Con “Nell’incudine del bene e del male”, Maria Angela Bedini, consapevole di condurre la propria esistenza “alpina e fuggitiva”
presenta un ben scandito componimento in cui si riferisce a esperienze intimamente specifiche (si veda l’efficace concisione del verso
“tagliavo le teste ai miei sogni”)
senza tuttavia omettere immagini che richiamano condizioni più ampie, talvolta in grado di provocare meraviglia: cito, ad esempio, la pronuncia
“impigliata tra le nuvole del niente”.
Maria Angela sembra vivere come sospesa tra circostanze esistenziali che tendono a restare divise, prive di connessione.
Scrive l’autrice:
“entravo nella vita con il soffio della poesia
e la poesia mi uccise
aprivo il libro alle pagine d’oro
ed era fatto di sangue”
mostrando come nemmeno la scrittura sia in grado di porre rimedio, di alleviare la pena.
La conclusione
“il bel giocattolo della poesia
giaceva inerte sopra il prato
come uno stelo rotto”
è davvero emblematica (e coinvolgente) nel suo breve sviluppo: un certo tipo di oggetto (il “giocattolo”) che ognuno di noi, specialmente da bambino, ha avuto tra le mani, viene collegato a un’immagine di biologica distruzione tale da non ammettere, nella sua estrema semplicità, alcun possibile rimedio.
Eppure la parola “bene”, presente nel titolo e nell’incipit, svolge, a mio avviso, il ruolo di rendere testimonianza di una drammatica esposizione a una non momentanea contingenza che non esclude, a priori, possibili vie di uscita: è da notare, sotto questo profilo, che lo stile preciso rende particolarmente evidente come nemmeno l’esattezza del linguaggio possa essere considerata la soluzione del problema.
Il dire insomma non basta o, almeno, non basta ancora.
Nell’incudine del bene e del male
nell’incudine del bene e del male
mi muovevo alpina e fuggitiva
come Silvia avevo pozze di buio
negli occhi come Ofelia nei fiori
mi do sepoltura come Giuditta
tagliavo le teste ai miei sogni
come Antigone cantavo i canti dei morti
la bellezza che crolla mi tormenta
inchiodata alla gravità dell’ombra
crocifissa tra quattro fiumi di parole
impigliata tra le nuvole del niente
o innocenza favolosa dell’inizio
o carità della fine
o pazienza infinita della guerra
la ferità della notte è troppo dura
per i miei denti
la mia veste strappata di fango
è troppo corta per questa lunga morte
o principe avventuriero
o scudiero dei deserti
o regine spaesate nel dolore
entravo nella vita con il soffio della poesia
e la poesia mi uccise
aprivo il libro dalle pagine d’oro
ed era fatto di sangue
davo carne alle parole ed erano spettri
chiedevo voce a quelle sillabe
ed erano lame mute
maria adolescente maria furtiva
maria che nel corpo hai il corpo del mondo
maria dalle scritture ferme
maria dei ciottoli macchiati di neve
maria che hai casa in ogni parola
e ferita in ogni crepa del dolore
nella selva dei nomi la vita
incredibilmente scorreva
nella malizia del giorno ogni cosa
mi appariva fatta di vene d’inchiostro
entravo nella sera con il libro
e il libro mi trafisse
pronunciavo i nomi e ogni cosa
gettava i semi dell’abbandono
per amore del mondo la vita appassiva
per la gloria della malattia la carne soccombe
per la miseria della morte spariva
la vita pungente con i suoi atti tempestosi
io non potevo non morire
sopra quei fogli accesi
dove tramavo a fiotti
l’assurdo inganno dell’infinito libro
io non sapevo che morire sopra
le pagine bianche e sbigottite
intrappolata nelle stanze dell’orrore
io non potevo che patire sopra
le pene della malattia
che va diritta verso l’errore
io non portavo che spavento leggendo
a sorsi il libro del dolore
il bel giocattolo della poesia
giaceva inerte sopra il prato
come uno stelo rotto