Alla fine è bello quando succede. Quando succede realmente quello che tanto si è pensato.
In questo caso è anche possibile fermare il tempo, ritornare al ricordo nitidissimo di una giornata speciale, quella dell’11 novembre scorso al Forum di Anterem, che rimarrà irripetibile e che desideriamo celebrare nella sua interezza in questo numero di “Carte nel vento”. La foto di gruppo, poetica, che idealmente si rappresenta, è stata resa possibile grazie alla presenza di Doris Emilia Bragagnini, Fabrizio Bregoli, Marilina Ciaco, Gabriella Cinti, Aurelia Delfino, Roberto Fassina, Paolo Ferrari, Zara Finzi, Ettore Fobo, Michele Lamon, Attilio Marocchi, Raffaele Marone, Paola Parolin, Silvia Rosa, Claudia Zironi, tutti introdotti dalla giuria del “Montano”, che corrisponde alla redazione di “Anterem”.
Simile a un esergo è l’intervista di apertura a Bianca Battilocchi su Emilio Villa.
Se da un lato guarda alla sua recentissima storia, dall’altra parte questo Premio è già rivolto al futuro con la nuova, 32^ edizione.
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In copertina, Massimo Girelli, “Sonata”, tecnica mista, 1992-93
INTRO di Chiara Portesine
Nell’ambito di una contingenza di occasione - il Convegno «I Verbovisionari. L’altra avanguardia tra sperimentazione visiva e sonora», svoltosi nelle giornate del 24 e 25 novembre 2016 presso la Scuola Normale Superiore di Pisa - e a partire da settori di ricerca consolidati e felicemente paralleli, gli autori di questi saggi hanno cercato di mantenere una direttrice comune, all’insegna dello sconfinamento e della sfida costante che l’opera villiana richiede di mantenere aperta e operativa, al di là e al di fuori di rassicuranti soluzioni definitive. Il risultato è questo prisma conoscitivo, che offre al lettore un caleidoscopio di prospettive divergenti, se guardate con la lente della microscopia, ma che regalano una coerente visione d’insieme, non appena si abbia il coraggio di indietreggiare di qualche passo e concedere alla lettura uno sguardo d’insieme. Al di là degli approcci e del bagaglio metodologico dei singoli autori, il collante che unifica gli interventi è l’idea di forzare i confini del perimetro villiano, aprendo nuovi territori di intersezione e di intertestualità –ravvicinata (Costa) o a distanza (Joyce)–, oppure dilatando e andando a verificare in profondità gli esiti di alcuni macrotemi (i tarocchi e il «gesto» artistico).
G Bianca Battilocchi, che cosa segnala a tuo avviso la pubblicazione di questo nuovo volume di studi villiani?
B Penso che Una musa indiscreta sia un segno concreto di quanto stia accadendo in Italia e all’estero negli ultimi anni, ovvero un avvicinarsi sempre più e sempre più numerosi ad un autore così imprendibile e spesso ignorato in sede universitaria, ma ammirato da molti poeti (da Zanzotto a Raboni, da Spatola a Vicinelli). Il volume raccoglie infatti gli interventi ospitati in una cornice prestigiosa che ha finalmente dato meritevole spazio ad argomenti solitamente pochissimo frequentati dall’accademia italiana. Si è dato voce a Villa e ad altri autori ‘verbovisionari’ a lui vicini, James Joyce, Carmelo Bene, Corrado Costa, Adriano Spatola… come aspirando a quella “comunità di artisti dedita alla creazione e al recupero di una diaconia dell’immaginario” progettata dal poeta stesso: “Oggetto indefettibile della ‘diaconia’ che proponiamo, è l’IMMAGINARIO rilevante / rivelante; l’IMMAGINARIO da sorprendere come immanente / transmanente; e di conseguenza, l’IMMAGINARIO come illimite depuratore e depositario dell’INIMMAGINABILE.” Questi versi programmatici fanno luce su un immaginario proposto e sempre ricercato che è totalmente distante da quello imposto dalla società vigente, dal mondo dei mass media così come, in buona parte, da quello dell’arte e della cultura, soffocate da una mentalità conformista, all’inseguimento di trend o di baroni pronti a elargire ‘lasciapassare’. Tuttavia, chi si interessa a Villa sta facendosi sentire con più voce, dentro e fuori i circuiti accademici, con tesi di dottorato, pubblicazioni ed eventi interdisciplinari di varia natura, soprattutto in Italia, ma anche in Irlanda, negli Stati Uniti e in Brasile.
G Emilio Villa scrive “Ogni incontro o urto … sarà un contagio reciproco”. Credo che questo volume indichi soprattutto una strategia, una pratica di ribaltamento rispetto alle divisioni in parti, alla cronologia, ai pesi del genere o dei ‘generi’. È possibile pensare ad un’attività critica che, nel rispetto di questo scarto, sappia comunque rivelare il carattere della poesia villiana?
Io credo che sia necessario fare ricerca in questo senso, così come lo è stato a partire da Joyce, grande modello di un linguaggio inaudito per Villa. Come ci spiega Tagliaferri nel suo eloquente saggio, circa gli intrecci profondi e la “dipendenza agonistica” del secondo rispetto al primo, si tratta in entrambi i casi di una “letteratura come via d’accesso a una libertà assoluta, come presidio estremo in difesa del reale”. Villa scriveva per il futuro, era cosciente che ciò che stava producendo sarebbe stato fruito con più consapevolezza dai posteri, e in effetti oggigiorno sembrerebbe che le possibilità ci siano, considerando l’attenzione per l’interdisciplinarità, il focus sulla congiunzione di immagine e testo, e dunque sui binomi scrittori-pittori, poeti-teatranti, ecc. Certo Villa richiede più energie e collaborazione tra competenze disciplinari diverse per poter comprendere fino in fondo la natura del suo agon poetico, soprattutto richiede l’abbandono di appigli sicuri (“poetare è produrre crepe”). Il potenziale e l’attualità villiane sono enormi, Fracassa ne ha rivelato ad esempio le implicazioni con la neuroesterica a proposito dello stile e del contenuto dei testi raccolti negli Attributi dell’arte odierna, in particolar modo quelli dedicati all’arte-azione, del “gesto come fatto interno, pensoso”. Tagliaferri ha setacciato l’ancora inesplorato campo di convergenze, distanze e oltrepassamenti tra Joyce e Villa, pedinando le conseguenze testuali di un’“affinità elettiva” le cui premesse e punti di contatto costituiscono un bacino potenzialmente inesauribile di suggestioni. Portesine ha aperto uno stimolante caso di studio sulla positiva relazione tra il poeta e Corrado Costa, un esempio di collaborazione e ispirazione necessario per comprendere la nascita e il successo di tanti artisti che hanno gravitato intorno a Villa e che ne confermano l’autorità di ‘Padre’, come nel caso di Adriano Spatola o Patrizia Vicinelli.
G Quali sono secondo te le remore da valicare per poter dedicare maggior spazio a questo autore e alla sua opera?
B Gli ostacoli al momento sono differenti, per tanto tempo il principale è stato la reperibilità delle opere. È in circolazione fortunatamente da qualche anno l’Opera poetica a cura di Cecilia Bello Minciacchi, e stanno fiorendo le pubblicazioni di studi villiani, la nuova biografia del poeta per mano di Tagliaferri, differenti studi comparati, eloquente il caso Villa-Zanzotto ben delineato da Portesine. Quanto al resto dell’opera che comprende preziosi scritti sull’arte non più in commercio, traduzioni e vari altri testi poetici inediti bisogna rifarsi a specifiche biblioteche, se non direttamente agli archivi o, nel peggiore dei casi ai privati, che raramente aprono le porte. Un secondo problema, soprattutto nel ‘Bel Paese’, è l’interdisciplinarità villiana, il fatto che l’autore non sia catalogabile o accostabile a nessuna corrente letteraria precisa ma che le mescoli o meglio che ne tragga ispirazione per poi scavalcarle tutte; che tiri in causa al contempo le letterature semitiche e gnostiche, la filosofia presocratica, le arti preistoriche, le diverse avanguardie e neoavanguardie artistiche (tra i primi Breton, Duchamp, Bataille e Artaud), mirando sempre a non farsi soffocare da nessuno stile ma conquistando terreni sempre nuovi e fertili, distinguendosi nella sua magmatica unicità. Villa ha bisogno di questi “nodi” in quanto “ordigni”, strumenti necessari per le sue indagini che vogliono scuotere e fecondare l’“Immaginario” labirintico, per andare oltre al già visto - il dialogo avviene all’interno come per Carmelo Bene - e aspirare a epifanie, a una “revelation où rêve élation”.
G Nel titolo del tuo saggio parli di ‘perdita’ e di ‘riscatto’. Quale legame congiunge queste due parole?
Il mio titolo vuole riassumere l’invito poetico ad abbracciare il reale, nella accezione lacaniana elaborata da Tagliaferri nel suo confronto tra la poetica di Joyce e quella di Villa: abbracciare dunque il labirinto interno della mente e respingere la realtà esterna, giudicata gnosticamente come trappola, prigione. Aprirsi all’interno comporta il contatto con una dimensione illimitata che ci connette a qualcosa di superiore che in Villa equivale all’‘Eternità’, luogo-non luogo in cui ricercare incessantemente risposte, segni, come attualizzazione di un leitmotiv eracliteo: “Incontro è legare, e insieme, per slegare, slogarsi per logarsi”. I Tarocchi villiani, composti a fine carriera, sono un esempio di una poesia di segno apotropaico, che distrugge il conosciuto percependolo come limitato e limitante, e che costruisce senza posa nuove possibili vie d’uscita.
Bianca Battilocchi ha studiato all’Università di Parma, alla Sorbonne Nouvelle (Paris 3) e attualmente sta terminando un dottorato di ricerca presso il Dipartimento di Studi Italiani a Trinity College Dublin. Il suo progetto di studio vuole offrire una prima edizione critica degli scritti inediti di Emilio Villa dedicati ai Tarocchi. Partendo da un primo focus sulle Diciassette variazioni (1955), ha discusso e pubblicato a proposito di Villa in Italia e all’estero, con un approccio di analisi testuale comparativo che mira a far luce sulla performatività e magmaticità della poesia villiana, i suoi legami ad esempio con l’opera di Antonin Artaud e Carmelo Bene. Recentemente ha pubblicato per «Engramma-La tradizione classica nella memoria occidentale» (n. 145, Maggio 2017) e un suo saggio è uscito per il volume di studi villiani Una musa indiscreta, edito dall’Archimuseo Adriano Accattino.
Il rispecchiarsi, nella silloge di Fabrizio Bregoli “Optoclastie”, di scienza e poesia, elementi di calcolo e parola, linguaggio tecnico e pensiero poetante pare mostrarci essenzialmente uno scarto: non tanto tra i diversi modi di esplorare il reale e di indagarne i sensi, quanto tra il reale e la necessità di aprirvi un varco, di violarne i confini.
Appare allora evidente l’esigenza di partire da atti di violazione e di rottura: la trafittura della materia, la profanazione della luce, la frammentazione dello sguardo e della visione, tese a spezzare l’apparenza, a penetrare l’oscurità, operando però non con la violenza del potere scientifico o della padronanza linguistica, bensì con un’azione di sottrazione e di scarnificazione del dire.
A premessa e conclusione delle due parti della raccolta, “Diario di Galileo” e “Eniac”, l’autore dichiara esplicitamente la sua scelta poetica: “Per questo scelsi minima / l’arte, perfetta / la sottrazione”, e il suo cammino teso a sfaldare il reale, proteso verso un oltre dove, come conclude, “per oscurità / fu se vi giunsi”.
È infatti un’opera di perforazione e di riduzione a caratterizzare la poetica della silloge, come precisa Fabrizio Bregoli, analogamente alla creazione dei supporti di registrazione nella prima generazione di computer, “Alfabeto di sottrazione. / Arte del togliere”, di natura sia linguistica che etica, per i linguaggi scientifici come per quelli poetici: passaggi stretti, angoli ridotti di visione, quasi un bucare la materia attraverso “minime crune di cannocchiale”. Per perseguire l’obiettivo di una parola chiara e netta: “un accento nitido / un asserire secco, senza chiasmo”, così come il “marchio a fuoco / di un idioma esatto: indecidibile”.
Un percorso irto di difficoltà, perché arrivare a tanto, cercare il calcolo come l’idioma preciso, è questione certo di ricerca, ma di una ricerca tesa ad una “voce primordiale”, per cui anche il calcolatore ci riporta ad “una sapienza antica”, ad “un idioma ruvido / dialetto dell’origine”.
E ciò a cui la ricerca poetica di Fabrizio Bregoli conduce non è sicuramente uno svelare significati, quanto piuttosto l’aprirsi ad una visione dissonante, a un diverso modo di approcciare il reale, la sua oscurità, il suo senso profondo, come leggiamo: “Non è d’atomo in atomo / un addensarne il plasma / un distillarne o concentrarne il senso, / piuttosto un chiuderne in un otre il vento / scioglierne in un bicchiere / la pastiglia di tenebre”.
***
Da minime crune di cannocchiale
orbite, macchie o eclittiche celesti...
e tutto per ghermire la misura
d’un ordine, tutto nel calco esatto
di numero e compasso.
Campire la natura
coglierne in una smorfia il disegno del viso.
Farne un falso d’autore.
***
Non è d’atomo in atomo
un addensarne il plasma
un distillarne o concentrarne il senso,
piuttosto un chiuderne in un otre il vento
scioglierne in un bicchiere
la pastiglia di tenebre.
***
Quando in ipostasi si circonflette
l’orizzonte e d’antracite si sradica
il giorno, o in una trafittura docile
di nuvole quella luce artica... forse
allora hai scovato un cardias riottoso,
la biella da oliare, un glifo o una rosa
camuna su qualche rupe inviolata.
Il marchio a fuoco
di un idioma esatto: indecidibile.
***
Controverso se quando il buio
si maturò in materia, si scavò
il contorno d’uno spazio, vi fu
la pronuncia netta d’una sillaba
un verbo, il precipizio d’una luce.
Credo fu una corona di silenzio
a compitare la parola d’ordine
non lo scatto di qualche serratura. Qualcosa
più simile a un ronco quasi inudibile.
Di meno: un borborigmo.
Fabrizio Bregoli, nato nella bassa bresciana, risiede da vent’anni in Brianza. Laureato con lode in Ingegneria Elettronica, master in Marketing, lavora a Milano nel settore delle telecomunicazioni.
Ha pubblicato alcuni percorsi poetici fra cui “Cronache Provvisorie” (VJ Edizioni, 2015 – Finalista al Premio Caproni) e “Il senso della neve” (Puntoacapo, 2016 - Premio Rodolfo Valentino e Finalista ai Premi Gozzano, Merini, Saturnio). Ha inoltre realizzato per i tipi di Pulcinoelefante la plaquette “Grandi poeti” (2012).
Suoi lavori sono stati pubblicati in antologie di Lieto Colle, della Fondazione Mario Luzi e sulle riviste Euterpe, Alla Bottega, Circolo Pickwick e Versante Ripido.
Partecipa a letture poetiche, dibattiti culturali e blog di poesia. Ha preso parte ad alcuni eventi di azione poetica mito-modernista e alcune sue poesie sono state esposte congiuntamente a opere pittoriche in eventi organizzati dall’associazione Civico32 a Bologna.
La voce al chiuso
Si misura con il limite del chiuso la voce di Doris Emilia Bragagnini nella raccolta “Claustrofonia - sfarfallii - armati - sottoluce”, a partire da un silenzio invalicabile e dalla conseguente dolorosa assenza di parole per accedere al mondo.
Nella ricerca di un dire che penetri il limite, la chiusura viene evidenziata dal susseguirsi di termini riferiti a barriere e oscuramenti: muri, porte, chiuse, pareti, sotterranei, stati di clausura, storie nascoste: “nulla chiama forte da farsi udire, è un movimento sotterraneo / il dispetto conquistato d’alfabeto”.
Allora dove cercare il movimento della voce, la sua possibilità di farsi ascoltare, di dire?
Una risposta, forse, ci può pervenire dal sottotitolo della raccolta e da un testo che precisa il rapporto con la delimitazione posta dal chiuso: “il muro tace, non risponde più / si lascia guardare angolandosi / in riproduzioni lessicali nei passi / o sfarfallii - armati - sottoluce”.
E sono appunto ciò che sfarfalla nel tremolio svolazzante, “come una farfalla”, quindi ciò che si attrezza alla lotta, come precisa l’autrice “cerco la nota distorsiva - quella - capace di cancellare il nesso”, e infine ciò che vive nell’oscuro, nei movimenti nascosti, nelle storie segrete, a consentire alla voce la possibilità di penetrare le chiusure, di schiudersi ad altro, come ancora leggiamo: “fu talpa farsi sorda di clausura / tremando poi - tellurica - nel raggio d’oltremondo / così tenero e malsano da penetrarvi il cuore”.
Poiché i muri sono essenzialmente interiori, nello sgomento di trovarsi nel vuoto e nell’assenza di sé, come della propria voce: “forse ti ho persa tu voce che vieni da inferi smessi / o il cervello s’infilza di vuoto come un cancello”, ma anche nello stupore di uno spiraglio, nella scelta di una diversa possibilità di uscita, “nell’altrove di un non c’ero”.
E quello che Doris Emilia Bragagnini pare mostrarci, con una scrittura che utilizza diverse possibilità espressive, è che, se da un lato è forte il bisogno di una lingua, un “desiderio la parola da dire / o bramosia di parole mancanti”, dall’altro è forse il non dire ad essere in grado di esprimere quella distanza “tra l'essere di ora e la parola”, l’apertura preziosa all’oltre, l’attimo in cui “le parole non dette / valgono più di un'aurora di maggio”.
Allora forse più che di claustrofonia, forse si tratta, per la parola e propriamente per la parola poetica, di claustrofilia, poiché è lì, nel chiuso, nel silenzio e nell’oscuro, nei suoi sfarfallii e nei suoi conflitti sottoluce, che la poesia affonda le radici, è lì che può custodire il suo senso profondo, segreto.
Da "Claustrofonia"
come sembra stretto il mondo
senza una parola per entrare
Dalla sezione “sfarfalliii – armati – sottoluce”
L’amaca fenice
nulla chiama forte da farsi udire, è un movimento sotterraneo
il dispetto conquistato d’alfabeto e ho un piccolo lobo d’orecchio
o forse meglio un lobo piccolo
c’è sempre un modo migliore di dire le cose per esempio
c’è un posto che non so quando dovrei dire quello che c’è
ma che non trovo - lo faccio scomparire
vorrei trovarlo per intero mi manca almeno quanto l’aria
tutta intorno se ci si sveglia nei giorni come crisalidi abbozzate
in un futuro pocket che pesa d’eterno
piccole dosi di massiccia confettura è limacciosa la sostanza
congetturale stringe sugli arti come carta moschicida
ti dondola sul nulla il palinsesto della vita, a favore di vento
il gancio - sospeso - al diritto d’uscita
Poco prima
c’è un’ora sulle scale quanto certi passi di piombo
si trascina luce dopo luce come una fiammella intirizzita
getta le ombre e i suoni lungo il muro del cordoglio senza nome
i sacchi di sabbia tenuti tra i pensieri li ha usati tutti
li ha usati tutti i sacchi di sabbia tenuti tra i pensieri chi dilaga
Dalla sezione “ipernauta”
La visura
mi sono chiesta dell’intorbidire i sensi
dell’ipernauta che abita la luna - oddio ho detto luna? -
che viene a farsi strada nella notte per parlarmi nell’orecchio buono
dice che ho venduto l’anima fingendola già morta che ho riso
danzato sopra i gorghi del contratto, come una fiammella già epurata
Oggetto della prassi
resta uno spazio sempre
tra l'essere di ora e la parola
colmato solo poco dall'esistere di sguardo
il rimandare stop del fotogramma
per timore che non abbia buona luce
imprimere una copertina sulla pagina invisibile
la non rivelazione - da qui all'eternità
Dalla sezione “nonnulla da tenere”
ho un’ora di tempo per darmi tempo
*
sinopia disgregandomi
al contrario essere traccia
transitorio è il mare come berbero
assordato dall’azzurro, teme il giorno
*
così dannatamente evidente
la pagliaccia tentazione del vero da dire in forma breve
architettura perfetta sfacciata geometria di pensieri tesi a incastro
oppure, starò ferma un giorno al numero tot del gioco dell'oca
*
del feretro riposto, un cappotto in panno topo
non ho mai sentito caldo - il bavero rialzato
come guglia emozionale fino alle guance
cinque dita in cucitura a interrompere lo sguardo, viola
*
allo stato organico del dispiacere di vivere
la similitudine intesa come non sufficientemente
permette piccolo spostamento strutturale
la percezione che consente di resistere
*
avevo un corpo un tempo lo sentivo contro il vento
ci sono punti d’attracco che sanno perdermi lo stesso.
Doris Emilia Bragagnini è nata nel nordest, vive da sempre a due passi da sé, qualche volta v’inciampa e ne scrive. Partecipa in qualche antologia (tra le quali Il Giardino dei Poeti ed. Historica e Fragmenta premio Ulteriora Mirari ed. Smasher), in blog e siti letterari come Neobar (redattrice), Filosofi Per Caso, Torno giovedì, Le Vie Poetiche, Linea Carsica, Il Giardino Dei Poeti (redattrice), Carte Sensibili, Words Social Forum, Via Delle Belle Donne, La Poesia e lo Spirito, La Dimora del Tempo Sospeso, Poetarum Silva. Ho partecipato ai poemetti collettivi “La Versione di Giuseppe. Poeti per don Tonino Bello” e “Un sandalo per Rut” (ed. Accademia di Terra d’Otranto, Neobar 2011). Menzione speciale per il testo “claustrofonia” al premio Lorenzo Montano 2013 e per “di fuga Soluta” nel 2016. Presente in alcuni periodici on line e cartacei tra cui Carte nel Vento a cura di Ranieri Teti, Espresso Sud a cura di Augusto Benemeglio.
Il primo libro edito: “OLTREVERSO il latte sulla porta” ed. Zona 2012.
Sulla scorta di niente
È un tempo di resa o di attesa, quello che Silvia Rosa declina nella silloge “Tempo di riserva”, dove vengono messi a nudo disincanti e inquietudini, o meglio: il disincanto del pensiero e l’inquietudine della parola poetica?
“Un altro giorno spremuto in fretta / impastato intero - un grumo - / dentro tutto il tempo del mondo”: sono i versi d’esordio della raccolta, in cui l’autrice, nel dipingere vivide immagini e insieme desertificare il senso del vivere, fa crescere dubbi e schiudere tremori, non riflettendo unicamente un sentire soggettivo, ma facendosi implicitamente interprete dell’intera condizione umana, dell’essere gettati nel tempo, ora in un presente, colmo di assenze e di perdite, che non apre prospettive al futuro, come leggiamo, “Qui è dove il tempo / ci ha costretti / a un sogno in miniatura”, dove “Ci sono giorni da rosicchiare / come pane duro, / dal bordo annerito dell'alba / lungo la crosta delle assenze”.
I temi del tempo e della condizione umana, che hanno trovato numerosi interpreti nel pensiero filosofico e poetico, vengono declinati da Silvia Rosa attraverso un dire che ci parla di corpi e di stagioni, di stati d’animo e di voragini e che declina lentamente, con pacata inquietudine, in un precipizio dal sogno alla vertigine, dal reale all’abisso, “in questo / vuoto di noi”, come scrive, e nel “poco più del niente / che mi porto addosso”.
È un tempo di resa, “all'improvviso, inevitabile, arriva la resa, / la china dei giorni”, insieme di sottrazione e di rinuncia, di disattenzione “al buio di un tempo così distratto” e di indifferenziazione “l'amore o la morte, non saprebbe dire adesso / in effetti, la differenza”, con tutta la sua scorta di assenze e di vuoti interiori.
È anche, però, un tempo di attesa, di contenimento, quasi di protezione, come a farsi scorta invece di qualcosa da custodire, in cui contare i giorni “al calendario di un'attesa senza data”, tentando di recuperare il senso dell’esistere e di aprirsi a nuove prospettive.
E, in questa attesa, cosa ne è della voce, che, nel tempo personale dell’autrice, è passato dalla costruzione di “geometrie golose di parole” a “una scia di parole mute” e ora “torna ai suoi silenzi / collusi con le ombre, torna / a non dire a dire a metà”?
Restano soprattutto per Silvia Rosa, nel suo tempo di riserva, “il vizio mio identico / di cercare una forma, una qualsiasi / di assomigliarle un pochino” e il desiderio di crescere tale forma, farne nido di parola: “Quando tornerai ad abbracciarmi / avrò cresciuto un piccolo bosco / d’inverno, bianchissimo, / dentro le vertebre e in bocca”.
Da "Tempo di riserva"
Frontiera
Agosto ha uno scampolo di giorni
in movimento, una coda sfilacciata
una preghiera imbastita contro
il vento, una striscia rossazzurra di labbra e
cielo, leggera, dove mattino e sera
si confondono d'abbracci,
e noi siamo i punti di sutura
che chiudono l'estate e con spago fino
si aggrappano al momento: è qui, in questo
adesso di bandiera che scuote il tempo,
che ti verrò a cercare quando l'inverno
sarà una cappa bianca sbiadita, è qui
che resterò in attesa delle tue mani
per sentirle ancora mie dentro quest'abito
di corpo che mi sfila via e tu mi cuci addosso
vivo, un ricamo di mare, l’irrequieta frontiera
che sento fino in fondo mia solamente
nel nodo stretto del tuo sguardo.
Nera
Gli occhi in punto
in questo mezzo giorno
di precisa assenza,
ti guardo ripetuta in una foto
che rincorre la tua vita intera:
sempre nera la maschera
che indossi per ricordare
il lutto ‒ quando da bambina
hai mancato per un soffio l’appiglio
confortante dell’attesa, quel treno
spoglio, le mani che parlano
la tua stessa lingua nella forma
che il codice genetico detta
ai tuoi silenzi
ma io lo so che nonostante tutto
sei la stessa in ogni dove per
sempre quell’anima piccina
turchese e zucchero, nascosta
dentro un’armatura nera
in questa mezza notte bucata
al centro, il tempo che si inceppa
parallelo alla corsa decisa
delle tue parole, spalle al vento,
è il credito che tieni in pugno
nera impronta di un addio.
Prospettive
Il cielo ha una gobba di nuvole
in processione balene che danzano
allegre, ha un aereo di carta da zucchero
che vira in picchiata dentro un’acqua
turchese, un cigno di pietra che
mastica l’aria nell’accenno del becco,
una casa senza finestre vestita di gelo,
ma soprattutto il vizio mio identico
di cercare una forma, una qualsiasi
di assomigliarle un pochino
troppo difficile, forse, guardare all’azzurro
impalpabile senza una gabbia di occhi
domestici, senza un volto già noto che ammicchi,
senza prospettive plausibili – un appiglio –
per il volo di Icaro: l’informe è il buio
accecante oltre l’ultimo sprazzo di blu,
sfiorare l’immenso e perdersi il corpo,
il contorno dei sogni sfumato che resta
soltanto una scia del nostro giro di vite
e poi si richiude dietro di noi, come
una scheggia di vento.
Silvia (Giovanna) Rosa nasce nel 1976 a Torino. Laureata in Scienze dell'Educazione, ha frequentato il Corso di Storytelling della Scuola Holden di Torino (2008/2009). Organizza eventi letterari e mostre di arti visive e presiede l'Associazione Culturale ART 10100. Fa parte della redazione di Argo, cura per Words Social Forum la rubrica "Verso||Doppio||Senso" e per NiedernGasse la rubrica "L'asterisco e la Margherita", firmandosi con il nome di Margherita M.
Pubblicazioni:
2014: "Genealogia imperfetta", La Vita Felice, opera segnalata al Concorso Faraexcelsior 2014, menzione al Premio di poesia e prosa "Lorenzo Montano" XXIX edizione 2015.
2013: saggio di storia contemporanea "Italiane d'Argentina. Storia e memorie di un secolo d'emigrazione al femminile (1860-1960)", Ananke Edizioni, II ediz. 2014.
2012: "SoloMinuscolaScrittura", La vita Felice, opera segnalata al Concorso Faraexcelsior 2012, Premio Giuria al concorso "Cinque Terre - Golfo dei poeti Sirio Guerrieri" XXVI edizione, opera finalista alla XXVII edizione del Premio Lorenzo Montano, opera finalista con segnalazione di merito e Premio Speciale della Critica Giuria Scuole alla VI edizione del Premio Letterario Internazionale Città di Sassari.
2010: "Di sole voci", LietoColle Editore (II ediz. 2012), finalista con una menzione d'onore alla V edizione del Premio Letterario Internazionale Città di Sassari.
2010: racconti "Del suo essere un corpo", Montedit Edizioni, Collana Le schegge d’oro - i libri dei premi.
Alcuni dei suoi testi in versi e in prosa sono presenti in volumi antologici, fra gli altri: "Le donne pensano, le donne scrivono" Ananke Edizioni, 2008; "Pensieri d'inchiostro III", Perrone Editore 2008; "Rac-corti II", Perrone Editore 2009; "Corale per opera prima", LietoColle 2010; "Mosaici-Fragmenta", Edizioni Smasher 2011 e 2012; "Verba Agrestia", LietoColle 2011, "(S)frutta il segno" , La Vita Felice 2012, "Dicò Erotique", Lite Editions 2012, "Labyrinthi" vol. 4 Limina Mentis Editore 2013, "Stelle cadenti nel fiordo di Atlantide" Osteria del Tempo Ritrovato Editore 2013, "Come farfalle diventeremo immensità" , FaraEditore 2014, "Teorema del corpo - Donne scrivono l'eros" , FusibiliaLibri 2015, "Pasolini La diversità consapevole" MarcoSaya Edizioni 2015, "I semi di poesia in azione. Pace", SECOP Edizioni 2015, "Divergentemente", Matisklo 2015 e-book gratuito, "Novecento non più - verso il realismo terminale", La Vita Felice 2016, "Umana, troppo umana. Poesie per Marylin Monroe", Aragno Editore 2016, "La grande madre", Di Felice Edizioni 2016.
I suoi lavori sono apparsi anche in riviste, siti e blog letterari, fra cui: Specchio (de La Stampa), 003 e Oltre (allegato a "Lezione Seconda"), FemminArt, Historica-Il Foglio Letterario, La poesia e lo spirito, RivistaInutile, Musicaos, Rebstein, Poiein, Viadellebelledonne, Imperfetta Ellisse, Poetarum Silva, Filosofipercaso, Cartesensibili, Gliocchidiblimuda, Torno Giovedì, EstroVerso, Cartiglio d'ombra, FuoriAsse, UT Ediland Edizioni, WSF Centro Sociale dell'Arte, Illustrati, Versante Ripido, La presenza di Erato, Otra iglesia es imposible (traduzione in spagnolo del poeta Jorge Aulicino), Il divano Muccato's Blog, Perìgeion, Limina Mundi, Centro Cultural Tina Modotti, "Bibbia d'Asfalto: poesia urbana e autostradale" (numero 8, 2017).
Progetti/collaborazioni nel campo delle arti visive:
2013: "Cartoline dal luna park", Migranze E-edition (con immagini fotografiche di Gepe Cavallero).
2012: "Iridescenze", Migranze E-edition (con immagini fotografiche di Romina Dughero).
2011: "Alfabetomorso"- mostra collettiva di arti visive e poesia presso la galleria d'arte EnPleinAir di Pinerolo (To).
2011: "Corrispondenza (d)al limite [Fenomenologia di un inizio all'inverso]", Clepsydra Edizioni - con immagini fotografiche di Giusy Calia -, testo finalista alla XXV edizione del Premio Lorenzo Montano, sezione prosa inedita.
2011/2013: Progetto fotopoetico MeTe, di Fabio Trisorio e Silvia Rosa.
Traduzioni:
Progetto "Italia Argentina ida y vuelta. Incontri poetici", pubblicato a puntate sulla rivista internazionale di poesia Iris News, 2015 e su Versante Ripido, 2016. Il progetto è stato pubblicato in ebook nel 2017, a cura di Versante Ripido e La Recherche.
Curatele:
Festivart della follia
Medicamenta - lingua di donna e altre scritture
Contatti anomali
Si propaga ovunque, nella sua ricerca linguistica, la scrittura di Marilina Ciaco in “Verbosinapsi”, spalancando domande di senso: è una scrittura che genera nessi e connessioni o piuttosto che si muove libera in un dire lasciato fluire senza interruzioni? Che crea contatti e comunicazione o che prolifera incustodita? E che si muove in modo sinaptico o metastatico?
Il richiamo alle sinapsi nel titolo e nei testi ci pone di fronte ad una precisa indicazione dell’autrice che scrive di “vili scritture sinaptiche” e ancora: “come sempre / intern-arsi e tesi e ottusità di sinapsi”.
Il richiamo all’ottusità che, in semeiotica medica per quanto riguarda la risonanza di un suono, rivela condizioni anomali o patologiche, parrebbe confermare che di questo si tratti: di anomalie, di guasti, come precisa l’autrice: “sul guastarsi dei rami / e l'inerpicarsi di questo meno infinito / meno tutto menovita menadito / forme infibulate sul proliferante / inventario catastale di fibromi”.
Se il dire riflette la condizione sofferente di chi scrive, se ha perso drammaticamente la possibilità di parola, “nel grido che è stato / che scivola in balbuzie e non ha / conchiusione, è solo silenzio / di palpebre stremate e bocche”, allora è solo a partire da tentativi di lallazione, come il balbettio nell’apprendere a parlare, che si apre una qualche possibilità di parola e di senso, come leggiamo: “noi non siamo / ci siamo e ci risiamo / ridendo al dom-dom-domande / riposte male ma cosa / posti oggi? Nuovi posti / da radiografare sgrammaticare / ricodificare nella lingua che hai perso / che penetra le maglie / della ma ma ma la madre materia”.
Marilina Ciaco ci pone di fronte agli urti del vivere , “Sono tornata e non trovo / né trama né perduto / né fine né filo”, e agli indissolubili contrasti della condizione umana, “tutto è altrove io non sento / che l'urlo scuoiato di un'assenza”, ma la sua ricerca è chiaramente a favore della parola, anche nello sperimentare nuove forme di scrittura, poiché alla fine di tutto “c'è questa voglia che è quasi strana / di incominciare a parlare”, dove un nome può ostinarsi ad insistere “come masso sulle macerie” e la carta riuscire a sbocciare “in perle d'oltreoceano”.
Da “Verbosinapsi”
Vetro
Pioggia rigoccia puntella
l'esaurimento lento della sera
ronza ancora in questa finestra
che non dice, fiorisce e inficia
i grumi di cobalto dove la vita si disfa
contorta – morta come le carni
che hai assorbito ti sei fatta assorbire,
l'onta della superficie
mi ha mangiato il midollo
e questo è il maledire stradire stranire
che quando non voglio riluce
questa è la finestra
grande iperbolica
mefitica finestra asfittica
che quando non voglio si schiude
e spreme e infradicia e guasta:
la sera geme, la sera è marcia – io
sono il rigetto del mio seme inesistente.
Festa
Potresti essere solo questo
protettivo-incoativo dentro
e invece lumesco exardesco
ridicolmente, dal fondo del fuori
che è il gesto sordo che non mi appartiene –
filtro il contatto meccanico di due tessuti eterogenei,
la ferocia rieducata striscia cinge le sedute vuote
fende (non difende) i tuoi bulbi – onda onda stravuota
frastuono frammisto roboante risuono
delle vostre voci che amplessano
senza toccarsi.
Denoto un afflato adolescente (le precauzioni, le precognizioni)
e il cerimoniale eterosessuale dei corpi
che ballano, che esistono.
Dev'esserci un modo
la quadriglia è necessaria, in generale,
per usare i loro segni
per essere tu il segno
e sii più pratica, pratica, la pratica
e poi fruibile pubblicitaria biodegràdati
perché è sempre tempo,
procede in silenzio
l'asta dei tuoi organi
rispetteranno i protocolli
di un espianto riuscito:
senza slittamenti
un pezzo al giorno.
Marilina Ciaco nasce a Potenza il 23/01/1993. Vive l'infanzia e l'adolescenza a Muro Lucano (PZ), dove frequenta il Liceo Scientifico Enrico Fermi. Nel 2011 si trasferisce a Bologna per compiere gli studi universitari e, contestualmente, approda alla scrittura poetica.
Nel 2014 consegue la laurea triennale in Lettere Moderne (voto 110/110 e lode) con una tesi in Letteratura e civiltà greca intitolata “Soltanto il cieco sa la tenebra”: il mito edipico nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, con relazione del prof. Federico Condello. Nel 2017 consegue la laurea magistrale in Italianistica, culture letterarie europee e scienze linguistiche (voto 110/110 e lode) con una tesi in Poesia Italiana del Novecento, Trauma storico e sperimentalismo linguistico in Andrea Zanzotto, con relazione della prof. ssa Niva Lorenzini e correlazione del prof. Francesco Carbognin.
Attualmente vive a Bologna e continua la propria personale ricerca poetica. Collabora inoltre all'organizzazione di eventi culturali come il Festival Bologna in Lettere e alla realizzazione di un progetto documentaristico indipendente.
Come si torna a casa, dove su una porta è scritto il tuo nome e il cognome?
E se la porta è quella di un poeta?
Come si può (auto)ritrarre un poeta, partendo dal nome?
La strenua scomposizione del soggetto prevede un ricostituirsi nella filigrana della lingua.
Il testo ci racconta quanto ci si possa spingere in questa lingua per ritrovarsi,
per ritrovare la radice di sé, a strappi, con dolcezza, con dolore.
Da questi frammenti è possibile finalmente coniugare nome e azione, da parole che diventano ritmo e suono,
e che tra riduzioni e accrescimenti ci conducono, tramite una catena linguistica
che ricerca improvvisi e inaspettati accoppiamenti, in una zona ancora inesplorata.
Raffaele Marone propone un ultra acrostico, l’oltre di un’idea, il verso estremo.
Dove siamo, prima di tornare a casa, al nome, se siamo poeti?
Possiamo trovare una risposta grazie a questa poesia, al suo asimmetrico e ostinato andare
che non rappresenta un inciampo della lingua ma il suo continuo e inesauribile propagarsi.
Grazie a questa poesia, possiamo sentire la doglia colta nel momento finale della riproduzione:
la seconda vita dell’autore, una nascita attraverso la scrittura.
Qui ogni scavare in un ricco vocabolario conduce alla sofferta identificazione del poeta con il nome,
del vivente con la parola.
“raffaele marone. (auto)ritratto nel nome"
ramo
rane
rare
raro
re
rema
remare
remo
reo
a
aere
affama
affamare
affare
affarone
afro
al
ala
alma
ama
amare
amaro
amarone
are
fa
falene
fama
fame
fare
faro
e
elea
elmo
ere
ero
eroe
la
le
lea
lane
leone
lo
ma
mane
mare
me
o
ne
Nota dell’autore a “raffaele marone. (auto)ritratto nel nome"
L’esplorazione di un nome, tra le sue lettere. L’esplorazione del mio nome.
È cominciato come un gioco, poi come spesso accade giocando, la cosa si è fatta più seria.
Mi son messo a scoprire le parole che ci portiamo dentro, dentro il nostro “nome e cognome”, per andare oltre il parlare distratto.
Sono parole nascoste che pure sono dette, involontariamente, anzi forzosamente. Echi bui.
Ogni volta che scriviamo “nome e cognome”, scriviamo tante parole allo stesso tempo.
Ogni volta che qualcuno ci chiama, dice tante altre cose e magari chiama pure altre persone, allo stesso tempo.
Parole che sono nomi propri, sostantivi, aggettivi, verbi, interiezioni, popoli, ere geologiche, termini scientifici del mondo animale o vegetale.
Il nome si rivela una “scatola magica” piena di immagini, tutte da scoprire, basta aprire.
Tutto questo genera una sequenza di immagini, in apparenza sconnesse tra loro. La sequenza c’è, c’è un ritmo possibile come nella poesia.
“nome e cognome”, come poesia possibile.
Allora, se è poesia, ognuno, con un vocabolario a portata di mano, può scriversi la sua.
È un bene sapere che cosa si nasconde dentro il nostro “nome e cognome”, scavando dentro le parole che contiene,
avventurandosi nella scoperta di nessi e relazioni tra quelle parole che erano rimaste in ombra, e noi;
se l’identità è quel che si sa di sé.
Raffaele Marone (Napoli 1960) è architetto, ricercatore universitario.
Sue poesie sono state pubblicate su “Le Voci della Luna” e, in rete, sul blog “Blanc de ta nuque”.
Ha ricevuto riconoscimenti al Premio Lorenzo Montano.
Ha pubblicato libri, progetti e saggi di architettura.
Scrive il blog www.ilfattoquotidiano.it/blog/marone/
Michele Lamon con “Reperto” non ci racconta una storia, ma la nostra storia.
Lo fa per capitoli, che corrispondono al progressivo aumentare di una data popolazione,
che si accresce nel tempo, partendo da uno.
Il tono generale sembra quello di un narrato continuo, detto da una voce recitante che, potenza del brano,
possiamo sentire nel silenzio mentre lo leggiamo a mente, come se fosse il testo a parlarci,
come se questo fosse un implacabile specchio senza brame che ci racconta.
La poesia ha una superficie piana che via via si accresce nella struttura:
dai versi brevi dei primi capitoli, assecondata in tutto da un linguaggio tanto preciso quanto metamorfico,
si trasforma, passando a versi sempre più lunghi, fino a giungere alla prosa poetica finale.
Assistiamo a un crescendo, tanto che sembrano ineluttabili gli accadimenti:
più evolve la storia, e aumentano i capitoli, più si sprofonda.
Da uno a dieci miliardi, l’evoluzione è stata sicuramente lunga, fino ai prodromi di un esito già evidente:
“molti vulcani si erano spenti, molti ghiacci ritirati, il cielo si era abbassato”.
La storia è stata vinta dall’indifferenza che lascia dietro di sé solo macerie, memorie corrotte, volontà murate.
Da “Reperto”
Capitolo I
Al principio. Fu uno
e poiché altri non vi era
uno era tutto senza
bisogno di affermarlo
bisogno di saperlo. Senza verbo.
Capitolo II
Fu due. Così non fu più
tutto, perché era due ossia erano.
Nacquero confronto e distinzione
io sono, tu sei e io non sono tu,
tu sei io ma non sei me.
[...]
Capitolo ennesimo
Erano dieci miliardi, ogni io una polvere sotto il numero. Vi era chi si sentiva nel tutto,
chi si sentiva nulla e chi rigettava nel profondo di sé ogni sentire, rigettando poi anche
il profondo di sé. Questi ultimi, le cui bestie non avevano più custodi né gioghi,
possedettero il mondo. Si poté allora sapere quale sarebbe stata la fine della storia.
Capitolo ultimo
Al termine della storia vi sono rifiuti, carte intaccate e disperse, memorie corrotte,
volontà murate. Una figura si aggira, raccoglie, cerca il primo disegno. Sfiora braccia,
richiama sguardi, così che si aggiungano ai suoi. Un anomalo muoversi: passo irregolare,
soste insolite, traiettorie oblique. Ogni attività inclassificabile è facilmente classificabile
come disturbo, agevolmente interpretabile come non lecita.
Al termine qualcuno rimane uno, il più piccolo degli errori.
Michele Lamon è nato nel 1967 a Milano, vive a Torino. I suoi interessi principali sono la musica, che lo ha portato a svolgere attività radiofonica, a comporre radiodrammi, approntare colonne sonore per spettacoli di danza e teatrali, occuparsi di produzioni artistiche e tecniche di dischi, regie sonore, djing; e la letteratura: pubblicazioni sparse di poesie racconti e recensioni, collaborazioni a sceneggiature video e teatrali, un romanzo inedito finalista al Premio Calvino, una raccolta di poesie menzionata e una segnalata al Premio Lorenzo Montano, collaborazioni con la rivista L'Indice, pubblicazione di un libro di poesie per le edizioni Anterem/Cierre Grafica.
Roberto Fassina, con “Ippocrate”, attraverso paesaggi poetici decisamente affascinanti,
ci propone un modello di viaggio iniziatico.
In questo viaggio di isola in isola e di porto in porto nell’Egeo, dove realtà e mito si confondono,
ci conduce proprio dal mito verso la sua trasposizione nell’umano.
Tutto avviene a Kos. Qui finalmente si attua il passaggio da Asclepio a Ippocrate,
qui avviene la nascita della medicina che si libera delle credenze e diviene scienza.
Questa mutazione è ben resa dall’immagine di “una mano che scruta”
che diventa una mano che affonda nel corpo malato.
La stessa malattia non è più un castigo divino ma testimonia davvero l’inevitabile fragilità di un corpo.
Anche visivamente, sulla pagina, il testo di Fassina è diviso in due metà, così come la scrittura:
il tono pacato della prima parte “da Ermione vocato disponi / di radici l’impasto”
viene abbandonato per giungere, nella seconda, a dettagli patologici,
a tregende corporali, a “morbi e spurghi / purulente plaghe”,
nella cruda anatomia del dolore.
Ippocrate
Per l’amabile Kos
Omerica vela onda risali
In dote portando il verbo d’Asclepio
Arduo affrancamento dal mythos
D’isola in isola
Nettuno pregando ai marosi
Di porto in porto la mano che scruta
Empatica-mente
(Da Ermione vocato disponi
Di radici l’impasto
Di Clizia la figlia in torpore
La colica acquieti e lenisci)
Il passo della voce
Lenisce il tatto
Empirico sentire et per-cepire
In diagnosi et prognosi
La mano che affonda e dilaga
E scruta borborigmi e reticenze
Secondo le forze e il giudizio
Di sollievo Maestro
……………………………………………….
Indugiando sui bordi
del buio
Non più mali sacri o divini
Rapsodiche intuizioni
Sacerdotali fantasie,
Sed naturalibus causis
Di tregende e malattie
terzane febbri e quartane
morbi e spurghi
purulente plaghe
et foetidae,
catarrosi cancri e tussivi
mal della pietra colica
veruno sasso
mordente vescicale
melmosa bile nera
convulsivi stupori
mancamenti et lipotimie
flegmatici squilibri
melancolici umori
biliose discrasie
in corpore vili
(…mano sine magie)
Roberto Fassina è nato a Curtarolo (Padova) il 18/12/50. Dopo la maturità classica, conseguita nel 1968 presso il Collegio Salesiano Manfredini di Este, si è iscritto alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Padova, dove si è laureato nel 1975 e poi specializzato in Ginecologia nel 1979. Dal 1979 vive e lavora a Curtarolo come Medico di Famiglia.
Nel 1991 ha pubblicato “Nihilissimo Canto” (poesia) per i tipi delle Edizioni del Leone di Venezia. In quel periodo ha collaborato con poesie e racconti nella rivista milanese ‘Alla Bottega’.
Nel 1998 ha pubblicato il romanzo “Equazione Ultima” per i tipi delle Edizioni Amadeus di Treviso.
Nel 2003 ha pubblicato la silloge poetica “pesca sabèa” con la Casa Editrice ‘all’antico mercato saraceno’, di Treviso. Sue poesie sono presenti in varie antologie poetiche.
Suoi testi teatrali satirici, aventi per oggetto il mondo medico, sono stati rappresentati a Piove di Sacco e a Padova, nel 2005, nel 2006, nel 2007, nel 2012 e nel 2016.
Nel 2011 ha pubblicato la raccolta poetica “Tangheide – lapsus in fabula” con la Casa Editrice ‘all’antico mercato saraceno’, di Treviso.
Nel 2015 ha pubblicato il romanzo “Il pensiero verticale” per i tipi di Ibiskos Editrice Risolo.
Scrive saggi e note critiche nella pagina culturale del Bollettino dell’Ordine dei Medici di Padova.
È una densa prosa poetica, questa dal titolo “Una vita”.
Paola Parolin conosce bene come passi velocemente e fugacemente la nostra vicenda umana,
sa così bene la nostra caducità da anteporre a questa poesia un frammento di video,
il fermo-immagine di qualcosa che arde.
Un’ustione ci contraddistingue, sembra essere senza fine ma brucia per un tempo breve.
L’autrice sa quanto valga ogni momento del nostro vivere:
pur se in una via nel caos, pur se sempre più dominati dalla scienza,
come quando ci parla di una “esistenza genetica non partorita”.
In un coacervo di simultanei sentire, metafora del vivere attuale,
perfettamente resi dalla completa assenza di punteggiatura nel testo,
trovano spazio anche elementi che nel contesto possono sembrare rassicuranti:
una foto color seppia, un piccolo quadro, la grande cornice.
Ma è una breve parentesi, subito dopo si ritorna a quel “fondo inesausto” che non può essere placato.
Troppo breve è il tempo che resta, mentre noi non siamo fermi, ma giorno dopo giorno andiamo alla deriva,
nella corrente.
Una vita
si deve lasciare la mano si stacca dal cuore
si segue estraniati la via nel caos del
mattino inoltrato esistenza genetica non
partorita capace di scelte lontane radici
perdute nei giochi infantili fissate per
sempre in foto di seppia la grande cornice e
il piccolo quadro un soffio vitale di luce e di
acqua a placare il fondo inesausto in
strettissimo filo come un velo di morte un
sudario di sposa
Paola Parolin è nata a Verona. Ha partecipato ad alcuni laboratori poetici coordinati da Ida Travi negli anni 1999-2008. Ha pubblicato nel 2003 la raccolta di versi Interni Esterni Interni.
Dal 2006 al 2010 è stata più volte segnalata al Premio Lorenzo Montano. Nel 2007 ha pubblicato con altri due autori la raccolta Trittico della sera di carta, edita da Cierre Grafica. Ha inoltre dato alle stampe, nel 2011, il volume Parola corale, edito da Via Heràkleia.
Spesso ci accostiamo al tema “Cos’è la poesia” in formula dubitativa, chiedendoci “cos’è la poesia?”
Non è così per Paolo Ferrari che, di fronte all’enormità della questione, si pone in maniera
decisamente assertiva. Infatti intitola il suo testo creativo “La poesia è”.
Ci si poteva immaginare, date le premesse, una dissertazione teorica, un saggio.
In realtà il pensiero di Paolo Ferrari viene prodotto in versi.
Il pensiero sulla poesia diventa a sua volta poesia e ci conduce all’interno di un metatesto,
in un viaggio iniziatico ricco di sorprese.
Il piacere della lettura attraversa gli strati più oscuri e profondi del pensiero.
La densità del testo si propaga per 76 paragrafi: da viaggio iniziatico,
alla fine si trasforma in un messaggio lasciato nella bottiglia, in un testamento per la posterità.
“La poesia fa essere ciò che manca”, “La poesia dice ciò che alla realtà manca”, scrive Paolo Ferrari.
In contraltare, quello che approfondisce e arricchisce il testo sono i frammenti in cui la poesia
si libra e prende per un momento il sopravvento sul pensiero, citando ad esempio un paese di mare,
un partire da zero, un ritmo quasi celato, un’assenza che conduce lontano.
Del tutto poetiche sono le libertà stilistiche che l’autore inserisce nell’opera,
accorpando le parole o modificandone i tratti, talvolta addirittura il corpo,
per giungere a una parola ri-creata.
Senza mai naturalmente dimenticare che la poesia, come scrive Ferrari,
“è la festa della parola, il disperarsi della parola”.
Da "La poesia è"
1 Poesia è…
ciò-che-fa indipendentemente dalla cosa che il mondo già conosce
e quotidianamente avvalora
2 Poesia è…
prima che la cosa abbia luogo ovvero
che la nascita sia annunciata, fa essere ciò-che-manca, senza che
sia evidente a-ogni-costo
3 Poesia è…
il mancar della cosa: la parola
che dice (la cosa), senza che necessariamente sia
manifesto l’oggetto di cui si parla
4 Poesia è…
la festa della parola, il disperarsi
della parola, percorso pensoso e accidentato
perché qualcosa sia – e resti – sul filo del
niente
12 Poesia è…
la parola un poco ha gridato:
si sente piangere dietro a una porta:
è lei che prova un’
uscita ma che sia di verasalvezza
19 Poesia è…
“Non c’è più niente da dire (in-poesia) dopo
Auschwitz.” C’è da ribadire unicamente
che nulla si può dire (poeticamente) del mondo
se non della sua scomparsa
23 Poesia è…
poesia è piacere del ritmo e della forma del verso
che subito abbandona per ritrovarsi in un
altrove che ancora nonsi conosce
36 Poesia è…
poesia è il vuoto della materia
che porta in sé – ed accetta – quel suono udibile
all’orecchio assoluto e speciale:
sa distinguere il nientechegenera
dalniente cheannichilisce
41 Poesia è…
poesia è assenzadiparola
che si rifà una vita dove all’apparenza
muore
70 Poesia è…
poesia è (un) nulla: un soffio che va via.
Per sempre si perde nel suo mancare.
Da qui un giorno è da-venire
Costruendo luce e oscurità dove l’opera
Tocca il venirmeno
di spaziotempo da cui
ungiorno è nata.
Aurelia Delfino ha insegnato filosofia all’Università di Milano-Bicocca e all’Istituto Voltaire di Monza.
È ballerina e insegnante di danza creativa.
Il suo libro si chiama Danze e raccoglie testi che vanno dal 1993 al 2016. È edito da Mimesis.
Che cosa impariamo da Aurelia Delfino e dal suo libro?
Impariamo che tra chi scrive e chi danza ha luogo un moto di avvicinamento interminabile.
Quando corpo e parola si uniscono, danno vita all’esistenza umana. All’abitare umano.
E ciò non accade in cielo, ma sulla terra.
E ciò non accade in un giardino edenico, ma nel cantiere dei corpi.
Ecco cosa impariamo da Aurelia Delfino e dalla sua poesia.
Impariamo a pensare la vita come unità.
Unità di spazio letterario e respiro.
Da "Danze"
***
Mi fanno senza dubbio male i polmoni
o i bronchi, i bronchioli e gli alvei interstiziali
che saldano l’unità al portento
di una doppia respirazione
monotona e montante
Così quanto può intendere
la meraviglia della macchina
io aspiro, dall’eterno ciclo dell’avvenire
quel che è il suo semplice anticiparsi
***
E dominante
e sgorgata
di mezzo a un silenzio più grave
chiamare il nome perché giunga
corpo a corpo a sgolarsi
La presenza, l’assiduo, il dolore
non è sufficiente
si dovrebbe cominciare
con una trasfusione di peccati
***
Come cade
se non si spegne
il nuovo governo delle cose
arruolati pronomi e preposizioni
semplici
il tratto inombra dalla punta in giù
si sente fare giorno
***
Precessione
Quando al cadere degli eventi
equinozi e solsitizi sommati in un sol giorno
accade d’incontrare qualcuno
all’albore di poche parole
ritransita e volge l’inizio
della stessa stagione
Aurelia Delfino ha insegnato filosofia all’Università di Milano- Bicocca e all’Istituto Voltaire di Monza, è ballerina e insegnante di danza creativa, giornalista e mamma. Ha collaborato per anni con la casa editrice Mimesis. Tra le sue pubblicazioni: Il filosofo clandestino. Spinoza nei manoscritti proibiti del Settecento francese (Ghibli 2009), L’anima e la danza di Paul Valéry (a cura di, Mimesis 2014), Lettera al padre di Karl Marx (a cura di, Mimesis 2015).
Gabriella Cinti è poeta e saggista.
Si occupa di filosofia del linguaggio, di antropologia, di archeologia delle lingue europee.
Il suo ultimo libro ha per titolo Madre del respiro ed è edito da Moretti&Vitali.
Tra queste pagine è evidente la volontà di Gabriella Cinti di affidarsi a un immaginario ancora memore del giardino edenico.
Qui, Gabriella Cinti aderisce all’accorante richiamo della parola aurorale, quella parola che ancora non subisce sopraffazioni da parte della nuda realtà delle cose.
Qui, vive la magia rivelatrice di ciò che è realmente ed essenzialmente iniziale.
Vive l’infanzia che l’essere umano continua ad avere dentro di sé.
Aprendo uno scenario che lascia trapelare l’occulta presenza del sacro.
Diciamolo chiaramente: la poesia in Madre del respiro è intesa come forza della vita. Come spazio che le macchine non possono soffocare.
Da "Madre del respiro"
***
Sonno d’acqua
Sonno d’acqua – dentro il tempio
sommerso nel segreto –
e le dita schiuse riposano la memoria.
Con altro sguardo scorgo
la danza sovrumana degli atomi,
il gesto cosmico all’alba del tempo,
il cristallo dell’istante.
Sto addossata alle pareti dell’Inizio,
combusta frontiera di nascenza
tra acqua e fuoco.
Aboliti i contorni.
Fantasia azzurra irida
il colore del varco notturno
nel saturnale confuso
propiziante il tutto vita.
Tra barbagli di agnizione
sei giunto, dall’alto del Gioco,
a leggermi le sfere dell’infinito.
***
Il canto dell’ombra
le parole a balzi stamattina,
assembrato esercito mite
a seguire lo slancio della luce.
Mi avvieni nella parola
e ti costruisco un corpo
di sillabe snodate.
Le tue giunture danzano nei miei suoni
e la notte riposi in un silenzio
di pacata armonia.
Cerco scampo dal rimbalzo nel vuoto
– il rischio della voce specchiata nel nulla –
e il tuo fantasma d’amore al mio fianco
concede la sua sola parola,
il volo nel vento a sfiorarmi le ciglia.
Il compasso d’acqua nella fontana
apre l’onda di te,
nata intorno al centro dell’inizio.
Da allora hai sempre mirato
al cuore del segno,
prima di nostra espansa diaspora.
Sei ormai mia lente per intendere
e parola delle tue parole,
pronuncio il tuo vuoto
e lo scaldo di nomi.
Così ti sottraggo al buio muto
che rapina la vita, tua prigione
di crisalide senza divenire.
Chissà se ti giunge il grido mio
quando tempesto lo spazio
interrogando i confini?
Solo nel vento inabissato
riuscirò a decifrare le sillabe perdute,
i raggi del tuo dire strappati alla notte,
per intonare con te
il canto alto dell’ombra.
Gabriella Cinti, nata a Jesi (An), laureata con il massimo dei voti in Lettere moderne presso l’Università di Studi di Genova. Da diversi anni si occupa di poesia, di letetratura, di filosofia del linguaggio, di antropologia, di archeologia delle lingue europee, di etimologia e in particolare di poesia greca antica- di cui è voce interpretante all’interno di varie manifestazioni musicali o performances teatrali.
Ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Italianistica all’Università di Roma 2 Tor Vergata.
Tra le sue opere pubblicate:
La raccolta di poesie Suite per la parola Péquod Ancona 2008, (vincitrice del Premio Nabokov per la poesia 2008, terzo premio al Concorso letterario “Albero Andronico” (Roma), 2009 e menzione al Premio “L. Montano”). Euridice è Orfeo, Achille e la Tartaruga, Torino, 2016 (presentata in un evento al Salone del Libro di Torino, 2016), con recensione sul Corriere della Sera, inserto LA LETTURA, 31 dicembre 2016 e segnalata da Claudio Magris. Altra recensione sulla rivista letteraria “IL SEGNALE”, Milano, febbraio 2017. Premio della Giuria al Concorso letterario Cinque Terre- Golfo dei Poeti, ediz. 2017.
Il saggio: Il canto di Saffo-Musicalità e pensiero mitico nei lirici greci, Moretti e Vitali, Bergamo 2010 (prefazione del grande grecista e traduttore Angelo Tonelli). (Premio speciale Città di Cattolica 2012, secondo premio al Concorso letterario Cinque Terre-Golfo dei Poeti 2013 per la saggistica), recensito nell’aprile 2010 da Franco Manzoni, nelle pagine Cultura del Corriere della Sera e da Gianluca Bocchinfuso ne Il Segnale, 94, 2013.
Tra gli inediti, la poesia Euridice a Orfeo ha vinto il premio della Stampa, al Concorso di poesia “Città di Acqui Terme” nel 2012, e un’altra poesia, Viaggio verso l’uno, ha vinto il secondo premio dell’altra Giuria nel medesimo Concorso. La stessa poesia ha ottenuto il Primo premio al Concorso Rodolfo Valentino Sogni ad occhi aperti, edizione 2013.
Per l’autunno 2017 è prevista l’uscita del saggio Dioniso, dio del labirinto, rielaborazione dalla sua tesi di Dottorato.
Autrice anche di articoli saggistici per riviste specializzate cartacee e on line (fra queste ricordiamo Mosaico edita a Rio de Janeiro dalle Università brasiliane, 2014), ha ottenuto con i suoi lavori numerosi premi e riconoscimenti.
Zara Finzi ha studiato Filosofia Estetica e si è laureata con la guida di Luciano Anceschi.
È docente di materie letterarie negli Istituti superiori.
Escluso il ritorno è la sua ottava raccolta poetica. Una prova di grande maturità.
In questa opera, Zara Finzi ci parla delle cose che sono state e non saranno più.
Ma – attenzione – senza mai separarle dalle cose che non sono ancora e sono destinate ad apparire.
È così che la malinconia si unisce alla speranza.
È così che la nostalgia si sposa con l’attesa.
Non dobbiamo diventare prigionieri del tempo cronologico, del tempo della clessidra.
Dobbiamo al contrario affidarci al tempo interiore, quello che scorre in ciascuno di noi.
Questo impone Zara Finzi.
Dobbiamo riappropriarci del tempo e dare inizio a una temporalità poetica, abbandonarci al suo potere creativo.
Affidarci a un eterno presente che non prevede vecchiaia.
Dalla sezione "Escluso il ritorno"
Frontiera
dove nessuno dice
“patria”, dove
non è più prima
e non ancora, se
sarà, futuro
dove la parola
che la predica
indefinitamente ne
ripete il limite estremo
***
è però il tempo
delle apparizioni minime
e massime. così
tutto si tiene tutto
ha un fascino abbagliante.
se vedi
nella musica il “si”
contiene e supera
quel “no” che pure
la pervade
Dalla sezione "Esercizio di memoria"
***
si espande e accelera
il ricordo come l’universo.
si apre a spirale dove è sempre più
facile cadere
***
uscire dal contesto – non sapere di cosa parlano –
non sapere perché sei lì – attimo dopo la preaneste-
sia – domanda sulla presenza – estraniamento –
troppo sfumati i contorni – mancanza di identità –
esonero dal vivere – da qualche parte – senza im-
portanza – colori stanchi – nessuna risposta – al-
trove – oltremodo – oltremare – ancora vita
Dalla sezione "Davanti a noi"
***
il meno e il più, la radice di
due e il due, un palloncino destinato
presto a fare pum.
non è quello che perdi ma quello che
di te è perso con lui
Zara Finzi, insegnante, è nata a Mantova e vive a Bologna.
Oltre a due plaquette con Pulcinoelefante, ha pubblicato Gemente seflente (con introduzione di Ezio Raimondi, 2001), Il trimestre mancante (2005), Compensazioni (2011) e, con l’editore Manni, La porta della notte (2008) e Per gentile concessione (2012). Nel 2014 è uscito il romanzo Verso il giardino, edito da CFR.
Claudia Zironi, poeta, è laureata in Storia orientale e vive a Bologna.
Il libro per il quale è stata segnalata al Montano – a questa trentunesima edizione – è edito da Marco Saya e ha per titolo:
fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni
L’invito che Claudia Zironi ci rivolge è questo:
lasciare il mondo ingannevole delle illusioni – costituito dalle figure evocate dal titolo – e abbracciare la propria essenza.
Ovvero: abbracciare ciò che fa di un essere umano un essere umano vero.
Il nostro mondo è un mondo illusorio e il nostro compito è proprio quello di liberarci dalle illusioni e dalle loro ingannevoli apparenze.
E ridiscendere nelle viscere della terra.
Tutto ciò che noi conosciamo giorno per giorno – alla luce abbagliante del giorno – è il già-disvelato. È il non-vero.
Il vero – registra Claudia Zironi – si trova là dove persiste oscurità.
Là, dove le tenebre sono più fitte, dove solo la parola poetica può dire qualcosa di sensato.
Dalla sezione I, Il fantasma
nemmeno un nome ho perduto
di quanti sono andati
li sussurro ogni notte per te
che non li hai conosciuti
e tu li vedi intorno
stanno tutti lì
in piedi, guardandoti curiosi
di come io possa
chiamarti un segreto
Dalla sezione II, Fantasmi: la poesia
non senti il profumo della carta
nuova, della musica, del vetro?
ti scaglio contro una ribelle foglia
rossa
ti chiamo tutta la poesia del mondo
Dalla sezione III, Fantasmi, l’amante
almeno l’essere alberi, almeno
mancare di colore, risplendere di luglio
avvinghiati nella terra come forme
giovani d’argilla, riconoscersi nel vero
profondo accordo interno delle fronde.
almeno uno stormire unisono di corpi
duri e dolci, protesi al vento, almeno
una vegetale essenza, una lunga vite
di agili colline.
Dalla sezione IV, Lo spettro
padri nostri che state in terra
non vi perdoneremo il seme
non avremo compassione
che di noi stessi, per gli specchi
che a vostra immagine
avete generato. dalla terra
apprenderemo un abbraccio
quando dei vermi sapremo
la regola dell’esistenza.
dateci oggi un gesto insano
a chi è terra nel silenzio
mentre tutto ride, intorno.
Claudia Zironi è nata a Bologna, dove vive, il 26 marzo 1964. E’ laureata all’Universita’ di Bologna in Storia Orientale, ha conseguito un Master in gestione d’impresa. Ha pubblicato il primo libro di poesie “Il tempo dell’esistenza” con Marco Saya Edizioni nel novembre 2012. Paolo Polvani ha fornito la prefazione. Il secondo "Eros e polis - di quella volta che sono stata Dio nella mia pancia", illustrato da Alberto Cini, edito con Terra d'ulivi Ed. ha visto la luce nel luglio del 2014. La prefazione è di Daniele Barbieri e la postfazione di Giorgio Linguaglossa. “Eros and polis” è uscito nel 2016 anche negli USA con le edizioni Xenos Books / Chelsea in traduzione di Emanuel Di Pasquale, prefazione di John Taylor, quarta di copertina di Alfredo De Palchi.
Nel 2016 con Marco Saya Edizioni è stato pubblicato il terzo libro: “Fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni” con prefazione di Francesca Del Moro e postfazione di Vladimir D’Amora.
Sue poesie o notizie sono apparse su riviste, siti internet e antologie. Con editi e inediti dal 2013 al 2016 si è posizionata in finale o menzionata / segnalata in vari concorsi di poesia.
Nel 2014 ha fatto parte dello staff organizzativo di Bologna in lettere. Dal 2013 al 2016 è stata artisticamente legata al Gruppo 77 di Bologna con la direzione di Alessandro Dall’Olio. Collabora con varie associazioni rivolte alla diffusione culturale e al sociale come Civico32 e Le voci della luna. E’ fondatrice, dal 2012 attiva nella direzione e nella redazione insieme a Paolo Polvani ed Emanuela Rambaldi, della fanzine on-line rivolta ai lettori Versante Ripido per la diffusione della poesia www.versanteripido.it
Cap 5
Fruscio
Il Cavaliere è quasi saggio. Sui propri pensieri. Sulla propria volontà. Stranamente.
E la luna è tante lune, ma ha voluto una sola avventura, una a luce piena.
Ed il Cavaliere di nuovo inventa mille storie. Per ascendere direttamente una enorme strada nello splendore!
"Potendo mai uno splendore raccogliere terre, e silenzi, e rumori, vastità, e piccolezze?"
Il Cavaliere come sempre è seduto di fronte alla notte; ed ancora, è come se andasse contro i mulini a vento, e le chimere. Ignorando le colonne di Ercole, e le maree, e le avversità, e le astuzie; ignorando ciò che non sia un salire di un amore di erbe, od il venire di immensità.
"La stessa cosa, se mai risolve?"
Il Cavaliere è incantato. Ha pensato. E mai un singolo momento si è fermato e si è concretato. E mai, in una veggenza, è stato certo di un assoluto.
Vive ora il Cavaliere in un amore ... di una luna, forse per sempre sconosciuta.
Il Cavaliere.
La luna ... Una entità, due entità, molte illusioni, innumerevoli speranze.
li Cavaliere sta attorno alle idee, quasi divine. In silenzio. E la luna va percorsi di orbite, belle e stregate. La luna cercando ciò che mai si lasci avvicinare, rimanendo così vezzosa in modo
impareggiabile!
"Andando sempre poi, ciò che va, oltre i propri sogni? "
Va la luce; in un fruscio.
Si attarda l'occulto, in ciò che non si appalesa.
E tuttavia mai la luce è certa di vincere ... oltre i colori, le tenebre .... il succedersi. A sapere di essere comunque a lato, in un cerchio, a sapere di non essere il fulcro .... non la magia.
***
Nella prosa di Attilio Marocchi sono inseriti, in modo esplicito o sottinteso, tutti i canoni
della narrazione epica cavalleresca.
C’è il Cavaliere con la sua dirittura morale, il suo rispettoso senso estetico, le grandi imprese
e le nobili gesta del suo passato, c’è infine l’amore cortese, con i suoi simbolismi e con i suoi
corollari di irraggiungibilità e incompiutezza.
Il Cavaliere è vecchio e stanco, vicino alla fine. Si muove in un paesaggio vagamente
naturale, percepito in modo quasi onirico, descritto a sprazzi incompleti o per allusione. Si
presume che il Cavaliere lo percorra lentamente, quasi in trance, costantemente rivolto
all’oggetto del suo desiderio, alla luna, sempre incantato e abbagliato.
Alla luna si rivolge con i suoi sentimenti, le sue fantasticherie, le sue storie e i suoi rimpianti,
a lei palesa i suoi paesaggi interiori e i suoi desideri, a lei pone, insistentemente, le sue
domande, a volte futili, a volte esistenziali, più spesso funzionali ad esplicite forme di
corteggiamento letterario.
La luna, pure sempre rivolta al Cavaliere, è nel suo cielo infinitamente distante. Anche lei si
dichiara, si promette, anche lei, parallelamente pone domande. Ma dall’alto della sua luce e
della sua immortalità.
Le risposte, per entrambi, non arrivano mai, negate dall’abissale differenza di nascita, dalla
distanza di prospettive tra il Cavaliere morente e la luna eterna. Così nessun discorso finisce
veramente, nessun cerchio si chiude, la storia continua.
“…e maschera è ciò che dà la visuale sul mondo, su sè stessi, il proprio occhio profondo”.
Ettore Fobo definisce la maschera come il punto, ma soprattutto come atto,
in parte volontario, di congiunzione fra il sé e l’altro, fra il sé e il mondo.
Nella sua parte volontaria, la maschera equilibra il bisogno di riconoscersi in strutture razionali,
complete e moralmente accettabili con la sua tendenza a riconoscere e normalizzare il caos, il disordine,
la mancanza di un centro che caratterizza sia l’espressione concitata del proprio essere individuale,
sia la valanga dei segnali provenienti dal mondo.
Qui l’autore porta alla luce la doppia vita della maschera, che interviene deformando in modo non lineare,
in misura variabile, con esiti incontrollabili, sia l’espressione del sé verso l‘esterno, sia tutta la percezione dell’altro da sé.
Parallelamente il testo si piega, si contrae, si frattura e si ricompone, seguendo le tracce di questa deformazione.
Fobo utilizza una lingua di silenzi e improvvise e quasi ridondanti accelerazioni, dove convivono brevi atti dal respiro poetico,
narrazioni stupefatte di eccessi percettivi, spunti filosofici e impietose fotografie di qualche dimesso brano di realtà.
Così la maschera con le sue visuali/visioni diventa punto d’osservazione privilegiato, naturalmente autonomo.
Fetus la maschera
I
In fondo è sempre una questione di codice, laddove per codice io intendo la maschera e maschera è ciò che dà la visuale sul mondo, su sé stessi, il proprio occhio profondo. Ho detto visuale, ma avrei dovuto scrivere visione. Come il poeta di haiku che si sogna farfalla, e dice:
“Ma sempre incombe sulle nostre farfalle filo spinato elettrificato.”
E
“Ho visto una rondine dibattersi fra i rovi straziata, nell’indifferenza cieca della strada.”
II
Questa è realtà, la struttura delle cose, noi come cani di paglia gettati nel fuoco, alla fine di una cerimonia in cui ci sentivamo sacri.
È la dispersione il segreto della struttura, una struttura esiste per disperdersi, vale a dire: tutto ciò che è cristallizzato si rompe. Il codice no, il codice-maschera è già un’interazione fra sé e l’altro.
Ma quando dico struttura, dico bramosia dell’unità, quando dico maschera, dico che la miriade degli esseri è una mia sintesi ipotetica, amo il caos in ogni sua non forma. Non possono vietarmi di essere anche il negativo di me stesso.
Io, l’altro ... la maschera è il punto di congiunzione, tutte le galassie occhieggiano con la loro meravigliosa mancanza d’unità, di centro.
Come il poeta beat che disperde il suo fiato nel vento, che urla su tutti i tetti: “Catastrofica è la notte ma io grido la mia felicità conto un cielo divino troppo sprofondato e m’inchino al ghigno strafottente del sassofono”. Ha indossato la maschera del cherubino angelico, perché le sue voglie erano troppo demoniache: dicono che così le abbia placate.
III
Tutta la carne sigillata in un’epopea di facce pitturate, danze dissennate per via dell’oppio,”voglio vomitare“ gridato alla mattina in faccia alla metropolitana ”Benvenuti in Patologia” e poi pensare che tutto sommato sottoterra sia proprio da formichine demoniache. Si rimanda la realtà a data da destinarsi, ma questo non è un sogno, sognare è da stupidi, questa è la nostra primitiva destrutturazione, articolata in paesaggio interiore in cui specchiarsi. È l’eco della parola oblio, che tu cerchi? Per indossare facce più definitive, immateriali, come tutto ciò che è stato Feto.
Privo di volto, privo di essere, senza sostanza, fuggevole e fuori dal tempo, in una parola, eterno.
Ecco l’ultima maschera, l’atman, il sé atomico, il multi verso e l’anello degli anelli. L’innocenza del silenzio e del divenire. Domani potrebbe essere già il sogno di un’altra maschera, indossare l’altro, il dio, l’alieno, il lontanissimo dentro lo stellato.
Ma poi torna la realtà, con il suo grugno di Arimane, con la sua strutturazione sociale, gabbia della Verità, volto nudo al sole senza amore. Allora fingo di essere un serpente per sgusciare oltre tutte le sue classificazioni. È come non fossi nato, un’ipotesi di materia pulsante soltanto e allora anche la morte è una finzione.
Io sono qui, se perdessi le maschere, questa nozione mi ucciderebbe, ciò che ho creato qualcuno lo chiama me stesso. Io non posso che vedermi traslato, nell’antichità dello specchio.
Ettore Fobo è nato a Milano nel 1976. Ha pubblicato tre libri di poesia con Kipple Officina Libraria: “La Maya dei notturni “(2006), “Sotto una luna in polvere” (2010), “Dia rio di Casoli” (2015). Alcune sue poesie sono apparse in diverse ant ologie fra le quali “SuperNeX T” (Kipple Officina Lib raria, 2011). Dal 2008 gestisce un blog di letteratura, “Strani giorni “(www.ettorefobo.it). Collabora con la rivista multilingue “Orizont literar co ntemporan” e con il portale di critica letteraria e dello spettacolo “Lankenauta”. Una sua silloge, “Musiche per l’oblio”, è stata tradotta in romeno, in francese e in inglese.
Per ogni informazione sull’attività di Massimo Girelli: www.massimogirelli.it