanze del nulla, il segno dell’alterità
costretta sulla pelle nel tremore della colpa perenne,
stretti al vento dei commiati nel gioco del morire: l’a-
ria di polvere che ingrossa il respiro nelle notti che
spezzano le ossa, ruvide metamorfosi di un corpo di-
sabitato.
***
Per una strada aperta all’errore ripiega il cranio nel
dolore prima che giunga il vento dietro il vetro per-
duto alle logiche del tempo: dirige lo sguardo all’al-
trove impietrito, chiude il riflesso in fessura nel gesto
dietro il muro l’impronta ostentata del freddo.
***
Abitare l’errore nel tragitto che segna il passo ai muta-
menti, tra le visioni scoscese del niente che attraversa
la pianura dove culmina lo sguardo, stretto nel corpo
consegnato al vento il declivio indecifrabile del mondo.
Giovanni Duminuco (1980) vive e lavora in Sicilia, attivo nel campo della ricerca filosofica e letteraria. Ha pubblicato diversi studi in riviste specializzate. Nel 2013 vinse il XXVII “Montano” con la raccolta inedita “Dinamiche del disaccordo”, successivamente pubblicata da Anterem Edizioni.
L'uso intensivo della memoria, fino al punto da mostrane l'afasia, con il suo venir meno, quasi a causa dell’essere così strenuamente cercata, apre di fatto una separazione netta fra il sé adulto e il bambino che si è stati. Ora proprio questa netta separazione, equivalente a una perdita innaturale, poiché non possiamo essere, nel presente, che tutto quello che siamo stati, offre anche la misura della ferita e del dolore di cui ci parla Valentino Fossati. Confessione centellinata, in pillole, in cui gli "avrei potuto" e i "non sapeva" ci raccontano di un rovello tutto presente che si traveste con verbi all'imperfetto. Un presente che ha necessità di servirsi del ricordo, che parla di un passato riportato in vita come di un fantasma, un’ossessione che scrive una pagina sulla quale gli spazi bianchi sono maggiori di quelli stampati e le parole sulla riga si distribuiscono ricercando la rarefazione, segno ineludibile della difficoltà di rintracciare la continuità, e che inevitabilmente troveranno un epilogo nella perdita del tempo, la cui presenza è il vero tormento di Fossati. Il tempo indistinto, perenne, è il traguardo agognato.
***
Inverno,
in quel tempo dei bambini
nascosti,
come palloni sui terrazzi
le ronde
(periferia – nord)
Le ronde dei padri –
tempo dello scoppio
seminati
i bambini sul selciato
in quel tempo…
Poi,
silenzio di tutto
silenzio
di noi
necessario il buio
necessità di noi …
Riprenderanno a parlare dietro ai balconi
Riprenderanno
a ricordare
(di noi)
le luci sui piatti,
bagliori sui corridoi
inabitati…
Nessuno provò tanta gioia
(nessuno)
come il bimbo nella cucina
dopo la scuola,
solo,
(silenzio
Compatto) –
Nessuno.
Oscurità dello sguardo,
oscurità
di noi
bianco di noi
nessuno.
Valentino Fossati (Genova, 1974), si è laureato con una tesi sulle antologie di poesia italiana. Ha pubblicato, in poesia, “Gli allarmi delle stelle” nel 2007 e “La gioia” nel 2014. Per il teatro ha scritto “Quel grido dell’altra notte” e “Alba infinita”.
Kiki Franceschi è poeta, artista, saggista. Il suo lavoro è dunque complesso e poliedrico. Precisamente com’è complessa e poliedrica la struttura di questo suo libro: Non c’è tempo per il tempo.
In questa opera, parola poetica e segno, parola riflessiva e canto si intrecciano. E forniscono del mondo una visione colma di contraddizioni insanabili.
Il nostro mondo, ci dice Kiki Franceschi, è sottoposto all’incombere di un disegno che appare inestricabile. Un disegno che a tutti rimane celato.
I protagonisti dell’opera (esseri umani, esseri animali, o cose che siano) sono condannati all’errare e al patire – che dell’errare è la conseguenza. La sventura pare essere la condizione inerente a noi tutti… Eppure, Non c’è tempo per il tempo non teme di affidarsi a un puro anelito verso la pace. Un anelito puro e tormentato che pervade e scalda i nostri cuori, lacerati come sono tra pena e fortuna.
Sotto
mentite spoglie
Ho due anime, un falso sé o un
inventato sé. Sono sempre sotto mentite
spoglie, in duello con me stessa nel tentare
di uscire dai grovigli interiori che strozzano
l’impulso ad esprimermi e frenano la pulsione
al silenzio. Combatto con la voglia di tacere,
il desiderio di riposo e silenzio, la fine delle
inutili fatiche, l’abbandono della
tensione costante. Fuggo. Entro in
un dialogo tra ombre e doppi.
Inevitabilmente.
Rebus
Labirinto della mente
enigma inconsapevole
non oscuro specchio
né museo di cangianti forme.
Io sono il mio ricordo
come in sogno
nessuno dietro il viso
che ignaro mi guarda.
Kiki Franceschi nasce a Livorno, dove giovanissima si distingue nel campo pittorico vincendo numerosi premi nazionali. Al suo attivo ci sono circa quaranta mostre personali e collettive. Esperimenta poesie sonore, alcune delle quali saranno trasmesse negli anni 1990 e ’91 dalla Radio Nacional de España in occasione della rassegna Ars Sonora. Scrittrice, poeta e saggista pubblica diverse opere tra cui Giornale(Aglaia, Firenze 1991), Segnali da nessun luogo (Polistampa, Firenze 1997), Fontechiara e dintorni (Polistampa, Firenze 2000), Divorare l’infinito, (Morgana, Firenze 2001), Riflessi da fortezza assediata (Angelus Novus, L’Aquila 2002), Isola (Meta, Firenze 2003), Sono fuori del tempo i fatti umani (Gazebo, Firenze 2012). I suoi testi drammatici sono stati tutti rappresentati in teatri italiani tra i quali la Goldonetta di Firenze, il Teatro delle Commedie di Livorno, la Sala Vanni di Firenze o il Piccolo Elliseo di Roma. I saggi su Mary Shelley e sul gruppo Berenson sono apparsi sulla rivista «Berenice», nel 1996, nel 1997 e nel 2001. Un altro è contenuto nel volume a cura di Eleonora Chiti, Monica Farnetti e Uta Treder La Perturbante(Morlacchi, Perugia 2003). Una sua biografia critica è apparsa in Scritture femminili in Toscana, a cura di Ernestina Pellegrini (Le Lettere, Firenze 2006).
"Perché siamo qui, Angela? Dove stiamo andando?”
Se pensiamo a generi collaterali alla poesia come siamo soliti immaginarla, con gli a capo canonici, restando nell’ambito lineare e senza sconfinamenti nel visivo o nel sonoro, probabilmente viene subito in mente la prosa poetica.
Angela Greco, in questo “Studi comparati”, propone invece un testo di poesia narrativa: è poesia, ci sono gli a capo, ma tutto si configura come un racconto. Con tanto di frammenti dialogici, flash-back, stacchi e inquadrature da cinema, musica e recitazione, “fuorionda” colti nel momento massimo della verità. Le voci fuori campo dettano il tempo di una sceneggiatura complessa, serrata e insieme profonda. Una sorta di “marchio di fabbrica”, ripensando a una precedente prova dell’autrice, “Campo di grano con corvi”.
Ma è necessario porre molta attenzione, perché tutto quello che viene messo in scena, talvolta abbagliando, in altri momenti in modo sommesso, potrebbe depistare noi lettori dalla costante visione, esclusivamente poetica, che innerva l’intero brano. La poesia è nel pensiero che sottende interamente il testo, ora carsico e appena percepibile, ora affiorante e portatore di rara, e inedita, espressività. Forse siamo davvero diretti dove abbiamo sbagliato, oppure dove possiamo liberamente confondere i segni con i sogni, soffermandoci su una vecchia foto che ancora ci parla.
Studi comparati
«Dove abbiamo sbagliato, Claire? Dove siamo diretti?
Chi ha preso il nostro posto?»
Non sappiamo più leggere i segni, i sogni,
il fondo delle tazze di caffè e nemmeno il Braille.
Sono lontane le stelle, le notti chiare e le mattine senza dolori.
Si ride per una bugia. Inizia a piovere.
Il grigio ha valenza plurima e capacità statica.
Giorno monocromatico da vecchio film muto
aggressione inevitabile alla giugulare.
E’ tutto un gioco di fogli bianchi e mascelle.
Anche il cielo morde.
Al piano inferiore spostano continuamente le sedie
in un gioco da bambini che ogni volta ne sottrae una.
Il falegname bussa tutti i pomeriggi dopo pranzo.
Dal balcone guarda i miei giorni stesi ad asciugare.
Io lo saluto sempre. Per l’ultima volta.
Inverno rigido tra febbraio e aprile;
maggio è soltanto un ricordo.
Le gocce sui vetri mosaicano l’immagine.
«Claire, non allontanarti. Ho bisogno di mani, di fiato
e di presenza, in questo quotidiano senza punteggiatura».
La luce accesa nella stanza col soffitto blu aspetta la sera.
Temo il suo silenzio più che la neve.
Astronomy domine, cinquant’anni di anticipo.
Scatola degli spilli, forma avveniristica, un altro secolo:
uso sapiente di mani, rotazione di vinili, asole da riparare.
Fili tutti tirati.
Lascia che giochi, Claire, oggi. Fuori c’è confusione.
Cinque settimane per ritrovarsi e un bonus per sola andata.
Penso spesso che sia necessaria una vacanza dalla poesia,
ma poi qualcosa arriva e tutto allora diventa chiaro, lucido.
A marzo sarà un anno dalla foto in bianco e nero con foulard.
Angela Greco è nata il primo maggio del ‘76 a Massafra (TA), dove vive con la famiglia. Ha pubblicato: in prosa, Ritratto di ragazza allo specchio (racconti, Lupo Editore, 2008); in poesia: A sensi congiunti (Edizioni Smasher, 2012; in uscita la seconda edizione con prefazione di Flavio Almerighi); Arabeschi incisi dal sole (Terra d’ulivi, 2013); Personale Eden (La Vita Felice, 2015, prefazione di Rita Pacilio); Attraversandomi (Limina Mentis, 2015, con ciclo fotografico realizzato con Giorgio Chiantini e nota introduttiva di Nunzio Tria); Anamòrfosi (Progetto Cultura, Roma, prefazione di Giorgio Linguaglossa). E’presente anche in diverse antologie e su diversi siti e blog. È ideatrice e curatrice del collettivo di poesia, arte e dintorni Il sasso nello stagno di AnGre (http://ilsassonellostagno.wordpress.com/). Commenti e note critiche sono reperibili all’indirizzo https://angelagreco76.wordpress.com/.
I domini interiori
Se pensiamo al potere immediatamente riconduciamo l’atto di autorità o di forza ad un agente esterno e, nella sua forma plurale, alle diverse istituzioni o forme di dominio che hanno agito e agiscono nel mondo.
Ad un diverso significato ci conduce invece Francesca Ippoliti nella sua silloge “I poteri”, dove, alternando nella sua ricerca linguistica prose poetiche e strofe, ci parla di dolori e dispersioni, di contagi e guarigioni, di promesse e di perdono, di speranza e di vuoti: “Discorsi tagliati a metà, un mucchio di polvere. Dicci ancora della forza, nei deserti conosciuti e vuoti. Faccelo toccare il vuoto”.
Un vuoto che non si colloca solo nell’esterno circostante, dove, come scrive l’autrice, “Tutto finalmente smette di esistere”, ma che si fa soprattutto esondazione interiore, come “diventare vuoto meccanismo o una bolla grande, inutile e perfetta / dirigere l'orchestra delle voci / rotolare lungo la linea, rinunciare a salvarsi”.
Accogliere il vuoto è quanto ci indica Francesca Ippoliti, all’interno di una dinamica in cui agiscono forze opposte, poteri interiori che al termine della raccolta vengono precisati essere propriamente l’assenza e la vigilanza.
Sono stati di veglia, capacità di selezionare, concentrazione e razionalità, la possibilità di salvezza, anche, a declinare il potere della vigilanza, come esprime l’autrice: “Il pensiero lineare e giusto doveva conservarci la salute, tenerla in serbo per le stelle”, ma anche la durezza nei confronti di sé: “Mi faccio la violenza - la cura - di un'attenzione continua e opprimente”.
Sono, al contrario, movimenti di dispersione, sogno, apertura, azzardo, linguaggio dell’errore e impossibilità di salvarsi a caratterizzare il potere dell’assenza, come leggiamo: “Ad un certo punto ho dovuto rinunciare alla mia concentrazione disperata e usare le parole sbagliate”, così come sottrarsi alla conoscenza razionale, cercare “di non capire”.
In bilico, patendone l’inconciliabilità, tra vigilanza e assenza, attenzione e rischio, ragione e desiderio, Francesca Ippoliti si muove eticamente in un percorso umano e poetico in cui la parola è in cerca della sua autenticità e il dolore riesce a farsi stato di grazia, “ma”, ci ricorda, “quanta gioia da scacciare via, quanta luce / da spostare con le mani”.
Rituale
Mentre giri su te stesso rapidamente
e con un colpo di frusta svanisci
...........
Guardi tutto nell'assenza di Dio
resti fermo e sicuro nel vento
La linea del davanzale
è l'unica cosa rimasta del mondo.
L'infezione
Preghiera
Discorsi tagliati a metà, un mucchio di polvere. Dicci ancora della forza, nei deserti conosciuti e vuoti. Faccelo toccare il vuoto, finalmente tutto intero, a masse d'aria corrotte, a blocchi d'aria finissima. Dimmi dei nostri figli, del taglio fuori le mura, a fine giornata – arrivano dopo, i pomeriggi estivi d'aria, fluttuanti e scomposti
Postilla descrittiva
Le cadono le pastiglie di mano, crollano le espressioni, fa le smorfie, non vi guarda, io la guardo e vorrei che smettesse, vorrei aiutarla. Cedo, mi lascio commuovere da un motivetto pop di cattivo gusto.
Sogno
Ci sarebbe un grande riposo,
senza distizione tra giorno e notte.
Ci sarebbe un aereo in volo nello spazio
Un razzo
Una scia perfettamente inutile,
infinitamente perfettibile.
Tutto questo non è la chiave di niente
Un aereo non apre niente
Tutto finalmente smette di esistere
Svolta
Lo senti, lo capisci: l'infezione sta tornando. Diventi un'altra volta cattivo, ti guardi intorno, li odi. Presto tutti se ne accorgeranno, ti chiederanno di andartene, ti stringeranno la mano sorridendo.
I poteri
Una dinamica
E tu, proprio tu, ma forse io, devi sapere che:
ci sono solo due forme di potere – l'assenza e la vigilanza – e non potrai conciliarle, non potrai farcela, non ci riuscirò.
Francesca Ippoliti è nata a Napoli nel 1988 e vive a Roma. Si è laureata in Lettere a Siena e attualmente sta svolgendo un dottorato di ricerca presso Roma “Tor Vergata” in cotutela con l'Università di Losanna. Si occupa soprattutto di metrica e stilistica del Novecento, con particolare riguardo al ritmo e all'intonazione. Ha scritto sulle riviste Ospite ingrato e Sinestesie, e collabora stabilmente con il semestrale Per leggere, con Nuovi Argomenti e con il blog formavera, dove sono apparse sue poesie, traduzioni e articoli.
Gabriella Montanari è poeta, narratrice, critica d’arte, fotografa.
Oggetto di studio della sua poesia vuole essere la vita nel suo complesso. Vita intesa non come cosa tra le cose, non come oggetto da definire.
La domanda che Gabriella Montanari si pone è questa: sulla vita in quanto tale, da dove è lecito iniziare a interrogarsi? Per subito soggiungere: chi o cosa interrogare per raggiungere questo scopo?
Ed ecco cosa impone Si chiude da sé: impone di accettare la finitezza e la fragilità costitutive della nostra esistenza; impone di vivere ora e qui la nostra morte futura, come se ogni momento fosse l’ultimo; impone di decidersi finalmente per una vita autentica!
Diciamolo con maggiore chiarezza: Si chiude da sé svela che il vero male, la nostra vera disgrazia è quanto avviene non per la Natura, ma nell’andare contro la Natura.
Detto ancor più chiaramente, la vera catastrofe avviene quando non facciamo i conti con le nostre passioni, quando cerchiamo di sfuggire all’attrito della vita.
***
passato è stato il nostro tempo verbale. futuro condizionato, sottovuoto. poco igienico.
spietata grammatica dei fuoritema per la maestrina spiumata e l’alunno redento,
banchi d’imputati in fila ignara, bacchetta e bacio, e il fiume rosso delle sviste.
fossimo stati la malacopia dell’otto e mezzo sperato, o anche solo una merenda
o un suggerimento, un vocabolo capace di rimare con comprensione.
bocciata a pieni voti, svuoto la cartella dalle ultime, pesanti briciole di lezioni
e raccolgo camomilla per la sera lunga e senza compiti.
in controluce, io senza contorno, tu calco, leggi il doppioverso che ti mando.
ripetente in amore, ammaccata dalle prove, lucida da scegliere tre volte te.
***
testimone un mare ampio di vedute, mi avresti legato un’alga d’argento all’anulare.
ti avrei dato un figlio morbido, con la mappa dei tuoi nei e i miei alluci ellenici,
nome di punta e di cognome di tacco per calzare il nostro ritorno all’utero del sud.
sul castagno dei cento cavalli avresti modellato per noi un nido di saliva e salvia,
tetto aperto su saturno, risa nel piatto e tavola spalancata agli appetiti del bosco.
tu e i tuoi pazzi, io e la mia poesia, lui e le sue biglie dai mille volti: mondi alleati
in un serio gioco di famiglia. e fuori un giardino di anime vispe, da invitare a cena.
e poi pigmenti e crete per tappezzare i muri dei vuoti, vaccini e cerotti per i bui.
ti avrei dato un inferno. ma di qualità.
Gabriella Montanari
(1971, Lugo di Romagna)
Laureata in lettere moderne all’Università di Bologna e diplomata in pittura presso la Scuola d’Arti Ornamentali San Giacomo di Roma, è poeta, scrittrice e fotografa. Traduttrice di poesia e narrativa dal francese e dall’inglese, collabora con riviste di critica letteraria, d’informazione e d’arte italiane e francesi.
È co-fondatrice e direttrice editoriale della casa editrice WhiteFly Press (Ravenna http://www.whiteflypress.com).
Esordisce in poesia con la raccolta Oltraggio all’ipocrisia– Prefazione di Dante Maffia (seconda classificata al Premio R. Farina, 1° Davide Rondoni, 3° Sauro Albisani) per le edizione Lepisma di Roma (2012), a cui ha fatto seguito Arsenico e nuovi versetti(La Vita Felice, Milano, 2013 – Prefazione di Lino Angiuli) e Abbecedario di una ex buona a nulla (Rupe Mutevole Edizioni, Parma, 2015 – Prefazione di Enrico Nascimbeni). Sue poesie, racconti brevi e traduzioni sono raccolte in antologie italiane e internazionali.
Antonio Pibiri con Chiaro di terra è al suo terzo libro di poesia. La casa editrice è L’Arcolaio. L’anno di pubblicazione, il 2016.
Con Chiaro di terra Pibiri vuole rompere i diaframmi dell’oscurità. Ma non per tornare a un improbabile “chiaro di luna” e lì affidarsi a ormai apatiche certezze veritative. No. Pibiri ci sta comunicando che siamo davanti a qualcosa come un gioco d’ombre, in cui proprio attraverso il messo-in-ombra, appena illuminato dalla terra, rende accessibile il senso della vita.
È il passo nella penombra della verità, nel cammino della sapienza, nel gesto dell’amore, ma – ancor prima – nell’abbacinamento dell’ombra. Perché è qui che Pibiri ci vuole portare: all’illuminazione che viene dall’ombra.
La poesia è mossa da un’originaria meraviglia e da sempre la sua domanda è in cosa consista un’ombra. Ebbene, questo libro mostra come il pensiero-che-interroga metta in discussione innanzitutto se stesso. Incessantemente Chiaro di terra si fa paladino della compresenza essenziale di luce e oscurità, compresenza che si costituisce come principio germinativo della parola poetica, tanto da giungere a sovvertire la lingua che essa stessa parla.
Ciò accade in modo particolare nella sezione “Visioni dell’ultimo”, dove il poeta ipotizza che la luce sia in fondo quella cosa che nasce dall’ascolto di una voce.
Ecco cosa ci rivela Pibiri. Ci indica che se la poesia poco sa della luce è perché pur avendola sempre pensata non l’ha mai pensata a partire dalla terra, dall’evento della terra, dal suo chiarore.
***
Al primo centro abitato, autogrill,
lungo la strada, non so dopo quale
tornante dopo senza tormento.
Al primo ceppo o donna nel paesaggio,
bestie da tiro, dressage, la carne rossa
al banco, i domestici nella fretta di rincasare.
Lungo la strada impervie sinòpie,
smarrita, franta in un prisma
di gioco a perdersi ovunque
comunque.
***
Due studi sul corpo inclinato
I
Insiste batte violento
Il chiaroscuro alle finestre.
Ma i pugni bramano disertare
Le ferree file dei fianchi.
E in favore di penombra
avanzando dallo spoglio
delle stanze rinverdisce
lungo la sua nudità.
II
Quello che la nudità cela si versi pure
per intero sulle tavole d’alabastro
il servizio buono i panieri profumati,
sulle parole senza lisca, in tondo
a-embrice, la presentazione
ineccepibile.
Antonio Pibiri è nato a Sassari nel 1968 e risiede ad Alghero. In poesia ha pubblicato: Di quinta in Quinta (Magnum editore – Sassari, 2007 e Il mondo che rimane (Lampi di Stampa, 2010).
L'incistazione di linguaggi specialistici (medico, geometrico, semiotico) sembra espungere di fatto la necessità della cesura dal verso e così anche la necessità dell'inarcatura, ove d'altronde la rottura dei legami sintattici costituisce comunque discontinuità all'interno della consequenzialità lineare, dichiarando la volontà di spingersi nei labirintici corridoi della lingua alla ricerca dell'impossibile lingua ‘perfetta’: intenzione simile, in questo, alla ricerca condotta da Michaux sul versante visivo. Il testo problematico che si dispiega sotto i nostri occhi si sbarazza dei generi e prosegue verso un'accumulazione che solo nell'insieme ritrova la sua capacità di esprimere una vicenda umana: la percezione del proprio corpo. Ma è anche, al contempo, registrazione della metamorfosi del segno verbale, della sua capacità polimorfica e plurisemantica, che si accampa quale vero soggetto sulle pagine.
deprivazione del sonno - B
misurare una grandezza significa determinare quante volte essa
contiene l’unità di misura; non sempre si potrà avere di un dato
segmento la misura esatta; nei rapporti tra grandezze differenti si
crea un obbligo di coordinazione, tale obbligo è indipendente dalla
visione.
VII.
L’incrocio di passanti produce tremolio una sfocatura disapparire
della forma sulle pieghe del guanciale restanza il fiume senza
il fiume scorre negli occhi, risospinti alla vita i morti acque della restituzione
ritroso a scorrere le forme elementari non soffrono il tempo.
È questo il punto da raggiungere impazienza della risacca ritroso a scorrere
pancia dell’onda onde pancia delle acque pancia e onda hanno fattezza
gravida nell’etimo. Per dire che c’è qualcosa e che questo è fatto in un certo modo.
IX.
La masticazione è un adattamento uno dei primi segni
durante le due dentizioni è discontinuo, tutto ciò che può essere addentato
fonda sicurezza radicamento; liso di masticatura.
In trentadue giorni si appalesano i distretti venosi
: continuano a perdere foglie per torsione
: il frasario dei tigli è liso e scopre un’armatura saia
: cedono le valvole a nido di rondine sporgendo nel suo lume
c’è reflusso, desiderio di una cella
nuova, uno dei primi segni il desiderio di
per mordere ogni mattina un carminativo rende
lieve un mordicativo per non separarsi.
La nervatura rimane diagonale i decidui rimangono e variano.
Daniele Poletti nasce a Viareggio nel 1975. Poesia e teatro del corpo sono le attività che animano la sua ricerca. Pubblicazioni: Dama di Muschi (1995, edizione privata), con i testi introduttivi del poeta visivo Arrigo Lora- Totino e dall’artista Antonino Bove, Una giornata... particolare (2003, Mauro Baroni editore) e Ipotesi per un ipofisario (2005, Marco Del Bucchia Editore). Tra le partecipazioni: L’ora d’aria dei cani (2003, Mauro Baroni editore), Parabol(ich)e dell’ultimo giorno. Per Emilio Villa (2013, Dot.Com Press), I racconti della metro (2016, Aracne editore). Sue poesie e lavori concettuali sono apparsi su varie riviste e contenitori d’artista (Offerta Speciale, Risvolti, Geiger, BAU, Italian Poetry Review tra le altre e su l’immaginazione 10 poesie con una nota di Edoardo Sanguineti). È presente su alcuni blog letterari come Il fiore del deserto, Poetarum Silva, Rebstein, Trasversale, blanc de ta nuque.
Fondatore e promotore del progetto culturale [dia•foria: www.diaforia.org, che all’inizio del 2013 ha inaugurato un nuovo spazio dedicato alle scritture di ricerca: f l o e m a - esplorazioni della parola (http://www.diaforia.org/floema/).
Gilda Policastro è poetessa, romanziera e critica letteraria. Dal 2017 è docente di poesia presso la scuola di scrittura “Molly Bloom”.
Il suo ultimo libro di poesie è edito da Prufrock (2017) e ha un titolo molto esplicito: Esercizi di vita pratica. Esplicito perché? Perché, come annuncia la stessa autrice, il volume “si nutre di elementi orecchiati sull’autobus o per strada, ma anche captati dalla televisione o da internet”, giungendo a configurarsi come un vero e proprio “apprendistato” della vita comune.
Sono poesie della conoscenza quelle di Gilda Policastro, un’immersione nel presente, dove vagare senza direzione, dove cogliere ciò che è privo di storia e di identità accertabile. Rispecchia, in forma poetica, la stoffa e la destinazione dell’esistenza umana: frutto dell’immediatezza e subito sommersa nell’oblio, tanto da rivelarsi priva di memoria.
Una sospensione è la vita degli esseri umani. Una sospensione letteraria che si manifesta tra un “non ancora” e un “non più”.
La vita e l’opera costituiscono un’unità totale. La vita opera sempre, che si scrivano versi o che si traffichi in internet.
Esercizi di vita pratica è l’esempio di un’esistenza che è ovunque, in ogni atto; tanto che può essere letta anche come una riflessione sulla scrittura. Una scrittura che non vuole più cadere in errore, ovvero non vuole più distinguere tra vita e letteratura.
***
La gente, è faticoso.
È un lavoro, ti guarda dritto negli occhi e tu non puoi distrarti, sennò ti
dice: a che pensi o non mi ascoltavi o altre note di biasimo. La gente man-
gia mentre ti parla e tu invece sei ancora lì che cincischi col menu, non
hai scelto, la gente sono a ne pranzo e tu sei lì imbambolato che decidi
tra un primo e la cotoletta panata. La gente si mette il cappotto e paga le
bollette aprendo il portafoglio mentre parla al telefono, guida e scrive una
mail, apre l’ombrello e si soffia il naso, guarda la tivù legge i libri scarica
la lavastoviglie la gente è multitasking totale. La gente riesce a correre nei
posti senza sudare senza fargli male le scarpe o rallentare se passano le
macchine che quando mai sulle strisce non ti possono inv...ma non guardi,
quando attraversi? Sì, ma le stris...la gente è utile agli altri, le agende, gli
appuntamenti, la cena, il vernissage, il calcetto, pilates, le merende dei
figli, lo scambio di coppia, la gente è pieno di gente, è faticoso.
Puzzle
Quando vai a trovare qualcuno malato
di solito passi davanti a un altro
malato nella stanza solo
nel letto sbagliato
Quando esci dalla stanza lo vedi
addormentato sul fianco uguale
al tuo malato soltanto
nel letto sbagliato
Te ne ricordi l’indomani
che sei passato dritto
non hai salutato
e nemmeno guardato
quell’altro
malato
uguale
solo
nel letto
sbagliato
Gilda Policastro è poetessa, romanziera e critica letteraria. Ha pubblicato i romanzi Il farmaco (Fandango, 2010), Sotto (Fandango, 2013) e Cella (Marsilio, 2015, vincitore del Premio Trivio 2017) e i libri di poesia La famiglia felice (Premio d’if, 2010), Antiprodigi e passi falsi (Transeuropa, 2011, con un cd di letture con musiche di Massimiliano Sacchi), Non come vita (Aragno, 2013) e Inattuali (Transeuropa, 2016, Premio “Interferenze” di Bologna in Lettere 2017). Ha collaborato con «il manifesto», il «Corriere della Sera, «Pagina99», «il Reportage» e con i siti «Le parole e le cose», «Doppiozero» (per il quale ha ideato e cura la rubrica Vite che sono la mia) e «pixarthinking». Ha pubblicato saggi di critica tra cui Polemiche letterarie dai Novissimi ai lit-blog (Carocci 2012), organizzato rassegne e festival con le associazioni “Poetitaly” e“Romapoesia” e dal 2017 è docente di poesia presso la scuola di scrittura “Molly Bloom”.
Un affresco dalle tinte bluastre, un immenso camposanto marino dove le forme della morte, nell’incessante trasformazione delle cose, diventano di nuovo vita. E’ una vita liquida, germogliante, vibrante nelle correnti profonde di acque ascensionali in una vertigine che avvolge.
Certe disperate vicende, nella cornice del racconto, luccicano di sacralità e bellezza (donne che come vele si alzano, non è un Compianto di Jacopo della Quercia? morti che volano, non è una scena del Correggio nella Cattedrale di Parma?).
Sono notizie di migrazioni e naufragi che i reportages giornalistici non riescono a descrivere nella loro portata tragica, Quintavalla le ricompone in un contrappunto di immagini fluide attraversate da musica e silenzio, acqua e siccità, luce e buio dove gli accenti di tutte le lingue si fondono in un salmo.
Da qualche parte Maria Pia Quintavalla ha parlato di una sua lingua apneica, una lingua e una scrittura che non sembrano estranee a questo testo.
La tragedia di Augusta
I pesci scappati dal fondo del mare impazziscono come asteroidi in forze centrifughe, ma dividendosi esplodono divergono tuttavia in lampi, come luminosi spazi, da entità marine stellari. Le assi diagonali in legno sembrano già fradice da notti, se hanno bevuto tutta quest'acqua e la trattengono; da questi legni fessurati dall'acqua. Da questi tagli uno strano mormorio di attese sembra salire e alludere a un intrecciarsi anche là dentro, ai gesti: del povero cibarsi, e dei corpi, ma poi deposti e abbandonati, poi enfiatisi nell' acqua, che si avvinghiano. Chi può vedere da quale occhio celeste vivente l'intreccio, non ancora marcescente ma mobile, e quasi di gomma, di bocca e piedi, di teste annodate che cercano di separarsi dal blocco che fu di carne. Ma questo ultimo è nascosto dalla fuga dei pesci. il fetore è nascosto o velato dalla fuga dei pesci. Le grida indisseppellibili a oratorio, ecco sono nei gesti di abbraccio, un poco come nelle camere pompeiane finite sotto la cenere. Mi avvicino, lentamente, e guardando da una fessura, un sottile taglio come l'interno del legno, subito ammollato e marcito, che mi fa intra-sentire intra-immaginare, e vedere infine il groviglio dei corpi, intrappolati come acini di un frutteto divino.
Ma io lo vidi già, era narrato: fin da bambina, nella corona di nudi e angeli della Cattedrale di Parma, disegnata e dipinta nella visione di Antonio Allegri, detto il Correggio, e questa è una simile ascensione, ma orizzontale, dove tutti cercano spazio, e lo comprimono anche, tutti, e si disperdono, anche alla fine. Materia nel liquido, carne che fu ossa e sangue e non gomma, e non blu morte ma vita, delicatamente corpi sacco, velati dalle acque, lì sprofondati e che l'hanno bevuta fino al punto della terra un equatore zenith, dove eravamo oceano su oceano. Una forza centrifuga, a onde, disegna un movimento come cullato, una leggera distonica musica spezzata: sono i morti, i semplici (e bellissimi) morti che volano nel cielo delle acque profonde, al largo della costa libica, nel blu scuro e macchiato di morte, del mare Mediterraneo. Quelle dita tumefatte hanno perso escrescenza, dopo che reso molle e gommoso lo scheletro tutto, ma non hanno esaudito un destino, o l'hanno fermato alla domanda impigliata nell' enigma dei gesti, nelle strette ultime dei tumefatti: queste voci sono nella gola del mondo. E loro: gli afflitti, i perseguitati, gli assetati di giustizia, lo hanno sottovalutato troppo il peso del mondo, questo peccato dei poveri di spirito. La potenza della realtà che sconfigge il loro atavico, il loro grande - di già perduto – sogno di vivere nella vita, la propria vita. Vivere nella pace l'esistenza di sé, e dei propri figli. nella onesta ricerca di un lavoro una casa una patria terra. In un esodo non scelto, ma dovuto alle guerre e alle carestie alla fame e alla predazione.
Ora, questo immenso camposanto è marino, l'assenza di pietà umana ha scelto il colore dell’acqua per manifestarsi, un cielo capovolto e profondo pieno dei pesci ora in frotte, ora in fuga. Secondo le parole di papa Bergoglio questa è la bancarotta dell'umanità che non ha trovato per ora, salvatori e salvezza. "All'interno del relitto, secondo quando accertato dalla Marina italiana, sono stati recuperati :458 corpi senza vita; a questi ne vanno aggiunti altri 169 raccolti sui fondali circostanti altri 48 ritrovati, che si avvicina molto alle 700."(Corriere della sera, 16 luglio 2016, Claudio Del Frate). Ma la scoperta che in cinque, in piedi, stavano in poco meno di un metro quadro disegna bene il come.
Hannina e Omar viaggiano da due lune e imprecisati soli, hanno poco alla volta smesso di parlare, e raccontarsi a parole nell' intreccio delle mani; a sera, quando il vento è calato e l 'acqua del mare da bere è stata sostituita dall' urina, e dal succhiare vecchie bucce sudice, che erano già seccate, o la pelle di frutta. Il loro silenzio è più soave dei pasti infetti della fame, croce che sta dentro il corpo e lo taglia in parte muta e parte che emette strano risucchio, doloroso sempre; i pasti dei bambini e dei più vecchi, non ci sono più né come favoriti né come protetti; né quelle donne che come vele si alzano, da accovacciate e strette, e solo a volte attaccano al nero dei capezzoli i loro piccoli, ma senza cavarne nulla.
Quando la luna si stacca dal fondo del mare, e sorge, è splendente anche per quelle anime di disperazione, e il vento le illumina, lente ombre di tenerezza. Conosciute nella vita dapprima, e sole, era tutto diverso, erano giovani erano vecchi, erano uomini nel fiore degli anni, erano coppie come Hannina ed Omar, e camminavano, avevano strade bianche e sabbiose o piene di terra, camminavano. La secchezza e il non farsi più domande ha fatto posto al miraggio di silenzio e alla rassegnazione. In realtà silenzio non ce n'è mai abbastanza, fra il rumore di acque irreali e immobili e dei venti, delle scie del barcone che trascina sé e loro, noi tutti e nessuno, esclusa questa notte al termine della notte... Gli accenti di tutte le lingue si fondono in un salmo.
Che succede. Staremo qui? ma no, era solo una pressione fra l'aria e il carburante, chi l'ha detto. Perché quel ragazzo piange allora? Ma lo vedi quel punto sotto la luna. E' una barca chiede Amina. Ashef batte le mani, ha quasi dieci anni, se è una barca ci salva e ci porta in Italia, vero? No, non lo sappiamo e non ci sono barche qui vicino, risponde la madre.
Non è nessuno, dice Mohammed, è una stella, e tu stai male, vai a dormire. Chi dorme mi stringe un osso. della mano fino a farmi malissimo, ma non la sento.
Maria Pia Quintavalla, nasce a Parma, ma dal 1983 vive e lavora a Milano. Poetessa e narratrice, si occupa anche di critica letteraria e collabora con l’Università Statale di Milano.
Tra le sue opere di poesia: “Cantare semplice”, (Tam Tam Geiger, India-USA 1984); “Lettere giovani” (Campanotto Editore, Pasian di Prato 1990); “II Cantare” (Campanotto Editore, Pasian di Prato 1991); “Le Moradas” (Empiria, Roma 1996); “Estranea” (canzone) (Piero Manni, San Cesario di Lecce 2000); “Corpus solum” (Archivi del ‘900, Milano 2002); “Canzone, Una poesia” (Pulcinoelefante, Osnago 2002 e 2005); “Napoletana” (Copertine di M.me Webb, Domodossola 2003); “Le nubi sopra Parma” (Battei, Parma 2004); “Album feriale” (Rosellina Archinto, Milano 2005); “Selected poems” (Gradiva, New York 2008); “China. Breve storia di Gina tra città e pianura” (Edizioni Effigie, Milano 2010); “I Compianti” (Edizioni Effigie, Milano 2013).
Gianni Ruscio è nato nel 1984 a Roma, dove vive. Pubblica il suo primo libro di poesie a 23 anni. Con Interioranna (edito da Algra nel 2017) è al suo quinto volume.
Tra queste pagine assistiamo allo spettacolo della nascita di un essere umano. Assistiamo alle vicende di un piccolo corpo che si nutre di un corpo più grande. Nella sua lucidissima prefazione, Gabriella Montanari ci parla di “amore dentro l’amore”, di “carne dentro la carne”, e definisce la maternità come un non-luogo, “un altrove in cui la sostanza muta mantenendosi intatta”.
La nascita è il moto originario che ogni volta si ripete e conosce un nuovo inizio. Vivere umanamente è un andare nascendo, è un continuare a nascere.
Assistere alla nascita di un corpo è assistere al rivelarsi dell’interiorità, al manifestarsi di labbra che hanno la forza e il coraggio di aprir bocca e parlare.
Si esce dalla casa materna con il desiderio di qualcosa, ma anche con la nostalgia di un possesso che alla luce del giorno non c’è più. Con la nascita non si cresce più nelle radici, ma nei rami. Non ci facciamo da soli: la vita è sempre qualcosa di ricevuto, ha sempre la natura del dono. E in questo dono ineliminabile è la tensione tra il sentirsi-parte e il voler essere-per-se-stessi.
Ruscio ci parla proprio di questa relazione d’intimità, di questa gratitudine che ci fa sentire anelli di una catena, parti di un tutto.
***
Nel bolo dell’ignoto che digerisce
sé stesso.
Due corpi uno.
Liquor
che ubriaca l’ego
e torna a rendere
uno
ciò che un tempo
era doppio.
***
Dai nervi incorniciati dal manto
della sera,
s’esprima la voglia, penetrazione
di un istante. s’annodi intorno
intorno nostra voce, richiamo
calamità e nastro breve.
***
se respirate, da questi
polmoni, uscirà
neve e sogno.
Rumore
miserabile e solenne, permea
e devasta, ricostruiscici sublimi.
Gianni Ruscio nasce a Roma il 7 dicembre 1984, dove vive tuttora. Ama il buon cibo, l’arrampicata e la vela. È un musicoterapista, un docente e, da poco, un papà felicissimo. Pubblica il suo primo libro di poesie nel 2008, a 23 anni. Continua la sua ricerca e nel 2011 esce il canzoniere “Nostra opera è mescolare intimità” per le edizioni Tempo al libro. Nel 2014 esce “Hai bussato?” per le edizioni Alter Ego, con prefazione di Roberto Gigliucci (ricercatore, italianista, esperto di poesia del 600, autore, tra le sue altre pubblicazioni, del libro edito da Bruno Mondadori “Cesare Pavese”, e docente di letteratura presso la cattedra di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza). Nel 2016 pubblica con la casa editrice Ensemble di Roma “Respira”, che si aggiudica una menzione al Premio Lorenzo Montano - XXX edizione - e vince il premio di poesia italiana indetto dall’editrice Laura Capone (tra l’altro gli unici due premi cui partecipa). Interioranna, edita dall’editore catanese Algra, è la sua quinta pubblicazione, con prefazione di Gabriella Montanari.
Un’ambientazione filmica, costruita in piena luce, in un interno giorno che la regia dell’autore descrive come in un disadorno atelier e che trasforma in esterni mediante le onde di una radio, con il suo sonoro che passa, seguito dallo sguardo di una telecamera, da una parete a un marciapiede, con il semplice spostamento dell’operatore, fino a quando “cambia il set”. Fotogramma per fotogramma, inquadratura dopo inquadratura, decibel per decibel.
Come se avessimo ricevuto una nuova innervazione, l’aggiunta di un nervo che determina un senso ancora da sperimentare, che ci consente per la prima volta di esplorare un destino. In questo tempo in sospensione, il destino coincide con l’origine, resa evidente da una “scimmia primordiale”.
La sceneggiatura di Marco Saya all’improvviso prevede un ciak che muove nell’introspezione, dominato da un nero diffuso che allontana le stelle, fino alla redenzione del bianco.
Non tutto è incorreggibile. Non tutto accade come sembra. Rimane sempre un tempo senza nostalgia che recupera e motiva il nostro presente, nella metafora di una stanza bianca.
stanza bianca
Sei in una stanza bianca,
vuota con dei chiodi alle pareti,
cornici senza tele sul pavimento,
legni sparsi contorni di una
radio che urla la sua frequenza
sulla strada, una macchina
in retromarcia azzoppa la folle corsa
dei decibel, cani che latrano nel saloon
di un bar, rivoli-bava di birra lungo
il marciapiede.
Cambia il set:
un punto solitario,
la scimmia primordiale,
una stella lontana,
il nero del buio acceca la luce
della domanda.
Scuse ... in ritardo
la stanza bianca ti chiede scusa,
la pelle della specie non ha saputo
proteggerti dal sole del tempo.
Marco Saya è nato a Buenos Aires il 3 aprile 1953.Dal 63 risiede a Milano. Editore, musicista jazz e autore. Ha alle spalle diverse pubblicazioni per la poesia.
Giuseppe Schembari è stato uno degli ultimi esponenti dell’Antigruppo Siciliano, movimento letterario nato quasi parallelamente alla Beat Generation americana.
Da questo inizio, fino a oggi, il cammino per l’autore è stato lungo. Ha condotto alla fine il poeta in un luogo che somiglia a un’altura, da cui si può guardare indietro fino al tempo zero, ma dove è possibile contemporaneamente guardare avanti.
Questa zona poetica travalica le consuete coordinate: l’ago magnetico oscilla in ogni direzione. Dense nuvole nascondono la stella polare, quella parola che è ancora “imperfetta”.
D’altro canto, “A conti fatti”, non rappresenta soltanto la prova di una sintesi, un bilancio in versi reso ancora più tale dalla scrittura a epigrafe, così lapidaria, ma permette di intra-vedere i potenziali sviluppi di una poetica in divenire: senz’altro esito, ma insieme passo d’inizio, moto a luogo.
In eccesso o per difetto, se l’esistenza è un’iperbole e siamo nell’ambito del poetico, “la somma dell’accaduto / non dà mai // l’esatta proporzione delle sciagure”.
Proprio delle sciagure, perché l’esperienza letteraria ed esistenziale di Giuseppe Schembari si è sempre posta al fianco di chi subisce ogni sorta di violenza. Proprio qui, nell’incrocio dove la vita coincide con la poesia, si riesce a fotografare nitidamente l’immane, nell’immagine filtrata da un “sopravvivere senza cura”.
A conti fatti, e a quelli che saranno ancora da regolare, questa poesia così conclusiva di un periodo, ci lascia nell’attesa dei nuovi capitoli della “cronologia / di tutte le disobbedienze”.
A conti fatti
Conosco
la disciplina dell’assenza
in questo sopravvivere senza cura
sta qui
nell’ansia metafisica
dove si colloca
imperfetta la parola
Un alibi
dimentico di ogni scoria
nell’esausta
iperbole esistenziale
come la liturgia del suicidio
A conti fatti
la somma dell’accaduto
non dà mai
l’esatta proporzione
delle sciagure
nella cronologia
di tutte le disubbidienze
Giuseppe Schembari (Ragusa, 1963) ha pubblicato nel 1989 “Al di sotto dello zero” e nel 2015 “Naufragi”, entrambi con l’editore Sicilia Punto L.
Vincitore di numerosi premi, collaboratore di giornali e riviste, è compreso in varie antologie: tra queste, “Bisogna armare d’acciaio i canti del nostro tempo”, curata da Gian Luigi Nespoli e Pino Angione.
Una storia raccontata in non più di dieci minuti, dice Ambra Simeone della sua prosa “bette devis insegna”.
La protagonista di questa storia, raccontata in non più di dieci minuti, è una signora ottantenne, con il suo maglioncino color grigio chiaro e un filo di perle. La donna è al confronto con ragazzi dalla giovinezza troppo pesante, i ragazzi di oggi. Il suo racconto, apparentemente surreale e un po’ cinematografico, testimonia una vita che è esistita veramente: un mondo annicinquanta dove un quarantenne è un uomo attempato, una donna di ventiquattro anni forse zitella a vita e i vestiti sono cuciti in casa con la “Singer”. Allora i binari della vita scorrevano lineari, la speranza di farcela era praticabile. In fondo la prospettiva di una carriera da casalinga, non era poi tanto male! Regina della cucina in fòrmica, una donna normale, non un’attrice!
Accontentarsi non vuol dire perdere, non vuol dire fallire, dice Ambra Simeone.
Anche affidarsi a un linguaggio basso, quotidiano, mimetico, scrivere la vita come uno se lo aspetta può diventare un atto di resistenza da contrapporre a certi abissi di tv e social network, ad invasive e sterili dimensioni virtuali. In un tempo dove non c’è tempo, in un susseguirsi di precarie emergenze, le storie di una signora ottantenne sembrano realtà aumentata, ma è vita vera vista con occhi veri…
bette devis insegna
la giovinezza è qualcosa di troppo pesante per noi che vorremmo essere vecchi, non semplice- mente vecchi è basta, ma vecchi come i nostri padri, uguali a loro, non affannarci più per un futuro che non riusciamo più a vedere, e mai saremo come loro adesso, con pensione assicurata, casa di proprietà, soldi in banca, che loro hanno un solo pensiero, vorrebbero avere tutti sedici anni, rughe scomparse, tempo persino mai esistito, venuti dalla guerra dei loro padri arrivati in pieno boom, ve- nuti dal boom arrivati in piena crisi, noi, che ci vuoi fare? quando penso a certe storie raccontate nei bar, che solo nei bar di certi paesi puoi sentire delle storie così, che proprio quando pensi di aver capito tutto, sbam!!! ecco che la senti, arriva un esempio di vita dei nostri padri o meglio madri, che è difficile accontentarsi per me, per noi, ma per loro, oh, no per loro no, una volta era così che an- dava, ora sono solo troppe rughe da cancellare e voglia di farsi rincretinire in tv per trovare l’anima gemella a settant’anni, oh, no...
questo esempio di vita è esistito veramente, non stiamo qui a raccontare falsità, dicono, trattasi di donna sui ventiquattro, anni ’50 del secolo scorso, ormai è andata non si sposerà più dicono quelli del paese, ma chi se la prende più dicono i genitori, occhi azzurri, bette devis insegna, e voglia di lavorare più che di accasarsi, passano gli anni, quasi trenta compiuti, zitella a vita ormai, signorina che vive in affitto da sola mantenendosi col proprio stipendio, vergogna, che donna! chi è questa qui che non vuole mettere la testa a posto? sputano le comari di paese, chi si crede di essere? appuntano le già mogli, le già madri annoiate dalle faccende di casa, otto figli, e mariti che fanno sempre più tardi la sera a lavoro, nessuno la guarderà più se continua ad uscire con le amiche, da sola, poveret- ta, neppure un uomo che le fa la corte, chissà come si sentirà sola, apostrofano le pie donne di chie- sa, e gli uomini indugiano, chissà se potrà ancora avere figli, pensano.
un giorno mette piede in una balera, donna sola che si mantiene lavorando, affitto mensile e ge- nitori ormai rassegnati, chi la guarderà più, ora? mette piede in una balera per passare la serata con le amiche, conosce un uomo attempato, magari solo quarant’anni portati bene, un sguardo cade dall’altra parte del tavolo, un cenno e un ricambio e poi la bella notizia, neppure un ballo da soli, ma voglia di accasarsi, lui vedovo e due figli a carico, niente romanticismo, le offre solo un contratto da firmare, un accordo, un patto da onorare a vita, lei ancora esce con le amiche, ma il primo pensiero deve andare ai figli, i suoi nuovi figli e la casa, lui ha trovato mamma e casalinga, lei ha trovato modo di metter fine alle malelingue, di mettere fine ad una vita diversa da quella che si poteva desi- derare negli anni ’50, di mettere inizio ad una buona routine, via alle danze, via al matrimonio, sen- za tante parole, senza troppo clamore, niente buffet per duecento invitati, né fotobook ricordo, due fedi sottili, il filmino non esiste, abiti cuciti dalla madre, finalmente è sistemata questa figlia mia! due sì che volano nella chiesa e bastano a suggellare il patto di una vita tranquilla, serena, monoto- na, normale, figli di lui, casa, amiche, lavoro di tanto in tanto, l’altra medaglia del patto, lui che por- ta a casa i soldi, tanto lavoro lui e minestra in tavola assicurata a cena, lenzuola calde la notte, tutto quello che serve per una vita come uno se l’aspetta, niente di più, niente di nuovo, cosa ti aspetti da una vita? cosa? accontentarsi non vuol dire perdere, non vuol dire fallire.
la raccontava al bar, ora la signora quasi ottantenne con gli occhi veri, sorriso negli occhi, bette devis insegna, la sua camicina stretta da un maglioncino color grigio chiaro, i bottoni fin su al collo e un leggero filo di perle, l’odore quasi di incenso, non c’era altro da dire che vita semplice era sta- ta, o forse non l’aveva raccontata tutta, ancora più semplice ora, passeggiate con le amiche al parco, pranzo e cena da sola, qualche volta coi nipoti, visite periodiche dal medico di famiglia, casa di proprietà lasciata dal marito, ricordi e cartoline perdute, forse niente lettere, niente libri, solo vita vera non raccontata ossessivamente su facebook, noi, loro, diventano un tutt’uno, eternamente sepa- rati da un abisso di tv, social network, non accontentarsi mai, volere qualcosa di più, sempre di più.
un secolo è passato, non si torna indietro, ora il matrimonio è da favola per due anni e il divorzio finché ce n’è e per il resto della vita, non si torna indietro dalla giovinezza mai avuta, ora c’è quella perpetua, un’anima gemella all’anno, come le votazioni del sindaco, e noi che vorremmo diventar vecchi come loro, noi o solo alcuni di noi, un secolo è passato e niente più posto fisso, un abominio anche solo parlarne, no, per carità, tutto cambia, tutto deve cambiare, niente più casa di proprietà, che da domani si vola in germania per trovare lavoro, per mantenere il lavoro, per cercare di non farsi più una vita, non abituarsi a niente, non accontentarsi di niente, non avere il tempo di innamo- rarsi di nessuno, non amare niente, figli meglio di no, che se è troppo tardi è un sacrilegio, se troppo presto a chi li lascio dopo la separazione? una vita rassegnata, accontentata, tutta lì, anni sugli anni, un secolo è passato, non si torna più indietro, mettitelo nella testa, se ancora ne hai una, una storia raccontata in non più di dieci minuti, quanto tempo ci avete messo a leggerla? e se un giorno vi ca- pita di incontrarla per strada, la signora dagli occhi azzurri che racconta la sua vita senza andare in tv a viverla in diretta, lei vi dirà, io mi sono innamorata di lui col tempo, con gli anni ho imparato ad amarlo, un giorno alla volta, ma non so, e neppure gli ho mai chiesto, se lui veramente mi amasse. sbam!!!
Ambra Simeone è nata a Gaeta il 28-12-1982 e attualmente vive a Monza. Laureata in Lettere Moderne, ha conseguito la specializzazione in Filologia Moderna con il linguista Giuseppe Antonelli e una tesi sul poeta Stefano Dal Bianco. Collabora con l’Associazione Culturale “deComporre”. La sua ultima raccolta di poesie “Lingue Cattive” esce a gennaio del 2010 per i tipi della Giulio Perrone Editore di Roma. Di quest’anno è la raccolta di racconti “Come John Fante... prima di addormentarmi” per la deComporre Edizioni. Alcuni suoi testi sono apparsi su riviste letterarie nazionali e antologie; le ultime due per LietoColle a cura di Giampiero Neri e per EditLet a cura di Giorgio Linguaglossa.
Liliana Ugolini è poeta e autrice di testi teatrali. Il suo lavoro può essere definito come “teatro da camera per opere in versi”.
Coerente con questo spirito è l’ultimo suo libro edito da Fermenti: Appunti sul taccuino del tempo. I dolmen.
L’essere umano – registra Liliana Ugolini – ha due nascite: una nascita avviene nel mondo, ed è improntata sulla carne; un’altra nascita avviene nella parola, ed è fondata sull’essenza.
Il segno più chiaro della nuova nascita è la coscienza della nostra finitezza. La consapevolezza di essere per la morte.
Liliana Ugolini ci porta con la sua poesia dove spira il soffio dello spirito. Lì, sperimentiamo – in un unico magico momento – entrambe le nascite. Lì sperimentiamo la pienezza dell’essere, per cui il
finito si colora dell’indefinito e il presente diventa eternità.
***
…1893 Il voto alle donne
Nuova Zelanda. La nazione è piccola ma l’esempio di democrazia è grande. La voce in maggioranza è avanguardia di conquista e prende forma dal silenzio di secoli.
Ogni ciclo ha un inizio nei dolmen
Del sommesso sommerso ecco la voce.
Goccia pende parola e nel concetto
s’alza lo staglio di quel detto
che si doveva dire e che dà peso.
Misconosciuta sagoma d’oscuro
svela ora l’epigrafe e lì sta il vero
brivido assoluto e qui ti sento dentro
accolta nel gruppo dell’inciso
memorabile assurto al già compiuto.
***
…2014 Immigrazioni
Morti per acqua, vittime della speranza tradita.
I dolmen non esistono. Le pietre sono acqua.
Si sa che son del sogno le speranze
gioco infernale del precario.
L’innocente marea dello stupore
affonda in notti/pece
dove la lastra liquida livella i corpi vivi.
Lo strappo che ci porta sulla terra non terra
sostiene solo voci che si spengono
al lume delle fiaccole
e il grido terrifico che sale
è immane nell’abisso del sognare.
Il lungo sonno sia l’ultimo di rabbia
e i nomi dell’appello siano qui
vivi alla meta.
Liliana Ugolini ha pubblicato 19 libri di poesia, 4 in prosa e 4 di teatro. Da questi sono stati prodotti 12 spettacoli teatrali e 2 opere/concerto. Ha curato per 16 anni in “Pianeta Poesia” la poesia performativa e multimediale documentata in tre libri. Collabora con l’Associazione Multimedia91 all’Archivio Voce dei Poeti e fa parte del gruppo performativo “Cerimonie Crudeli”. E’ stata redattrice della rivista “L’Area di Broca”.
Annarita Zacchi ha scelto un titolo latino, e bellissimo, “Cantionum inventor” per un testo decisamente moderno nel suo svolgersi, fino alla sua spiazzante conclusione.
Solo in poesia può accadere che un gesto tanto quotidiano, quello raccontato in questi versi, abbia una trasfigurazione così ricercata?
Solo in poesia può succedere, all’improvviso, di “raccogliere pezzi di ciò che sembrava indivisibile”? O di vedere una collina ad esempio viola, e l’oro, scintillante in ogni immaginario, cupo?
Annarita Zacchi non possiede solamente forza visionaria, ma in questo testo riesce a produrre, assolutamente fuori dalla metrica classica, una musicalità incantatoria e mutevole, un ritmo esattissimo che alterna versi brevi e lunghissimi, che assecondano le fasi del sonno e forse del sogno.
C’è qualcosa di onirico.
C’è qualcosa di ipnotico, che non deriva solo da alcune ripetizioni dello stesso incipit, è contenuto in maniera decisa nel suono complessivo del testo.
Nei vasi comunicanti tra la vita e la scrittura, sulla soglia che unisce e separa, questa poesia riesce a raccontare “giorni inspiegabilmente netti / come se il fuori contribuisse al nitore del dentro”.
cantionum inventor 2
questo non significa che non abbia una sua tana
dove si è trattenuta con resti e nuovi incontri
in questi giorni inspiegabilmente netti
come se il fuori contribuisse al nitore del dentro
imparare a dilatare la rete e da lì
infilare una mano a raccogliere pezzi
di ciò che sembrava indivisibile
questo non significa perdere la vista
non sentire l’avvicinarsi dei corpi anche a distanza
dalla collina viola, si sporge verso di lui
nell’ oro cupo cala con un'altra corrente
più calda, trovata e ritrovata nel tempo
questo non significa cadere addormentati
lei porta e riporta le ciotole
piene e poi vuote, va e viene tra il fuori e il dentro
questo le ha richiesto nel tempo di non distogliere lo sguardo
non è detto che l’amore accudente sia sonno
sia solo sonno. Forse lo sguardo che lo coglie è nella nebbia
non è detto che la donna - la stessa - sia addormentata,
lei scrive e fuori è molto buio, scrive nel nero e questo è pauroso
e se è pauroso significa non piatto quanto si crede, quassù
le notti passate scuotevano il corpo, il vento lo frustava
occorreva afferrarsi al letto, legarsi a un ricordo di pace
e non era detto che tutto ciò fosse solo male,
la donna sembra portare la ciotola ancora piena,
mentre l’altro pare sazio, ma questa
non è detto che sia la conclusione.
Annarita Zacchi è nata in Garfagnana e vive a Firenze.
È insegnante di italiano a stranieri all’Istituto Universitario Europeo di San Domenico di Fiesole (EUI) dove tiene anche laboratori di scrittura, camminate letterarie ed organizza eventi legati alla poesia e alle arti.
Lavora inoltre come volontaria di corsi di lingua italiana a rifugiati e richiedenti asilo per la Caritas di Firenze ed altre associazioni.
In passato, ha lavorato come giornalista e redattrice presso quotidiani e case editrici.
Per la poesia, oltre a Rotte Terresti ha pubblicato Voi e lo sparso, Chipiuneart editore, 2015 Roma. Suoi testi sono stati pubblicati sulle riviste “Semicerchio” e “Clandestino” e nel volume collettivo Varianti urbane, mappa poetica di Firenze e dintorni, Damocle Edizioni, Venezia. Ha realizzato letture sceniche da raccolte proprie, tra cui Lavoro e antilavoro. Sogno dell’insegnante errante, con suoni, video e registrazioni di Leonardo Gandi. Collabora a riscritture poetiche e letture sceniche da testi classici, come Genesi e Qohelet, a cura della poeta Elisa Biagini.
Alcuni testi ed informazioni nel sito web di Annarita: http://annaritazacchi.weebly.com/