Il nuovo numero di Carte nel vento accoglie i poeti che hanno animato la giornata conclusiva del “Forum Anterem - Premio Lorenzo Montano” 2017. Ogni autore è introdotto da un redattore della rivista, così come avvenuto in diretta sabato 18 novembre scorso, presso la Biblioteca Civica di Verona. Sono, ed erano, presenti Maria Angela Bedini, Enzo Campi, Mauro Caselli, Silvia Comoglio, Lia Cucconi, Franco Falasca, Federico Federici, Vincenzo Lauria, Laura Liberale, Marco Mioli, Francesca Monnetti, Alberto Mori, Paola Nasti, Alice Pareyson, Chiara & Loredana Prete, Massimo Rizza.
Grazie a questi poeti, ancora una volta il luogo della poesia diventa un composito paesaggio verbale, in continua metamorfosi: la sua lingua è una sintesi di suono, respiro, senso, pensiero. Una sinestesia che coinvolge similmente nell’ascolto dal vivo e nella lettura.
Quale miglior viatico per la nuova, 32^ edizione che scade il prossimo 20 aprile?
https://www.anteremedizioni.it/files/file/BandoMontano32.pdf
In copertina, Federico Federici “Concrete poetry” (Calligrafia, disegno, scrittura)
Espressive articolazioni
“Come la prima volta”, di Maria Angela Bedini, è una sorta di viaggio poetico (non a caso il componimento si apre con la pronuncia “io parto”) attraverso immagini, emozioni, sensazioni, pulsioni, che, per così dire, tendono a mostrare la non discordanza delle loro diverse fisionomie.
Una delicata, assidua energia è presente in versi che si soffermano con elegante intensità su singoli tratti e su un tutto scoperto e riscoperto, con equilibrata meraviglia, per via di ritmiche, tenaci, sequenze: l’autrice non si accontenta, vuole procedere e chiede al mondo di permetterle di osservarlo.
Maria Angela, esistendo con tutta sé stessa in una scrittura capace di offrire inedite possibilità di comprensione, invita il lettore ad assumersi la responsabilità di un nuovo vedere.
Sotto questo profilo i versi
“e la pianta dei piedi che trattiene il cammino
e lo inchioda a un passo dal firmamento”
mi paiono particolarmente efficaci.
Non mancano pronunce in cui si avverte una sorta d’intimo distacco
“e qui arrivo pellegrina del mio stesso sguardo
straniera nel mio corpo meticcia della mia pelle albina”,
né fanno difetto immagini affascinanti nel loro dinamismo cristallino:
“ombre fuggite dal calice del mondo”.
Naturalmente, la poetessa non può fare a meno di soffermarsi sulla materia della propria arte: il linguaggio.
Cito a questo proposito:
“come la prima volta ogni parola era detta”
e
“e una parola spaccava a terra e fa barcollare la casa”.
Ecco, a mio avviso, il testo preso in esame consiste proprio in una parola, “detta” per “la prima volta”, capace, con delicata perseveranza, di spaccare “la terra” e far “barcollare la casa”.
Siamo al cospetto di un originale espressionismo raffinato ma per nulla gracile?
Direi proprio di sì.
Come la prima volta
io parto dalle mie ossa bianche di sasso
da questa soglia tramortita
dove il piede slancia, svetta, chiede il varco pauroso
domanda i sorsi di buio e il calice della definitiva luce
come l’ostia che nella gola apre il medaglione
del mondo e lo inghiotte nel fiele dell’ostinato tramonto
io canto questa nota bassa che mi dà la febbre di vita
questa covata morte come nidi d’aprile che mi fa viva
adesso e lieve e scaltra di dolore e marchiata
nelle mie membra segnata appena di un parto
breve che fa purpureo l’occhio dei fiori
e cede il segreto balsamo del respiro
io vado allora per il fango
e canto l’abito inzuppato
la toppa della tunica sul cuore
lo strappo che scoperchia la vita
il brandello docile del viso
e la pianta dei piedi che trattiene il cammino
e lo inchioda a un passo dal firmamento
e marzo battezza i prati con un filo di brina
che somiglia al fiotto di una ferita
(…)
Maria Angela Bedini è nata a Buenos Aires, dove ha trascorso l'infanzia. È docente all'Università Politecnica delle Marche. Ha pubblicato le raccolte di poesia Trasgressioni (Premio "Senigallia - Spiaggia di Velluto", 1987), Essenze Assenze (Premio "La Rosa Editrice", 1991), Ma il vuoto fu scarso a sparire (in Nuovi poeti italiani 4, Einaudi 1995), Sempre tornò un inverno (Premio "Alessandro Tanzi", 2003), e, nella "bianca" Einaudi, La lingua di Dio (Premio “Lorenzo Montano”, 2004).
In ogni libro c’è una zona di oscurità, uno spessore d’ombra
che non si sa valutare e che il lettore scopre a poco a poco.
Ne è irritato, ma sente chiaramente che in questo sta il libro
reale, intorno a cui si organizzano le pagine che legge.
(Edmond Jabés)
Scrivere un testo poetico a partire a una parola altra; proseguire la scrittura come fonte di formazione e deformazione di un nuovo atto significante; addentrarsi nel libro primigenio e riportarne a sé la metamorfosi compiuta di una nuova sostanza. Sebbene la scrittura poetica non abbia luoghi privilegiati di nascita, ma tutto e tutti, potenzialmente, possano realizzare – con elaborazioni, furti, svuotamenti, ricostruzioni e ogni altro paradigma selettivo – le potenzialità illimitate di questo dire, non c’è dubbio che il gesto comporti una dose di azzardo non comune. Se poi l’autore di riferimento è uno scrittore così fortemente aperto e interrogante come Edmond Jabès, che a partire dalla parola, attraverso la lingua, costruisce il testo arrivando al libro, come conglomerato ampio e stringente dell’impresa umana più audace, allora non si può non restare piacevolmente meravigliati. Ma Enzo Campi è poeta di solido pensiero e di progettualità linguistica costantemente tesa alla sperimentazione e ricerca di significati inesausti, quindi l’opera di Jabés è un approdo, per certi aspetti gravoso, ma ricco di sviluppi e diramazioni, e sentito necessario per le sue esplorazioni poetiche.
I libri di Edmond Jabés sono opere di profonda sapienza evocativa, dove la scrittura ha il suo senso iniziale nel vocabolo che, generoso e inesorabile, conduce il pensiero finale verso il libro: luogo aperto di vortici abissali; ma anche spazio dove inizio e fine, parola e cosa, nel fluttuante movimento della scrittura, altro non sono che spostamenti percettivi, posizioni concettuali o prospettiche che interagiscono e interscambiano se stessi, lì dove chi scrive deve necessariamente provare a superare i limiti, per far sì che il principio diventi anteriore e la fine divenga apertura. E in tutto ciò, lasciarsi scrivere o respingere o porsi in ascolto nell’inquietudine di una lingua.
Un’opera, dunque, che per essere accolta nella sua pienezza deve trovare una totale disponibilità nell’accostarsi alla domanda, prolungandosi in essa ma senza affondare, allontanando così da sé le rigidità della risposta. Perché se è vero che la parola può far luce, spesso è invece il silenzio a non oscurare. Nel libro (e allo stesso modo in noi, nella nostra solitudine), dice Jabés, la voce sta alla scrittura come il dire sta al testo, e tutto si intreccia e si apre continuamente, e non c’è spazio, nell’opera autentica, per chiuse definizioni. Enzo Campi, di tutto questo ben cosciente, procede per scelta esemplare dal corpus dei libri di Jabés, e sceglie un’opera apparentemente esigua, ma in realtà fulcro centrale di sintesi di un pensiero, di una scrittura e di narrazione poetica. Per dirla con Roland Barthes, estrae la parola infinitamente vasta che giunge a lui e ne fa la spinta propulsiva per la formazione e lo sviluppo del suo inarrivabile mosaico.
L’opera è Récit (accompagnato dalla Lettera a M.C), racconto poetico, evocazione immaginante dove le parole sembrano germogliare in chi parla. In uno spazio senza luogo chiamato isola, metafora pensante di una solitudine esistenziale (“gravida di fonemi impronunciabili”, ci dice Campi), Il e Ile, i pre-iniziali in questo esilio naturale, si volgono ad accogliere il dire mancante che sta nella lingua di una poesia che è sempre voce anteriore di una parola indecidibile. Parola precisa, però, nel suo imprimere il segno della condivisione e del rimescolamento di ciò che è l’isola e di ciò che nell’isola sta. In questo senso la scrittura ulteriore di questa raccolta poetica, si determina forse a partire dal rumore che l’onda produce insistentemente contro l’isola.
È il graffio della scrittura sulla pagina, il gesto “sovversivo” che risuona tra un vuoto e l’altro; con la leggerezza che il silenzio trasporta in sonorità foniche e grafiche; ma anche la fisicità dei sensi irriverenti che, in queste pagine fanno dire a Il: “il tuo corpo è una mappa./Da poro a poro le linee lungo le quali transitare e in cui transitarsi”. E fanno rispondere a Ile: ”il tuo corpo è un libro di carne./Mi cibo di te leggendoti.”. E tutto il poema è attraversato dal monologo dialogante che l’isola ospita. Parlanti che depositano concatenazioni vocali, sillabe come filamenti fluidi, pensieri contratti o dilatati dal respiro, dove “nessuna virgola sopravvive/alla spaziatura della pausa/che annuncia l’intervallo”. Ma anche luogo che isola nei granelli di sabbia, nei chicchi di sale, e dentro di loro brulica, lasciando o concedendo voce all’onda, che con il suo “vasto rumore indocile”, dice Jabés, dà voce alla sostanza fonica che sorregge il mosaico di questa poesia. Una friabilità espansiva che muove nel fruscio intimo del pensiero e cresce nel brusio interiore della lingua. Eppure, ad un certo punto, lo stesso Campi ci avvisa che “...l’ingrato compito dei viventi/ è quello di assecondare il flusso delle/parole che precipitano come foglie/secche...”, quindi quasi un’apoptosi naturale del dire, verso la morte dei suoni significanti. Ebbene, se così è, perché in questa opera invece, l’autore, porta la poesia da una vita (Jabés) a un’altra (Campi)? Con quale fiducia nella voce detta? Nella parola scritta? Forse una risposta sta nel vocabolo “assecondare”: non come cedimento passivo a un destino ineluttabile, bensì nel senso di seguire un movimento, accompagnandolo anche là, in sentieri possibili non percorsi. Dunque non un’opera di specularità mimetica; ma nemmeno una scrittura apocrifa, come avrebbe potuto essere: bensì un dire ulteriore che prende avvio dalla vicinanza con l’autore di riferimento; dal desiderio di introiettare il suo dire pensante; dal piacere intellettivo che la metaletterarietà produce. Il tutto sempre alla ricerca, non di un astratto esercizio, ma di quella parola che la poesia rende tangibile, pur nella costante ondulazione dei sensi che si rendono inafferrabili. Perciò bisogna dimenticare il testo di riferimento, che pure ha la sua presenza, e partire da un nuovo oblio. Perché se è vero, come scrive Jabés che “il senso delle parole è quello della loro avventura, allora Enzo Campi ha sperimentato proprio questo. E l’avventura lo ha portato oltre l’origine, verso la pensosità di altri libri – delle descrizioni, dei flussi, delle interruzioni, delle cancellazioni – dalle cui frasi, all’orizzonte o tra i margini della pagina-isola, da Il e Ile prendono vita Ilio e Ilèa. Lei, selva naturale, lui il sostegno. Capaci di sovvertire lo sguardo sulla realtà per regalare “un’immagine rivelatrice”: il principio poetico vero e reale che ricompone il mosaico attraverso figure rovesciate.
Nel frattempo, essendo risultata vincitrice del 31° “Montano”, la raccolta di Enzo Campi è stata pubblicata da Anterem Edizioni, come prevede il bando. Per la lettura di alcuni testi: /linarrivabile_mosaico_di_enzo_campi
Enzo Campi è nato a Caserta nel 1961. Vive e lavora a Reggio Emilia dal 1990.
Autore e regista teatrale con le compagnie Myosotis e Metateatro dal 1982 al 1990. Videomaker indipendente, ha realizzato svariati cortometraggi e un lungometraggio: Un Amleto in più. Suoi scritti letterari e critici sono reperibili in rete su svariati siti e blog di scrittura, su riviste e antologie. Ha curato numerose prefazioni e note in volumi di poesia. Ha pubblicato Donne - (don)o e (ne)mesi (Genova, 2007), Gesti d’aria e incombenze di luce (Genova, 2008), L’inestinguibile lucore dell’ombra (Parma, 2009), Ipotesi Corpo (Messina, 2010), Dei malnati fiori (Messina, 2011), Ligature (Sondrio, 2013), Il Verbaio (Milano – Sasso Marconi, 2014), Phénoménologie (Bologna, 2015), ex tra sistole (Milano, 2017). Principali curatele Poetarum Silva (Parma, 2010), Parabol(ich)e dell’ultimo giorno – Per Emilio Villa (Milano – Sasso Marconi, 2013), Pasolini, la diversità consapevole (Milano, 2015). Ha diretto, per Smasher Edizioni, la collana di letteratura contemporanea Ulteriora Mirari e coordinato le prime due edizioni dell’omonimo Premio Letterario. È stato ideatore e curatore del progetto di aggregazione letteraria “Letteratura Necessaria”. È direttore artistico del Festival “Bologna in Lettere”.
Mauro Caselli ci presenta un poemetto, con andamento a scansione di quartine in rima e prologo ed epilogo in versi sciolti a chiusura. Le quartine, che sono il corpo dell'opera, alternano la voce interiore di un figlio, con le parole dirette a lui, del padre che non c'è più.
Così, chi di sé ha solo il ricordo, (il padre) rivive un’esistenza che si manifesta nel figlio, quasi come rispecchiamento, in una triste apparizione di ciò che, " ora e completamente/è quel che lui non è più ".
E le quartine rendono, attraverso la rima, ma senza meccanicità, il rimo del padre che parla al figlio, la cui pensosità parla e autoriflette sulle condizioni di un rapporto esistenziale.
Dunque, non un dialogo, ma qualcosa in più, che la forma poetica rende in soggettività e concettualità. Dove, il pensiero del figlio, in uno " spazio di presenza" , chiama la parola diretta a lui dal padre, " in un'imprevista apertura".
***
Il mondo intero, le persone e il resto,
si trovano davanti, sotto, sopra,
tutto intorno allo spazio di presenza,
giusto nel mezzo degli accadimenti.
Da qui si parte nelle operazioni
di raccolta, di analisi dei dati,
e qui si torna con i risultati,
continuamente. Eppure quel confine,
il punto esatto in cui si dà lo scarto,
da sempre è già varcato, oltrepassato.
La comprensione avviene dopo, a cose
fatte, nelle volute di memoria,
quando il perenne ritardo si piega
alla necessità di previsione.
***
C’è un figlio, con l’età
di suo padre, e ci sono
gli spazi vuoti tra
persistenza e abbandono.
***
Tu hai il passato, il presente
e hai anche un futuro, tu
sei ora e completamente
quel che io non sono più.
Mauro Caselli ha studiato filosofia con Pier Aldo Rovatti, laureandosi con una tesi sul concetto di riso in Nietzsche. Sulla scia del pensiero speculativo del Novecento – con riferimento in particolare ad Heidegger, Merleau-Ponty e Lévinas - ha proposto un’indagine sul linguaggio letterario e le sue implicazioni ontologiche pubblicando in rivista studi su autori quali Penna, Dickinson, Shakespeare e su quelli di area triestina e giuliana, quali Saba, Marin, Giotti e Svevo. Professore a contratto presso l’Università di Trieste, in qualità di cultore della materia in psicologia dinamica Caselli ha ricevuto incarichi d’insegnamento nei corsi di perfezionamento della materia. Nello stesso ateneo attualmente insegna Information Literacy.
Caselli, oltre a collaborare con riviste del settore critico-letterario, è autore dei volumi di saggistica La voce bianca: su Virgilio Giotti (2004) e Il banderaro importuno: saggio su «Otello» (2013). Come poeta ha pubblicato le raccolte Il giogo (2004), Per un caso o per allegra vendetta (2008) e È veramente cosa buona e giusta (2014). Sulle sue poesie hanno scritto Roberto R. Corsi, Stefano Guglielmin, Tiziano Salari, Mary Barbara Tolusso.
La voce del dire
Con “Antimondo”, Silvia Comoglio presenta una breve versificazione il cui intenso ritmo sembra derivare da naturale necessità: le parole sono proprio quelle e non potrebbero essere altre.
Come staccando il frutto maturo dal ramo, la poetessa propone il risultato di un impegno poetico che chiede di essere ascoltato poiché c’è: insomma, la sua voce è spontanea.
Spontanea? Certamente, se con tale aggettivo non intendiamo un’immediata espressione (ad esempio il pianto del neonato), ma l’esito di tenace lavoro su un linguaggio che si vuole il più possibile aderente alla vita.
Il comune idioma, talvolta (anzi, spesso), si avvicina soltanto a ciò che vogliamo dire, delimitando uno spazio senza riuscire a entrarvi.
Affidandosi alla poesia, Silvia riesce finalmente a parlare, a comunicare agli altri un vivido quid che non può essere spiegato ma al quale ci si può riferire mostrandolo nei suoi molteplici aspetti.
Entrare in un territorio non implica necessariamente esplorarne ogni angolo e definirne i confini, al contrario può comportare il riconoscimento di un aperto divenire la cui mancanza di frontiere non deve scoraggiare, bensì indurre a promuovere ulteriori ricerche.
Ricerche linguistiche nel caso in esame, ma tali in senso proprio, ossia collegate a un vivere che non sta dietro le parole ma nelle parole medesime e che, dunque, esce allo scoperto, senza riserve, con sincerità.
Concludo con una citazione:
“Come rima di gechi trapassati nel cuore –
cuore della voce venuta in emergenza
la-cerando, a guado della bocca, il Sempre –
che si sghemba, in nudi, nudi melograni
virati in afasia”.
Antimondo
l’antimondo! è il solo punto
in cui l’alba si sorride : il forte
bacio di chi bacia noi che siamo
tutti - i paradisi!
*
Luogo dopo mondo ―
fu l’albero-miraggio di immobile silenzio
a fame declamato : avvento di terra già discussa
dopo che tu parli, a basso muro basso, di tánti
tanti fiori disciolti, in eco di fessura, cóme
come rima di gechi trapassati nel cuore ―
cuore della voce venuta in emergenza
la-cerando, a guado della bocca, il Sempre ―
che si sghemba, in nudi, nudi melograni,
virati in afasia
Silvia Comoglio (1969) è laureata in filosofia e ha pubblicato le raccolte di poesia Ervinca (LietoColle Editore, 2005), Canti onirici (L’arcolaio, 2009), Bubo bubo (L’arcolaio, 2010), Silhouette (Anterem Edizioni, 2013), Via Crucis (puntoacapo Editrice, 2014) e Il vogatore (Anterem Edizioni, 2015 – Premio Lorenzo Montano – XXIX Edizione - Sezione raccolta inedita) ed è in corso di pubblicazione la raccolta scacciamosche con la casa editrice puntoacapo.
Nel 2016 ha scritto per The small outside di Gian Paolo Guerini Piccole variazioni, concerto apparso a puntate sulla rivista on-line Tellusfolio (http://www.tellusfolio.it/index.php?prec=/index.php&cmd=v&id=19913). Per Il vogatore è stata composta nel 2015 una partitura dal compositore e pianista Francesco Bellomi e per Via Crucis nel 2016 sono stati realizzati quindici disegni dall’artista Gian Paolo Guerini.
Suoi testi sono apparsi nei blog “Blanc de ta nuque” di Stefano Guglielmin e “La dimora del tempo sospeso” di Francesco Marotta; nei siti www.nannicagnone.eu, www.gianpaologuerini.it e www.apuntozeta.name, sulle riviste “Arte Incontro”, “Il Monte Analogo”, “Le voci della luna”, “La Clessidra”, “Italian Poetry Review”, sulla rivista giapponese “δ” e nelle riviste on-line Carte nel vento, Tellusfolio e Fili d’aquilone.
E’ presente nei saggi di Stefano Guglielmin Senza riparo. Poesia e Finitezza (La Vita Felice, 2009) e Blanc de ta nuque, primo e secondo volume (Le Voci della Luna, 2011 e 2016), nell’antologia Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta (puntoacapo Editrice, 2012) e nell’opera di Marco Ercolani Annotando (La Biblioteca di Rebstein, 2016)
Ha partecipato, tra l’altro, al Festival di poesia di Ferrara “In gran segreto” e alla XXII edizione del Festival internazionale di poesia di Genova.
Una tatuata denuncia
Con “Tatuaggio”, Lia Cucconi presenta un componimento davvero conciso in cui ogni pronuncia occupa un posto molto ben definito in una sequenza poetica breve ma ricca di valenze evocative.
La poesia si apre con un richiamo a una
“Imprimitura dell’ordine indiviso”
che, nella sua articolata e vivida dimensione, risulta “passeggera” e “parallela”
“dentro a regioni di paesaggi
nei feticci delle quinte
dell’immaginario quotidiano”.
Proiettati in un enigmatico mondo in cui la poetessa già vive, siamo chiamati
a riconoscerci in un’esistenza che sembra misteriosamente inquieta nel suo angosciante persistere.
Tuttavia qualcosa rimane:
“ma resta
fratturazione visionaria
della solitudine tatuata nel noi”.
Certo, la “fratturazione visionaria” di una “solitudine tatuata” non è molto, ma per la poetessa è abbastanza, poiché la sua, lungi dall’essere semplice presa d’atto, è vera propria denuncia che chiede ascolto e condivisione.
Qualcosa di non irrilevante, dopo tutto, si può sempre fare?
Senza dubbio e il richiamo di Lia è appunto questo: la parola non è fine a se stessa, ma è uno strumento che è in grado d’indicare una via da seguire, un àmbito entro cui è possibile mettersi in gioco in maniera feconda, sicché, anche nei suoi aspetti più sfingei, mostra una direzione, un itinerario.
Anzi, proprio certi misteriosi tratti, con la loro prossimità a un dire lontano dai comuni canoni, dunque più vero, possono essere tali da svegliare le coscienze assopite “nei feticci” di un “immaginario quotidiano” invadente e imposto.
Insomma, una denuncia e un monito.
Tatuaggio
Imprimitura dell’ordine indiviso:
nell’aridità
nella calcificazione
nell’essere
sopra la gloria del limite
della mancanza del cerchio:
è passeggera
è parallela
dentro a regioni di paesaggi
nei feticci delle quinte
dell’immaginario quotidiano:
ma resta
fratturazione visionaria
della solitudine tatuata nel noi.
Lia Cucconi ha pubblicato tredici libri di cui cinque in italiano e otto in dialetto di Carpi. Con i volumi dialettali è sempre stata finalista al Premio Pascoli. Tra gli ultimi editi in italiano ricordiamo “Intrusiva” (2000) e “L’imposta” (2010), prima di “Luoghi riemersi” pubblicato nel 2017 con Anterem edizioni. È presente in riviste e antologie.
Si sono occupati, tra gli altri, della sua poesia Giorgio Luzzi, Sandro Montalto, Giorgio Barberi Squarotti, Stefano Verdino, Manuel Cohen.
Vive a Torino.
Un necessario enigma
Franco Falasca, con il suo componimento intitolato “Le musiche”, ci introduce in un territorio la cui inquietante atmosfera (che ricorda certe pellicole ambientate in drammatici dopoguerra) non è esente da pronunce che rimandano al mondo della scienza.
Cito ad esempio:
“danze di protoni”
e
“abbeverandosi a una fontana di protoni”.
Una scienza vista (e vissuta) quale partecipe di una folle distruzione: l’annichilimento totale, tuttavia, iniziando a dissolversi, consente l’emergere di tratti esistenziali in cui meraviglia, stupore e, forse, barlumi di speranza, si mostrano secondo cadenze poetiche controllate e chiare.
Si possono citare, a questo proposito, l’incipit
“Camminavamo in una luce che era altra,
sfioravamo superfici che avevano altri colori,
pensavamo pensieri che erano come dolciumi”
e sequenze in cui non manca la presenza del sentimento e del giudizio, per quanto stravolti
“pulsazioni scambiate per sentimenti
giudizi preventivi scambiati per identità”.
Sul finire, il poeta si chiede
“se è possibile che tutto sia possibile”
e, naturalmente, non scioglie simile enigma.
Tuttavia nell’ultimo verso, ossia in quelle
“e tante e tante musiche per pulire gli orizzonti”
mi pare di avvertire l’emergere di una speranza o, addirittura, di un senso di fiducia che accetta il mistero rifiutando di esserne vittima.
Ciò da cui non si può prescindere, per quanto susciti interrogativi privi di risposta, va riconosciuto come un ineliminabile aspetto che non necessariamente deve essere considerato ostacolo da superare.
Forse, “è possibile che tutto sia possibile”.
Le musiche
Camminavamo in una luce che era altra,
sfioravamo superfici che avevano altri colori,
pensavamo pensieri che erano come dolciumi,
l’aria che respiravamo era fatta di onde,
le parole che usavamo era zampilli caldi,
le distanze erano immense,
gli occhi non esistevano,
la poesia non esisteva,
tutto era roccia,
bordate calde frenavano all’improvviso,
e nei rari incontri esseri colorati
dal collo lungo
ci chiedevano perché dove e quando,
imbruniti esseri smarriti
percorrevamo quel tratto di strada
poggiata sul niente,
diritti verso una meta fatta di niente,
come brutali filosofi falliti,
oh mente occulta che spadroneggi,
follie sensazioni tariffe,
danze di protoni,
moltiplicate per esigenze mediocri,
pulsazioni scambiate per sentimenti,
giudizi preventivi scambiati per identità,
le luci dell’alba sparite,
le ossa sparite,
i sentimenti spariti,
solo una calda luce viola all’orizzonte,
niente apocalisse o giorni del giudizio,
ma solo fili d’erba,
e nessun nocchiero,
solo una specie di birra come alimento,
non occhi per guardare,
vedendo tutto senza occhi,
abbeverandosi a una fontana di protoni,
e ripensando a queste bardature,
questi invisibili filamenti,
queste occasioni,
queste non-visioni
chiedendosi
se è possibile che tutto sia possibile
riuscendo a distruggere il sogno
che mi fece credere terrestre
in un lugubre inganno,
continuando a scambiare la morte per la nascita,
e tante tante musiche per ripulire gli orizzonti.
Franco Falasca è nato a Civita Castellana (VT), vive a Roma. Ha prodotto, oltre a poesie e racconti, anche poesie visive, films super 8, video, fotografie, performances. Ha organizzato rassegne e manifestazioni.
Nel 1973 fonda (con Carlo Maurizio Benveduti e Tullio Catalano) l’Ufficio per la Immaginazione Preventiva con cui collabora fino al 1979; partecipa come artista alla Biennale di Venezia 1976.
Suoi testi e materiali vari sono stati pubblicati, oltre che nei cataloghi delle mostre alle quali ha partecipato, anche su varie riviste ed antologie e nei volumi:
"UNA CA SA NEL BOSCO Prose e racconti", Edizioni Latium/Ouasar, Roma, 1990, vincitore del Premio Letterario Orient Express 1990
“NATURE IMPROPRIE (poesie 1976-2000) ” , Fabio D'Ambrosio Editore, Milano, 2004, vincitore del Premio di Poesia Lorenzo Montano XIX edizione (2004-2005) della Provincia di Verona “LA FELICITA E LE ABERRAZIONI (poesie 2001-2010) ” , Fabio D'Ambrosio Editore, Milano, 2011 “LA CR EAZIONE NOTA” , Fabio D'Ambrosio Editore, Milano, 2017
L’idea di stare nello scorrere delle ore lasciando una traccia scritta “ravvicinata” è un espediente narrativo sempre produttivo. Nel caso di questa prosa di Federico Federici ne esce una forma a canovaccio piena di appigli e risonanze, anche per il lettore. Modulazioni, arresti di pensiero, riflessioni, percezioni che sembrano respirare ad ogni granello di sabbia che la clessidra rilascia.
Una registrazione quasi fisica dei sensi, all’erta nella notte.
La sacralità del buio con tutte le sue forme brulicanti (di preghiera?)
L’ansia che precede il sonno (ci sarà un risveglio?)
Poi viene un tempo che non divide le ore, un tempo inquieto d’ossa e di foglie.
La dimensione onirica e quella letteraria sembrano avere elementi in comune: ogni cosa è segnata nell’esilio del significato, ci si riconsegna all’alfabeto primordiale per destinarsi a un’altra alterità.
Diario di alcune ore della notte
La prima stesura di questi testi risale alla notte tra il 25 e il 26 gennaio 2014, unico ospite in una stanza di pietra sull'Appennino, nel disarmo della fine del mondo. Di queste pagine, esiste una versione in lingua tedesca, che le completa e accompagna.
(21:00) Arrivare fino al fondo, fino al peso morto, al salto del respiro che ci riconsegna il vuoto.
(21:04) La notte respira del mio respiro, pronuncia parole di pace.
(21:06) Diradare lentamente l'ombra intorno, muro di figure o suoni, dietro cui stanno la voce e il volto.
(21:10) Fu vera Luce a resistere al buio del mondo?
Fu ancora Luce, che si radicò in questi muri?
Sette le stelle e sette le rose che lo sguardo non spegne.
(21:13) Più del dolore da solo, abbiamo scosso anime nel sonno.
Dove è diretto il respiro dell'Amen? Dove si spegne sotto le palpebre?
Prima di te e di me, brulicava d'anime il fondo degli occhi, brulicavano intorno foglie nei boschi, un canto di spine.
Tutto un piccolo morire, che rompe i sigilli del mondo.
(21:15) Il fiato puro del bosco ci conta le ore di cielo, le ore di terra: soffiando sopra la scuote, sino a che il suono si spegne. Non è un prodigio?
Non tutte le porte sono porte del mondo.
(21:19) Dal nostro angolo di vento, rendiamo grazie a Sorella Tenebra, soffiamo sulla sua fronte.
La sua stella si muove dove tutte le porte si chiudono.
Un filo d'aria: un'altra anima sfugge al bosco.
(21:24) Le porte e le bocche rimarginano il vuoto, la cicatrice del mondo.
Parole, che noi non indoviniamo, custodiscono la piaga del tempo, in attesa del Giudizio.
(21:28) La parete non respinge il bosco.
Echi di detriti scossi, voraci assalti di radici, tra la soglia e il bosco.
Si ammassano le anime alla soglia e vacillano le pietre.
Le ossa, addentate negli anni dagli alberi, si pietrificano.
Una stella cerca la sua orbita. Piena di vento respira la croce.
(21:35) In certi vuoti intervalli, cade una foglia sotto la ruota dei mondi, scivola un altro tempo e altra oscurità.
Nessun ramo teso tra gli alberi. Di buio si copre anche l'albero, che regna e sorveglia sul buio.
(21:40) Non il buio di nomi carichi di spine. Non il buio di fiori mortali.
(21:48) Viene l'ora che nessun tempo prolunga.
Viene un tempo che non divide le ore.
Una foglia respira. Ancora una volta accade qualcosa, che alla fine dischiude il mondo.
(21:53) Ogni cosa si compone della stessa polvere elementare, ogni singola parola delle stesse lettere.
I resti sono inestinguibili.
(22:00) Qui più notturne che altrove sono le ore e le pietre e le stelle compongono i muri. L'Universo galleggia come un'anima nera, natura morta residua nel cielo.
Ascoltalo: stride. Il tempo agisce in fretta.
Di queste parole, una soltanto deponi sul mondo, affnché la tenebra alle origini abbia una scintilla.
(22:13) Ogni cosa è segnata nell'esilio del significato.
(22:15) Si ripete sempre ogni parola, si trascrive sino a cancellarla, sino a che ne resti solo il segno.
(22:20) La ferita scopre il vivo nella carne. Nella mia ferita son feriti tutti.
(22:23) Dopo il primordiale scoppio, il silenzio rimargina le parti.
(22:32) La Natura sopporta sillabe e cifre che, senza risposta, ricadono sul suo scudo ruvido di pietra.
Essa tace. Il respiro intorbida il pensiero. La misura disturba la qualità. Tutto è perso senza prova.
Ogni verso è uno stato tra i significati, un ritmo di continua metamorfosi, un canto di fallite incarnazioni.
(22:40) Rallentare anche il respiro: la vita è confine a due morti, è il fiorire da uno stesso stelo.
(22:50) Se ci sia davvero un Essere irriducibile al Creato, non fenomeno o fantasma che trasmigra da una forma all'altra, non è scritto nel poema del mondo, o non in questa lingua, perché frantumata dalla Creazione, mentre Chi crea è innominato, innominabile.
(23:05) Un lato dell'ombra è tenebra, un altro del silenzio è Dio.
(23:07) Ci separa da questa coscienza il vuoto spazio di significato tra una parola e l'altra, dove attingere al silenzio della Creazione.
(23:44) Non un soffio tra i visibili mondi.
Nessun volo attraversa la distanza. Il significato è isolato.
È uno spazio vuoto a cui non dà sponda la parola, perché nata per tacerlo.
(00:02) Si dibatte tra parola e corpo l'anima, creatura ancora incerta. Giunge al cervello, filtra attraverso tutte le ossa e ci trascende.
Ci rimanda al senso che lega identiche strutture.
Chi può fermare lo spazio e chi scuotere il tempo? Mente scinde ciò che Spirito coglie.
(00:50) Muro, pagina compatta.
Parole e pietre non esistono per sé, sono dettagli di visione, dettagli di un perimetro all'interno, o esterno al mondo.
L'occhio si fa della luce un'immagine propria. Solo la tenebra resta nitida.
(00:51) Tra le crepe è Realtà.
(01:03) Morire allora è un atto puro: dimenticare il senso della lingua in cui si è scritti,
riconsegnarsi all'alfabeto primordiale e destinarsi a un'altra alterità.
(02:00) Se quel senso invece è anima, particella d'io profondo, indivisibile, scarto minimo,
concreto, tra il sé e l'altro, nella morte non si rompe che uno specchio.
(02:25) Nello schianto del silenzio una stella esplode.
(03:00) [...]
(03:01) Il sussurro di un'allodola nell'orecchio vuoto della notte.
Federico Federici (1974) vive tra l'Appennino ligure e Berlino. È ricercatore, insegnante di Fisica, traduttore e scrittore. Nel 2008, ha tradotto dal russo e curato la prima raccolta postuma di Nika Turbina.Su rivista: «Conversation poetry», «Ditch», «Le Monde Diplomatique», «Maintenant – Journal of contemporary dada writing and art», «Nazione Indiana», «SAND, Berlin’s English Literary Journal», «Semicerchio. Rivista di poesia comparata», «The New Post-Literate», «Ulisse», «Utsanga» (et al.).
Raccolte: L'opera racchiusa (2009; Premio Lorenzo Montano), Requiem auf einer Stele (2010); lùmina (2012); Appunti dal passo del lupo (2013, collana a cura di Eugenio De Signoribus); Dunkelwort (2015; Berliner Literaturfestival “Stadtsprachen” a cura di Martin Jankowski, 2016); Parabellum (2017, in stampa); Mrogn (2017, in preparazione, Premio Elio Pagliarani 2016).
Trarre poesia dall’esperienza teatrale appare come un naturale prolungamento della materia scenica, verso una sintesi essenziale di sola parola e scrittura. In realtà non è così semplice. Il teatro è una multi-struttura di svariate componenti, mentre la sostanza poetica, nella sua unicità, le contiene tutte dentro un’unica materialità vocale. In questo poemetto, Vincenzo Lauria, riesce nell’impresa di farci vedere“i respiri e le pause” del recitare, con un dire che asciuga e scarnifica il fare teatrale. Con i suoi versi l’autore scioglie il rito dell’essere in recita, per trasportare il lettore dentro il tratteggio che fa spettacolo. Si percepisce, in queste pagine, il modo in cui l’andamento della visione porta a un vuoto d’opera, che solo la poesia può rimettere in struttura. E ciò attraverso un pensiero fonico che segue i retroscena e li oltrepassa.
Cliché III
Replica di se stesso il passo
il tempo breve
nell’intervallo tra un atto e l’altro.
Promesse d’inverosimile
carnet di carni fresche di macello
nel retroscena.
Ci apparterremo nell’appartarci
tra le poltrone numerate
si mormora d’acrobazie
a fine sala.
E nel salir s’inscena
per il sottile filo
che ci proietta
nell’al di qua
del vero.
Cliché IX
Prove costumi
delle ingentilite pose
si segnano misure
per dar corpo all’interpretazione.
La sostanza dei fatti
è nelle posizioni marcate al suolo
dislocazione di punti da cui partire.
Il moto a luogo porterà
al dove della parte
per un perché che non sa di sé
mentre nell’intreccio dei ruoli
è il reiterarsi
dell’alchimia,
rituale di vestizioni
in svestizioni
teatr/azioni.
Vincenzo Lauria nato nel 1970, inizia la condivisione del suo percorso nel 2001 all’interno di “Stanzevolute” gruppo di 11 poeti selezionati da Domenico De Martino (collaboratore storico dell'Accademia della Crusca e docente universitario di Filologia Dantesca a Udine).
Dal 2010 collabora con Liliana Ugolini ai progetti multimediali Oltre Infinito, Oltre Infinito 2.0, OL3 Infinito, Oltre Infinito 4 (Le stanze della mente). Dal 2012 Collabora con l’Associazione Multimedia91- Archivio Voce dei Poeti.
Ha partecipato a più di 30 reading e stampato in proprio 4 sillogi.
Riconoscimenti:
Set 16: Premio Casa Museo Alda Merini I edizione è tra i 20 finalisti con la raccolta inedita INF – INFernità IN Fieri
Lug 16: : Premio Lorenzo Montano XXX edizione segnalazione per la raccolta inedita Oltre Infinito scritta con Liliana Ugolini
Giu 16: Premio Nazionale Elio Pagliarani II Edizione - la silloge inedita Teatr/azioni è tra i 9 selezionati
Giu 16: Premio Internazionale Città di Como – III Edizione: la videopoesia FEDRA (in 3 minuti) è tra i 3 selezionati (video: Vincenzo Lauria, musiche: Tommaso Pedani, testi: Liliana Ugolini, voce: Gaia Nanni)
Mag 16: Festival Visioni Shakespeariane 2016 selezione e proiezione del video blob OFELIA – (Rilettura), testi poetici di Liliana Ugolini, Montaggio video: Vincenzo Lauria
Nov 15: Premio Lorenzo Montano XXIX edizione segnalazione ricevuta per la raccolta inedita Le stanze della mente scritta con Liliana Ugolini
La versificazione, in cui comunque la presenza di rari versi liberi accentua la percezione ritmica dei restanti, s'ispessisce con l'utilizzo di parole che costruiscono immagini erose ai bordi da una luce abbagliante, almeno quanto nel loro centro sono precise come un disegno stilizzato, e va costruendo una sorta di parabola privata della linearità del racconto, avente per fulcro la carne, luogo del pensiero e della colpa, delle percezioni e dell'espiazione, del tradimento e della rivincita. Il corpo è il teatro del mondo e la Liberale raccoglie nella sua silloge le gesta di eroine prelevate da testi epici, mostrando una particolare capacità di dipingere la scena coi colori del sangue rugginoso e dei germogli trasparenti, del chiarore dei volti delle madri e del nero dell'implacabilità, invitando a riflettere sul ciclo vitale del corpo che ritorna alla natura e poi ridiviene corpo ancora. Frutto, dunque, di quei "paratesti" studiati da Genette, la scrittura della Liberale sa condurre su vie cesellate e adorne di riflessi preziosi una riscrittura che è nuova creazione.
***
Dimmi di questo oltre.
Se, smerigliato il sé che fummo
abraso l’ego, raschiate via le scorie
di tamas, di nigredo
riluce la pepita
ritorna a sfavillare.
Ma lui non può rispondere.
Sapere, dice, ti fredderebbe il sangue.
Ti basti questo, dice:
l’odore della carne
portato nell’abbraccio.
***
Viene con la statura di un cipresso
presidia il buio, lo stento della lingua.
Non ti voltare finché le parole
non siano assolute come ossa.
***
La prima volta fu per l’addio
che febbraio condensava sui vetri.
Le tue mani, implorava
e attecchiva in te.
La seconda, il fantoccio
dissestato a tuo uso
traboccava nel poco
che di te concedevi.
In entrambe ordinasti
tempesta su quel seme:
Vieni disastro, mieti.
Laura Liberale è laureata in Filosofia, dottore di ricerca in Studi Indologici e ha conseguito il diploma del master Death Studies & the End of Life presso l'università di Padova. Ha ottenuto riconoscimenti in svariati premi di poesia e narrativa. Suoi testi sono apparsi su riviste e antologie. Ha pubblicato, oltre ad alcuni saggi indologici, i romanzi Tanatoparty (Meridiano Zero, 2009), Madreferro (Perdisa Pop, 2012); Planctus (Meridiano Zero, 2014); le raccolte poetiche Sari – poesie per la figlia (d’If, 2009) e Ballabile terreo (d’If, 2011), La disponibilità della nostra carne (Oedipus, 2017). È inoltre tra gli autori di Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012). Dal 2006, tiene corsi e seminari di scrittura creativa per adulti, adolescenti e bambini, oltre che di Cultura e Filosofia dell'India.
Descrivere l’enigma
Con un componimento il cui esordio richiama certi serici tessuti cinesi, Marco Mioli mostra una non comune capacità di collegare immagini evocative e visionarie a comprensibili tratti descrittivi, quali ad esempio:
“ cementizi a milano il liberty
si scontrò con le bombe americane”.
Non mancano accostamenti davvero sorprendenti
“i sassoni i cimbri l’educazione sessuale
i rifugi alpini i confini le bombe chimiche”.
Siamo di fronte a una propensione al surrealismo?
Senza dubbio, a condizione, però, di tenere ben presente come le trame poetiche del Nostro si nutrano, più che di cortocircuiti linguistici o iconici, di molteplici elencazioni straniate e stranianti.
È forse, quello di Marco, un mondo del tutto inesistente?
Non direi, poiché ogni anche minima pronuncia non è per nulla priva di collegamenti con il comune idioma.
Insomma, il lettore si trova coinvolto in una dimensione conosciuta e, nello stesso tempo, ignota, misteriosa e affascinante.
L’enigma dell’esistere, certo, deve essere accettato, ma il Nostro va oltre: per lui simile accettazione è già un illusorio porsi fuori da un mondo di cui ognuno di noi fa inevitabilmente parte.
Sotto questo profilo il verso
“ogni parola è luce ogni parola è ombra”
non appare sfingeo, bensì descrittivo.
Descrittivo di una totalità che è anche individualità, perché per il poeta non esistono contrari che si negano l’un l’altro ma aspetti diversi mai in assoluta alternativa tra loro.
Un’originale sorta di coerenza, a mio avviso, pervade una versificazione che chiede di essere letta secondo se stessa, ossia secondo quell’originale continuità del dire propria di un autore capace di riflettere, con acume, sul mondo e sull’uomo che in esso vive.
***
lampassi di striate atomiche
cariche d'ercole glabro
stagno intraprendo scalfisco
la spuria noia lambire un tratto
d'asfalto trema il mare le suoie
cenere neve pizzo e noie (seni
siffatti plastici apocalittici)
caustici plagi di plagi
agonie diffuse sequenze ritmiche
attanagliamo i cuori attorno
a sinonimi rispondere moderatamente
un canto dove il marmo trova fine
eravamo a milano nasceva la sete
nasceva la sete tra i rulli d'arbusti
cementizi a milano dove il liberty
si scontrò con le bombe americane
ritorno dopo spari tra le pietre
vulcaniche e i dossi
tra gli aspetti aperti di vasellame neolitico
adriatico come il rollio di barche
cumuli di creta a cono per le donne
antiche le donne nuove
ma quelli decorati con le onde
ricordano l'affetto del mare
ritaglio dopo millecinquecento pasti
un comò una credenza
un pò di sonnolenza
stiva segmenti onnivori
presse e calcestruzzi marini
rimetto in luce l'esposizione
di lune
le lune dormono rovesce
sedimentano i semi del po
sabbia ruggine riotorto nel grembo
scanalato arcuato tele estroflesse
ebbre lontane pietre contemporanee
i sassoni i cimbri l'educazione sessuale
i rifugi alpini i confini le bombe chimiche
le teste dei bambini che non si muovono più
ogni parola è luce ogni parola è ombra
oscuriamo stanchi della luce
illuminiamo stanchi della notte
Marco Mioli (Vicenza 1982) si laurea in Architettura presso l'Università IUAV di Venezia e successivamente studia S cienze e Tecniche del Teatro approfondendo una ricerca sulla relazione tra suono, spazio e scenografia.
Attualmente si occupa di poesia, design e arte contemporanea.
Vive e lavora tra Trissino (Vi) e Pola.
Forma come possibilità
“(F)orma”, di Francesca Monnetti, è un vero e proprio poemetto le cui diverse direttrici, pur restando distinte, convivono e s’intersecano.
È presente il deserto, con la sua sabbia e le sue dune, ma non mancano riferimenti a città, a centri commerciali e, perfino, alla circolazione stradale (“aiuole spartitraffico)”: il tutto secondo cadenze brevi e sospese.
Sospese non soltanto per via degli abbondanti puntini (cito, a questo proposito:
“… volta … scorcio … cornice … squarcio
… ponte …poliedro … totem …
… monolite …anello … obelisco …),
ma, soprattutto, per via di un tono tendente a richiamare quello che non c’è.
Siamo al cospetto di una propensione allusiva presente ovunque, per esempio nelle sequenze:
“all’origine di ogni mio gesto
in ogni mio operare
confido in un trasalimento”
e
“Il carattere sinuoso
e la complessità delle forme
indicano ovunque
una combinazione di venti”.
Qualcuno potrebbe chiedersi: ciò che è evocato esiste o, almeno, potrebbe esistere?
In altre parole: la poetessa si riferisce a qualcosa di concreto?
Domanda inopportuna: il poemetto tende a mostrare un’immensità vivida e non circoscritta, sicché sarebbe davvero poco consono impegnarsi in ricerche riguardanti realtà esterne intese quali definite fisionomie.
Certo, il lettore è libero d’immaginare specifici aspetti e argomenti, nondimeno credo sia atteggiamento più appropriato lasciarsi coinvolgere, respirare quest’aria poetica, entrare a far parte, senza riserve, di un’atmosfera intensa e ricca di fascino.
La forma, per Francesca, è il presentarsi d’infinite possibilità?
Non ho dubbi in proposito.
Da "D’attacco"
Per lunghe distanze il vento
assume e trasporta rocce
in minuti frammenti
…reciproca consunzione
di particelle
soggette al trasporto
Materiali minutissimi
in sospensione…
…del tutto incapaci
di produrre l’attacco
…
In assenza di vegetazione
l’abbondanza di sabbia
e il forte vento
creano alveoli
…vere e proprie solcature…
Il trasporto di particelle
operato dal vento
incide e smeriglia
…nicchie di distacco…
…
Sollevata da un vortice
la particella ricade…
…delinea una traiettoria orbitale
risultante dalla forza del vento
e dalla forza di gravità
Tanto più la particella è piccola
tanto più lentamente…ricadrà
al suolo
A seconda della stabilità
della elasticità del granello
su cui cade…rimbalza
più o meno lontano
…il movimento…poi
riparte da capo…
(…)
Francesca Monnetti è nata a Firenze dove ha compiuto studi in ambito filosofico-morale. La sua prima raccolta, “in-solite movenze”, finalista al “Montano” 2008, è stata pubblicata da Cierre Grafica l’anno seguente. Una sua silloge inedita ha vinto la IV edizione del Premio Sergio De Risio nel 2010. La sua poesia è stata presentata nel sito blanc de ta nuque da Stefano Guglielmin. Una selezione di suoi testi poetici inediti è uscita on-line su “Arcipelago Itaca”.
Se una partita di tennis consta soprattutto del suo percorso temporale, di cui il punteggio o la vittoria sono solo gli esiti finali, il suo iter si svolge, allora, entro l'indecidibilità o meglio l'iter è il regno assoluto di ciò che accadrà e che non si conosce in anticipo. È un momento nel quale non si può decidere che continuare a giocare, ma anche il modo non passa che per una constatazione del fatto, la traiettoria della palla, quasi fato. Lo scopo che Alberto Mori insegue, in questa difficoltosissima partita, davvero vinta, è appunto quello di dare voce a questa insolubile condizione del presente, che si determina esclusivamente attimo dopo attimo. Le parole usate da Mori sono del tutto eloquenti in proposito: un varco oltre che sguarnito è ‘incompreso’, la piega dei muscoli è appena ‘taciuta’, un impatto è ‘assordato’ e la parità giunge ‘scoscesa’. La "quasi partita" è partita linguistica, dove anche nel dialogo, nonostante vi giochino le regole della sintassi, esistono insondabilità che giocano tutte a favore del poetico, ma, appunto, sorprendenti.
#5
***
Affanno a parti invertite
Rapporto avverso
Prossimo al rovesciamento
dove preme assoluto recupero
***
Ora possibili punti stringono assidui
Sempre addentro continuano la serie
***
Dialogo interlocutorio
Poi la chiamata ferma
Oltrepassa la risposta
Immette lo stigma al controllo perduto
Alberto Mori, poeta performer e artista, sperimenta una personale attività di ricerca nella poesia, utilizzando di volta in volta altre forme d’arte e di comunicazione: dalla poesia sonora e visiva, alla performance, dall’installazione al video ed alla fotografia. La produzione video e performativa è consultabile on line sulla pagina YouTube e Vimeo dell’autore e nell’archivio multimediale dell’ Associazione Careof / Organization for Contemporary Art di Milano.Collabora inoltre,con molti fra i più noti poeti contemporanei, italiani e stranieri, per la realizzazione di letture pubbliche, manifestazioni ed eventi dedicati alla poesia.Negli ultimi anni più volte finalista del premio di poesia “ L.Montano” della rivista Anterem di Verona. Dal 1986 ha all’attivo numerose pubblicazioni, tra le quali ricordiamo Iperpoesie (1997), Cellule (2001), Raccordanze (2004), Utópos (2005), Bar (2006), Raccolta (2008), Fashion (2009), Objects (2010), Financial (2011), Performate (2011) Piano (2012), Meteo tempi (2014), Direzioni (2017).
Con questa raccolta Paola Nasti ci porta in un mondo altro: atopico, ulteriore, postumo, ma anche in una metafora poetica dove la disgregazione, attraverso una scrittura di notevole capacità visiva e visionaria, sembra muoversi ai fondamenti di una nuova creazione. Ma questo mondo di disappartenenza, sembra non avere solidità e gli esseri che la abitano sono divisi, anche frantumati, o ancor più sciolti dentro e fuori, tra odio e non amore. Al centro la nostalgia delle origini. Non una nostalgia ingenuamente intesa come ritorno a ciò che non c'è più, ma riassunta in un rito di finzione verosimile, vissuto nello sguardo di una natura virtuale. Tutto e tutti sono senza corrispondenza e senza rispondenza, e la poesia dell'autrice si incarica di dirlo con la precisione delle parole dove “cucite le rime/niente più bacia”.
***
sotto le coltri soffici seguivamo il trascorrere delle stagioni, le foglie
erano le stesse, non cambiava quel senso di sconforto
quando qualcosa cessava - fosse un sogno o una vita
nessuno si poneva le domande
che oggi irrompono e ci spezzano i vetri
i giorni passavano lenti e senza noia, noi
con gli occhi bene aperti a guardare fuori
da lontano perlustravamo i perimetri dei continenti
ne seguivamo il contorno con il dito
cercando di essere attenti
ad ogni insenatura di costa, alle faglie che da quaggiù
si vedono anche ad occhio nudo
non speravamo di essere lontani
non c’era sogno che potesse distoglierci
dal contemplare quell’orizzonte buio, il suo sfumare lieve
nel punto di sutura tra terra e cielo
***
per le barche non c’è approdo
disse
per i natanti non c’è gomena che tenga, le ancore
non possono saldarvi, disse, ad alcun fondo
resta il fluttuare, il girovago moto intorno al pianeta
la richiesta inevasa di un porto, il grido per ottenere
il grido per non perdersi del tutto
così disse
Paola Nasti è nata a Napoli nel 1965, dove vive e insegna filosofia nei licei. E’ redattrice della rivista di poesia Levania. I suoi testi – poesie e racconti - sono pubblicati in antologie, riviste e blog.
Quando una poesia si conclude con una domanda lascia una sorta di sfida al lettore, a una ideale platea.
Il testo si trasforma in una proposta di condivisione che rilancia con più forza ancora il tema originario. Tutto questo non è semplice, ma Alice Pareyson ha il dono di non preoccuparsene, inserendo nell’opera una dose di arguzia produttiva ed efficace.
Grazie all’alternanza tra discorso diretto e indiretto, scarti semantici e versi ora brevi ora lunghissimi, grazie alla coscienza e al suo flusso, in “Santificati Uffizi” si succedono svariate sequenze, tra lo sgradevole e l’apparentemente inenarrabile in versi, raccontati nell’incandescenza di una lingua che si presta a qualsiasi richiamo dettato dall’autrice.
Attraverso le sue pieghe più graffianti, tra neologismi, onomatopee e mistilinguismo, vertiginosi cambi di ritmo e improvvise interferenze, il linguaggio travalica e dilata fatti anche scabrosi, che possono essere accaduti ad esempio oltre i cancelli che non sempre sono quelli del paese delle meraviglie.
Santificati Uffizi
la radio interconnessa trasmetteva fonemi significanti al cervello che rielaborava le
informazioni nell’apprendimento ipnopaideutico.
la strada deserta
un uomo
anzi due
si parano a catena
prendendo per mano
una bambina
anzi due
la bambina
vicina
evapóra
assecondando Volontà irrepressa
avventurarsi abbandonando l’Io
negando l’Esistenza
riportando l’Essere all’Ente
in dubbio se parte del materialismo teologico
irruzione
nel paese delle meraviglie
dal cancello rimasto aperto
senza sviste
-doveva essere visto-
ma non a tu per tu
punto per punto
cancello 1
-non sbattere
appiattiti accovacciarsi
cancello 2
cosa vedi?
-non ignoto
bene entra
-ma dobbiamo andare non arriveremo
non importa devi guardare
-il capo di gabinetto sonnecchia
starà perfezionandosi lui pure
(nel giallognolo scuro tendente alla terra
liquefatta):
ma che ci fai tu ancora qui
ma che ci faccio ancora qui
se non mi ami più
se non ti amo più”
-ma che corbellerie va dicendo
non lo so ma ha ostaggi
no non uscire
-mi è impossibile restare
allora evapora pena la morte di entrambi
lampi di luci soffuse
sulle strade dublinesi
poche anime
il centro pullula di ragazzi e ragazze vestiti a festa
la strada deserta -again- con accento nordirlandese
nessun uomo
nessun velocipede
-come si sposterà
i piedi faranno cilecca nel parlare.
(puntinipuntini per ragioni ignote ma ignifughe)
questioni irrisolte
bisogna andare
qualcuno volerà
non importa chi.
-il cane diabolico ci osserva
non darti pensiero, ci penserà lui a disvelare
ancora il capo di gabinetto
ha uno scagnozzo bau bau
più che vestiti a festa
abbigliati da doppio agente
molto borghesi poco in borghese
nerissimi bucano gli occhi e nessun Hail Mary ci salverà, non questa volta. Ah, Holy
Hazelhatch! che fare?
-scagionali
no bisogna far presto e bene
-rimbrottali
scoprire cosa vale un diretto
-castrali- era la soluzione, idiota!
non muoveranno un dito
belli dopotutto
distesi
al sole del corridoio di un ospedale circense anzino -pardondisse- ecclesiastico
-i bambini?
saranno fuggiti senza il tuo aiuto becero rettile dattilico
temporeggiasti di fronte a cancelli
semiaperti
per poi semplicemente castrare l’anima di inetti – attenzione che ciò potrebbe fare di te
pure un inetto
come il capo di gabinetto
che ascoltava ostruzioni
-istruzioni
tsk! alla radio che trasmetteva
interconnessa
fonemi significanti al cervello che rielaborava le informazioni nell’apprendimento
ipnopaideutico.
volete raccontare voi pure un’esperienza giovanile
andata a buon fine?
Alice Pareyson è nata a Milano il 15 novembre 1994. Ha frequentato il “Liceo Classico Alessandro Manzoni”, è dottoressa in Lingue e Letterature Straniere e attualmente è iscritta alla “Facoltà di Lingue e Letterature Europee ed Extraeuropee” dell’Università degli Studi di Milano, dove studia in particolare Lingua e Letteratura Russa e Lingua e Letteratura Inglese.
Con un saggio sul sequenziamento del genoma, nel 2012 ha vinto il 1° Premio all’International DNA Day Essay Contest 2012.
Paolo JACHIA e Alice PAREYSON “Franco Battiato. La cura. 27 canzoni commentate 1971” – Fabio D’Ambrosio Editore, Milano, 2016, pag. 224
“Maurizio Cancelli arte del territorio” – a cura di Franco Falasca – Fabio D’Ambrosio Editore, Milano, 2016, pag. 128 – traduzioni in inglese di Alice Pareyson.
Con questi versi le autrici riescono a dar vita a un’opera che solo la poesia, che è uno speciale organismo linguistico, è capace di produrre: far aderire completamente la significanza del suono e del senso, dentro una materia naturale e così specifica, com’è quella degli elementi chimici.
Con un fluire sonoro di precisazioni emozionali, concettuali e fisiche, questi testi generano la meraviglia di un dire senza sbavature. Una scrittura che manifesta la sua limpidezza e che resiste alla dismisura, ma ugualmente attinge all’infinito stupore, verso un reale che trasmuta le cose in parole, e le aggrega in una forma di mondo pulsante. E ciò richiama a sé i tratti distintivi di ogni sostanza, con trasfigurazioni di voci e di immagini. Una poesia, dunque, che porta voce e figura ai componenti materiali del nostro vivere.
Ti 22 (Titanio)
Decade
Emivita
Stemperata
Aurea resiste
A refrattario soffio
Dissalazione Sparsa
come
cenere
azzurra
LIQUIDA
denti
spezzati
dissolvono
ruggine
Sc 21 (Scandio)
Volteggiano
(Foglie) scarnificate
su
Aritmiche pulsioni
Reflusso
di
cellule caustiche
Densificano
VAPORE
Tirannie
Ostentano
Morbosa
GRAVITÀ
Nota delle Autrici
In Orbitale nulla è lasciato al caso. Ogni poesia, ogni singola parola, è il frutto di un'accurata ricerca. La scrittura è dettata dall'anima, dalla decantata musa ispiratrice, dalla musica e dalla chimica. Ogni elemento è fondamentale nella composizione. La poesia esce dalle più segrete e profonde viscere dell'essere umano ma quando incontra la genialità della chimica la soluzione è esplosiva. Si consiglia una doppia lettura. La prima, quella più emozionale, è quella che si fa sul divano, a casa, magari sotto una coperta e con una tazza di tè fumante in mano. È quella che ti prende semplicemente perché riesce a cogliere quelle corde che si credevano spezzate o inesistenti. E se la musica gioca un ruolo fondamentale allora, per poter cogliere pienamente quello che si legge, bisognerebbe ascoltare David Bowie, Lou Reed, gli Smiths, i Radiohead, i Placebo, i Graveyard e del buon blues, perché anche loro sono parte palpabile di questa raccolta. La seconda lettura, quella più critica, richiede la conoscenza di ogni elemento trattato, delle sue proprietà. Solo così si potrà capire per esempio il motivo per cui in Ag 47 (argento) una poesia è "capovolta" come se fosse riflessa in uno specchio.
Nonostante sia un lavoro a quattro mani la differenza stilistica è minima, quel tanto che basta a rendere piacevoli le piccole discrepanze, i differenti moti del cuore delle scrittrici nel momento esatto in cui si gettavano a capofitto nei meandri più oscuri del loro essere. Lo stile è quasi identico grazie allo stesso vissuto familiare e alla stessa educazione letteraria.
Sono 919 i km che separano le due sorelle ma la loro connessione emotiva è strettissima ed è alla base di questo progetto letterario.
Nota bio-bibliografica per Loredana Prete
Raccolte di Poesie:
- Latitudine 49° 7’ 13,08” N Longitudine 17° 42’ 0” E (2005-2012 raccolta di 365 poesie, classificate per mese, scandiscono un periodo; scritte tra Metz e il paese natale, San Vito dei Normanni; un viaggio attraverso i sensi, le disillusioni, le paure, le sensazioni. L’incontro con ricordi; la latitudine è quella de Metz, la longitudine quella di San Vito dei Normanni).
- OSSA (2013) in corso d’edizione
- LIQUIDO (2014)
- AERIFORME (2015) edito da Limina Mentis Collana Ardeur 67 ISBN 978-88-99433-08-06
- SOLIDO (2016)
Antologie:
500 poeti dispersi, Libro secondo, AA.VV., Edizioni La Lettera Scarlatta, ISBN 978-88-908601-8-8
Habere Artem vol.16, AA.VV., Aletti Editore, ISBN 978-88-591-1399-7
Soglie IV 2016, Limina Menti Editore, collana Ardeur
Segnalazioni:
-30° Premio Lorenzo Montano, per la sezione “Raccolta inedita“ con la raccolta di poesie intitolata Solido.
-29° Premio Lorenzo Montano, per la sezione “Raccolta inedita“ con la raccolta di poesie intitolata Aeriforme.
-28° Premio Lorenzo Montano, per la sezione “Raccolta inedita” con la raccolta di poesie intitolata Liquido.
-27° Premio Lorenzo Montano, per la sezione “Raccolta inedita“ con la raccolta di poesie intitolata Novembre.
Conferenze:
L’8 marzo 2013 partecipazione come autrice alla giornata poetica “Sbatte l’aria. Era una vanessa!”. (Università di Lussemburgo - Les lettre romanes – section italienne. L’incontro fa parte del progetto di ricerca del TIGRI – Textualité des Italiens de la Grande Région et Intégration).
Racconti
- Adele (2010)
- La messe rouge (2010)
- Iadava (2010)
- Accidia (2011)
- il vento di Cordoba (2011)
- Purificazione (2011)
- Amandoti (2012)
Sceneggiature
- Sogni in penombra (il cortometraggio ha partecipato al Festival Internazionale Cortometraggio Salento Finibus Terrae).
Urbane visioni
Massimo Rizza presenta una sezione della sua raccolta inedita “I corpi delle città”: tale sezione è dedicata a Urbino.
Per via di una prosa poetica ricca d’immagini, di rimandi a eventi storici e a un’attualità che di simili episodi è erede, secondo cadenze molto ben calibrate nel loro dinamico divenire, il Nostro descrive Urbino in maniera visionaria ma anche molto concreta.
È d’obbligo, a questo punto, la citazione
“antiche prigioni attigue alle stanze della lussuria, vasche di marmo dai caldi vapori, bagni / promiscui di penitenti delle passioni e delle malattie inguaribili, custodi di segreti familiari / violenze parentali tra lenti rintocchi della clausura, ossari sconsacrati e passaggi segreti / pietre dure e manoscritti oscuri che conducono al cuore del grigio antracite delle miniere / mutilata e orgogliosa, rifiuta le apparenze e le parentele, nell’unico occhio Urbino si fissa”.
Nella pronuncia finale (che ricorda il verso di Dino Campana “Genova canta il tuo canto!”) è possibile riconoscere un’infinita estensione che riesce a condensarsi in una vivida immagine la cui persistenza, come dicevo, partecipa del visionario come del reale.
La visione, anche la più mistica, non nasce dal nulla ma è espressione di un essere umano e del suo esistere nel mondo e dunque, in ogni modo, è collegata alla vita e al linguaggio.
Un collegamento che, nel caso in esame, oscilla e, tuttavia, non intende sacrificare la valenza comunicativa al puro immaginare.
Il risultato appare fecondo proprio per il suo poetico insistere, ossia per un tenace tentativo di dire di e nel il cui felice esito è una sorta di premio per il lettore e, perché no, per lo stesso autore.
***
dal profilo adunco, calva suonatrice di strumenti a corde, patria dei
traditori e delle faide familiari, dalle porte lignee mute e senza battenti,
custode di nobili segreti e di leggende, con le strade arcuate a spine dorsali
molli, luci taglienti dai vetri istoriati, di strani fantasmi gobbi e storpi che
si aggirano di notte, dove gli uccelli lasciano i nidi incustoditi e muti,
antiche prigioni attigue alle stanze della lussuria, vasche di marmo dai
caldi vapori, bagni promiscui di penitenti delle passioni e delle malattie
inguaribili, custodi di segreti familiari violenze parentali tra i lenti
rintocchi della clausura, ossari sconsacrati e passaggi segreti pietre dure e
manoscritti oscuri che conducono al cuore del grigio antracite delle
miniere mutilata e orgogliosa, rifiuta le apparenze e le parentele, nell’unico
occhio Urbino si fissa.
Massimo Rizza è nato a Sesto San Giovanni e vive a Segrate (Mi). E’ laureato in pedagogia e ha operato nel campo dell’istruzione in qualità di dirigente scolastico. E’ condirettore e redattore della rivista letteraria Il Segnale. Ha pubblicato la raccolta poetica Il veliero capovolto, Ed. Anterem (2016)
Suoi testi narrativi sono pubblicati in antologie e on line sul sito della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Testi di poesia, saggistica e critica sono apparsi su diverse riviste letterarie italiane tra le quali: “Il Segnale”, “Pagine”, “Anterem”, “Scibbolet”, “ Capoverso”, “ l’immaginazione”, " "Erba D'Arno".
«Uno degli elementi sovversivi che giustificano il paradosso della comunicazione asemica risiede nella non esistenza di un genoma riconoscibile o implicitamente accettato dalla comunità. Ogni testo, indipendentemente dalla propria estensione, incarna l'espressione massima e unica di una lingua oscura, che ne costituisce lo stimolo e l'essenza. La potente sintesi iconica operata assorbe tutti gli elementi fonici tradizionali, consegnando la lettura a una pura esperienza visiva, contemplativa, anche laddove il carattere sequenziale delle tavole apre al recupero di possibili dinamiche narrative.
Ogni forma asemica non è, in sé, un enunciato. È piuttosto unaussprechbare Aussage che attiva le modalità interpretative dell'inconscio, rendendo superfluo il concetto di un a priori del significato. La lettura non consiste più in due fasi ravvicinate ma separate, una di decodifica e una di interpretazione, ma diventa attività creativa unica, condotta autonomamente sulla superficie libera del testo. [...]
Attraverso la pratica asemica, ogni artista sperimenta la condizione estrema delle minoranze linguistiche, incarnando la figura del primo e ultimo rappresentante di una neolingua o di una variante dialettale in estinzione.»
link:
http://federicofederici.net/projects/
https://leserpent.wordpress.com/category/asemic-and-concrete-poetry/
https://www.behance.net/federico_federici