Nell’adoperare precisi schemi linguistici rispettosi delle comuni regole, Rosa Pierno, con “Trasversale”, suggerisce, anche per contrasto, un quid che trascende il reticolato proposto.
Ma non di semplice “non detto” pare trattarsi, lo svolgersi dell’ ordinata procedura formale sprigionando valenze evocative tali da escludere ogni contingenza, per richiamare dimensioni in cui le sorti stesse degli umani stili di vita si rivelano coinvolte.
Proprio quanto è ineffabile risulta, in effetti, protagonista: ovunque presente, sotteso a ciascuna unità sintattica, “espresso” con intensità ìndice d’ intima consapevolezza di vitali sensibilità, oltre e origine nel contempo.
Da qui, perciò, l’ insistere su personaggi che, nei più svariati àmbiti disciplinari, considerarono la severa ricerca scopo precipuo: anche in loro, avverte, nemmeno troppo implicitamente, l’ autrice, dovrà pur essersi manifestata coscienza di quel muto mondo da cui, in virtù di gesti comunque creativi,furono con genialità tratti segni utili al genere umano.
Nessun campo dello scibile, così, viene escluso da una trattazione complessa, capace di procedere per affermazioni di tipo aforistico, a tratti brucianti, ben attenta ad evitare cadute in un’ apparente, illusoria, esaustività: tutto, insomma, anche l’ indicibile, è presente nel sistema di comunicazione adottato e compito del poeta è renderne testimonianza in forma originale, artistica, secondo istanze, in ultima analisi, di genere etico.
Fu precisione finezza.
Marco Furia
(Rosa Pierno, “Trasversale”, Anterem Edizioni, Verona, 2006)
Con “ Il moto apparente del sole. Storia dell’ infelicità”, Flavio Ermini mostra come il confine, non semplice superficiale demarcazione, consenta esplorazioni a chi sappia percorrere ardui itinerari: rendere palesi possibilità di ulteriori analisi pare essere il presupposto dell’ opera.
Occupata una postazione di frontiera, il Nostro, conscio del fatto che al di fuori del perimetro linguistico nulla di pensabile può sussistere, non si nega alla sfida del rendere testimonianza, il più possibile, di quanto il suo acuto, partecipe, sguardo riesce a cogliere: compone, così, un articolato testo dall’ intensa valenza evocativa con il precipuo scopo di strappar via gli ottenebranti veli da cui la comunità dei parlanti è spesso avvolta.
Rendere perspicua l’ umana maniera di stare al mondo, liberando l’ idioma da antiche incrostazioni e fraintendimenti, non sembra però, a prima vista almeno, essere di vantaggio all’ autore, che pone, quale sottotitolo, “Storia dell’ infelicità”: dopo aver obbedito all’ imperativo di opporsi, con risolutezza, a qualunque forma di occultamento dei meccanismi linguistici, Ermini non sembra disporre di antidoti alla (comprensibile) angoscia nascente dall’ aver constatato che, evitata ogni opzione metafisica, nulla può considerarsi valido fondamento di un’ esistenza abbandonata a se stessa.
Se, poi, si aggiunge, su un piano più squisitamente sociologico, la presa d’ atto di un doloroso depauperamento di quanto attiene all’ intima dimensione umana ad opera d’ imperanti tecniche proponenti grammatiche e stili di vita sempre più avvilenti, nulla pare in grado di opporsi a quel sottotitolo.
Ma, avverte un Leopardi già citato nel risvolto di copertina, “ E così quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l’ anima, veduto nell’ imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio, apre il cuore e ravviva”: esiste, dunque, una via di scampo, quella del talento.
Dotato di straordinaria vocazione etica, il poeta di Recanati indica una via che il Nostro ha inteso, senza dubbio, seguire: lo dimostra un impegno altrimenti privo di senso.
La poesia è capace di promuovere quella consapevolezza che non deriva dall’ applicazione del reticolato logico, ma è conoscenza diversa quanto profonda: ecco la feconda risposta.
Dai “pessimisti” la più tenace delle speranze ?
Fu sapiente la penna.
Marco Furia
(Flavio Ermini, “Il moto apparente del sole. Storia dell’ infelicità”, Moretti&Vitali,Bergamo,2006)
Già dall’ inizio di “La materia del mondo”, Domenico Cara, con “il mio idioma s’ accosta ai senza/ idioma”, rende espliciti intenti espressivi rivolti verso un quid confinato ai margini del reticolato logico, se non proprio caduto nell’ oblio: spetta al poeta “avvicinarsi alla primavera” (non, soltanto, al segno che la contraddistingue) e renderne testimonianza.
Attento ai “possessi minimi”, il Nostro percorre, assiduo, non usuali tragitti lungo i quali suggestivi incontri, accostati a repentine immagini di notevole impatto linguistico, nonché offerti, talvolta, secondo timbri lirici dalla rigorosa misura, prendono luce da contesti ampi quanto concentrati, tenuti assieme da non labili scelte poetiche.
Il tutto per confluire, da ultimo, in aforistici versi dalla fulminea lucidità, frutto di ulteriori processi di distillazione: penetrante, la parola riesce, così, a cogliere, con peculiare naturalezza, perfino l’ “ironia delle felci”, concludendo con cenni biologici un itinerario tale da indurre ad illuminanti riflessioni.
Né complessità offuscò sensibile acutezza.
Marco Furia
(Domenico Cara, “La materia del mondo”, Edizioni del quarto oceano, Milano,2006)
Ad una biologia del dire allude, con sapiente determinazione, “OM AFILOSOFIA AFILOSOFISM” di Martino Oberto, il cui “spensiero” risulta rivolto verso origini vissute quali immanenti all’ attualità della pronuncia, le opere presentate testimoniando di gesti tali da sottoporre ad indagine la stessa facoltà di nozione.
Agli autoritarismi d’ inadeguati canoni si ribella, coerente, lungi da ogni ordinario circuito, l’ articolato, suggestivo, lavoro di un artista che, insoddisfatto di schemi in uso comune, consapevole dell’ impossibilità di rappresentare l’ ineffabile, decide di fondare, nonché di costruire, peculiari idiomi nel cui àmbito presenze magmatiche, non prive di richiami a (destabilizzate) consuetudini, conferiscono corpo e, assieme, lucidità ad istanze espressive irriducibili.
Oltre il dire c’è un altro “dire”, se è vero che è proprio dell’ uomo comunicare e, perciò, tentare di farlo anche quando, anzi soprattutto quando, l’ impresa risulta ardua: teso alla proposizione d’ inediti modelli, Oberto mostra, enigmatico, maniere alogiche di concepire e giunge, così, “spensando”, a molto esprimere.
D’ illuminante valenza poetica le parole introduttive di Flavio Ermini.
Marco Furia (Martino Oberto, “OM AFILOSOFIA AFILOSOFISM”, introduzione di Flavio Ermini, Galleria Peccolo, Livorno, 2006)
Per nulla avaro di stimolanti proposte, risoluto nel trarre conseguenze gravide di suggestive implicazioni, Tiziano Salari, con “Sotto il vulcano. Studi su Leopardi e altro”, presenta una raccolta di saggi la cui brillante compostezza appare diretto esito d’ interiore perspicuità.
Già nell’ articolata introduzione vengono rese esplicite le strutture portanti: la definitiva uscita “dall’ antica querelle che contrapponeva il poeta al filosofo”, tipica di un’ “egemonia culturale” neoidealistica tendente ad “esaltare il poeta e svalutare il filosofo”, il desiderio di “ricondurre ad unità” non soltanto le (pretese) diverse anime, ma anche il “molteplice universo”, con sapiente scrupolo esplorato, sviluppo di una non comune esperienza poetica, la scelta di “non classificare Leopardi sussumendolo ad un tutto, come se fosse scontata la conoscenza di tutte le possibilità dell’ essere dell’ uomo”.
Si avverte, insomma, ben determinato, un intento rivolto a superare angusti confini di stretta esigenza critica, rivelando, fin dall’ inizio, propensioni tanto improntate al rigore, quanto decise a non optare per fallaci propositi di esaustiva specie.
Si è, in effetti, in presenza di approccio rigoroso, non rigido, risultato di mai ambigui atteggiamenti, inclini a reputare l’ enigmatico non limite, ma sprone, del tutto naturali per un autore, Salari appunto, che sa essere poeta, filosofo, saggista, riuscendo a cogliere, nello specifico come in generale, nelle stesse distinzioni elementi unificanti.
Tali elementi, viene suggerito, risiedono nel linguaggio e scaturiscono da quei territori dell’ ineffabile non considerati, in maniera meccanica, quale antica origine, bensì vitalità insita nell’ espressione.
Criterio analitico, linguistico in senso profondo, proprio di chi, contando su perspicue idee, nulla scarta di quanto può risultare utile secondo vagli di natura antropologica, centrati sull’ uomo e sui suoi stili: vita e idioma sono tutto, infine.
Fecondo fu enigma.
Marco Furia
(Tiziano Salari, ”Sotto il vulcano.Studi su Leopardi e altro”, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 2006)
Un’ aria “ estranea ”, peculiare, genera dense atmosfere sotto il cui influsso brevi cenni, con scrupolo annotati, si alternano a repentine immagini, offerte secondo limpide cadenze idiomatiche non in obbligo rispetto ai canoni ordinari, ma esigentissime quanto a coerenza interna.
Nitidi, i luminosi risuoni di Michele Fogliazza, contraddistinti, a tratti, da ( composto ) espressionismo, non mancano, così, di quella precipua coesione, scaturente dal non ignorare impegnative sfide, senza dubbio foriera di fecondi sviluppi.
Molto promettente opera prima.
Marco Furia
( Michele Fogliazza, “ Diurno “, Opera Prima, Cierre Grafica, Verona, 2006 )
Lungo una poetica galleria, il cui peculiare fascino sembra provenire tanto dalla sapiente versificazione quanto dall’ oggetto della stessa, ci accompagna lo storico dell’ arte Toni Toniato, i cui ben scanditi accenti, non privi di brillante smalto, tendono, per precisa scelta, ad eliminare quell’ opprimente barriera talvolta frapposta, complici limitanti convenzioni, tra osservatore e opera.
Non è impresa così ardua giungere a godere appieno dell’ arte moderna, suggerisce il Nostro, a maggior ragione se si può disporre , come accade al lettore di “Dediche”, di esperta guida, capace d’ indicare, con garbata fermezza, percorribili vie tramite cui uno sguardo consapevole, infine libero da certi affliggenti schemi, trova spontaneamente il proprio spazio di suggestiva fruizione.
Vengono richiamate, non a caso, accanto ad elementi costitutivi, emozioni riferibili all’ osservatore, pure proposte, nel contesto dei componimenti, quali in qualche modo intrinseche alla materia trattata, instaurando, così, un fecondo dialogo a ulteriore conferma del fatto che le forme di vita, i più intimi linguaggi, possono, in tutta naturalezza, colloquiare senza inibire agli esiti di appassionati studi sbocchi poetici.
Con tutto, insomma, anche con i capolavori dell’ arte novecentesca (1893-2001), si può fare poesia.
Marco Furia
(Toni Toniato, “Dediche”, Anterem Edizioni, 2005)
Eleganti e concise appaiono le intense scritture di Alessandro Ghignoli in “Fabulosi parlari”.
Di “parlari” certo si tratta, poiché il “frammento”, qui, lungi da opporsi all’ “intero”, pare piuttosto “parte” in grado di richiamare il “tutto”, l’ ampio spazio bianco non comunicando senso di vuoto, bensì disponibilità a dare seguito alla scrittura (i testi, non a caso, vengono presentati uno ad ogni inizio pagina e non, come spesso accade, di seguito, con stacchi).
Dotato d’ indubbie capacità evocative, l’ autore non attenua mai il proprio deciso gesto, conferendo alla raccolta una compattezza indicativa di atteggiamenti coerenti nella struttura, quanto esposti alla suggestione di usi linguistici dalla peculiare ritmicità.
Non si è in presenza di schegge, scorie prodotte da una deflagrazione, ma di calibrati, affascinanti, scritti, tali da porre la questione di quale sia la valenza, in poesia, del rapporto tra integro e frantumato.
Si conclude, nel concreto della scrittura, per l’ inadeguatezza di siffatto, schematico, interrogativo in àmbiti, come quelli in argomento, in cui la “lite” è “mite”, le “impronte” sono “impronte su impronte”, l’ “indolenza” risulta “elettrica”, il “montaggio della quiete” “intatto”, in cui le quotidiane modalità logiche, cioè, vengono trascurate a favore d’ usi più consoni ad esigenze espressive altrimenti destinate a rimanere insoddisfatte.
Proponendo scritture dense, ricche di energia, costruite attorno a complessi nuclei, Ghignoli pone (e risolve) il problema del valore dell’ istanza poetica senza cadere nelle trappole di ambigue trame esplicative: la poesia, egli mostra, parla, sempre, (anche) di se stessa.
Fu fiduciosa consapevolezza.
Marco Furia
(Alessandro Ghignoli, “Fabulosi parlari”, Gazebo, Firenze, 2006)
La scrupolosa “indagine sulla poesia triestina del secondo Novecento” di Luigi Nacci, il cui titolo, “Trieste allo specchio”, preannuncia il rigore di esplicite conclusioni, si svolge secondo canoni quasi statistici, sulla base di risposte fornite ad un questionario da centodieci poeti.
Nel prendere atto della volontà dell’ autore di esprimere le proprie (pregnanti) opinioni, non si può evitare di porre l’ accento su un approccio che, partendo “dalla mancanza di un apparato critico organico” riferito al periodo, trova nel “criterio geografico”, cui viene sovrapposto un fitto reticolato, maniera di fornire elementi utilissimi: opzione tesa ad una sorta di “oggettività”, risultante del tutto in grado di produrre i suggestivi esiti richiamati dal titolo.
E, in effetti, di “specchio” pare d’ essere al cospetto, se è vero che l’ immagine riflessa, identica quanto illusoria, permette al soggetto una visione di sé altrimenti impossibile: soltanto in maniera virtuale, dunque, il poeta può accedere alla propria effigie ?
Quesito dalla forte carica enigmatica, nel cui àmbito, come viene suggerito dallo stesso modello, l’ elemento iconico-idiomatico si presenta nella rilevante portata di condizione necessaria all’ umana esistenza.
Privo, così, di qualunque istanza di stampo aprioristico, Nacci percorre, risoluto, un articolato itinerario, non facendo mancare, ove lo ritiene opportuno, illuminanti approfondimenti critici centrati su particolari autori: il tutto sempre in diretto collegamento con le questioni proposte, fiducioso nel metodo adottato.
Molto soddisfacente ricerca.
Marco Furia
(Luigi Nacci, “Trieste allo specchio”, Battello stampatore, s.d.)
Prosatore e poeta, più volte ospitato sulla spatoliana “Tam Tam”, Giorgio Terrone, con “Dodici”, propone calibrati versi tesi a richiamare entità ulteriori rispetto all’ ordinario meccanismo linguistico.
Suggerite da non ambigui cenni tratti dal quotidiano, rese sulla pagina con singolare accortezza, vengono a crearsi, come per necessaria germinazione, suggestive aree dalla peculiare enigmaticità radicata nella stessa determinazione espressiva. Forse, come, non a caso, suggerisce uno dei titoli, del trompe-l’oeil l’ autore mira a richiamare l’affascinante intento, consapevole di quell’ ineffabile àmbito in cui l’ immagine si lega a quanto rappresentato e, nel conferire astrattezza al gesto della riproduzione più “oggettiva”, risulta capace d’ intense evocazioni.
Tutto trattenuto, per precisa scelta, entro i confini di un’ istanza incisiva ma attenta ad esigenze di misura, sempre vigile, dominata da prese d’ atto, pur rinfrancate da rigorose letture, effetto di naturale inclinazione. Affascinante percorso.
Marco Furia
(Giorgio Terrone, “Dodici”, Anterem Edizioni, Verona, 2006)