La parola che Enzo Campi ci presenta in questo poemetto ha una speciale qualità che travalica la semplice lettura dei suoi testi, compenetrando il lettore con un’azione che cancella il già dato e generando e rigenerando un fluire linguistico senza agganci conosciuti. Per questo il termine “lettura”, così come lo si intende e lo si agisce normalmente, crediamo che in queste poesie sia quantomeno inadeguato, perché va riempito di ulteriori significazioni e ancora più di pratiche interpretative significanti. Per comprendere allora qualcosa di essenziale della visione poetica che l’autore infonde in questi testi, occorre leggere come se fossimo noi a scrivere: per percepire con gli occhi, con la mente pensante e intuiva, con il corpo e, nell’insieme, con il movimento che la voce trasporta in scrittura e riverbera trasformata in suono nuovo. È un’ architettura modulare, fatta di onde e sommovimenti, in cui la circolarità fono-grafica accresce, abbandona, recupera, nel lavorio della lingua, i sensi di una forma gestuale: contemporaneamente fisica e incorporea.
E se questo movimento non viene sentito, o meglio, non ci si dispone a sentirne le ondulazioni generate dal suo pensiero fluente e confluente – mai trattenuto, mai costretto ma sempre lucido e attento a riconoscere che “l’aria che si respira tra il/bianco e il/nero” è un “vuoto.../pieno d’humus vitale” –, se dunque non si fa lo sforzo benefico di aderire a ogni articolazione, anche minima del testo, l’opera di Enzo Campi la si può certamente leggere, ma al minimo delle sue potenzialità semantiche. Il segno di questa sua particolare natura è, fin dal prologo del poema, evidenziato in una duplice specificità: lì dove poetare per voce e corpo non può non trovare, in un andamento che riconosce nel suo cercare le concrete fonie che “sibilano o sibillano”. Quindi il suono che si fa senso multiforme, che attrae e fa attrito tra sé e il mondo, che si struttura plasmando o graffiando, a partire da un soffio o da gutturalità originarie, disarticolate, forse residuali particelle, ma capaci di dare sostanza alla lingua esistenziale che si apre alle evidenze nascoste del segno iniziale.
Enzo Campi è poeta che non si lascia agganciare da una mera interpretazione sperimentale, perché la sua estroversione selettiva coglie e combina ogni materia sensibile che la lingua possiede, sia in atto esplicito sia come annuncio segreto. In ogni caso un segno da scoprire, anche quando questo sembra apparire non chiamato o accadere non destinato. In queste pagine si compie un tumulto fonico che sente e fa sentire – con profonda duplicità del concetto di “udire” in sé e in sé “provare” il senso – come e quanto un dire così prensile non tenda a esprimere suoni che portano un significato concluso, ma prova a incidere nell’aria e sulla carta le “le cose e i silenzi/raschiati dal fondo”. E più ancora negli abissi di una superficie che vede i concetti smembrarsi e il soggetto interiore prendere parte in questa disgregazione dividendo “il primo pronome” IO, tra linearità univoca del significato e circolarità ricorsiva del significante poetico. Ed è qui, in questo conflitto che osserviamo una lotta tra “sillabe laviche” e “sillabe edulcorate”; conflitto che potrebbe annichilire fonemi e grafemi, se non fosse che ogni volta, da ogni disgregazione si forma uno scarto di senso, che muove e preme, in modo indistinto ma deciso, dentro un pensiero alla ricerca del “Lascito Originario da/cui attingere linfa vitale”.
Da ex tra sistole
prologo
disfusi per voce rattratta o
abrasi per gesto di ventre
sibilano o sibillano
tracotanti fonemi camuffati in
note stonate che raschiano che
raspano l’
esile struttura di una stele in-
cosciente chiodata al muro di
turno
ecco
:
non c’
è bisogno di spacciare ulteriori profezie
la palla di
spugna che massaggia il
tamburo non cede alle
lusinghe della mano di
turno e rifiuta l’ovatta
che vorrebbe detergere
le labbra dai residui
tribali di un sapere perduto
parodo
tra collo e colon un
sapido rizoma a
veicolare umori e
spacciare la parola d’
ordine per aggirare i
grumi rappresi
ma il sasso di grasso che garantisce l’
arresto e respinge il contatto è pronto a
sciogliersi e liberare l’
accesso se la chiave viene urlata
masticando chiodi e scalpelli
a fuoco vivo recita il
coro se pavidi o in-
costanti risuonano i
lamenti della prefica-madre e pure
collidono coincidono sull’
asse il grave e l’
inerte il trapano che trivella il supporto il
proiettile che perfora il
corpo allettato di fresco
a fuoco vivo recita il
coro per perpetuare la disseminazione e lo
scarto
Enzo Campi è nato a Caserta nel 1961. Vive e lavora a Reggio Emilia dal 1990.
Autore e regista teatrale con le compagnie Myosotis e Metateatro dal 1982 al 1990. Videomaker indipendente, ha realizzato svariati cortometraggi e un lungometraggio: Un Amleto in più. Suoi scritti letterari e critici sono reperibili in rete su svariati siti e blog di scrittura, su riviste e antologie. Ha curato numerose prefazioni e note in volumi di poesia. Ha pubblicato Donne - (don)o e (ne)mesi (Genova, 2007), Gesti d’aria e incombenze di luce (Genova, 2008), L’inestinguibile lucore dell’ombra (Parma, 2009), Ipotesi Corpo (Messina, 2010), Dei malnati fiori (Messina, 2011), Ligature (Sondrio, 2013), Il Verbaio (Milano – Sasso Marconi, 2014), Phénoménologie (Bologna, 2015). Principali curatele Poetarum Silva (Parma, 2010), Parabol(ich)e dell’ultimo giorno – Per Emilio Villa (Milano – Sasso Marconi, 2013), Pasolini, la diversità consapevole (Milano, 2015). Ha diretto, per Smasher Edizioni, la collana di letteratura contemporanea Ulteriora Mirari e coordinato le prime due edizioni dell’omonimo Premio Letterario. È stato ideatore e curatore del progetto di aggregazione letteraria “Letteratura Necessaria”. È direttore artistico del Festival “Bologna in Lettere”.