La storia del Premio Lorenzo Montano continua a rinnovarsi, anche dopo trenta indimenticabili anni ricchi di voci, scoperte, incontri, emozioni, intensità.
Il merito è tutto degli autori che vi prendono parte, contribuendo a raccontare la nostra finitezza e il suo spavento nella radice della creatività, nelle più variegate forme, con i diversi stili che rappresentano il nostro poetico contemporaneo.
Accompagnati dalle note della redazione di “Anterem” ne sono testimoni, nel presente numero di “Carte nel vento”, Enzo Campi, Lella De Marchi, Patrizia Dughero, Carmen Gallo, Maria Grazia Insinga, Sofia Demetrula Rosati, Ambra Simeone e Roberto Valentini: poeti e prosatori della 30^ edizione.
In chiusura Francesco Bellomi, pianista e vera e propria colonna sonora del Forum, compositore che ogni anno si misura con i vincitori del Premio, ci fa entrare nel suo laboratorio musicale.
Tutto questo mentre è in corso la 31^ edizione del “Montano”, organizzata per i poeti, i prosatori e i saggisti che vorranno percorrere un tratto di strada in una lunga storia
Scarica il bando della 31^ edizione del Premio Lorenzo Montano
In copertina: Francesco Bellomi ritratto da Marina Busoni, Forum Anterem 2016
Parola che sa diventare quello che è. Questo è ciò che la scrittura poetica riesce a fare quando innesta i suoi gradi di significazione nella materia della voce. Ciò che avviene è una moltiplicazione per spaccatura del senso, e ogni pezzo non è più una parte, ma un nuovo tutto in cui ciò che è prende corpo: si forma e si trasforma, inventa costantemente se stesso, ma mai si conforma. Così la parola di Maria Grazia Insinga è spesso pochi punti di aggancio con le cose conosciute: o meglio, la loro comprensione prende una piega diversa, con una ridefinizione dei parametri conoscitivi. E questo fa sì che sia la parola stessa a dar vita al conoscere, anche in ciò che non si sa. E proprio la suddivisione tripartita del poema in TESTA – TORSO – PIEDI, sembra il segno della dissezione di un essere che c’è ma è metamorfico nel suo andamento di crescita attraverso il lavoro poetico e polimorfico in ciò che alla fine di sé si autorappresenta.
La poesia è un’esecuzione linguistica che cerca vita mentre la dà, e vela e disvela percezioni sentite in metafore e nello stesso tempo in parole che sono ciò che dicono. Voci inaudite – non nell’alfabeta o nel sintagma – ma aurorali, per il principio di senso da cui originano. Un senso che appare oscuro, ma solamente perchè questa condizione è coerente con l’oscurità luccicante che troviamo nell’immersione e nell’allargamento di una lettura , al fondo di un percorso dove “probe di invisibile ci aggrediscono”. Ecco allora che l’indagine al fondamento di una scrittura chiede uno sforzo, seppur benevolo ma incisivo, teso a considerare una direzione dello sguardo poetico che non lascia nulla fuori dal grumo semantico e percettivo, in cui una “visibilissima inesistenza” ci dice cosa vediamo ma non come. Essendo quest’ultimo non solo una modalità dinamica, ma la vera e propria costituzione di materialità (palpabile o impalpabile che sia) di un atto poetico.
La voce che parla in queste poesie è suono preciso: ma di quell’esattezza e unicità che obbligano a un pensiero dislocante, altrimenti si resta in un limbo di insaputo e incompiuta lettura senza movimento alcuno. Ma l’inquietudine resta, perché anche questo è l’effetto di quel’ ondulazione continua in cui è collocata l’impossibilità di sapere dove origina e dove andrà a sfociare la lingua del poeta. E ciò è un bene, un “bene irreparabile” ci dice Insinga, al quale possiamo porre rimedio soltanto disponendoci ad accogliere una parola senza attributi, una parola nuda, forse sperduta, ma capace di essere lei stessa a dar forma e sostanza al pensiero del dire. Le poesie che compongono la raccolta, infatti, sono spinte in armonie che disarticolano la loro stessa sembianza, per trovare un’apparente stabilità dove “il silenzio deraglia”. E se la voce che non ha suono ma solo soffio, è ciò che contiene la parola, allora scopriamo che la sonorità di queste poesie non è solo musica e senso, ma qualcosa di più parcellizzato e diffuso: qualcosa che tocca l’esistenza attraverso “fonemi di vento” che avvolgono, con forza pulviscolare, il segno di ogni sogno e si oppongono alla “fogna civile del dire senza assoluto senza corpo” . Ed è strabiliante scoprire come, grazie a una poesia che possiede visione, si arrivi con un solo verso ad abbattere la falsa dicotomia tra poesia civile e poesia lirica.
Maria Grazia Insinga è poeta totale, di sensi e di senso, e non deborda mai oltre la sola necessità che hanno in sé le parole prima della luce. E lo ripete come un’invettiva che spazza via ogni illuminazione precostituita la di fuori del suo essere lingua di se stessa: veggente “tra un silenzio e l’altro”.
Dalla sezione “Testa”
Specchio
se aggiunge male al male
non starà poi così male
I guado
ora accade l’ordine
ora cada
defalchi l’errore la parola
data, d’amore
ora si taccia
II guado
dovresti procurarti il male
procurarle un filo di lame
obliquo rispetto all’asse
per obliare i dubbi
accelerare la corsa della lama
dovreste guadare lo specchio
nel catino di zinco
una vocazione a parte
spacca al centro
e a parte mette il male
e da parte il bene
da parte a parte
Dalla sezione “Torso”
Apollo
nel luogo
che cala a picco
il luogo che ti vede
I contorsione
la torsione dell’anello in anello
senza uscite e finitezza e infiniti
là non c’è punto che ti veda
non devi cambiare la tua vita
puoi umanizzare la perdita in argento
chiedere cittadinanza tra statue o viventi
II contorsione
la torsione del torso mantiene
l’armonia delle intenzioni
l’invenzione dei cimenti
la circolarità delle stagioni
un senzaquattresimo di visioni
per un eccesso di senso
Dalla sezione “Piedi”
Liste
I fame
eravamo più della somma
ora sottrarsi aggiunge
al digiuno una fame insaziabile
II fame
la lista lunga come la fame
allunga il passo e qui si frenetica
ciò che manca qui si frena e lei
arriva e arriva mille volte
reitera il sonno nel giardino dove
d’un tratto non poggi i piedi
sulle onde e brevi e lunghe forzata
a nuotare l’aria a non arrivare
Maria Grazia Insinga nasce in Sicilia il 20 aprile 1970. Dopo la laurea in Lettere moderne, il diploma in Conservatorio e in Accademia, l’attività concertistica e di perfezionamento e l’insegnamento nelle scuole secondarie, si trasferisce nel 2009 in Inghilterra per poi tornare in Sicilia quattro anni dopo. Nell’ambito degli studi musicologici censisce, trascrive e analizza i manoscritti musicali inediti del poeta Lucio Piccolo. Suona in un duo pianistico ed è docente di Pianoforte presso l’Istituto “Vittoria Colonna” a Vittoria (Ragusa). Nel 2014 la raccolta La porta meta fisica riceve la segnalazione al Premio Montano. Sempre nello stesso anno, con il sostegno dell’Assessorato alla Cultura di Capo d’Orlando, idea il Premio di poesia per i giovani “Basilio Reale” La Balena di ghiaccio giunto alla seconda edizione e presieduto da Emilio Isgrò. È membro della giuria del Premio Internazionale di Poesia Don Luigi di Liegro. Alcuni testi si trovano nell’antologia Il rumore delle parole (Edilet) e in vari blog. Nel 2015 vince il concorso Opera prima iniziativa editoriale a cura di Poesia2punto0 con la silloge Persica.
“A – polide A – melia”, di Lella De Marchi, è un intenso componimento dedicato alla compianta Amelia Rosselli.
L’immagine iniziale presenta qualità descrittive e richiami esistenziali ai quali, ovviamente, l’autrice non è estranea:
“Amelia distesa nella roulotte delle esistenze dette più
volte e rimaste da postulare in fondo alle scale si
lascia guardare da noi dal nostro essere vivi dell’essere
vivi, nuda respira comunque quandanche nel vuoto di
sé nel vuoto creato da sé comunque respira”.
Lella, come si vede, guarda, descrive e, soprattutto, c’è per via di una precisione linguistica efficace e coinvolgente.
E se gli ultimi due versi
“Se non riesco a parlare se non riesco a parlarti se non riesco
a parlarmi perché continuare a”
sembrano ammettere l’impossibilità del contatto, quel “non riesco a parlarmi” potrebbe costituire la presa d’atto di un totale fallimento comunicativo davvero tragico.
Ho usato il condizionale perché ritengo che simile insuccesso non debba necessariamente essere considerato definitivo.
Importa, in ogni modo, che la poetessa sia riuscita a offrire una sequenza poetica agile e assieme complessa, articolata eppure semplice, nel cui àmbito gli opposti tendono a sbiadire in differenze, a convivere rispecchiandosi gli uni negli altri, promuovendo uno stile dal non comune fascino.
Il dire poetico non ha alcun oggetto prestabilito, poiché la sua natura è propensa alla constatazione più che alla soluzione di problemi o a risposte esaurienti: della versificazione in esame si potrebbe quasi dire che consiste in un essere accanto tendente a un essere in.
Il sogno non sempre è espressione di un desiderio irrealizzabile, può anche emergere, mi si consenta l’ossimoro, quale onirica realtà, ossia immagine che si fa emozione, sentimento, inaugurando un’intensa scrittura.
È appunto il caso Di “A – polide A – melia ”.
A-polide A-melia
omaggio ad Amelia Rosselli
Amelia distesa nella roulotte delle esistenze dette più
volte e rimaste da postulare in fondo alle scale si
lascia guardare da noi dal nostro essere vivi dell’essere
vivi, nuda respira comunque quandanche nel vuoto di
sé nel vuoto creato da sé comunque respira.
Nel vuoto creato da sé il suo corpo che non esiste è la stampa
di cose che esistono in controluce, immagine in negativo
dispositivo verbale per la caduta dell’animale. Anche
l’aria ha una forma che fa paura che non è astratta se vista da
noi, una tenuta del suono che dimentichiamo se
preso per mano, un gesto svelto un po’ fuori tempo che
svela l’ipotesi che non abitiamo, la nostra mancanza di
vista la mia la tua mancanza di vista, la forza imperante della
terrena pittorica immaginazione.
Distesa nella roulotte la sua pelle vive d’insonnia si tatua come
una rosa di macchie violacee, non imposte non provocate non
derivate, indifferente è l’origine non è provenienza la
libertà, è bella di una bellezza che viene da prima di sé, prima
di sé dipende dipende soltanto di sé.
Amelia ti esce dagli occhi e dal cuore senza saperti guardare
ti guarda e forse ti parla ti chiede di non fare rumore di non
ascoltare il rumore.
Amelia nuda e distesa nella roulotte è un immenso paesaggio con
ossa, vita che vive senza ornamenti di necessari ornamenti.
Di necessari ornamenti di variazioni a catena si nutre
l’’appartenenza, è paura che fuga la commozione, un pianto
ancestrale, diviso in quadrati mattoni prima di darsi
alle fiamme prima di darsi alla luce prima di farsi feroce
ammissione di colpa e di identità.
Se si resta si resta nel fiume del pianto franto con
intenzione, nel trasporto s’ insegue il processo divino che non
conosce che non dice il tuo nome, il godimento sonoro che
avvera in preghiera il nostro bisogno di povertà il nostro
bisogno di privazione il mio il tuo bisogno di una
completa sterilità.
Se si resta si resta di umanità elevata al cubo, illibata e perduta,
di santità illibata e perduta, di una caduta di tono di una caduta di
luogo di una caduta di spazio scambiate per verità, scambiate
per te e per me piantate come un coltello nel verde mare
della differenza del cuore.
Se non riesco a parlare se non riesco a parlarti se non riesco
a parlarmi perché continuare a.
Lella De Marchi è poetessa, scrittrice, performer.
È laureata in Lettere Moderne con indirizzo in Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università degli Studi di Bologna. Ha seguito laboratori di Scrittura Creativa e Sceneggiatura Cinematografica a Roma con Andrea Camilleri e Ugo Pirro, a Pennabilli con Tonino Guerra, i corsi di Lettura ad Alta Voce con Lucia Ferrati e il laboratorio di teatro con Giuseppe Esposito a Pesaro, il corso per autori di canzoni di Francesco Gazzè.
Ha pubblicato due libri di poesia: “La spugna” (Raffaelli, 2010) con prefazione di Renato Martinoni e “Stati d’amnesia” (LietoColle, 2013), con un saggio di Enzo Campi e nota di lettura di Maria Lenti, e due raccolte di racconti: “Racconti Nove” (Albatros 2007) e “Tutte le cose sono uno” (ProspettivaEditrice, 2015), vincitore del Premio Braingnu, con prefazione del giornalista Rai Giancarlo Trapanese.
Ha ottenuto sia con l’edito che con l’inedito molteplici premi in concorsi nazionali ed internazionali. Suoi testi compaiono in antologie di poesia contemporanea, in riviste e blog specializzati su internet.
Organizza e partecipa ad eventi di poesia e narrativa, festival, reading, poetry slam in tutto il territorio nazionale. Con la collaborazione del chitarrista Alessandro Buccioletti e con testi tratti dall’omonimo libro di poesia ha realizzato il poetry –reading & percussive guitar “Stati d’Amnesia”, insieme alla ballerina Maddalena Belmondo la performance di poesia e danza “PoesieInMovimento”, con
È membro di giuria di diversi premi letterari nazionali (Premio Città di Cattolica, Premio Città di Fermo, Premio Città di Porto Recanati).
Collabora con la rivista “Versante Ripido” scrivendo recensioni a libri di poesia.
Attualmente sta lavorando al suo terzo di libro di poesie, la cui uscita è prevista entro il 2016 ed allo spettacolo/performance tutta al femminile “Tutte Le Cose Sono Uno – Poesia In Forma Di Band”, con testi tratti dal suo ultimo libro di racconti.
Nel 2012 ha ottenuto il secondo posto al Premio Lunezia, Sez. Autori di canzone con il testo “Imperfetto”.
Notizie aggiornate si possono trovare all’indirizzo del suo sito personale: www.lellademarchi.it
Un mediterraneo frammento di racconto situato in un tempo mitico dove regna il principio del naturale, dove, ancor prima che fosse impressa la parola alle pietre e la tradizione orale si potesse srotolare nel tempo della memoria gli elementi vegetali, terresti, marini dominano, in una specie di perfezione primordiale.
Qui la presenza umana, storia e dolore, sapere e carne viva, destinati a diventare opaca polvere, riverberano come pulviscolo luminoso , traccia pulsante che cerca di tenersi alle concatenazioni ancestrali, alle vite vissute come ricordi tatuati.
Allusioni a magici culti femminili, forse analoghi al culto della scrittura, sorella delle sagome, svelano o nascondono il liquido delle parole annegate nel proprio riflesso.
Nome: Sofia Demetrula Cognome: Rosati
Professione: ricercatrice, poeta dimitra@fastwebnet.it
web: http://trattiessenziali.com
tratti essenziali: https://twitter.com/sofiademetrula
https://www.facebook.com/sofiademetrula
Pubblicazioni/attività:
In programma: reading “Bologna in lettere” sabato 28 maggio 2016 https://boinlettere.wordpress.com/2016/04/14/bologna-in-lettere-2016-il-... sabato-28-maggio/
Pubblicazione: tre inediti per il blog Trasversale con nota critica di Rosa Pierno (2016) http://rosapierno.blogspot.it/2016/03/sofia-demetrula-rosati-tre-inediti-per.html
Pubblicazione: in Words social forum “Senza distrazione – testo poetico di Sofia Demetrula Rosati su book fotografico di Cristina Rizzi Guelfi” (2016) https://wordsocialforum.com/tag/cristina-rizzi-guelfi/
Pubblicazione: in Carte nel vento ‘La solitudine della sapienza’ (nota critica di Marco Furia) https://www.anteremedizioni.it/montano_newsletter_anno12_numero26_sofia_demetrula_ros ati
Pubblicazione: in Poesia 2.0 ‘La solitudine della Sapienza’ (nota critica di Marco Furia) http://www.poesia2punto0.com/2015/03/15/la-solitudine-della-sapienza-dialogo-con- qohelet-di-sofia-demetrula-rosati/
Finalista: XXVIII edizione del Premio Lorenzo Montano (2014) per la Sezione una poesia inedita, con il testo‘la solitudine della sapienza’.
Pubblicazione: poesie di Antonis Fostieris (introduzione critica + testi tradotti), in Anterem n.88, Anterem Edizioni, (giugno 2014).
Pubblicazione: in Poesia 2.0 ‘XX premio Donna e Poesia’ http://www.poesia2punto0.com/2012/12/08/il-paese-delle-donne-xx-premio-donna-e-poesia/
Premio: 1° premio – ex equo (sezione opera edita) volume ‘l’azione è un’estroversione del corpo’, Cierre Grafica, Verona, 2011 – assegnato da Il paese delle donne – XX PREMIO DONNA E POESIA (ottobre 2012) - Dedicato all’artista cilena Maitè (Maria Teresa Guerriero).
Pubblicazione: poema ‘il demolito è l’unica dimora del ritorno’ nel periodico on line Carte nel vento di gennaio 2012, anno IX, numero 16, accompagnata da una nota critica di Marco Furia. https://www.anteremedizioni.it/montano_newsletter_anno9_numero16_rosati
Reading: Convegno internazionale di poesia “Parola per parola” (novembre 2011) - Rivista Anterem – Biblioteca Civica Di Verona.
Finalista: XXV edizione del Premio Lorenzo Montano (2011) per la Sezione una poesia inedita, con il testo ‘il demolito è l’unica dimora del ritorno’.
Presentazione: Manuela Fraire e Tiziano Salari hanno presentato il volume ‘l’azione è un’estroversione del corpo’, edito nella collana di poesia Opera Prima, diretta da Flavio Ermini. A Roma, ottobre 2011, presso la libreria Empiria.
Pubblicazione: in Poesia 2.0 ‘Tutti gli autori di Opera prima’ http://www.poesia2punto0.com/2011/10/08/tutti-gli-autori-di-%E2%80%9Copera- prima%E2%80%9D-sofia-demetrula-rosati/
Pubblicazione: silloge ‘l’azione è un’estroversione del corpo’, Collana Opera Prima – Cierre Grafica, Verona, 2011. Riflessione critica di Tiziano Salari.
Reading: VeronaPoesiaFestival 2010- Letture dei poeti segnalati e finalisti.
Segnalazione: Premio Lorenzo Montano XXIV Edizione (2010) – sezione raccolta inedita – silloge ‘l’azione è un’estroversione del corpo’.
Collaborazione: con la rivista Poesia, Crocetti Editore, per articoli, recensioni e altro.
Finalista: nel premio letterario Fili di Parole, con silloge inedita: ‘per farti dimenticare Penelope’, Giulio Perrone Editore, Roma, 2008.
Reading: di poesia nell’ambito della manifestazione ‘Parole, Parole, Parole’, Alphaville Cineclub, Roma, 2007.
Pubblicazione: in raccolta antologica DI QUEL FUOCO, Giulio Perrone Editore, Roma, 2007.
Pubblicazione: in raccolta antologica IOSCRIVO, Giulio Perrone Editore, Roma, 2007.
Corso di video-poesia presso la casa editrice Giulio Perrone (2006-2007).
Pubblicazione: ‘La poesia è il fiore più antico della terra’, Katerina Anghelaki Rooke (introduzione critica + testi tradotti), in Poesia n.201, Crocetti Editore, Milano, 2006, pp. 16- 28
Pubblicazione: ‘Katerina Anghelaki Rooke’, in “Passages – Rivista di Arti Culture Riflessioni”n.8, Passigli Editore, Firenze, 2004, pp. 7-63. Tradotta per la prima volta in italiano. http://www.passages.it/Passages8/Poesia_Rooke.pdf
Pubbblicazione: silloge ‘Maggio inquieto di desideri’ sul sito della rivista Passages, 2004. http://www.passages.it/Passages7/maggio_solitario.pdf
a Trotula che dispensò bellezza e cura - frammenti di un culto misterico
Si occupava del corpo delle donne Trotula de’ Ruggiero che fu filosofa e medico nei pressi del 1050 a Salerno, terra di tante lingue erossi frutti, di chiaroveggenti pietre lucide e di un astuto mare che domina e istruisce. Curava Trotula, attingendo a quello stesso uterosempre gravido che fin dall’incanto del primo sguardo, pose nelle mani delle donne il dominio degli elementi. Ancora prima che fosseimpressa la parola alle pietre e la tradizione orale si potesse srotolare nel tempo della memoria. Il principio di cura prevedeva un corpobello a vedersi tanto da poterlo confondere con l’incidere maestoso delle divinità che con lui si intrattenevano. Bello di una bellezzaarborea, capace di competere con la perfezione di animali e piante e di carpirne i segreti. E alla tradizione orale attinge Trotula,iniziata all’arte medica da una donna di cui lei tenne sempre segreta l’identità. Sappiamo di un boschetto di limoni e olivi doveTrotula, ancora bambina, trascorse una lunga notte di luna nera al solstizio d’inverno. Ne uscì al mattino, ormai fattasi donna. Dellasconosciuta sappiamo solo le parole recitate durante i riti misterici che si svolgono nei boschetti di limoni e olivi, dalle donne chedisegnano le costellazioni.
senza volontà esco dal bosco c’è il minimo indispensabile odore di polvere di terra smossa poca umidità echi di suoni lunghi e acuti cigolìo di materia dolorante spira un leggero vento secco che screpola quel che resta della notte mi distendo sull’altare di tufo e pietra tra i ramoscelli di alloro davanti alla luna nera e chiedo comprensione sorgo e tramonto senza posa Trotula lo sai che gli uccelli si addormentano con il timore che il sole torni? e il chiarore della luna non li conforta ma li fa tremare ancora di più con la sua mutevolezza e in queste notti di luna nera di buio denso pregano che non si provochi lo stupore
l’inverno uniforma gli odori li rende meno attraenti avvicinati stenditi su questo giaciglio lascia che riconosca il calore di un corpo sono nata e già questo era sbagliato Trotula c’è un rimedio all’esser figlia non voluta dall’utero che l’ha partorita? ho desiderato carne umana volevo divorare una vittima sacrificale un mio trofeo e mi ritrovo carcassa putrescente scansata anche dalle iene trasformami in leggera umidità notturna in scarna rugiada mattutina e senza riflettere lascia che mi immerga nella prima sagoma incontrata mi faccia refrigerio per una mucosa di larva che cresce in velocità nevrotica scavando cunicoli
di giorno sosto in un luogo scuro con le ginocchia immerse in una fanghiglia impalpabile tra le mani i miei capelli sono diventati radi e grigi senza il nutrimento della luce non so se sto invecchiando o se lo scorrere non consuma tempo in questi cunicoli in fondo potrei essere ancora bambina odorami Trotula so di buono? sono con me gli antenati intenti a scavare e seppellire vite vissute le donne si fanno scheletro piùlentamente e hanno il tempo di destreggiarsi con i resti dei loro uomini ne nascondono le ossa sotto un terriccio umido e profumato per non doverle più ricomporre Trotula gli antenati urlano e reclamano vendetta e mi chiedono di aiutarli a scavare perché ho dimestichezza con il sottobosco ma le mie mani sono stanche e necessitano di cure
ascolta sono gravida ecco affonda le mani nel mio utero e ascolta ho il ventre colmo di una vita sconosciuta ascolta Trotula non senti questo rumore di foglie e arbusti? non era forse un tempo solo eros? e tutte lecreature si univano in amplessi prolungando il balenìo della venuta della storia e gli amplessi generavano costellazioni il senso apparteneva agli alberi fino a quando decisero di disporre fioriture e frutti dicondividere discernimento e inquietudine e gli esseri umani sono rimasti intrappolati nel dolore di un Narciso scomposto che lascia annegare il proprio riflesso e volge lo sguardo al cielo che ascende e discendementre la polvere resta l’unica semenza
Trotula mi curi con aloe miele e zenzero pensi che io abbia ricordi tatuati che sia figlia di una terra contesa dalla luce caparbia dagli aromi esuberanti i colori riccamente disposti ma io sono figlia delladimenticanza della dismissione di ciò che non svolge per essere visto ma ascoltato io sono sorella delle sagome non mi inseguire
hai compiti importanti Trotula prendi tutto il mio sapere e fanne luce e calore permetti le nascite rinvigorisci gli uteri lenisci cospargi di unguenti e ammorbidisci le carni delle donne permetti il fluire del mestruo distribuisci bellezza rendi loro ciò che a me tolgono poni le vergini a tua difesa e di questo nostro amplesso ai margini giorno taci non porgere mai le spalle a levante di notte volgi lo sguardo alle costellazioni danza e canta dimentica il buio nel momento stesso in cui lo vedi ché non sia per te d’inganno
Si narrava delle migliaia di donne uccise perché detenevano conoscenze di cura. Ma alla Scuola Medica Salernitana arrivavano dalmare uomini e donne dalle mille lingue. E le parole nuove si sa, generano alchimie e la conoscenza che ne discende si muove in libertàper molto tempo. Dall’alto di un dirupo Trotula una sera volle trasgredire, volse le spalle al mare e posò lo sguardo sulla vasta pianuraoltre le colline che accoglievano la cittadina proteggendola. Vide sparsi bagliori di roghi e lunghi fumi neri che coprivano lecostellazioni. È vero, pensò, le donne si fanno scheletro lentamente. I suoni di flauti e danze la riportarono con lo sguardo verso il maree la sua Salerno dove trascorse una vita lunga e feconda. Dispensò cure e bellezza fino all’ultimo dei suoi giorni. Mai più volse le spallea levante.
Il tema dello sguardo, del distinguere con gli occhi per conoscere, presente nella maggior parte delle poesie di questo volume è intrecciato indissolubilmente con un altro tema: quello della separazione e della fine che è poi quello dell'impossibilità di vedere. Vedere è dunque avere una relazione con un altro essere. Perdere una persona è come perdere gli occhi. Ma vi è anche un vedere con la sola mente, modo che si attiva quando nella perdita si ritrovano tute le immagini accumulate in precedenza. È solo a questo punto che la scrittura trova dichiarata necessità: "individuare uno ad uno / ogni grado di necessità / assegnare come un nome / una mappa affidabile di ogni tua / minuscola escoriazione". La scrittura ricostruisce l'immagine. Ne ricompone le fattezze con la sua tecnica restitutoria/restaurativa. Certo, appena consolatoria, ma necessaria. Essa consente di avere a disposizione un ulteriore spazio progettuale "abitare i soffitti cavi delle parole / e tendersi a raccogliere / solo i tempi imprecisi delle cose". La scrittura consente di allargare le maglie della visione, tessere relazioni tra i corpi del quotidiano e i corpi della storia mantenendo tutti gli avvenimenti sul piatto di un presente che, miracolosamente, è di nuovo sotto il nostro sguardo.
***
Come abitare in un paese straniero
ogni notizia che giunga da te
abbatte aerei, rovina raccolti
costruisce mura intorno
a un cielo bucato
***
Quanto basta a specchiarsi e riaversi
senza più attendere il nome delle cose
legare al letto ciò che non ci sopravvive
con la bocca sulla bocca difendere
ciò che non detto pure esiste
ma poi arriva
l’elenco necessario delle cose che hai
e non t’importa più di perdere
ciò che muto non ti somiglia
***
Non restare buchi neri
fondi fedeli al vuoto
affilare la lama che separa
i lati bianchi della strada
nel paese che nasconde
il cielo nelle cave
essere terra non chiamata
invocazione senza nome
distanza da percorrere sottovoce
***
Stringersi la gola e attendere
prima di respirare ancora
il tempo di cancellarsi la faccia,
il fiato, le rughe sulla fronte
***
Nella gravità delle cose
che non cadono
sostenere lo sguardo
del disastro
Carmen Gallo è nata a Napoli dove insegna Letteratura inglese all’Università L’Orientale. Si occupa di poesia metafisica inglese, teatro elisabettiano, teoria del romanzo e critica angloamericana. È stata finalista due volte al premio Mazzacurati-Russo (2009-2010; 2011-2012), e ha ricevuto una menzione speciale al Premio Montano nel 2011. Alcuni suoi testi sono stati pubblicati su blog (Poetarum Silva, Poesia di Luigia Sorrentino, Transiti Poetici, Carteggi letterari, Formavera, Interno Poesia, Nazione Indiana, Nuovi Argomenti), in antologie (Registro di Poesia #3, 2010 e Registro di Poesia #5, 2012, Edizioni D’If, Napoli), e su rivista (Smerilliana, Argo, e a breve L’Ulisse). Nel dicembre 2014 è uscito il suo primo libro di poesia: Paura degli occhi, per L’Arcolaio, Forlì. Alcuni testi sono stati tradotti in francese da Clement Levy per la rivista online Remue.net.
Dal 2015 cura, con altri colleghi, il Seminario di poesia comparata presso l’Università Federico II, e da quest’anno partecipa al Laboratorio di poesia in carcere della Fondazione Premio Napoli.
Possiamo definire “Il canto del sale” di Patrizia Dughero come “poesia della terra”.
In questo “canto del sale”, infatti, si scorge tutto lo spessore di una cultura contadina complessa, articolata e antica.
È una narrazione a volte dura, di tagliente precisione. In essa i luoghi determinano gli avvenimenti, e i famigliari diventano gli eroi di un’epica privata.
La cesura dei versi riproduce in tanti casi un respiro rotto dal pianto.
Altre volte i versi hanno ritmo più dolce e compiuto, in aperto contrasto con la forza delle parole scritte e con il dramma che ne emerge.
La scrittura si articola in prima persona: il soggetto prova sul proprio corpo gli effetti degli eventi illuminati dai versi.
Soggetto che non è veramente solo “io”, ma piuttosto una sua forma “collettivizzata”.
Soggetto che in sé somma tutti i soggetti che hanno fornito la materia prima di questi scritti, generandone la cultura.
Il percorso del sangue
Quando la terra è di nessuno allora non ha confine.
Muro.
Senza confine in un tempo preciso
quando il blu diventa rosso,
il typus di circolazione sanguigna è determinato dal sangue
che entra negli organi come sangue arterioso
rosso
e li lascia come sangue venoso
blu.
Nell’apparato scheletrico da lì sgorga il sangue.
Il polmone sembra un albero rovesciato
il tronco e le radici dell’albero respiratorio
sono rappresentati da trachea e da laringe dirette in alto.
Attraverso la laringe si può dimostrare
una relazione del polmone con la parola
e del pensiero collegato alla parola.
La postazione esterna del polmone diventa il naso
che assume affnità con la funzione del pensiero.
Mancanza.
Nel corpo ogni organo presenta una duplice natura
e il fegato dà all’uomo il coraggio
di mettere in atto un proposito.
Sale.
L’asimmetria, processo della volontà,
è nesso riscontrabile anche in architettura.
Così la circolazione, il suo typus, genera
un rimodellamento continuo
come le correnti in un’isola di sabbia: nell’isola,
che ha pianta a forma di rene, Spiekeroog,
il moto ondoso, il calore solare e il vento in continuazione
muovono la sabbia, ricreano in continuazione
la forma aggiungendo o togliendo sabbia.
Non è dunque il cuore che muove il sangue
bensì la corrente sanguigna che muove il cuore,
la forza che muove il sangue sta nei sentimenti,
la limpidezza risulta sempre una caratteristica
della morte e dell’elemento minerale.
Guardiana.
La tendenza eccessiva alla limpidezza
potrebbe causare
l’insorgenza di rappresentazioni ossessive.
L’occhio si svuota di vita e di sangue
e perciò diviene trasparente.
Sguardo.
Patrizia Dughero, di origine friulana, è nata a Trento nel 1960. Si è laureata in Arti Visive a Bologna, dove vive e lavora. Dopo svariate occupazioni, tra cui quella più significativa come restauratrice muraria, si dedica completamente alla scrittura, ricevendo riconoscimenti e alcuni premi letterari, inizialmente in concorsi per racconti brevi e in seguito in quelli di poesia. Considera di aver trovato una sorta di appartenenza inserendosi nel contesto dei poeti del Nord-Est, in particolare del goriziano. È presente in numerose antologie, di racconti, di poesie e con testi di prosa poetica. Attualmente la sua attività si concentra su articoli e progetti editoriali. Recensioni sui suoi scritti sono inserite in riviste letterarie, in Italia e in Slovenia. Da qualche anno sta svolgendo studi sul linguaggio poetico dello haiku, culminati nella sua ultima raccolta, Filare i versi /Presti verze, tradotta da Jolka Milič. È stata capo redattrice della rivista “Le voci della Luna”, per cui ha svolto approfondimenti sul tema della scrittura poetica legata al mito, in relazione al disagio femminile.
Coinvolta nel progetto editoriale di Francesca Matteoni, e del suo Blog “Fiabe”, ha realizzato articoli sul tema delle mitiche figure denominate “agane” e del fiabesco, con la partecipazione al volume Di là dal bosco, Edizioni Le Voci della Luna e con l’imminente uscita di un’altra antologia su figure legate all’acqua nei miti europei.
È curatrice dei volumi e responsabile di redazione di “24marzo Onlus”, associazione non governativa che svolge attività culturali e di formazione giuridica sul tema della tutela dei diritti umani e in particolare sulle questioni legate ai desaparecidos argentini di origine italiana.
Ha partecipato a eventi e festival letterari e artistici a Bologna, in Friuli, e in altre regioni in Italia, oltre agli eventi legati alle attività della Rete per l’Identità Italia (di cui fa parte 24marzo Onlus) con ruolo attivo nell’organizzazione. Suoi articoli sono apparsi, tra gli altri, su “le Monde diplomatique” e “Leggere Donna”.
Nel 2013, insieme a Simone Cuva, ha fondato qudulibri, (qudulibri.wordpress.com). Crede nella trasmissione editoriale di una “poesia agita”.
Sono sei le sillogi poetiche pubblicate: Luci di Ljubljana, Ibiskos Editrice Risolo 2010; Le Stanze del Sale, Edizioni Le Voci della Luna (Premio Giorgi) 2010; Canto di Sonno, in tre tempi, Edizioni Smasher (Premio Ulteriora Mirari) 2011; Reaparecidas, qudulibri 2013; Filare i versi /Presti verze, qudulibri 2015; Canto del sale, qudulibri, 2016.
Le sue poesie sono tradotte in spagnolo e sloveno.
Cosa si sente
Quale buona novella ci narra Roberto Valentini con la descrizione, in “Vangelo meneghino”, di una città naufraga e randagia, con la sua umanità dolente e smarrita?
Milano è raccontata attraverso dodici quadri in cui si intrecciano crepe di ombre sotto i portici, cieli sfatti e stanchi, acque sepolte e canali, selciati e luoghi urbani, in un affresco che predilige i toni della sofferenza, ma che lascia anche trapelare squarci di luminosità.
“Infedele / al suo dubbio divaga sui selciati / la città come un flutto dentro il fiele / dell’alba”, ritrae da un lato, nei suoi affreschi dolenti, l’autore e dall’altro, nelle sue aperture di acque e chiarori, “Sì, è una storia / di borri e navigli Milano, d’acque / risorte da altri ipogei di memoria, / ai fontanili sospinte in cui nacque / il riso”.
Anche la gente che la popola viene narrata in stazioni di fatica e solitudine, emarginazione e agonie, dove “croci accolgono di consunte braccia, / e barbe bisunte che come i tigli / nei volti nascondono una faccia / d’aurore”, ma anche attraverso barlumi di speranza: “È la fatica d’una gioia intatta, / proclamata sin dentro la sua pena, / sola maniera rimasta adatta / a essere vivi.”
Quasi metafore delle tante vie crucis, che accomunano popoli e persone, e insieme epifanie di una possibile redenzione, che si rivela come qualcosa di simile alla letizia, appena percepibile, sommessa, commossa.
I testi, connotati da una forte struttura che fa da cornice al racconto, con strofe di venti versi endecasillabi e chiusura di ciascuna con la stessa voce verbale “sente”, ne assecondano il contrasto: quasi, da un lato, a mostrare la necessità di una tenuta, un confine al dolore, e, dall’altro, ad aprire all’ascolto, alla possibilità di un annuncio.
Dalle prime chiusure “solo randagi quaggiù ci si sente”, “quando un pianto si sente”, “se nulla si sente” è un crescendo con cui Roberto Valentini ci conduce verso una promessa, una speranza di salvezza, dove “più salvi qui ci si sente” e “una gioia si sente”, per concludere infine con una, benché ancora in fasce, lieta novella: “se più in solitudine / qualcosa che è nato adesso si sente”.
***
La città non è né l’una né l’altra:
non nella cerchia di periferie,
non in quella che logora ormai scaltra
la luce sopra i bastioni. Eresie
di graffiti ne supplicano il luogo,
il limine cui urge e abroga, che segnano
sui vecchi androni come d’uno sfogo
d’urla colmati o in tinte che consegnano
a intonaci muti tra i falansteri.
Ma una burla di vernici soverchia
il tempo che iscrive senza criteri,
il crimine imprudente che scoperchia
l’assenza e vi rintraccia gli isolati
dall’una all’altra frontiera. Infedele
al suo dubbio divaga sui selciati
la città come un flutto dentro il fiele
dell’alba, si propaga su uno stagno
di nebbie, lutti e utopie, sulle lente
circonferenze d’insonnie, vivagno
di quartieri cui stretti ci si sente.
***
Ma altre circolari d’auto ed abbagli
toccano merlature e feritoie
di torri, languono in fianco a spiragli,
a neon appariscenti come noie
carpite alle finestre d’ospedali;
la volta infrangono che qua divora
le logge, antichità penitenziali
sulla pietra mostruosa che dell’ora
più serena riveste Sant’Ambrogio,
quando sopra un patibolo di stelle
anche l’immensità aspetta il suo mogio
sospiro e un vestibolo di cappelle
attinge al nostro incurante deporre.
Sono i tragitti allora che ne ammassano
i sovrappassi, le piazze cui incorre
perduto un destino, che vi oltrepassano
i silenzi dei parchi e alla Ghisolfa
fruscii di pilastri. Quando veggente
attraversa i suoi varchi una solfa
di piogge, qui ove un lastrico la sente.
Roberto Valentini, nato a Milano, dal 1999 lavora come insegnante nella scuola secondaria superiore e sopra(v)vive a Bernate Ticino, al confine occiduo della provincia milanese. Laureatosi in filosofia all’Università degli Studi di Milano, ha collaborato con la cattedra di Storia della filosofia contemporanea II quale redattore della rivista “Magazzino di filosofia” diretta dal Prof. A. Marini; attualmente, oltre a proseguire tale attività, è fra i curatori del relativo sito web di filosofia contemporanea (www.filosofiacontemporanea.it). Si è interessato in modo particolare della filosofia francese post-strutturalista, della Nietzsche-renaissance e del pensiero di autori quali Blanchot, Derrida, Deleuze, Bataille; in questi anni ha pubblicato, fra gli altri contributi (recensioni e florilegi), saggi sull’insegnamento della filosofia, sul cinema di Kubrick e Il gesto di Alcesti (“Magazzino di filosofia” n. 19/2012), una interpretazione letteraria di alcune tematiche della riflessione di Maurice Blanchot. Ha presentato un proprio lavoro nell’opera collettiva Vita, concettualizzazione, libertà (Mimesis, Milano, 2008).
Sue liriche inedite, articoli, escursioni di carattere saggistico-espressivo ed un racconto sono presenti sul sito web della rivista letteraria “Lunarionuovo”, diretta dallo scrittore e saggista Mario Grasso, sulla rivista “L’EstroVerso” e, diffusamente, sul sito personale (www.robertovalentini.org). Ha pubblicato il volume Dante a rovescio. Il XXXIV canto dell’Inferno capovolto (selfpublishing, Lecce, 2012), le raccolte poetiche Il peso dell'ombra (Prova d’Autore, Catania, 2013), Fra terra e luce. Antipodi dell’uomo (selfpublishing, Lecce, 2014) e Il male degli occhi (Puntoacapo Editrice, Pasturana 2014). Per i tipi di Puntoacapo Editrice è in corso di stampa la raccolta Il beneficio delle brume. Sue liriche sono presenti nelle antologie Enciclopedia di Poesia contemporanea (Fondazione Mario Luzi Editore, 2015), Atti della XVII Biennale di Poesia di Alessandria (a c. di Aldino Leoni e Mauro Ferrari, Puntoacapo Editrice, Pasturana 2015) e sul numero XXVIII di Carte nel Vento, periodico on-line del Premio “Lorenzo Montano”.
Ha ricevuto riconoscimenti al Premio “Lorenzo Montano” (2013, 2015), al Premio Internazionale “Cinque Terre” e la Menzione d’onore per l’opera Il male degli occhi al Premio Casentino 2015. Scontando come tutti la “nera foga della vita” di sabiana memoria, continua a coltivare l’impaziente passione delle lettere, preservando epistole, esercizi di stile, prose rapsodiche e innocenti endecasillabi – né pretenziosi né insinceri – dalla (nella) loro lieve agonia dentro uno stipo.
Ambra Simeone ci parla di un “uomo del sottosuolo”. Ci parla di un Altro, di una persona che non vuole omologarsi. Una persona che non chiede di essere accolta dalla comunità, perché non vuole condividerne il conformismo.
Stare fuori dalla società comporta dolore e sofferenza, sì, ma consente anche di mantenere la propria identità.
La figura della quale ci parla Ambra Simeone ha bisogno di essere se stessa, di trasformarsi e modificarsi senza condizionamenti, utilizzando per la costruzione di sé solo il “materiale” che proviene dalla propria interiorità.
Ha bisogno di conquistare la propria autonomia intellettuale: un’impresa che richiede spietatezza. E soprattutto il coraggio di mettere in gioco se stessi. Richiede di trarsi fuori dal contingente e spingerci fino al limite del fare esperienza, sottraendosi al conformismo e vivendo il proprio disagio esistenziale fino a rivelare agli altri la propria insofferenza.
L’“uomo del sottosuolo” del quale ci parla Ambra Simeone non si riconosce più nelle rappresentazioni comuni dell’esistente che l’abitudine e il potere offrono a piene mani. Ci impone, in ultima analisi, di essere partigiani e di esserlo attraverso la scrittura, magari in un leopardiano “zibaldone di pensieri”. E ci impone di essere dissidenti contro tutto ciò che ci fa ostaggi e ci rende prigionieri.
Ambra Simeone è nata a Gaeta (LT) il 28-12-1982 e attualmente vive a Brugherio (MB) dove lavora. Laureata in Lettere Moderne, ha conseguito la specializzazione in Filologia Moderna con il linguista Giuseppe Antonelli e una tesi sul poeta Stefano Dal Bianco. La sua prima raccolta di poesie “Lingue Cattive” esce a gennaio del 2010 per Giulio Perrone Editore (Roma). Del 2013 è la raccolta di racconti “Come John Fante... prima di addormentarmi” deComporre Edizioni. La sua ultima raccolta di quasi-poesie esce nel 2014 per deComporre Edizioni con il titolo “Ho qualcosa da dirti - quasi poesie”. È co- curatore de “Il Gustatore - quaderni Neon-Avanguardisti” che hanno ospitato gli autori: Aldo Nove, Giampiero Neri, Peppe Lanzetta, Paolo Nori e molti altri. Ha curato un progetto multi-antologico attorno al tema della scrittura dal titolo “Scrivere un punto interrogativo” edito da deComporre Edizioni. Alcuni suoi testi sono apparsi su riviste letterarie nazionali e internazionali tra le quali: l’albanese Kuq e Zi, la belga Il caffè e l’americana Italian Poetry Review. Sue poesie sono apparse su diverse antologie tra le quali: Il Quadernario Blu per Lietocolle a cura di Giampiero Neri e Il rumore della parole per EditLet a cura di Giorgio Linguaglossa. Ha organizzato diversi incontri poetici collettivi, fa parte del gruppo dei “Pentagrammatici” attivo nella provincia milanese. Sulla sua scrittura si sono espressi: Gian Ruggero Manzoni, Franca Alaimo, Giampiero Neri, Giorgio Linguaglossa, Claudio Damiani, Nazario Pardini, Marzio Pieri, Stefano Guglielmin. Nel 2015 ha vinto il Premio italo-russo “Raduga” come giovane narratore italiano, per l’occasione un suo racconto è stato tradotto in russo.
sto resistendo a questa cosa che consiste nel mettersi l’orologio al polso sbagliato, visto che il destro non è quello dove si dovrebbe mettere di solito, invece dovrebbe essere il sinistro, a intonarsi con l’eventuale fede e/o anello di fidanzamento, che si tratti di una donna oppure di un uomo, la regola non cambia, rimane quella, così più che trasgredire mi sono imposto di resistere, perché più che di una regola si tratta di un modo di fare, di vestirsi, di farsi vedere, di farsi uguale a chi l’orologio proprio deve portarlo sul polso sini- stro e non su quello destro
che diranno gli altri di questa strana mania?
vedi come fa? pare lo faccia apposta a mettere quella lingua così e quella bocca così, sembra che abbia la gobba persino, con quell’accento poi che si sente che è proprio del sud Italia, mi dice l’amica di facebook del gruppo amiamo la lingua italiana, allora sto resistendo, anche adesso, ora che mi sono trasferito, ma piuttosto che perderlo sto resistendo per farlo rimanere lì quell’accento, preservarlo, che gli accademici della Crusca potrebbero ri- prendermi, se dico ho sceso la valigia, che se lo scrivo me lo sottolineano con la matita rossa di sicuro, possibile che ad avere più paura di quell’amica che non ricordo che faccia abbia, forse non l’ho mai vista neppure in faccia, mi sembra che io ho più paura degli accademici della Crusca?
il piacere di fare il solitario appaga le sue voglie di artista incompreso?
ho visto tanti film sui grandi geni della storia, tutti perfettamente incom- presi, sarà che ai registi la cosa piace, la gente i libri non li vuole leggere, i film invece, non ho mai visto un film in cui loro, i geni, erano perfettamente compresi da qualcuno, che a pensarci su, nessuno è davvero compreso nep- pure i perfetti imbecilli, comunque non era di questo che volevo parlare, ma del fatto che resisto anche quelle volte che mi dicono che c’è della gente che si compra le macchine da quarantamila euro, mentre io vado sul colle di casa mia guardo e rimiro interminati spazi, ma come loro al di là di quelli ce ne sono davvero tanti, non immaginavo neppure così tanti, però non è per i sol- di che se pagati a rate non sono poi così pesanti, ma vorrei resistere alla vo- glia che ha la mia collega di sedersi su una macchina alta un metro e cin-
quanta da terra, invece che sull’erba di un colle, se per sentirsi così dovrà farlo fino all’ultima rata, tra tre anni a duecentocinquanta euro al mese, men- tre di stipendio ne prende solo ottocento, così preferisco parcheggiare la macchina tra le fronde per guardare la luna, e sul cofano prenderci tanti graf- fi dai rami che scendono giù, così posso dire che la mia macchina è bella e vissuta
ma il suo diario?
sì, lo scrivo sotto forma di poesie che sembrano prose, qualcuno mi ha detto meglio lasciar stare che quella lì non è poesia, è uno zibaldone e allora mi sono bloccato per un po’, ma fatevi i fatti vostri, gli ho detto, è solo un compito che mi ha dato lo psicanalista, anche se non era vero, andate a dirlo a lui se non vi piace, allora ho chiesto senza pretesa alcuna, ma voi cosa scrivo, lo avete letto davvero? mi viene il dubbio, perché se resisto a tutte queste cose, che possono sembrare stupide soprattutto da quando settant’anni fa ci siamo liberati di qualcuno che ci imponeva delle idee, adesso resistere servirà pur a qualcosa, mi chiedo? allora provo anche a non andare la dome- nica al centro commerciale quello enorme in centro, solo per andare a passa- re il tempo, a fare una passeggiata tra i negozi, quando fuori piove o nevica e fa freddo, invece dentro mi faccio un giro tra le borse, le scarpe, gli elettro- domestici, i mobili dal design innovativo, che mi tengono al caldo, e quando esco con le borse vuote, era solo perché volevo incontrare qualcuno e non camminare da solo in mezzo a tutta quella roba, maledetta roba
non sarà mica un po’ di vittimista?
no, sarà che mentre faccio questi ragionamenti in realtà, alla fine, sembra che non sia più neppure una mia scelta, ma mi sono abituato, mi pare più una questione di rassegnazione, per esempio mi fa questa impressione quando penso alla tempesta, quella che prima mi dicevano che non c’è la crisi, ora invece la vedo sempre in giro, ora che lo ammettono, non lo so mi sembra una cazzata a vedere tutta quella gente al supermercato, ma in fondo mentre faccio questi ragionamenti che dopo scrivo su quella specie di diario, la crisi magari c’è davvero, anche se c’è molta gente che si comprano le macchine per sedersi a un metro e cinquanta da terra, anche se girano per i supermerca- ti con le borse piene, anche se pagare a rate è diventato divertente che quasi non te ne accorgi, è così facile e veloce, e ti viene d’obbligo farlo, perché se
non lo fai sei veramente avventato e irresponsabile, invece se mi compro una macchina da quarantamila euro non lo sono affatto
e in questi giorni di festa?
ah, sì il 25 aprile non l’ho festeggiato, ma il sabato invece sempre a guar- dare la tv a casa mia e giù al villaggio non ci sono andato, era rosso sul ca- lendario e di solito rosso vuol dire festa, ma anche sangue alle volte, allora ho guardato un po’ di documentari in tv e mi sono sembrati bellissimi, per- ché quando leggo i libri di storia sembra tutto più noioso, le cose sembrano diverse in tv, a leggerle invece, che sudate carte che sono, così pesanti, che anche il giorno della liberazione si è versato tanto rosso da tutte le parti, an- che quelle innocenti, anche quelle presunte colpevoli, però alla fine resisto, ogni tanto penso che un’idea, anche se diversa, dovrei farmela.
a questo punto possiamo cambiare un po’ la terapia, mi prenda solo qualcosa per l’ansia
10 gocce al mattino di En
25 gocce alla sera di diazepam e venga qui 3 volte a settimana
grazie dottore, ora mi sento meglio, lo chiederò a mio padre se mi fa ve- nire qui tre volte a settimana, sa anche lui è un po’ ansioso, e anche se c’è la voglia di non prendere le medicine, potrei riuscirci, magari potrei anche non venire più qui, c’ho la resistenza nel sangue io, e ogni giorno ci provo a far- lo, per non essere schiavo, ma a me partigiano non mi c’hanno mai chiama- no, hanno deciso in tv che non mi ci chiameranno mai, magari in un libro, forse un giorno, in un libro, lo faranno, che in fondo è giusto che guerra ho vinto io? nessuna, nessuna.
Il paradigma drammatico, l’accumulazione espansiva, l’inserto, la ridondanza, il controcanto, il piacere, anche visivo, offerto dagli scarti di ritmo tra poesia e prosa poetica, gli innesti, l’horror vacui, le sequenze, l’andamento esaustivo e mutante, il discorso poetante quando si trasforma in storia, le domande irridenti e sospese, le assonanze interne ai versi, l’assenza lirica, il mistilinguismo, un’idea centrale che genera la gravità che contiene tutto il corpo del poema, e altri, moltissimi altri sono gli elementi che strutturano il testo lavico di Enzo Campi.
Tra il titolo del brano e la citazione, tra andirivieni ed eterno ritorno, tra segno e simbolo, si realizza l’incastro di filigrane che compone la trama di un grande arazzo pulsante, che raffigura un universo dove vengono interrogate, scomposte e ricomposte, le difese dalla storia e dal reale.
Andirivieni
Getta il tuo peso nel profondo!
Uomo! Dimentica! Uomo dimentica!
Divina è l’arte del dimenticare!
Se vuoi volare,
se vuoi essere di casa nelle altezze,
getta in mare ciò che in te è più pesante!
(Friedrich Nietzsche)
lavora tumido il tamburo
si permea abiurando il piede
in cui forcludersi e sopravvivere
tekua aukèn
nekù keùn
ekuàn ketua
pneuma sordo risuona
compatto a spaziare spartire
tumer ora
rem rume
temur metèm
si spinge battendo e modula
nel ritmo l’idea di un connubio
thumos soma
thauma aumàt
masoch muthos
Così cantò la sirena. Si cantò verace e vorace
riproponendo la solita interrogazione:
quale senso?
quale sesso?
C’è una ruota che gira, caracolla dal pendio fino a valle.
E poi risale. Scandisce il ritmo dell’inesausto andirivieni.
Ditemi, Voi che tutto sapete: la tigre che vive nel cuore
del leone è l’anima al femminile del viandante?
lavora livido il tamburo
si percuote mortificando la pelle
in cui conclamarsi e svanire
Dalle tombe si levano tuoni. Per ogni tuono un ruggito,
un artiglio che raspa nel limo fino a sradicare il midollo
della madre terra. È questa la sua voce? Un tuono?
Dagli abissi si levano in volo uccelli rapaci. Per ogni
colpo d’ala uno stridio lancinante che perfora i timpani.
Questa cosa che chiamiamo profondo, che si forgia nel
male, che sale come luminanza in una nube di vapore,
questa cosa è la nostra casa, la nostra gabbia. Ed è qui
che vive la danza, la piuma che ancora rischia il volo
radente sui corpi degli astanti, la schiuma in cui la vulva
della sirena cerca il collo del serpente in un crogiolo di
scaglie e di squame, il trauma del ruggito che inaugura il
pasto sacrificale in cui ciò che viene meno è proprio il sacro.
C’è chi dice che Aracne fosse nata Sirena e che la
sua ragnatela fosse un circuito di onde sonore.
Melodia e ritmo, sono questi gli strumenti della
cattura, della fattura, della tortura. Ma la Sirena
parla la sua lingua che è eterna e incomprensibile.
epi thumìa thymo
res aimù pithe
ahum uma pié
pneùm ipo thepì
Così cantò e chiamò. Chiamò a sé l’ignoranza e
l’inettitudine del comune mortale annunciando
l’avvento della beatitudine e dell’appagamento.
lavora atavico il tamburo
si trascende graffiando la vena
da cui dissanguarsi e gioire
Ma non vedo chiodi d’intorno. Dov’è il palo incrociato?
Non vorrete negarmi il supplizio? Dov’è il coro delle
prefiche? Siamo tutti invitati alla sacra guerra tra bestia e
bestia. Umano troppo umano: è questa la sentenza del coro!
E il viandante, vorace di fame e di fama, esplose il suo
sdegno: chiedete e vi sarà dato, chiedete e vi sarà negato!
Quale scarto tra la gloria inevasa e le ceneri di un passo
abortito? C’è qualcuno così folle da permettersi il lusso
di rispondere? Quale discrasia tra una piuma incenerita
e la gabbia che preserva il maltolto? Ditemi, Voi che vi
illudete di sapere: la ruota gira sempre a favore delle ore?
Se cerco nel cuore del leone l’anima della tigre sarò
tacciato come servo o come sovrano? Tra sovranità e
servitù un filo sottile di rame propaga la scossa, il fremito
che inaugura lo sguardo d’intesa e la stretta di mano.
Fu così che il re si rese plebeo, fu così che il viandante
santificò la complicità coi suoi amici animali e chiese
al serpente la chiave d’accesso al cielo delle sette solitudini
e delle sette eternità smarrite nelle biforcazioni dei sentieri.
Perché è sempre una questione di scelta. Ed ecco che si
procede, in circolo e sempre a ritroso, per giochi d’impronte
lasciate a commiato, come per dire ho impresso la marca ma
ho inteso trasferire il calco altrove per rendermi prossimo
al trauma del pasto selvaggio. Ci si illude, se pure ridendo,
che il pianto non venga versato a caso su questo o quel rudere,
sulle carcasse dilaniate esposte in bellavista sui coacervi di
letame. Vittima ed insieme carnefice? È questo il destino del
viandante? Malato ed insieme guaritore? È questo il supplizio
da rinnovare in eterno? Se così fosse, e mai lo è,
non ci sarebbero alti né bassi come parametri di
riferimento all’incauto transito di quest’inutile verbo
votato alla dissoluzione, se così fosse, e mai lo sarà,
non ci si dovrebbe sfinire nel creare laviche parabole
a suon d’iperboli e anacoluti, se così fosse, e non lo
è mai stato, potremmo sederci in riva al fiume sul
masso più liscio per meglio scivolare e abbandonarci
al docile flusso in cui rischiare l’estasi dello stallo dinamico.
Tendere la mano alla bestia? Perché? Per consegnarsi
al sacrificio? Se nel mare non riesco ad inabissarmi, se
nel volo non riesco a precipitare, se nel farmi sbranare
non riesco a donare le mie viscere si può dunque parlare
di sacrificio? Silenzio! Ciò che qui parla è il mio fallimento!
jo tona auri
thoma tem urìah
ja kem ri-ti-ki tom
to tarà kiti
methèm to them
oj aton aurì
Non è importante comprendere le parole se sono le bestie
a condurci sull’orlo del precipizio. Ma la pietà che il viandante
ostenta è falsa. Egli non offre la chiave d’accesso e il coro si
manca nell’effrazione mancata. E le bestie lo sanno, lo hanno
sempre saputo, per questo si prendono gioco del coro e si
industriano ad allestire l’impalcatura del giogo. È sempre
questione di sottomissione. Il serpente lo sa, per questo
finge di strisciare. Anche il baccanale puzza di stantio.
Il vino è edulcorato con acqua di palude. Dalla selvaggina
fuoriescono frotte di vermi in parata. Perfino i satiri e le ninfe
abbandonano, mesti, il palcoscenico ove ogni verità è bandita.
Nulla di
nuovo, tutto
normale e
normato,
e scontato.
Così il
tronfio volatile
disegna l’iperbole
castrata del suo
volo coatto e
sogna di
smussare la
serie delle
bordature che
ancora circuiscono
l’andirivieni in
cui ci si
esercita a
saggiare, di
testa, il metallo.
Enzo Campi è nato a Caserta nel 1961. Vive e lavora a Reggio Emilia dal 1990.
Autore e regista teatrale con le compagnie Myosotis e Metateatro dal 1982 al 1990. Videomaker indipendente, ha realizzato svariati cortometraggi e un lungometraggio: Un Amleto in più. Suoi scritti letterari e critici sono reperibili in rete su svariati siti e blog di scrittura, su riviste e antologie. Ha curato numerose prefazioni e note in volumi di poesia. Ha pubblicato Donne - (don)o e (ne)mesi (Genova, 2007), Gesti d’aria e incombenze di luce (Genova, 2008), L’inestinguibile lucore dell’ombra (Parma, 2009), Ipotesi Corpo (Messina, 2010), Dei malnati fiori (Messina, 2011), Ligature (Sondrio, 2013), Il Verbaio (Milano – Sasso Marconi, 2014), Phénoménologie (Bologna, 2015). Principali curatele Poetarum Silva (Parma, 2010), Parabol(ich)e dell’ultimo giorno – Per Emilio Villa (Milano – Sasso Marconi, 2013), Pasolini, la diversità consapevole (Milano, 2015). Ha diretto, per Smasher Edizioni, la collana di letteratura contemporanea Ulteriora Mirari e coordinato le prime due edizioni dell’omonimo Premio Letterario. È stato ideatore e curatore del progetto di aggregazione letteraria “Letteratura Necessaria”. È direttore artistico del Festival “Bologna in Lettere”.
«parlare di musica è come ballare di architettura»
(frase attribuita a Frank Zappa
o a Elvis Costello o a Martin Mull)
Si, effettivamente, spiegare la musica usando le parole è piuttosto complicato e spesso totalmente inutile e fuorviante, specie quando a farlo sono proprio i musicisti.
I critici se la cavano molto meglio, anche se barano tutti alla grande fingendo di capirci qualcosa.
Gli scienziati sono quelli che si avvicinano di più alla sostanza dei fatti musicali, forse perché il lavoro scientifico utilizza alla fin fine gli stessi identici mezzi e procedimenti del lavoro artistico: è un lavoro creativo esattamente come l’arte, la danza, la musica, la poesia, ecc.
Detto questo ci sono validi ripieghi: parlare del contesto storico, delle strutture musicali, delle forme, dei trucchi del mestiere, e così via. Ma alla fin fine, in qualunque modo la si metta, si finisce per raccontare una storia. In fondo anche le leggi fisiche o i teoremi matematici raccontano delle storie: le raccontano con formule numeri ed equazioni, ma sono storie. Una legge fisica che tutti conoscono racconta che se metti dell’acqua in una pentola sul fuoco, dopo un po’ comincia a bollire. Poi arriva uno più bravo a raccontare le storie della fisica, o che ha strumenti più precisi di misurazione, e dice: «L’acqua bolle a 100°». Ma si può raccontarla anche meglio di così. Ad es. «L’acqua bolle a 100° a livello del mare» o, ancora più pignolo: «L’acqua bolle a 100° se è pura (distillata) e se la pressione atmosferica è di 1 atm.»
La proprietà transitiva degli insiemi: «se A = B e B = C, allora A = C» è un’altra storia di queste.
Per i musicisti le storie tipo sono: “Tema di 8 battute, composto di due semifrasi positive di 4 battute. Tonalità di Fa# minore, con modulazione alla dominate alla fine della prima semifrase (batt. 4) e ritorno alla tonica nelle battute 7 e 8. Struttura melodica ad arco con punto culminante tra batt. 6 e 7 (sezione aurea), e armonie così distribuite: | I | IV - II | V IV# | V6/4 - V 3/5 | ecc.»
Ci sono “storie” sulla musica che sono molto peggio di così, lunghe anche centinaia di pagine e che sono una lettura veramente irrinunciabile prima di andare a dormire.
L’idea di vivisezionare la mia musica con questi raffinati strumenti di tortura mi rivolta semplicemente le budella, quindi racconterò si una storia, ma non quella, forse impossibile da dire, di come é la musica. Racconterò invece come io, partendo dai testi dei poeti vincitori del Premio Montano, cerco e trovo le procedure per scrivere i miei pezzi. Come se, invece di portare una bella torta (o almeno i suoi ingredienti), io mi presentassi ad un invito a cena con la sua ricetta: buon appetito!
VIVIANA SCARINCI - AMANDA FIORE O TARTARUGA - PREMIO MONTANO 2016
Nelle 24 righe del testo che ho avuto a disposizione ho sottolineato subito la frase finale: «quella carezza che ti fa orrore». Questo ossimoro è stata per me la chiave di tutti gli ossimori e le contrapposizioni precedenti. Quello che ha innescato il mio procedimento di invenzione.
Ora, in questo testo come in tutti gli altri, c’è ben di più di un ossimoro o simili, ma io avevo bisogno di una chiave di lettura abbastanza astratta da poter essere trasposta in musica e abbastanza semplice da essere comprensibile a chi ascolta la musica. In pratica ho immaginato che questa contrapposizione potesse essere il filo rosso che tiene insieme le centinaia di altre cose che l’analisi di questo testo può rivelare e ho provato a scrivere una musica infarcita di “carezze” e di “orrore”. A cominciare dai materiali di base. Si può mimare musicalmente una carezza in molti modi (e ho provato a usarne qualcuno di quelli usabili sulla tastiera di un pianoforte) ma io non volevo fare il Pierino e il lupo del premio Montano (con i suoi temini-personaggi da asilo infantile: “senti? il tema cullante della carezza? adesso arriva il cluster dell’orrore...”). Io volevo che l’ossimoro “carezza-orrore” fosse strutturale, fosse scritto nel DNA del pezzo.
Così sono partito da un materiale, una scelta di altezze, che potesse già di per se suggerire l’ambiguità di questa orrenda carezza. Il materiale migliore che ho trovato è un accordo ben conosciuto dai musicisti: la triade aumentata o eccedente. Un accordo accuratamente classificato ed etichettato in tutti i manuali di armonia, ma che musicisti come Debussy, Berg (Sonata op.1) e Scriabine hanno usato in modo intensivo e magistrale.
Questo accordo si porta dentro tutta una serie di ambiguità:
- è dissonate (poco) ma è costruito con due intervalli consonanti (due terze maggiori);
- può appartenere a varie tonalità e quindi risolvere in molto modi, basta cambiare il modo con cui si scrivono i suoi suoni (enarmonia);
- mettendo in fila almeno tre triadi aumentate si ottiene una scala “esatonale” o “di Debussy” che ha la singolare caratteristica, essendo composta solo di intervalli di tono, di non avere delle tensioni orientate verso qualche nota di risoluzione della tensione; come succede in tutte le scale tonali che si adoperano nel 97% della musica che ascoltiamo. Nella scale esatonale la tensione è bassa e diffusa, come una nebbia impalpabile e priva di punti di appoggio; non a caso Debussy adorava questa scala.
La triae aumentata è un accordo dolce e morbido come una carezza ma appena lo adoperi per più di due secondi diventa (se non sei un genio come Debussy) veramente nauseante e insopportabile.
Così ho messo sulla mia tavolozza un insieme di altezze (un “impasto”, una scala, un arpeggio, insomma chiamatelo come che vi pare) che contiene questo accordo. Per gli amici possiamo chiamarlo insieme x:
L’insieme y è dato invece da tutte le altre altezze (fra le 12 che usiamo in occidente) che non appartengono all’insieme x.
La somma; x + y = z
dove z è l’insieme di tutte le altezze possibili nel nostro sistema musicale e sulla tastiera di un pianoforte (se è accordato correttamente, cosa che non succede quasi mai, ma questo è un’altra storia).
Il brano oscilla continuamente fra questi due insiemi che costituiscono i due poli di attrazione di tutto il materiale melodico e armonico. In pratica: dopo un po’ di tempo che si lavora con l’insieme x l’ascoltatore comincia a sentire il bisogno di qualcosa, non sa bene cosa, una specie di cambiamento, ma non sa bene quale cambiamento. Cambiamenti di ritmo, di intensità, di testura sono solo palliativi, e servono solo a tirarla in lunga ancora un po’ (prolungamento nell’analisi Schenkeriana) ma alla fine, il desiderio di un cambiamento di “tavolozza armonica” è così forte che non c’è acrobazia che tenga: bisogna cambiare le altezze adoperate altrimenti l’ascoltatore “esplode” o, meno clamorosamente, distoglie l’attenzione.
Nel mondo modale e tonale questa tecnica era chiamata modulazione ed è basata su uno dei meccanismi percettivi più forti (e forse innati) del nostro efficientissimo orecchio tonale.
Nel brano ho poi utilizzato gesti strumentali tipici della morbidezza: sonorità tenui, una certa lentezza, indugio su formule ritmico melodiche ripetitive, arpeggi, pedali, ecc.
Il pezzo finisce con tre accordi: l’insieme x, l’insieme y, e l’insieme z. Una sorta di cadenza riepilogativa di tutta la storia e, casualmente, l’ultimo accordo, l’insieme z, composto di tutte e 12 le altezze di un’ottava del pianoforte può essere suonato solo come un doppio cluster (tasti bianchi + tasti neri) mettendo le mani distese trasversalmente come per accarezzare la tastiera: è l’ultima orribile carezza del pezzo.
MICHELE CAPPETTA ROVESCIO - PREMIO MONTANO 2016
La prima idea, ovviamente, è stata quella di scrivere un pezzo al contrario.
Precedenti illustri non mancano nella musica: l’operina Andata e ritorno di Paul Hindemith, dove a metà del percorso narrativo comincia il viaggio di ritorno e la musica “torna indietro”; il famoso brano medievale Sumer is icomen in dove alcune parti musicali sono “cancrizanti” si possono cioè leggere da sinistra a desta o viceversa: in pratica il palindromo applicato alla musica;
i ritmi “non retrogradabili” di Olivier Messiaen: ancora una volta dei palindromi ritmici;
La musica suonata al contrario, suona molto diversa, e da questa osservazione nasce la celebre storiella di quel dilettante che, pur di scrivere una sinfonia senza averne le capacità, ricopiò al contrario una sinfonia del poco noto compositore A.S. capendo, solo al momento della prima prova, che in realtà aveva così riscritto interamente la quinta sinfonia di Beethoven. Se qualcuno vi ha preceduto nel copiare al contrario, siete fregati.
Ma il testo di Cappetta non è un semplice procedimento retrogrado: se voi provate a leggere il testo frase per frase dalla fine all’inizio, vi accorgete subito che qualcosa non funziona. Il testo di Cappetta è una storia che “torna indietro” ma non è il rovescio di niente. Come fare?
Il concerto per due pianoforti soli di Stravinsky ha la soluzione: c’è un tema con variazioni. Solitamente nei temi con variazioni si fa sentire il tema all’inizio e poi, variazione dopo variazione, ci si allontana progressivamente dal tema arricchendolo, deformandolo, trasformandolo, ecc. Stravinsky fa esattamente il contrario, ed è l’unico caso noto nella storia della musica: parte dall’ultima variazione, quella più lontana dal tema e, variazione dopo variazione, si avvicina al tema spogliandolo progressivamente di tutti i fronzoli e gli ornamenti. Alla fine appare il tema. Nudo. Un vero e proprio striptease sonoro.
Quindi la struttura del mio pezzo è: variazione 4, variazione 3, variazione 2, variazione 1, tema.
Il tema, il lapidario «L’inchiostro è nero» finale, dal quale nasce tutto, è costituito nel mio brano da due semplici accordi formati dall’ insieme x e dall’insieme y. Disposti però ritmicamente in modo non retrogradabile (palindromo).
Questi due insiemi hanno una nota in comune; il re che è una sorta di ponte o legame tra uno e l’altro. Nel gergo insiemistico questo re sarebbe chiamato l’insieme intersezione fra x e y.
La somma di x + y quindi non è z ma un insieme z mancante di un suono (il fa) = z (-1).
Questo suono “fantasma” (il fa) appare di tanto in tanto nel brano, ma non a caso: la sua fugace apparizione segnala la fine di una variazione e il passaggio a quella successiva. E’ come il sospetto di qualcosa che non arriva mai a concretizzarsi ma che con il suo punto di domanda e la sua mancanza apparente di motivazione spinge in avanti la nostra curiosità.
Fino alla terribile frase finale («L’inchiostro è nero») che di per se non ha niente di terribile ma diventa terribile quando si capisce che è stata l’origine di tutta la storia precedente. Questi due accordi e il ritmo con il quale vengono suonati sono per questo quanto di più amorfo e neutro si possa fare in musica. Suonati da soli non dicono praticamente nulla di interessante: sono la cruda essenzialità del tema finale.
PIERA OPPEZZO - VIVENTE STENDE LA MAPPA - PREMIO MONTANO 2016
Il dato strutturale che mi ha colpito subito nella poesia di Piera Oppezzo è la presenza in un certo modo ossessiva di “vivente” quasi in ogni quartina della poesia.
E’ come un maniacale ritorno al punto base, al perno della narrazione, al punto di partenza. Attorno le situazioni cambiano ma noi siamo come prigionieri nel cranio di vivente e assistiamo alle sua azioni e al mutare della scena senza mai cambiare punto di vista.
In musica esiste una forma perfetta per raccontare questo: la Passacaglia, ovvero Ciaccona, ovvero Ground (in Inghilterra).
Un tema si ripete in modo sempre uguale e ossessivo mentre attorno a lui si sviluppa ogni sorta di variazione. I musicisti barocchi erano in genere così abili nell’arte della variazione che riuscivano a “distrarre” l’ascoltatore dalla ripetizione ossessiva del tema facendogli sopportare questa ripetizione continua. Per fare questo usavano dei temi di passacaglia molto semplici e banali e poi si buttavano a capofitto nelle ricchissime variazioni.
Brahms, nel finale della quarta sinfonia, riesce a spingere questo procedimento così a fondo che nessuno, al primo ascolto, si accorge che è una passacaglia. Solo dopo averlo fatto notare ci si rende conto di questa ripetizione ossessiva ma “sotterranea”. Stessa cosa nel brano per organo Le jardin suspendu di Jehan Alain.
Ma esiste un altro modo di usare la passacaglia: quello che si può sentire nelle innumerevoli Ciaccone, bassi ostinati, Ground di Henry Purcel (1658?-1695). In Purcel prevale l’attrazione magnetica e ipnotica per la ripetizione poco mascherata, quasi esplicita, che funziona come un gorgo da quale non si riesce più ad uscire.
Ho usato questo secondo procedimento per raccontare l’onnipresenza di “Vivente” e quindi il tema che ho scelto è molto ben caratterizzato e riconoscibile, privo di respiri e quasi ansioso, e la sua ossessiva ripetizione finisce a poco a poco per fagocitare tutto il resto: non si può che continuare a ripeterlo fino allo sfinimento.
LUIGI SEVERI - SINOPIA - PREMIO MONTANO 2016
Per Sinopia di Luigi Severi ho saputo subito cosa volevo: volevo un colore solo, quell’unico colore con il quale sono dipinte le sinopie: Terra di Siena per gli antichi maestri frescanti ma anche una meravigliosa Terra di Sardegna per la sinopia di 240 mq che mio padre dipinse nella chiesa di Lugagnano, dal 1990 al 2005, e che si trova ora sotto lo strato della successiva pittura a tempera di caseina lattica intitolata Arbor Redemptionis. (Ma molte foto della sinopia, oggi non più visibile, si possono vedere al seguente link: https://get.google.com/u/0/albumarchive/113329101060291120240
Con quest’unico colore volevo, come fa Luigi Severi, raccontare il mondo.
Quindi ho utilizzato un unico insieme di altezze;
e su questo ho costruito tutto il brano evitando il più possibile di uscire da questo monocromo.
L’insieme y ovvero l’insieme non x
non viene mai utilizzato nel corso del brano e questo si trasforma in un tono costante che, pur oscillando fra caratteri diversi, mantiene una colorazione tendenzialmente cupa.
L’insieme y appare solo alla fine del brano, come una nuvola di suoni armonici in dissolvenza, come a ricordare che esisterebbe un altro mondo e un altro modo, complementare e speculare, di raccontare le stesse cose.
I temi musicali che attraversano il brano suonano come frammenti visti attraverso un unico filtro, un unico codice coloristico, un’unica tonalità di fondo. Una sorta di viaggio per il mondo con occhiali color sinopia.
Questo testo, così infarcito di termini tecnici dell’affresco, non poteva non sedurre il figlio di un frescante. Soprattutto quando è forte la consapevolezza che assai spesso le sinopie sono molto più belle, riuscite e stupefacenti dell’opera finita.