“… e sparire. Ha parole il tempo, come l’amore” (P. Eluard)
La terza e ultima parte del nuovo libro di Maria Pia Quintavalla, Album feriale, Archinto, 2005, ha come interlocutore un’anima che si protende a un volontario colloquio “per cenni e suoni” con altra anima. I “legami del mondo” sono accantonati mentre appaiono l’immagine e l’immaginazione che rendono “più viva dei viventi” la madre defunta. Ma il “rumore dei vivi” minaccia l’interruzione dell’incanto che vede la madre-aria farsi il luogo stesso in cui la figlia la accoglie; e sono rumore “spemi e rimorsi”, “gesti che mai avrebbero cessato di comandare sui cuori”. E’ invece fatto di silenzio il conversare delle due essenze che si toccano “col pensiero, e desiderio tutto, a lasciare sprigionare gli incontri che sarebbero fluiti.”
Colpisce, alla fine dell’opera, l’uso di questo verbo, fluire, così indissolubilmente legato all’incipit del libro dove, a fluire come il fiume che descrivono, sono i versi stessi. Certamente il grande fiume al quale si riferisce Maria Pia Quintavalla è il Po’, chiaramente un simbolo, come annota Franco Loi nella Prefazione: della vita che scorre, del sorgere di uno spirito che può farsi poesia. Dunque fluisce un fiume maschile al punto da essere “grande padre”, e fluiscono gli incontri con l’anima della madre.
Purgatoriale è l’ambientazione dichiarata a contatto con la madre. Il medesimo aggettivo non potrebbe essere usato per il fiume padre, che non sfugge, non deve essere fermato, non ha varco da superare. Il contatto con lui, a considerarlo presenza ordinaria della realtà, sarebbe concreto. Eppure del Purgatorio anche questo fiume ha le caratteristiche: “prepari / e r i p a r i / parole colpe, opere e omissioni”.
Del fiume non si coglie infatti l’oggettività, ma la sostanza nascosta. Alla poetessa occorre un gesto per appropriarsene: il sentire “l’aria fine che fa libero / il cuore”; così come un gesto, un fare qualcosa: “Cosa sarebbe accaduto di lì a poco, se non avessi fatto qualcosa come l’antico prenderti per mano, un afferrarti al volo come un tempo”, è necessario per non dissolvere se stessa e la madre.
E’ certo individualistica, privata, la dimensione di Album feriale, uno scandaglio del sé, direbbe Saba. Così, tra il fiume padre e l’aria madre, si ha lo svolgimento di una narrazione che ha per oggetto l’anima stessa, i suoi conflitti interiori, i colpi che subisce nel confronto con la realtà: il prendere ad esempio atto di non potere parlare, non potere chiedere testimonianza, alla bambina della foto, perché “io ‹‹sono quella bambina››”.
Senso e salvezza alla vita sono dati dalla scrittura. Vengono in mente i versi famosi di Fortini, in “Traducendo Brecht”: “La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”; “Se Dio mi ama io scrivo e se non scrivo muoio, peggio beccheggio” afferma la poetessa, quasi in tono da confessione.
E dalla sua scrittura traspaiono alcune sue letture. Gozzano de La via del rifugio: “bianca la sella / bianca la donzella” corrisponde a “Bianche calzette bianche” di pag. 47; ma da Gozzano Maria Pia Quintavalla ha derivato soprattutto il senso della grazia delle bambine sorelle, così come, probabilmente, anche il tema dell’ineluttabilità della morte. Scrive Gozzano: la morte “E’ una Signora vestita di nulla e che non ha forma. / Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.” Ma a livello tematico non vi è analogia. Se la cartolina, se “ciò che è stato e non sarà più mai” all’uno servono per non partecipare alla vita, l’album della seconda restituisce, quando è possibile, la vita: “a semicerchio cantano un refrain in sordina / che dice ben tornata notte, / e buongiorno, piccolina.” Una vita che, è nel libro di fondamentale importanza, è più volte definita “futura”.
“Intanto cresce l’erba piano / intorno a noi” sono le parole che, più degli elementi esplicitamente dichiarati, fanno pensare a Pascoli, a quell’immagine dell’erba che cresce sopra le fosse, ne “Il gelsomino notturno” o a quando in “Non gridate più” scrive: “Non fanno più rumore / Del crescere dell’erba, / Lieta dove non passa l’uomo”.
Oltre a “futura” e a “cammino” altri ancora sono i termini ricorrenti. Certo ognuno ha una complessa significanza. Si vuole comunque sottolineare la ricorrenza della parola “sparita”, sicuramente di medievale rimembranza che “cozza” con termini come “tegola”.
Meriterebbe anche attenzione la scala dei colori: tranne una volta il rosso, le tinte sono tutte pastello: grigio, turchino e rosa. Insomma i giusti toni per un …album feriale.
Un libro complesso e riuscito, questo Album feriale in cui oltre al tema, tanto conta il livello fonetico. La trama dei suoni, –si prenda la prima lirica-, la loro orchestrazione, il loro suggestivo disporsi, si ha mediante le allitterazioni (prepari, ripari, parole …; parole, colpe, lieto, zampilli…; festeggi, fianco, fiume, affondi…), le rime (fiume-spume-brume-lume-fiume), le ripetizioni.
Piace anche l’uso del quinario, primo emistichio di tanti endecasillabi (Oh grande fiume; parole colpe; parole fiume; oh fiume lieto; io qui seduta; il cuore, e le sue; pupille lume; di notte affondi) che si alterna a un solo settenario (che zampilli e festeggi), mentre due versi (l’aria fine che fa libero; la tua seta come mano) giocano con il doppio quaternario.
Il tutto a dimostrare come davvero Maria Pia Quintavalla sia riuscita nell’intento di fare fluire… un fiume, un colloquio, un ricordo, un cammino, un futuro, un giardino…
…vi sia infatti “un bel giardino” oltre il “mistico morire” , sia pur quello di una piantina.
Il finale di un libro che si avvale di una citazione di Gianni Celati non lo si può infatti presupporre che luminoso e lieto. Di Celati si ricorda infatti, in Narratori delle pianure, il personaggio del farmacista ormai vecchio e dimentico persino del cibo che, non tollerando le conclusioni tragiche, si dedicò “a riscrivere il finale d’un centinaio di libri”.
Norma Stramucci
a cura di Stefano Lanuzza, Giubbe Rosse, Firenze, 2005, pp. 64, s.i.p.
Si tratta di una lunga, esauriente intervista (meglio, di una serie di interviste) che Stefano Lanuzza “porge”a Massimo Mori, poeta performativo, “da oltre un trentennio sperimentatore solista della poesia visiva e fonetica”, “cultore della dialettica fra scienza e arte, laico evocatore dei creativi demoni dell’analogia” (come scrive Lanuzza); dagli anni ’80 direttore artistico degli “Incontri letterari” presso le fiorentine, storiche “Giubbe Rosse”; ideatore e curatore (negli anni Ottanta), a Firenze, del circuito di poesia “Ottovolante”, “felice connubio tra associazionismo culturale, movimento della poesia e una diffusa creatività” (ancora Lanuzza). Né si dimentichi la pratica di esperto conoscitore e maestro di T’ai Chi Ch’uan. Un profilo, dunque, intenso, ottimamente delineato nelle proprie specificità, questo che Lanuzza traccia ed espone.
Ma è poi soprattutto all’universo della poesia “totale”, al rapporto tra scrittura e visualità, alla “poesia in azione”, all’arte dell’improvvisazione che il libro guarda, interrogandosi e proponendo al lettore un affresco di rimandi, richiami, stimoli critico/teorici, etiche sollecitazioni, dichiarazioni di poetica “totale” (non totalizzante): tutto ciò per ben definire e prospettare a chi legge l’ambito delle ricerche in cui Massimo Mori si muove ed opera, a partire dall’ esperienza futurista che ne è come l’incunabolo, la sorgente.
Questa “voce a + Voci”, questo “training corporale” (come Mori stesso definisce il proprio “fare”), questo esprimersi “ ‘all’incrocio’ tra paradigmi culturali, saperi sociali e relazioni artistiche multiple” (così ancora Mori) hanno prodotto negli anni opere ed “azioni” come il poema concreto CODEX (del 1989), la performance “Combattimento con l’ombra” (del 1990), il”poema” STONEFAX (definito “pietra-poema-serena”, del 1993); ancora “Yin – Yang. Tavolino e sedia per l’ospite gradito”; le performance PERDOINDIO (del 2001), Dramatis personae, e così via.
Un vasto affresco, dunque, per una vasta esperienza. Da non dimenticare, nel volumetto, la sezione “Iconografia”, scelta di foto relative a molte delle attività suddette, giusto secondo l’illuminante esergo di Marinetti: “Le immagini non sono fiori da scegliere e da cogliere con parsimonia, come diceva Voltaire. Esse costituiscono il sangue stesso della poesia. La poesia deve essere un seguito ininterrotto d’immagini nuove…”
Mariella Bettarini
Una riflessione su “Armi e mestieri” di G. Neri, collana Lo Specchio, Ed. A. Mondadori, aprile 2004.
di Andrea Giuseppe Graziano
La Poesia oggi è quell’affacciarsi all’abisso, lotta tra inferno e salvazione, tra danno e ‘protrusione’ in vita.
In questo essere ‘in limine’ di cui consta propriamente la condizione del Poeta, l’autore lombardo vive momenti di tensione e dis-tensione, ma ‘sussume’ quelle contrapposizioni di forze, tali -finalmente- da indurre l’animo a esperire la realtà attraverso uno sguardo complesso, proprio perché complessivo, autentico proprio perché in grado di abbracciare con una intelligibile consapevolezza esistenziale le ramificazioni delle dinamiche contrarietà e finanche delle barbarie vissute a proprio danno (Giampiero Neri infatti, di Erba, Como, classe 1927, vive drammaticamente il secondo conflitto mondiale, l’uccisione del padre nel periodo di guerra civile dopo l’8 settembre del 1943, quindi l’affanno per il dissesto finanziario, e le amarezze degli obblighi ai quali la vita lo spinge, taglieggiato da urgenze che impongono il cambiamento e talora la rinuncia allo studio -che però tornerà in forma di ricerca autonoma, parallela ai disbrighi pragmatici e lavorativi- il suicidio della sorella Elena, ventenne, nel 1947, quindi le insolenze impiegatizie, come pratica falsificata della comunicazione -dall’una e dall’altra parte dello sportello bancario- che egli evidenzia da un punto d’osservazione privilegiato, qual è quello interno al luogo dell’inganno, come consuetudine utilitaristica).
Soprattutto grazie a quella peculiare sensibilità estetica omnicomprensiva, Neri guarda “le cose” sotto la “realtà prima” e le persone che gli si sono accostate al di là delle incipienti intenzioni, cogliendo le relazioni intime e il senso profondo che si disvela nel momento in cui queste figure prendono forma di “oggetto poetico”, di “emblema”, o di “personaggi” che ri-vivono nel verso.
Se si dovesse dire in sintesi il valore dell’ultima silloge “Armi e mestieri” si evidenzierebbe come maggior dote della sua maturità poetica la qualità d’un metodo, attraverso il quale si perviene alla ‘quiditas’, che nel Nostro è l’essenza del reale che può gustare lo sguardo.
L’essenziale, solo, può interessare il Poeta, e questo talora si dà alla fine d’un movimento, quando lo spazio e il tempo non contano più, allorché il gesto naturale che la coscienza estetica registra è già completamente consumato, alla fine della curvatura d’un volo o nell’armonia di un ramo, di un kiwi che contende lo spazio vitale a una betulla; talaltra l’essenziale pòrto nella lirica anti-retorica di G. Neri si dà ‘in media res’, anziché nel noumeno, s’offre con la stessa fluidità del dispiegarsi dei fenomeni -anziché nell’ambito dei soli significati, delle idee, del puro pensiero- ma pur sempre colti in un attimo di pausa, di vuoto, in forza del quale tutto ha senso, nella quiete che c’è tra una spinta e il suo contrario.
Vediamola allora, e ascoltiamola la Poesia di “Armi e mestieri”, compiendo il viaggio suggerito dal Poeta nella sua interna scansione.
Ecco aprirsi lo scrigno sin dalla prima sezione, ‘Persona seconda’, che inizia con “Intermezzo”, l’immagine di uno stormo vociante che si abbatte su rami “come a un traguardo”, mentre era altra la meta: come in natura l’uomo si inganna, è il gioco del falso solutivo, del senso dell’approdo come ‘punto in movimento’ e dell’inadeguatezza, dell’attesa inesausta che è nel viaggio, nella ricerca e quasi mai nella fine, soprattutto se poi si tratta del traguardo sbagliato o intermedio, e pertanto insufficiente, ancor più terribile dell’errare dal principio se può portare a morte anticipata, allo schianto per delusione, quando il pericolo è perdere di vista la meta autentica.
Si schiude poi un breve capolavoro. Il dramma della paura allo specchio: l’autore sa guardare la forma, “l’atteggiamento orrifico di alcune specie di uccelli”, quanto “le loro paure”, interne.
L’orrifico è riconducibile ed è insito nella natura, è causa ed è colpo subito, allorché la vita nasce là dove anche si consuma.
Si prosegue con un “camminamento/ sotto la volta degli alberi” che conduce a una visione di vitelli che si erano “rialzati” in una strana luce tra le foglie, quasi una mistica esperienza, irripetibile per le coincidenze degli elementi, che si illuminano, quasi tendono ad uscire-verso, ad offrirsi nella loro cogente epifania.
In “Origine” troviamo una fulgida intuizione inerente ai colori, che in arte funzionano come le figure retoriche in poesia: riecheggia all’uopo il saggio su S. Mallarmé dell’amico e poeta P. Valéry nel quale si evidenzia come le figure retoriche e fonosimboliche non siano più un accessorio, ma il contenuto stesso dell’opera, e la forma non sia più l’effetto del suo contenuto ma in qualche modo ne risulti la causa; qui difatti è nell’aspetto d’un colore “dove il verde è più scuro” che ha luogo una mutazione, il germinare della vita, come il “venire alla luce”.
Volgiamo lo sguardo a nuova pagina. Come Leopardi nel passo dello Zibaldone del 22 aprile 1826 meditava sul giardino apparentemente sereno e in realtà in preda alla ‘souffrance’ per l’infestazione d’insetti, per la troppa luce, o per l’errata esposizione, al caldo, o all’umidità di alcune piante, o persino a causa d’una semplice passeggiata di fanciulla che costa la vita a miriadi di esseri -giacché l’intero creato è soggetto al male- così “nel giardino” di Neri l’arco di trionfo “che vede il kiwi prevalere/ la betulla vicina a soccombere” sottende l’agone di cui consta propriamente la vita, ma ormai, liberato dallo struggimento tragico, è colto dopo la lotta quando è invalsa la mutazione ed è nato un nuovo equilibrio che è, significativamente, arco, curvatura di rara bellezza.
Dopo di ciò entra in scena il personaggio carismatico, il Professore, che -forse è lo stesso che in gioventù ha nutrito l’autore delle sue perle preziose- “arrivava da un paese vicino”; egli deve ‘andare per andare’: nel convegno abituale fra le colonne del “Caffè di Inverigo” non cerca un posto, ma il confronto dell’anima con la verità: ora la ‘aletheia’ che non implica a priori l’idea di possedimento stabile, è giustappunto suffragata dalla modalità della ricerca, la quale è per sua natura viaggio, movimento verso qualcosa che ancora non si possiede, e che il Nostro rende visibile anche nello spazio narrato: immerso in quella precarietà, figurata da “Poros” e “Penia” che danno vita ad “Eros”, al “cercatore” di quel fuoco, di quella sapienza che può essere raggiunta, ma anche perduta e nuovamente ritrovata in una “caccia” senza fine condotta da vero affamato, il Professore compie il suo viaggio dal paese vicino; “perché non abita qui?” dicevano/ “e dopo” rispondeva “dove vado”?
In “Mimesi” -si potrebbe asserire portando alle estreme conseguenze l’illuminazione neriana- Dio è nelle cose (Aristotele sosterrebbe a questo punto che l’Essere è analogo), è nelle “macchie ocellari” sulle ali delle farfalle, mimesi geometrica del suo circolo perfetto, infinito che ci guarda.
E si perviene alla chiusura della prima sezione con “Persona seconda”, tributo a chi è dietro o al fianco, compagno meno in vista, come destinato all’ombra.
***
Prosegue la raccolta, sia nella sezione ‘Sequenza’ e sia in quelle successive, con poesie senza titolo, e nelle quali Neri indugia nell’uso dei verbi all’imperfetto del modo indicativo, quasi a dipanare l’azione in un continuum narrativo dilatato: il Poeta ri-cerca e ri-crea nel tempo lirico dell’imperfetto, che è ‘non-essere’ inteso come ‘divenire’(poiché non è più e non è già, è stato ma procede ancora), i rapporti e le relazioni di senso, i significati attraverso la ‘ri-presentificazione’ illuminata del vissuto, difigure ed esperienze che vengono dal passato e non hanno ancora esaurito i loro effetti predittivi e predicativi.
“Si scendeva…fino a raggiungere un bivio”: com’è nella vita, che non lascia scorrere nulla che poi non divida nel fondo della sua stessa natura per consumarla nell’intimo, com’è nel ‘logos’ che divide in due il pensiero nel dialogo, o nei “da una parte” e “dall’altra” della riflessione, come avviene per due amici o due fratelli, spesso di fronte a un bivio della coscienza.
Ne “Alla ricerca di un punto di vista” tutto è nel punto di vista dell’artista, nell’articolazione dello sguardo, che diviene paesaggio. Neri è talora nel “mare dell’oggettività” che comprende soggetto ed oggetto nello stesso campo; sicché il poeta -non escludendosi dall’oggetto poetico, dal referente semantico- è però anche quel “medium” che -come dire- si estende dalla psiche al pennello dell’artista, e come nel gesto di Leonardo o di Pollock, si fa antenna del mondo, strumento e atto concettuale e poetico.
In “Cercando la verità nel paradosso” emerge la figura di Giuda, personaggio centrale d’una piéce che sta costruendo lo scrittore di provincia, e che inizia con l’immagine del mare nella sua ‘presentificazione’ sonora: il Nostro è in grado (come lo scrittore protagonista della poesia) di agganciare col verso il presagio, la proiezione anche futura, per questo sceglie come figura fono-simbolica d’esordio il mare: le acque, nel contesto culturale e religioso giudaico-cristiano, oltre che l’elemento primordiale, sono propriamente immagine ambivalente della morte -a cui la figura di Giuda inesorabilmente tende- e dalla quale pure si inizia la vita.
In “Poi vennero i giorni veloci” un aspetto che colpisce è l’intuizione terribile della velocità delle ore e dei giorni: è così disumano l’accorgersi del finire nel tramonto, quanto è prerogativa solo umana il percepire lo scorrere del tempo; è a causa della nostra intelligenza che si soffre in modo eminente, che è poi il modo pienamente umano.
In “Correndo si allontanavano” riluce il “dedalo di viuzze”, immagine delicata che cade come petalo su una lirica scura: in quelle strade infatti si allontanavano giovani dal volto scoperto in tempo di guerra, che qui è caratterizzato dalla sua accezione visiva d’una “luce di coprifuoco”.
“Quella coda solitaria tagliata…” è inconsueta e vivida immagine della vita illusoria, d’un ansito mortale che ancora per poco abita una coda di ghiro, pezzo animale separato, appendice che rivendica con la sua bellezza lo statuto -ancor più che d’avere funzione di equilibrio per la bestia- di ‘essere-per-la-forma’: la sua “bella forma come una bandiera”.
Dopo entra in scena un emblema dal passato: il libraio, personaggio caldo e vicino all’autore, colto in un gesto consueto, quello di volgersi un poco dalla sua occupazione dello spolvero, per consigliare di leggere “ritratto di persecutore”; con una mano leggera qui il Neri suggerisce il permanere della bellezza di quel mestiere, pur in un contesto lacerato qual è quello della guerra, che influenza le scelte dei titoli da consigliare al particolare avventore in “quella mattina di dicembre/ del 1944”.
“Di quel teatro all’aperto” offre ancora l’acqua, del lago, simbolo della morte ‘ontica’, che è speculare alla “morte” di figure -significativamente non più uomini- da teatro, maschere mute e disperse di cui “era difficile ritrovare i fili”.
Chiude la sezione “Quella casa isolata”, dove troviamo tutto lo splendore d’una similitudine che già lascia sbocciare il “correlativo oggettivo” che in essa si prelude: figura retorica che -si vuole ricordare- ancor prima di divenire preminente in Montale che amava e traduceva Eliot, era presente -forse in embrione e come rara esperienza linguistica- nella lirica “San Martino del Carso”: lì Ungaretti correlava i pezzi, i brandelli di muro, di case, di S. Martino deturpato dalle esplosioni del primo conflitto mondiale, alla sua condizione di sopravvissuto, per cui il suo cuore -che partecipava a quel teatro dell’assenza- era “il paese più straziato”, dove “nessuna croce manca”, qui invece Neri evidenzia al centro della scena “la casa isolata”, ma “…passata indenne dalla guerra e dopoguerra”, eccezione al crollo e alla devastazione e pertanto, come “la salamandra nel fuoco”, corpo estraneo, alieno all’ambiente, che pure descrive per opposizione; in questo caso Neri supera anche la necessità di entrare in qualità di ‘Io-lirico’ in corrispondenza alla condizione interiore suggerita nel quadro rappresentato per compire la correlazione significante, come invece necessitava di fare Ungaretti; qui, già ‘sunt lacrimae rerum’.
Si passa alla parte successiva titolata ‘Finale’, in cui gli elementi rappresentati sono orientati a compiere il loro epilogo, che talvolta è scioglimento, evanescente allontanamento, “come sassi lanciati sull’acqua/ che affondano dopo breve corsa”.
È il caso di un paesaggio ottocentesco su tela, dimenticato, del dolore del ritorno dalla prigionia in una comunità divisa dalla guerra civile, di un libro -pur esso superstite- che annuncia una verità presaga ed emblematica: “se fan pastors … et son aucidezors”.
Quindi è la volta della sezione “botanica”. Non è ivi l’uomo, ma sono le piante protagoniste delle liriche. La lotta per vivere delle piante è paradossalmente, in tempo d’opulenza e disponibilità, minacciata dalla troppa cura del giardiniere. Alcune specie infatti vivono -si osi dire- per assenza d’acqua, come ‘ossimoro naturale’, perché trovano la forza vitale solo suggendo al proprio intimo ogni volta le energie residue, sicché è delitto occuparsene in qualche modo quando la loro essenza gode del deserto, della lontananza raccontata finanche dall’ornamento di spine.
Infine si schiude la sezione “Armi e mestieri” e tornano ad esser protagonisti gli uomini in situazioni ultra-realistiche.
V’è un assicuratore anziano che tiene in gabbia nel suo ufficio una civetta, così, per richiamo o per compagnia. Una civetta in un ufficio che ha perso la sua costituzionalità e funzionalità, essendo questo vuoto, quasi uno sfondo neutro per dar risalto all’agonia del volatile.
Entra in scena un musicista che ricorda qualche vecchio lied del suo repertorio, caduto in disuso, e che pertanto, così dimesso, si nutre del ricordo.
Quindi è l’attrice ai suoi inizi tra i giovani musicanti, gruppo d’artisti che probabilmente fermentano come lei di intuizioni ed intenzioni, come sempre accade a chi crede di nutrirsi della follia.
La filarmonica locale (di seconda o terza categoria?) dotata di strumenti primigeni quali gli zufoli di canna, si riunisce nelle occasioni, anche sotto la neve.
Il capomastro, ‘di parte’ in tempo di lotte civili, ora è in prima fila a dirigere la banda musicale, tornato a quella inerme dis-avventura dell’ordinario.
Indi una splendida poesia, “davanti alla scalinata del Terragni”, incontro-rivelazione sulla profonda, umana e preziosa vocazione alla compassione: un figlio che nell’abbraccio con l’amico di suo padre, ultimo testimone che quasi svapora “in quelle nebbie, una mattina di novembre”, mentre, significativamente, era caduta la bicicletta, trova tutto un mondo di silente vicinanza e comprensione, tanto più vera ed intima quanto colta nel mistero del velo evanescente che fa quasi deporre a favore di una visione, piuttosto che di un incontro reale.
E via, fino al tralucere dell’ultima bella prova poetica: una casa disabitata, nell’oscurità della sera, “deserta di quelle care ombre/ che il tempo aveva cancellato”. Immagine questa, del nido, che ci rinvia al fulgido sprazzo di bianco della casa immersa nel nero della montagna offuscata da nubi minacciose, che è in “Temporale” di Giovanni Pascoli. Autore con il quale oltre alle significative consonanze per l’esperienza della perdita e della ricerca -che in Pascoli si fa mito- del nido familiare e d’una corrispondenza d’amorosi sensi -che in Neri è invece quasi velata per pudore, nascosta- sublimata nel dispiegarsi del verso poetico, possono riconoscersi anche alcune relazioni -pur tenendo in considerazione i larghi margini in cui sussistono le differenze legate alla sensibilità personale, culturale ed esistenziale- nel modo costruttivo simbolico.
Il percorso lirico-simbolico pascoliano, che, secondo quanto individuato dal Sapegno, parte dalla presentazione d’un emblema e si sviluppa nella spiegazione dell’elemento emozionale, è in qualche modo afferente anche al Neri, ma mentre nel Pascoli, prevalentemente della prima raccolta, permaneva tale assetto binario dell’alternanza del significante e del significato, nel Nostro i due elementi possono fondersi o rendersi in modo autonomo.
Questo è anche il valore di “Armi e Mestieri” di Giampiero Neri, e molto altro senza dubbio il lettore vi troverà, nel porgersi a diretto contatto con le parole che si stagliano linde e serene dalla pagina bianca, giacché con grazia lo lasceranno imbevere di risonanze, originando quel miracolo che Luzi rivendicava alla Poesia, di essere un mezzo insopprimibile per elevare la vita.
Andrea Giuseppe Graziano
Insegnante di Lettere e poeta, ha pubblicato “Dei Silenziosi bui” Ed. Aletti, ottobre 2003 e “Stanze critiche”, Ed. Aletti, febbraio 2005.