Miro Gabriele scrive in forme regolari, con molta attenzione alle metriche, ai ritmi interni, agli equilibri sonori. Ci sono spesso rime, non sempre esplicite, allitterazioni e assonanze (“Altra difficile dolcezza invernale/amore al buio, luce insostanziale…”) ma anche, talvolta, un uso assai disinvolto dell’enjamblement; il tutto totalmente asservito ad evidenziare il senso.
Ed è chiaramente merito di una rigorosa formazione classica, proficuamente applicata alle traduzioni del classici latini, ma anche ampiamente digerita e consolidata, se tutti questi aspetti formali nulla tolgono al piacere della lettura dei suoi testi.
Al di là degli aspetti strutturali, è interessante la prospettiva percettiva che emerge da questi versi. Che si parli di città antiche o moderne, di paesaggi umani o esperienza interiore, ciò che viene descritto in poesia si trova all’interno di uno spazio totalmente soggettivo o, al massimo, in quella zona di confine subito prima della totale, oggettiva e aliena presenza del mondo esterno: “La riconosciamo è un’abitudine/in quest’ora sottile in riva al mare/la stessa ansia in me e in te d’una misura…”.