Un ulteriore sguardo sulla poesia italiana contemporanea, ideale seguito dei tre numeri precedenti: ancora una volta, nel nuovo “Carte nel vento”, tutta la redazione di “Anterem” è impegnata a presentare le opere, sia segnalate che finaliste, premiate nell’edizione 2015 del “Montano”.
Gli autori ospitati sono: Antonio Bux, Enzo Campi, Lia Cucconi, Chiara De Luca, Adelio Fusé, Paolo Gentiluomo, Giuseppe Gorlani, Francesca Monnetti, Alberto Mori, Giuseppina Rando, Marco Saya, Liliana Ugolini & Vincenzo Lauria.
L’occasione ci permette di rivivere l’esperienza del Forum 2015, che proseguirà quest’anno con simili modalità ma anche nuovi contenuti legati al trentennale del Premio.
Ricordiamo che il 15 aprile scadono i termini per partecipare alla 30^ edizione scarica il bando.
In copertina, Forum Anterem 2015, immagini di Armando Bertollo
Antonio Bux, in questa come in altre precedenti opere, sviluppa i suoi testi in forme diverse, fisicamente avvicinate per area concettuale, che risultano tra loro complementari e convergenti ad illuminare in suoi sistemi caotici della percezione.
I versi in corsivo, alti, evocativi, potenti per introdurre o, a volte anche per chiudere un campo di indagine, quasi a misurarne valore e universalità, come scrive proprio all’inizio: “La memoria/si genera/per ombre,/e solo conserva/il suo lato/retrostante”.
Le prose poetiche, il cui inizio colloca e definisce con un ritmo da cantilena breve che poi mano a mano si allarga e si riempie di strappi e crepe seguendo l’articolarsi e deteriorarsi nei suoi stadi più disgregati di un qualsiasi sistema complesso sottoposto a percezione.
Le poesie, in cui avviene la vera narrazione del corpo del soggetto, a volte in versi lunghi e inaciditi, altre con verso breve e più lirico, sempre e comunque musicali, concettualmente quasi –e ribadisco “quasi”- circolari, spesso con una piccola “fuga” finale priva di redenzione.
Una scelta precisa e obbligata dalla complessità e irriducibilità dell’oggetto dell’indagine poetica.
Dalla sezione “Scotomi”
Da Smistamento dell’invisibile
***
“Sono le vecchie pose
che rimangono accese
come a contrastare l’ombra,
la forza oscura arrugginendo
l’origine nell’ossidazione
di una fiamma primitiva”
Di tutto un fascio che avvolge
vi è sempre un filamento più teso
che avanza per sé, e da solo riprende
il peso che unisce – ma poi si ferma
a piegare le entrate, le distende sui lati
e si spezza da sé, come la memoria:
continua il ritaglio per stringersi ancora.
Dalla sezione “L’inversa voce del respiro”
***
“Dell’acqua su più strati, curva anomala
o solo onda senza ritiro, una marea
che già è furia prima di erigersi,
rovescio del luogo nel luogo riflesso”
Se un dipinto muove i luoghi,
li contiene in un acquerello,
allora l’effimero vive il disegno,
non la base reale, né la sostanza
dove prevale l’affanno invisibile,
come fluttuando nel pastello lucente
quando un dito ripercorre l’universo
- e dentro un confine d’ombra lo cancella –
nell’introspezione visiva custodisce l’addio.
***
“Dunque: somigliarsi allo specchio
prima ancora che il vuoto disegni
la forma a svanire, l’immagine
più ostile, quell’altro che rimane”
Nel bianco sporco della pagina
smacchia la lavanda del pensiero:
si stende invano sul dorso del foglio
e all’inverso produce
il chiarore, la luce insicura
nel tramonto della parola.
Antonio Bux (Foggia, 1982). Vive tra la Spagna e l’Italia. Suoi lavori e recensioni sono apparse in numerose antologie (tra le quali piace citare A sud del sud dei santi – Sinopsi, Immagini e Forme della Puglia Poetica. Cento Anni di Storia Letteraria (a cura di Michelangelo Zizzi, LietoColle Editore, Faloppio, 2013); InVerse 2014/15 - Italian poets in translation (a cura di Brunella Antomarini, Berenice Cocciolillo e Rosa Filardi, John Cabot University Press, Roma, 2014/2015); Poeti della lontananza (a cura di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli, Marco Saya Edizioni, Milano, 2014), e sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani nazionali (come Corriere della sera e L’Unità) oltre che in diverse riviste (tra le quali Italian Poetry Review, Poesia, L’Ulisse, La Manzana Poética, Hyperion) e lit-blog (come La dimora del tempo sospeso, Nazione Indiana, Poesia 2.0, Otra iglesia es imposible) sia nazionali che internazionali, dato che molti suoi testi sono stati tradotti in spagnolo, francese, inglese, catalano, tedesco, rumeno e serbo. Ha curato la traduzione del libro Ventanas a ninguna parte (Gattomerlino Superstripes, Roma, 2015) dell’autore spagnolo Javier Vicedo Alós, oltre che la traduzione di testi scelti di autori tra i quali Leopoldo María Panero, Julio Cortázar, Dário Jaramillo, Álvaro García, Antonio Cabrera, Jaime Saenz, Pere Gimferrer, Pedro Salinas, Vicente Aleixandre, Samanta Schweblin e tanti altri ancora. È autore dei libri Disgrafie (Poesie 2000-2007 e altre poesie) (Edizioni Oèdipus, Salerno-Milano, 2013; libro vincitore della XXXVII Edizione del Premio Minturnae Poesia Giovane “Ornella Valerio”); Trilogia dello zero (Marco Saya Edizioni, Milano, 2012; libro finalista per l’opera edita alla XXVII Edizione del Premio Lorenzo Montano); Turritopsis (Di Felice Edizioni, Martinsicuro 2014); 23 - fragmentos de alguien (libro scritto direttamente in spagnolo, edizione bilingue; Ediciones Ruinas Circulares, Buenos Aires, 2014); Sistemi di disordine quotidiano (Achille e la tartaruga edizioni, Torino, 2015). È risultato vincitore del premio Iris di Firenze nel 2014, e finalista al premio Poesia di strada, sempre nello stesso anno. Collabora con diversi editori e scrive per alcune pagine culturali sul web. Gestisce il blog Disgrafie (antoniobux.wordpress.com) e, per le Marco Saya Edizioni, la collana Sottotraccia.
Perdi/Menti
È una suonata a quattro mani quella che Liliana Ugolini e Vincenzo Lauria eseguono sullo spartito della silloge “Le stanze della mente”, stanze musicate con uno strumento le cui corde vibrano in una tensione che chiama in causa, nei loro controcanti reciproci, il pensiero e la parola, come introducono gli autori: “Linguaggio miriade / che percuote tam tam soffia di tromba / corda di violino e richiama / dialettiche e allusioni di doppi. / La verità del perdersi”.
Il perdersi, personale e della parola, muove dalle difficoltà di dire, quando per Liliana Ugolini “Il conoscere incontra la fatica verbale / e si fanno versi silenzi e balbettii”, e dai limiti posti dal finito nel controcanto di Vincenzo Lauria, per il quale “Ultima è la meraviglia / la parola morta / in fremer di labbra / morta in gola / per aver saggiato il suo confine”.
Attraversando le varie stanze e declinazioni della mente, come leggiamo, “A porte chiuse / l’avversa mente / è la tua stessa mente /… accosta/Menti / in strania/Menti da strapiombo”, in un serio e sofferto gioco linguistico, gli autori mettono in scena misure e dismisure, abissi e silenzi, assenze e non esistenze, finito e infinito, nell’erranza della mente e della parola: “Facil/Mente / errerò nell’in/errabile”, riflette Vincenzo Lauria, trovando nel controcanto di Liliana Ugolini, la misura dell’oltre, “Ora so che basta saper d’aver visto / con occhi innocenti / un che d’infinito una volta”.
Cervello
L’enigma verticizza
l’evolversi complesso.
Milletrecento grammi
d’encefalo complesso
esploso in due emisferi
(m/isterocosmo) in divenire
dell’attimo successo telegrafico filo
d’un messaggio. Linguaggio miriade
che percuote tam tam soffia di tromba
corda di violino e richiama
dialettiche e allusioni di doppi.
La verità del perdersi.
Sostanza grigia (Liliana Ugolini)
Piacersi porre la propria immagine
ai larghi luoghi di velato comando
sicuri delle strade percorribili
guidare verso assolate speranze sicurezze
farsi seguire da sorrisi donati
per conoscere il ciclo e arrivare al coraggio
del granello perduto nelle storie.
Segreta IV (Vincenzo Lauria)
Le coincidenze,
le sovrapposizioni di spazi
ci ricongiungono al dunque
mentre il non sapersi ci riduce
di dose in dose
all’alchimia vivente,
memori d’immemore
funamboli su funi dentellate.
A tratti un meccanismo interno
ci sbalza nel fuori/dentro
e in immersione
ci si arrende alla crudità delle nostre carni.
Liliana Ugolini ha pubblicato 19 libri di poesia, 4 in prosa e 4 di teatro. Da questi sono stati prodotti 12 spettacoli teatrali e 2 opere/concerto. Ha curato per 16 anni in “Pianeta Poesia” la poesia performativa e multimediale documentata in tre libri.Collabora con l’Associazione Multimedia91 all’Archivio Voce dei Poeti e fa parte del gruppo performativo “Cerimonie Crudeli”. E’ stata redattrice della rivista “L’Area di Broca”.
Vincenzo Lauria, dopo un primo percorso nella poesia lineare, ha portato le coordinate del proprio orientamento nella dimensione poetica verso l’intermedialità e la performance. Dal 2010 collabora con Liliana Ugolini ai progetti poetici multimediali Oltre Infinito, Oltre Infinito 2.0, O13 Infinito. Dal 2012 collabora con l’Associazione Multimedia91 – Archivio Voce dei Poeti.
La carne, in Paolo Gentiluomo, è non solo la predella da cui erigere lo sguardo verso l’altro, ma è l’orizzonte speculativo stesso. Come dire: mezzo e scopo della conoscenza. Se nell’intuizione aristotelica, mente e corpo sono indistinguibili, in Gentiluomo, il corpo si percepisce con i sensi, s’interpreta attraverso le sue azioni. Il corpo si apre, così, a un’interpretazione combinatoria pressoché infinita rispetto al dato finito: tant’è che delle donne incontrate nessuna descrizione, benché finita nel tempo, può terminarne esaustivamente la definizione, determinarne l’essenza. E, dunque, per Gentiluomo si deve considerare solo il corpo: “in tutto ciò lo spirito non alberga da nessuna parte, non entra neanche in gioco, è solo soffio e alito pesante”. Anche quando il prelievo da opere appartenenti alla tradizione in qualche modo dirotta il discorso, attraverso consolidati stilemi, inevitabilmente, l’oggetto è sempre il corpo e soprattutto non vi si apre mai un’asola di incertezza o mistero che indichi una prospettiva di tipo metafisico: “quel dente che mi fére ad ora ad ora le tumidule genule, i nigerrimi occhi mi risana ancora il desir troppo ingordo”o ancora “s’io avessi le lingue mille a mille e fussi tutto bocca e labbra e denti”. Come a dire non si esce da questa sfera, non si esce dal corpo se non mentendo. Corpo: gabbia e strumento di saturazione, oggetto limitato, ma permutante, ove quel che varia è la ripetizione, con la diversa collezione che se ne può ottenere. E, in questo senso, particolarmente vicina appare la poetica di Gentiluomo a quella beckettiana, dove la descrizione delle sole azioni è affidata a una descrizione geometrica: “un corpo spostato, rallentato, con omissione di un fumo che offusca, con omissione di una curvatura, e anche gli angoli non sono stati detti”. Come l’autore stesso afferma, tale operazione di ricalco è parallela alla doppia natura umana/divina di Cristo, e, infatti, in molte parti della silloge ritorna spesso il prelievo dai testi evangelici, impegnati come sono nella resa di tale duplicità, quasi un confronto preferito rispetto ad altri per il poeta. Ma vogliamo anche segnalare un’attenzione ai codici artistici, citati nel testo in quanto oggetti, corpi fra altri, e la vena ironica sempre presente, che se non assurge a rovesciamento delle verità veicolate dal potere, vale però come costante segnalazione di campo minato.
Dalla sezione “Il mio cuore è il tuo porcile”
v. il mio cuore è il tuo porcile
...quel porcile del mio cuore
come me lo sono ridotto!, un tumore
strappato coi denti, annusato e ansante,
un tumulto senza più accenti,
cumulo di parole lasciate sole
senza la bocca che le ha scoccate...
vi. caracollo
*
le mani ecco
l’attività febbrile delle mani le mie mani
che piegano gli abiti e li ripongono al loro posto
la questione dello stare al proprio posto
ruoli le mani
hanno il compito di non dare tregua al mondo
una di lavare l’altra senza scampo le mani
meglio averle morbide per petrti carezzare eppure...
*
le mani riportano ferite
in gesti presi da qualche parte
e riportati al volo sul corpo
venti coltellate forse ventuno
le mani sono state loro a infierire
le mani carnefici
hanno confezionato con abilità
il vestito della morte la cassa la tomba
mani diverse hanno preparato tutto come si deve
e le mani hanno posto fine ai battiti
mani incuneate nel cuore
per sottrarne una libbra
a me sembra fossero trenta trentatrè le coltellate
amano vibrante o forse confondo con altri ferimenti letali
eppure...
Paolo Gentiluomo suonò musica industriale coi TamQuamTabulaRasa (tapes-cd). Coordinò con Berisso, Cademartori e Caserza il collettivo di pronto intervento poetico Altri Luoghi. Partecipò al Gruppo 93. Danzò in Danze minute e sTANZe della coreografa-danzatrice Aline Nari. Lesse in feste, festival, gallerie, radio, chiese sconsacrate, monasteri, musei dell'attore, teatri, ex-macelli, varietà patafisici da lui stesso confezionati. Pubblicò Novene irresistibili (Periferia, 1995), Catalogo (Zona, 1998), il manualetto per ragazzi Poemificio (D'If, 2003), Dice con quanti denti quest'amor ti morde (Mazzoli, 2005, finalista al Delfini), La ragion totale (Zona, 2007, finalista al Tassoni 2008, segnalato al Montano 2009), il romanzo Lo smaltimento (Round Robin 2010), Manuale Portatile per la Devozione del Fertile Gaudio (Sartoria Utopia, 2012 e 2015).
La perizia metaforica che sostiene il testo lo connota pur nella molto particolare struttura dialogica.
Una delusa attesa di vita concentra e addensa questa poesia, la sua necessità di dire, la sua libertà espressiva.
Nel circuito della significazione, in entrambi i versanti delle voci, il testo di Adelio Fusé è orientato sia al racconto che a una simultanea introspezione. Dice insieme il fatto e il pensiero che ne consegue, come nella chiusa della terza strofa:
“e via franando fino all’irriducibile /
il punto che ci dipana ma mai si tocca / e luce non getta”.
Come cadere nel buco nero di un sé inconcluso, dentro una confusa massa.
Ma tutto, in questa come in molte storie che raccontano deglutite amarezze, si scioglie nella piega finale, a tratti dolorosa, per altri versi ironica, dolcemente meditativa, della voce-pensiero che osserva senza aspettative ma irriducibilmente “qualunque transitare che più non passa”.
***
all 'epoca le ore mi avevano assegnato
alla costa dove il mare sbraitava
a dispetto dei miei gemiti assenti:
nell 'entroterra un altro vento volava
e fustigava e smembrava
"e tu che sei il veterinario si guastano mai
dimmi i denti ai cavalli?"
lui un autografo nella posa consueta
smerciò sorrisi lieti oppure così lunghi
che parevano marci sollevando nuvole
da gran fumatore (sigari dozzinali
a giudicare dall'odore)
"perché ecco vedi" si recitò saggio svagato
e informale "occorre circoscrivere
le domande e la tua nulla da eccepire
è localizzabile nella bocca
di provenienza - la tua -
e nella bocca equina che nomina:
un esempio uno soltanto pari
a incalcoabili altri
oh! io sono confusa massa ma il senso
è che questa piana qui intorno si riduce
per mia volontà alla porzione che io occupo
in definitiva all'effetto e alla causa nel ristretto:
ragiono e m'impunto su scale minimali
e via franando fino all'irriducibile
il punto che ci dipana ma mai si tocca
e luce non getta
(e oggi ti prego di credere non ho bevuto
un goccio forse finalmente dovrei
anche più d'uno in verità
da bagnarsi con gli spiccioli
ultimi: lo si afferra per la coda - ridi perdio
alla coda del goccio! - come il rinomato treno
o medium qualunque transitante che più non passa
insomma accostiamo i bicchieri amico transfuga
noi delicati e inconclusi non ancora spacciati)"
Adelio Fusé è nato in provincia di Varese nel 1958, vive a Milano e lavora nell’editoria. Ha pubblicato saggi su Sade, Kafka, Sartre, Handke, Eno (Cd-Book Auditorium-Materiali Sonori, 1999), un romanzo (North Rocks, Campanotto, 2001) e i libri di poesia Il boomerang non torna, Book Editore 2001; Orizzonti della clessidra distesa, Book Editore 2005; Canti dello specchio bifronte, Book Editore 2009; L’obliqua scacchiera, Book Editore 2012; segnalati al Premio “Lorenzo Montano”, 2004, 2006, 2009, 2013). Testi sono apparsi su riviste ("alfabeta", “Atelier”, "Auditorium", “Il Segnale”, "La Ginestra", "Legenda", "Lengua", "Sonus", “Tratti”) e online (“Carte nel Vento/Anterem”, “Poetarum Silva”, “Vico Acitillo 124 – Poetry Wave”). Ha fatto parte della direzione di "Legenda" (Tranchida, 1988-1995). Collabora con artisti e musicisti (libri d’artista, installazioni, performance). Ha ottenuto un riconoscimento speciale al “Premio Riccione per il teatro" (1981).
La parola che Enzo Campi ci presenta in questo poemetto ha una speciale qualità che travalica la semplice lettura dei suoi testi, compenetrando il lettore con un’azione che cancella il già dato e generando e rigenerando un fluire linguistico senza agganci conosciuti. Per questo il termine “lettura”, così come lo si intende e lo si agisce normalmente, crediamo che in queste poesie sia quantomeno inadeguato, perché va riempito di ulteriori significazioni e ancora più di pratiche interpretative significanti. Per comprendere allora qualcosa di essenziale della visione poetica che l’autore infonde in questi testi, occorre leggere come se fossimo noi a scrivere: per percepire con gli occhi, con la mente pensante e intuiva, con il corpo e, nell’insieme, con il movimento che la voce trasporta in scrittura e riverbera trasformata in suono nuovo. È un’ architettura modulare, fatta di onde e sommovimenti, in cui la circolarità fono-grafica accresce, abbandona, recupera, nel lavorio della lingua, i sensi di una forma gestuale: contemporaneamente fisica e incorporea.
E se questo movimento non viene sentito, o meglio, non ci si dispone a sentirne le ondulazioni generate dal suo pensiero fluente e confluente – mai trattenuto, mai costretto ma sempre lucido e attento a riconoscere che “l’aria che si respira tra il/bianco e il/nero” è un “vuoto.../pieno d’humus vitale” –, se dunque non si fa lo sforzo benefico di aderire a ogni articolazione, anche minima del testo, l’opera di Enzo Campi la si può certamente leggere, ma al minimo delle sue potenzialità semantiche. Il segno di questa sua particolare natura è, fin dal prologo del poema, evidenziato in una duplice specificità: lì dove poetare per voce e corpo non può non trovare, in un andamento che riconosce nel suo cercare le concrete fonie che “sibilano o sibillano”. Quindi il suono che si fa senso multiforme, che attrae e fa attrito tra sé e il mondo, che si struttura plasmando o graffiando, a partire da un soffio o da gutturalità originarie, disarticolate, forse residuali particelle, ma capaci di dare sostanza alla lingua esistenziale che si apre alle evidenze nascoste del segno iniziale.
Enzo Campi è poeta che non si lascia agganciare da una mera interpretazione sperimentale, perché la sua estroversione selettiva coglie e combina ogni materia sensibile che la lingua possiede, sia in atto esplicito sia come annuncio segreto. In ogni caso un segno da scoprire, anche quando questo sembra apparire non chiamato o accadere non destinato. In queste pagine si compie un tumulto fonico che sente e fa sentire – con profonda duplicità del concetto di “udire” in sé e in sé “provare” il senso – come e quanto un dire così prensile non tenda a esprimere suoni che portano un significato concluso, ma prova a incidere nell’aria e sulla carta le “le cose e i silenzi/raschiati dal fondo”. E più ancora negli abissi di una superficie che vede i concetti smembrarsi e il soggetto interiore prendere parte in questa disgregazione dividendo “il primo pronome” IO, tra linearità univoca del significato e circolarità ricorsiva del significante poetico. Ed è qui, in questo conflitto che osserviamo una lotta tra “sillabe laviche” e “sillabe edulcorate”; conflitto che potrebbe annichilire fonemi e grafemi, se non fosse che ogni volta, da ogni disgregazione si forma uno scarto di senso, che muove e preme, in modo indistinto ma deciso, dentro un pensiero alla ricerca del “Lascito Originario da/cui attingere linfa vitale”.
Da ex tra sistole
prologo
disfusi per voce rattratta o
abrasi per gesto di ventre
sibilano o sibillano
tracotanti fonemi camuffati in
note stonate che raschiano che
raspano l’
esile struttura di una stele in-
cosciente chiodata al muro di
turno
ecco
:
non c’
è bisogno di spacciare ulteriori profezie
la palla di
spugna che massaggia il
tamburo non cede alle
lusinghe della mano di
turno e rifiuta l’ovatta
che vorrebbe detergere
le labbra dai residui
tribali di un sapere perduto
parodo
tra collo e colon un
sapido rizoma a
veicolare umori e
spacciare la parola d’
ordine per aggirare i
grumi rappresi
ma il sasso di grasso che garantisce l’
arresto e respinge il contatto è pronto a
sciogliersi e liberare l’
accesso se la chiave viene urlata
masticando chiodi e scalpelli
a fuoco vivo recita il
coro se pavidi o in-
costanti risuonano i
lamenti della prefica-madre e pure
collidono coincidono sull’
asse il grave e l’
inerte il trapano che trivella il supporto il
proiettile che perfora il
corpo allettato di fresco
a fuoco vivo recita il
coro per perpetuare la disseminazione e lo
scarto
Enzo Campi è nato a Caserta nel 1961. Vive e lavora a Reggio Emilia dal 1990.
Autore e regista teatrale con le compagnie Myosotis e Metateatro dal 1982 al 1990. Videomaker indipendente, ha realizzato svariati cortometraggi e un lungometraggio: Un Amleto in più. Suoi scritti letterari e critici sono reperibili in rete su svariati siti e blog di scrittura, su riviste e antologie. Ha curato numerose prefazioni e note in volumi di poesia. Ha pubblicato Donne - (don)o e (ne)mesi (Genova, 2007), Gesti d’aria e incombenze di luce (Genova, 2008), L’inestinguibile lucore dell’ombra (Parma, 2009), Ipotesi Corpo (Messina, 2010), Dei malnati fiori (Messina, 2011), Ligature (Sondrio, 2013), Il Verbaio (Milano – Sasso Marconi, 2014), Phénoménologie (Bologna, 2015). Principali curatele Poetarum Silva (Parma, 2010), Parabol(ich)e dell’ultimo giorno – Per Emilio Villa (Milano – Sasso Marconi, 2013), Pasolini, la diversità consapevole (Milano, 2015). Ha diretto, per Smasher Edizioni, la collana di letteratura contemporanea Ulteriora Mirari e coordinato le prime due edizioni dell’omonimo Premio Letterario. È stato ideatore e curatore del progetto di aggregazione letteraria “Letteratura Necessaria”. È direttore artistico del Festival “Bologna in Lettere”.
Prosa poetica
Giuseppina Rando ci parla di un essere in cammino. Il suo passo muove da una presenza per approssimarsi al vuoto. La presenza è evidente nell’atto della rappresentazione. Ma quella stessa presenza cessa di essere tale nel momento in cui la rappresentazione è conclusa.
A rappresentazione avvenuta subentra l’assenza. Alle molteplici forme si sostitusce il vuoto. L’errante, registra Giuseppina Rando è «in cerca di ragione», ma in realtà incontra l’assenza. Lo straniero anela a un senso, ma in realtà si trova a fare i conti con «parvenze inerti». Persino i nomi non hanno più niente a che fare con il dire.
L’arte rappresenta l’essenza del reale, ne ruba l’anima. Ma così facendo determina che il reale non esista più. Oppure fa sì che si mostri solo come maschera, come «cranio rovesciato». È come se cogliendo l’essenza delle cose l’artista rendesse non solo priva di attrattiva la realtà, ma la spazzasse via, la destituisse di materialità.
Il viandante, ci indica Giuseppina Rando, si muove «da notte a notte», ovvero da tenebra a tenebra. In questo percorso si trova a fare i conti con i silenzi dell’indicibile ogni volta che si attarda ad ascoltare l’appello dell’essere, la sua necessità.
Vuoto
S’intersecano nei solchi della tela le linee interne del quadro
provengono dalla fessura della porta.
Ciò che è rappresentato è assente.
Più in là la scodella di rame del viandante - di tanto in tanto-
brilla nelle sillabe disperse lungo la via - fra notte e notte - .
Sulle foglie oscillare di visioni molteplici forme s’inseguono
nella brezza che spazza frammenti di fatica.
Sul volto rugoso dello straniero si nascondono i segreti
che già un tempo furono le parole del Re da tempo immemorabile
assente.
Vuoto il posto costruito come il precario muro della certezza
sullo svanire di farfuglii bigi . Sovrasta l’ombra del ritmo
che regola la terra semisepolta da parvenze mute inerti, potenti.
I loro nomi non dicono, disperdono.
Nulla si aspetta l’errante . Conosce la propria appartenenza al niente.
Ciò che è rappresentato è assente, attraversato da ombre fugaci.
Sullo sfondo della tela fluiscono da alberi scorticati -come fosse sorgente-
buchi neri - crani rovesciati - macchine assordanti in cerca di ragione.
Attorno s’insinua tra polveri e vapori un’aria cristallina
silenzio che trascina all’altro capo del filamento.
Giuseppina Rando è siciliana. E’ stata docente di Lingua e Letteratura italiana negli istituti superiori.
Impegnata nella ricerca letteraria, si dedica anche a studi di carattere storico e filosofico.
Collabora con diverse riviste ed è presente in numerosi volumi di poesia, antologie e saggi.
Ha pubblicato testi di Poesia tra i quali: Spuma di mare (poesie 1970-1981), Statue di gesso (poesie 1982-1995), Duplice veste (2001), Immane tu (2002), Figura e parola, Cierre Grafica (2005), Vibrazioni (2007) Noubs Chieti, Bioccoli, Anterem Edizioni (2008); saggi: Profili di donne nel Vangelo (2001) Bastogi, Chiara. Una voce dal silenzio (2002) Edizioni San Paolo, Le belle parole, Scrittura Creativa Edizioni (2013).
Nel Segno -Racconti- (2011) Pungitopo, Patti Marina ha ricevuto il Premio di narrativa Joyce Lussu, Offida (Ascoli Piceno).
Finalista e segnalata in diverse edizioni del Premio Lorenzo Montano di Verona.
Poetici coinvolgimenti
Con “Antalgie”, Francesca Monnetti propone un componimento davvero intenso nelle sue quasi aforistiche forme.
Già all’inizio, la pronuncia
“esterno uguale interno”
induce a riflettere sulla pregnanza di un senso che non corrisponde al significato logico di termini che nel linguaggio ordinario appaiono contrapposti, ma che
“di specie sinuosa
isomorfa estrosa”
bene convivono in condizione di uguaglianza nella poesia in esame.
Più avanti, la poetessa riesce a sorprenderci con una sequenza in cui il dato esistenziale, richiamato dalla parola “vivilo”, riguarda un vuoto da considerare nel suo integro emergere:
“vivilo … il vuoto
non sfumarlo”.
Più oltre, con
“per un po’ … per combinazione
in variazione … ti riconosco”
Francesca mostra come non sia certo la rigidità fisionomica a consentire il riconoscimento: ossia come, nel suo vedere, l’affiorare d’immagini ed emozioni si combinino per via di una sorta di sinfonico ritmo capace di risvegliare sensi di familiarità.
Suoni, colori, odori, figure, non sono per la poetessa singoli aspetti definibili in maniera risolutiva, bensì veri e propri ingredienti di circostanze non esauribili dalle parole: fino a qual punto possiamo dire la nostra vita?
Questa mi pare la domanda sottesa all’agile versificazione di “Antalgie”.
Domanda che, forse, trova risposta nei versi
“tra caos e caso
un ordine esce”
pur viene a deporsi
… materia e forma
ritornano a sé”.
Versi proposti con l’immediata semplicità di chi considera talmente naturale ciò che dice, da riuscire a farlo avvertire normale anche al lettore.
Siamo al cospetto di un idioma tendenzialmente coinvolgente?
Quello poetico lo è sempre.
Da “Antalgie”
In-compiuta
più netti
vanno resi i contorni
mentre tendono
e flettono ancora
le linee dei corpi
i dintorni
più non dilatano
i volti dentro
non sformano
i pezzi dell’essere
... pur sempre
dimorano in te
or su dunque
sia fatta pulizia
nel mio nido ...
... si diradano
i dettagli
sfocano in ombre
tratti di-visi
risorti ricorrono
altrove si fondono
sedimentano
in me
scarno ... congruo
il quadro
nello specchio
rotondo
tra caos e caso
un ordine esce
pur viene a deporsi
... materia e forma
ritornano a sé.
Francesca Monnetti è nata a Firenze dove ha compiuto studi in ambito filosofico-morale. La sua prima raccolta, “in-solite movenze”, finalista al “Montano” 2008, è stata pubblicata da Cierre Grafica l’anno seguente. Una sua silloge inedita ha vinto la IV edizione del Premio Sergio De Risio nel 2010. La sua poesia è stata presentata nel sito blanc de ta nuque da Stefano Guglielmin. Una selezione di suoi testi poetici inediti è uscita on-line su “Arcipelago Itaca”.
Illecito è pretendere d’essere creduti quando tracciamo confini inesistenti intorno alla parola.
Tentativo quello di Gorlani di circoscrivere la sostanza inesprimibile che pure spreme un succo stupefacente. E’ la parola nel perimetro del corpo e del respiro, nella geometria di un’apertura, nell’accrescimento botanico, nella litania consolante e ludica dei suoni.
La parola che si fa alternativamente tasca e coltello, che raccoglie e ripara, offende e ferisce, che disegna aree dove seminare, coltivare, raccogliere e ridisseminare.
La parola muove da un suono o da una traccia. Chi ha imparato dal gheppio sa che nel volteggio (un gesto grafico se immaginato con ali intrise d’inchiostro) il rapace scrive il suo grido.
La parola
I
In interiore homine c’è l’erba piegata dal vento. All’esterno, sul calar della sera, c’è l’erba d’oro tinta. In alto l’etere, in basso il cielo. Intorno la madre silente ripete quel che le suggeriamo. Al grido risponde con un grido, al sussurro con un sussurro. Saperlo induce a quiescere. Oppure ancora ci si ostina ad immaginare cornucopie sostenute dal cachinno del secolo?
Difficile pregare, impossibile chiedere. Nell’atarassia emerge la porta diuturnamente aperta, senza battenti, senza cardini. Anzi, nemmeno si può dire che vi sia una porta. In verità un insetto, una nuvola o qualsiasi altra forma suscitano stupore e ammirazione. Eppure si è affini agli estinti: il corpo già andato, l’anima a brandelli, la gola prosciugata. Gli uccelli li si ode distanti.
Non si ha alcuna pretesa di descrivere il modo a-modale dell’Essere in se stesso. Tutti lo vivono in essenza; nessuno lo conosce. Deum nemo vidit umquam.* Piuttosto si vuole correre, immobili sul filo del paradosso, saziare fame e sete, spossare gli eoni. In conseguenza a ciò le ginocchia si piegano, le palpebre si chiudono, le mani asciutte accolgono altre mani, le lettere si associano all’improvviso, le sillabe grondano sangue – o rubini, o pomi imperlati dalla pioggia nel verziere custodito dal serpente? – la neve crea sintassi inaudite.
E allora ci si china sulla parola come su una pianticella, scaturigine dell’intero mondo vegetale. La si contempla, ovvero si penetra in essa, la si lancia qua e là nell’ebbrezza ludica, la si ripone in un panno candido per stanchezza, non la si vende mai. Essa è sì virtù cacuminale, ma nel contempo risulta incomprensibile a qualsiasi mercanteggiare. Parola addormentata, diritta, languida, radiante. Tasca ove riporre gli esigui giorni da trascorrere che in essa producono vapore. Coltello, poeta, rishi: il pensabile in spire raccolto ai margini della foresta. Amica del filosofo e sua mercuriale messaggera, araldo nella battaglia sullo Kurukshetra. Bhagavadgita, Anugita, mandala perpetuati da fiumi. Nascite e morti a milioni, per nulla. Tristezza.
Financo la torre contratta a penna, ormai affatto indifferente alle vicende semantiche, reputa importante prosternarsi ai suoi piedi. La contentezza da questi sprigionata fiorisce nella libertà, mentre i passi errano e danzano tra scacchiere ingannevoli, riflettendosi negli occhioni bovini, nel muschio abbarbicato alle pietre, nella carcassa abbandonata ai necrofagi.
La parola è respiro da centellinare il mattino, è dono elargito con maturata innocenza, è profumo accetto agli dèi discesi nei mantra, è mysterium, filo aureo, ponte nella coincidenza tra catabasi e anabasi, rovina e risurrezione, rintocco che pervade il trimundio, è giumella in cui si porge la postrema offerta ridotta a briciola abbagliante in pasto a una formica.
* Gv I, 18
II
La parola insorge se le si ordina di esaurire la realtà. Divora le falangi ai pennaioli, oggi impegnati con tastiere, e le risputa alle ortiche. La parola è scepsi inesauribile o, tutt’al più, inno all’Ineffabile, proemio al silenzio. Scevra da albagia, percorre tratturi tra i poggi e pregia soste con i rari ortolani sopravvissuti. Sa distinguere il fungo edule da quello esiziale, perciò nutre e protegge. Non teme l’inzaccherarsi nei pantani, purché la farfalla proceda prima che deperisca il calore.
Anche i tetti di certe cappelle cimiteriali sporgenti dai muri perimetrali sono per lei palazzi principeschi o architetture diafane in cui i viatori possano resipiscere, cioè comprendere la natura degli alberi, la meraviglia aleggiante nelle campagne.
Dopo la parola litanica sopraggiunge la quiete, avvolta in dense nebbie percorse da note di pianoforte. I suoni a volte sembrano palloncini colorati, a volte foglie rotanti sulle quali la voce innamorata modula dolenti ebbrezze. Già, poiché l’amato non si lascia mai toccare, forse solo lambire nell’intimo, quasi le ore e gli anni avessero scarso valore.
Tuttavia c’è, in esergo, appagamento: l’intelletto non scorge iniziare o terminare alcunché. Ci si può dunque fermare, estranei ad ogni divenire, indifferenti ai machiavellismi dei saccenti che asseriscono di appetire cose concrete.
È una sostanza inesprimibile quella a cui ci si apre; così la parola, da antichi ceppi liberata, può sorreggere. Il profumo sussiste, il colore celeste riverbera eco persistenti, il grigio culla il bambino, lo stridere dei corvi sale e scende sopra i campi arati. La parola intona stanze a cascata, abbracciando l’attuale e l’inattuale, sbeffeggiando le mode imponenti etichette, appartenenze, maschere. Come se fuori da simili ambizioni vi fosse il niente.
Illecito è pretendere d’essere creduti quando tracciamo confini inesistenti intorno alla parola. Inopportuno pascere ritorni chimerici al passato o sporgersi avventatamente verso il futuro. Basta restare nell’impronta presente, consentendone l’eccesso e la sobrietà, la laconicità. Il che implica abbandonare il frastuono interno.
III
Sta due dita dietro la lingua, la parola. Non si lamenta. Registra declivi profanati da sporcizia, la miseria salita in cattedra, l’idiozia sclerotizzata a dogma, il plagio pervasivo da pochi rifiutato, eppure tace, o emette ultrasuoni sufficienti a tenere in vita la bellezza, senza che sia propizio domandare dove abiti. Gli astri balzano agili oltre il sole. E in tale átopon è proscritto l’accesso a chi abbia smarrito la chiave di passo. È indispensabile recuperare sensibilità, aspirazione, empatia se si gradisce che i cerchi sull’acqua tornino a farsi intelligibili e lo stagno, le rane, le tife, i ponti dissolti nella luce meridiana si rivelino mai scomparsi. Nello specchio persino il re ci sorride; l’azzurro da cui è circonfuso, la porpora, l’argento, il verde ci porgono pazientemente la sapienza capace di saldare attimi, eternità, sfumature. A cagione di quale ottenebrazione avevamo potuto dimenticare i viottoli nelle foreste, le fragole presso la roccia solitaria, l’improvvisa apparizione di Pan, i flauti sulle labbra delle trote? Capitolare al servaggio è proprio un resistere al mare. Quanto travaglio per censurare quel che si è o si potrebbe risvegliare, sostituendovi l’adesione robotica a sogni altrui! Ben altro spirito assiste Offerus quando traghetta il peso del cosmo-bambino, meritandosi il nome Cristoforo.
L’atto coscienziale si impone per necessità: recide lacci, fende veli, scaglia nell’aere frammenti sepolcrali, sdrucisce arti aggrappati a croci stanche, appese in cubi titanici, infernali. E l’oro riemerge, carico di gioia. La parola ne è garante. Addietro si nascondeva tra detriti cementizi, soffocata da liquidi amniotici, ora canta di nuovo, dilata il minuscolo, si sofferma sopra i labirinti calcinati in compagnia del padre Dedalo. Ma non precipita per esuberanza. Ha imparato dal gheppio. Conosce l’integrità, la differenza nell’identità. Sa la plenitudine nel vuoto, la soddisfazione nel deserto, lo strillo aquilino, il gemito nella corda strappata sotto la luna.
La pagina gira. Qualsiasi cosa appaia non ha importanza. Non v’è aritmia: la parola ne estrae il succo stupefacente.
Giuseppe Gorlani è nato a Longhena (Bs) nel 1946. Dai venti ai trent'anni ha viaggiato a lungo in Oriente e nel Sud dell’Italia, soggiornando in Afghanistan, Nepal e alcuni anni in India.
È poeta, grafico, saggista e musicofilo.
Suoi interventi sono apparsi in varie riviste letterarie e di studi tradizionali, tra le quali: Convivium, Paramita, Poiesis, I Quaderni di Avalon, Viàtor, Conoscenza, Atrium, Letteratura-Tradizione, Spiritualità e Letteratura, Quaderni dell’Associazione Eco-Filosofica Trevigiana, Vidya.
Suoi articoli e saggi compaiono in siti online quali: Centro Studi Opifice, La nube e la rupe, Est Ovest, Rassegna Stampa di Arianna, Per una Nuova Oggettività, Corriere Metapolitico, Centro Studi La Runa, Centro Paradesha, Vidya Bharata, Fondazione Julius Evola, Politicainrete, PoliticaMente, ecc.
Presso Il Cerchio Iniziative Editoriali ha pubblicato tre raccolte di poesie e disegni (Radici e Sorgenti, 1989; La Porta del Sole, 1990, Premio Letterario “Città di Roma” 1991; Nel Giardino del Cuore, 1994, con Prefazione di Emilio Servadio), una traduzione dall’inglese dell’opera Nan Yar di Sri Ramana Maharshi col titolo Chi Sono Io? (1995) e la raccolta di saggi Il Segno del Cigno - Sulle Tracce dell’Ineffabile (1999), con Prefazione di Adolfo Morganti. Le sillogi La Porta del Sole e Nel Giardino del Cuore sono illustrate, oltre che da se stesso, da Carla Ricotti, Maura Boldi e Domenico Franchi.
Un suo saggio, Hippie: sadhu d’Occidente, compare nel volume antologico L’immaginazione al podere – Che cosa resta delle eresie psichedeliche, a c. di A. Castronuovo e W. Catalano, Stampa Alternativa, Vt 2005.
Con La Finestra Editrice (Lavis-TN) ha pubblicato: Anatema (2000), una raccolta di prose poetiche; Uomo e Natura (2006), una raccolta di saggi, con una testimonianza di Guido Ceronetti; Visioni del Soma (2010), una raccolta di prose poetiche e disegni; Il Filo Aureo (2012), una raccolta di saggi con Prefazione di Giovanni Sessa.
Su incarico di Guido Ceronetti ha illustrato la vita del Buddha in due tavole comparse su La Stampa nella rubrica La Valigia del Cantastorie (2002).
Tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta ha collaborato con varie radio libere di Brescia e dal 1991 al 1992 ha curato la trasmissione Il Terzo Orecchio per Radio Popolare di Brescia.
Nelle poesie di Marco Saya il ritmo è sostanziale, quasi concreto; la sintassi è misurata ed essenziale.
Poiché nessun inciampo sonoro o difficoltà grammaticale deve intromettersi nello scorrere il testo; la lettura deve scorrere liscia dai primi versi ove la scena viene presentata alla maniera più alta possibile, all’ultimo verso che ne segnala la rovinosa e imprevedibile caduta verso un concreto suolo.
Quindi una modalità di espressione non facile da produrre e riprodurre con coerenza e senza cadute; e nemmeno tanto semplice e popolare da fruire.
Poesie prevalentemente brevi, spesso in forma aforistica, in una felice combinazione tra ironia e sarcasmo, in cui, inizialmente, un linguaggio di grande spessore traduce gli inciampi e i marginali fardelli del vivere quotidiano donando loro tutte le prerogative di un’epica. Salvo poi, nei versi finali, sgonfiare rapidamente il testo e restituire alla scena le sue tristi e abituali qualità.
Esemplare da questo punto di vista il testo intitolato “possibilità”, che inizia da “c’era una verità tramandata/da previi accordi…” e finisce con “…:se cambiare/o meno quella guarnizione”.
Da “Chiacchiericcio”
alfabeto
di tutto fu scritto
e l’alfabeto del mondo
era sempre più povero.
si ricercavano nuove lettere
anche se la precarietà
della parola
lottava per un discorso
a tempo indeterminato.
tempo
il tempo ammonticchia i tempi
pari, dispari, come i giorni
in un’unica partitura
dove accadi tra una misura
e la successiva sorseggiando
un caffé nelle pause
e la melodia della sera
simula quell’ad libitum
che in-tona o s-tona il fischio d’inizio.
there must be some kind of way out of here
Hey Bob, Hey Jimi,
ci deve essere un modo
per uscire da questo posto,
lo chiedo a voi,
lo chiedo a tutti,
lo chiedo al mondo dei posti,
alla natura che non li abita,
alla Highway 61 che tramonta
alla foce del Mississippi,
a King e alla sua Lucy,
al Re Lucertola che ogni cosa poteva fare*,
a qualunque uomo
che rompa il sentiero stabilito
per seguire il sentiero destinato**,
a una macchina veloce,
a un orizzonte lontano
e a una donna da amare alla fine della strada***
there must be some kind of way out of here
ci deve essere un modo
per uscire da questo posto,
lo chiedo a voi,
lo chiedo a tutti,
lo chiedo al mondo dei posti.
* Jim Morrison
** Gregory Corso
*** Jack Kerouac
Marco Saya è nato a Buenos Aires il 3 aprile 1953. Dal 63 risiede a Milano. Musicista jazz, scrittore ed editore. Diverse pubblicazioni, ultime la raccolta poetica dal titolo Filosofia Spicciola (2014) e Chiacchiericcio (2012) edite da Marco Saya Edizioni, Murales edita dall’Arca Felice (2010) e Situazione Temporanea edita da Puntoacapo Editrice (2009). È presente poi in diverse antologie tra cui segnaliamo: L’albero degli aforismi (2004), Il segreto delle fragole (2005) e L’antologia delle stagioni (2006) edite da Lietocolle; Swing in versi (2004) edita da Lampi di Stampa e Vicino alle nubi sulla montagna crollata (2007) edita da Campanotto. Ha condotto una rubrica musicale sul sito della Rizzoli Speaker’s Corner. È presente su tutti i più importanti siti di scrittura, rubriche e riviste letterarie. Raccoglie, poi, importanti risultati nei vari concorsi proposti, segnalato in diverse edizioni del premio “Lorenzo Montano” curato da Anterem, vincitore con la raccolta Situazione Temporanea della XXIV edizione del premio Nuove Lettere a cura dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli (2010) e della X edizione del Premio Carver (2010), infine premiato al Concorso Laurentum 2011 per la poesia online, I° premio della critica, e menzione speciale della giuria per la raccolta edita Murales (L’Arca Felice) finalista tra le prime cinque. Infine giunto nella terna finalista con la raccolta Chiacchiericcio sempre al Concorso Laurentum 2013 e premiato al premio Farina con la raccolta Filosofia Spicciola (2014).
Nati da un dialogo con le immagini fotografiche di Francesca Woodman, i testi poetici che Alberto Mori costruisce, in Davanti alla mancante, sono inevitabilmente tarlati dall’assenza, sia a causa della prematura scomparsa della fotografa, sia perché il suo corpo è presente nelle sue immagini in perenne dissolvenza. Ora, far parlare qualcosa che non è a fuoco, che arretra rispetto a qualcosa in primo piano - e che è nitidamente in primo piano - è già lavorare con un imprendibile al quadrato: è lavorare con la rappresentazione di una rappresentazione. Per dire di questa mancanza di messa a fuoco anche il linguaggio si fa approssimativo, non accorda aggettivi a sostantivi: “Un filo di proiezione fra le dita / I capelli sono scomparsa / Le gambe non vedono /nella dissoluzione seduta”. Di pari passo va la registrazione della difficoltà di distinguere il corpo dal fondo e di rendere conto della sua apparenza fantasmatica. Lo sguardo s’affossa, stancandosi per meglio afferrare, mentre il pensiero si meraviglia per uno spazio che prende ad avere sostanza corporale: “Nella fuggenza stupisce / il vestito a maculi dello spazio accoscia”. Nello sfocamento c’è uno scambio di materie, metafora dello slittamento tra i diversi mezzi e codici artistici messi a confliggere sulla pagina, ma anche la cucitura che Mori tenta degli oggetti in primo piano, i quali sfrontatamente esibiscono la loro cifra contro un corpo che s’allontana fino alla totale perdita di dettaglio sullo sfondo. Il disperato tentativo di dialogo instaurato dall’autoritratto, “l’appello silenzioso”, viene raccolto dal poeta insieme a una serie di parole adagiate intorno al corpo testuale: specchio, riflesso, acqua, davanzale, volto, palpebra, sogno, quasi una strumentazione atta ad afferrare tutto quello che è possibile in una visione. Solo la dissolvenza, l’apparenza, l’incanto restano impigliati in tale tracciatura: “Accanto alle foto / Postuma / Spettro composto del ricordo / Limbo nero profumato”. Ed è, difatti, proprio il passaggio dalla carne a un’identità disincarnata ciò che il fruitore percepisce nelle fotografie e legge nei testi, in una riuscita equivalenza.
***
Chissà dove sarai
lieta e svanita
ad autoritrarti
dissolta fra le nuvole
Passeggera incisa dalla carne nuda nei fiati scomparenti
***
“Non puoi vedermi da dove mi guardo”
Senza focus anche l’accanto
Contatto delle spalle sfumate
La caviglia
Piega del moto concentrato
***
Sdraiata e rialzata
Morte
Immagine rovesciata
Calla e battigia
Simmetria del volto
nell’occhio sospeso dal sogno marino
“Eppure ti vestirò polvere”
Alberto Mori, poeta performer e artista, sperimenta una personale attività di ricerca nella poesia, utilizzando di volta in volta altre forme d’arte e di comunicazione: dalla poesia sonora e visiva, alla performance, dall’installazione al video ed alla fotografia. La produzione video e performativa è consultabile on line sulla pagina YouTube e Vimeo dell’autore e nell’archivio multimediale dell’ Associazione Careof / Organization for Contemporary Art di Milano.Collabora inoltre,con molti fra i più noti poeti contemporanei, italiani e stranieri, per la realizzazione di letture pubbliche, manifestazioni ed eventi dedicati alla poesia.Negli ultimi anni più volte finalista del premio di poesia “ L.Montano” della rivista Anterem di Verona. Dal 1986 ha all’attivo numerose pubblicazioni, tra le quali ricordiamo Iperpoesie (1997), Cellule (2001), Raccordanze (2004), Utópos (2005), Bar (2006), Raccolta (2008), Fashion (2009), Objects (2010), Financial (2011), Performate (2011) Piano (2012), Meteo tempi (2014).
La vibrazione dell’esistere
In tutta “La nudità della luce” che Chiara De Luca dispiega nel suo spartito colmo “di mondo e silenzio” risuona un continuo intreccio tra il corpo e gli elementi del reale, tra presenza e assenza, bellezza e spesamento, nell’inebriarsi, come scrive, “di sole di vento forte o d’opaco di luce / di canto d’inverno di pianto di freddo / d’eterno d’inferno di sogno e risveglio”.
Nelle immagini che i versi sfiorano a volte come un tocco di luce leggera, a volte con una dolorosa messa a nudo, pare di scorgere l’Ophelia shakespeariana dipinta da J. E. Millais, a partire dalla figura iniziale, che l’autrice presenta come il salice-donna “che piange / la fine delle storie” riflessa nell’acqua e i cui “capelli le si schiudono a raggiera, / sparsi vibrano del brivido dell’onda”.
La vibrazione caratterizza quest’immersione totale nella vita, dove gli elementi corporei e naturali si dissolvono gli uni negli altri, tra il buio della perdita e la luce della bellezza, come fa risuonare Chiara De Luca, da un lato “su spariti senza voce // leggendone le note per vibrarne”, dall’altro “nel canto che ha l’unisono del sangue”, tra il dolore causato dall’assenza e l’affermarsi forte della pienezza vitale, riuscendo, nel suo ampio respiro a tenere insieme gli opposti, a, come ci conferma l’autrice, dire “di quest’aspra fame di silenzio” e insieme dire “dell’esistere semplicemente”.
***
Elegante si china come un giunco,
nebbia la sfiora di una veste da sposa,
i capelli le si schiudono a raggiera,
sparsi vibrano del brivido dell’onda
si giungono e ancora la corrente li separa:
si specchia capovolta finché non la spaventa
un colpo di vento che di colpo la disperde
sulla superficie come una malerba.
Ë una donna il salice che piange
la fine delle storie, stanca del giorno
implora la notte ebbra d'autunno
di baciarle via la luce dal volto.
Testamento
Mentre aprile nasce io vi lascio
le spoglie di quel che fu soltanto
frammento dei chi che avrei potuto
si deve qui colmare tutto il tempo
fino all’orlo più alto e traboccarlo;
perché non tornano gli anni rubati
da quella che per me li ha vissuti.
Vi lascio le sue mani di cartapesta
fruscianti a ogni stretta concessa
vi lascio la sua pelle di trine sottile
fremente al minimo tocco gentile
il suo silenzioso scusarsi per tutti
gli assolti delitti commessi da altri.
la stoffa dei suoi miti giorni perduti
da pagliaccio docilmente indossati
per stracciarli al circo delle stagioni
ma non prima di lasciarvi in rima
il mare di quei disossati perdoni
delle dolci e scarnite assoluzioni
degli arresi e atterriti abbandoni
il breve cenno nel voltarsi di una mano
riportando in poesia le ali di un gabbiano.
Chiara De Luca, laureata in Lingue e Letterature straniere a Pisa, ha frequentato la Scuola europea di traduzione letteraria di Magda Olivetti a Firenze e il master in traduzione letteraria per l’editoria dell’Università di Bologna, dove ha conseguito un dottorato in Letterature europee. Scrive poesia, narrativa e critica, traduce da inglese, francese, tedesco, spagnolo e portoghese. Ha pubblicato con Perdisa la pièce teatrale Duetti, con Fara i romanzi La Collezionista (2005) e La mina (stra)vagante (2006), i poemetti La notte salva (2008) e Il soffio del silenzio (2009) e la silloge Il mondo capovolto (2012), con Kolibris la raccolta poetica La corolla del ricordo (Kolibris 2009, 2010), edita anche in versione bilingue con traduzione in inglese di Eileen Sullivan (The Corolla of Memory, 2010) e l’antologia Animali prima del diluvio. Poesie 2006-2010 e ha in preparazione l’antologia bilingue di testi scelti The Sum of Each Return / La somma di ogni ritorno, con traduzione inglese di Gray Sutherland. Ha pubblicato testi poetici in varie riviste e antologie in Italia e all’estero. Ha curato l’antologia di giovane poesia italiana contemporanea Nella borsa del viandante (Fara, 2009), ha pubblicato la raccolta di saggi, articoli e scritti critici A margine dei versi. Appunti sulla poesia contemporanea (Kolibris, 2015) e traduzioni di oltre cinquanta raccolte poetiche di autori stranieri contemporanei. Sue poesie sono state tradotte in inglese, francese, tedesco e spagnolo e rumeno.
Nel 2008 ha creato Edizioni Kolibris, casa editrice indipendente consacrata alla traduzione e diffusione della poesia straniera contemporanea (http://edizionikolibris.net). Cura il blog “A margine dei versi”, dedicato alla critica del testo poetico, il progetto europeo “Safe Souls” per la traduzione e pubblicazione di dieci grandi voci della poesia contemporanea (http://safesouls.net) e il sito internazionale Iris di Kolibris, dedicato alla traduzione poetica, al bilinguismo e alla letteratura della migrazione, cui collaborano numerosi poeti, traduttori ed editori di diverse nazionalità (http://irisdikolibris.net). Collabora con il mensile internazionale di cultura poetica “Poesia” (Crocetti Editore), con la rubrica online “Officina Poesia” della rivista “Nuovi Argomenti” e con “Poesia” di Rai News. Per il sito del festival Parco Poesia cura una rubrica dedicata alla giovane poesia internazionale e per la rivista peruviana “Vallejo & Co” una rubrica dedicata alla poesia italiana contemporanea in traduzione spagnola. Con il poeta e traduttore canadese Gray Sutherland si occupa della rubrica “Gray Ink”, dedicata alla traduzione in inglese della poesia italiana contemporanea. Per Samuele Editore è in uscita la sua raccolta poesica Alfabeto dell’invisibile. Il suo sito personale è: http://chiaradeluca.net
La nostra condizione terrena ci porta a convivere con un forte senso di vuoto.
Molti provano a colmare questo vuoto in vari modi: con la religione, con la psicanalisi, con la tecnologia e tutti i suoi derivati.
Alcuni, come Lia Cucconi, tentano l’avventura di confrontarsi con esso poeticamente, attraverso un ragionamento in versi sull’Essere.
Ne nasce una discesa nell’interiorità: “una voce d’altro alfabeto mi guida all’ascolto: è l’incompreso inconosciuto altro”, scrive Cucconi che possiamo immaginare in un mare in tempesta battersi come il remo nel suo gorgo. Oppure su una tortuosa strada ricca di sviamenti come può essere l’inconscio, dove l’autrice ambienta e raduna spezzoni di vita, con il senso demandato alla parola dell’”altro”.
Ne nasce una salita nel pensiero: “dove “io sono” siamo la stessa cosa”.
L’altezza raggiunta ci conduce verso la nostra notte oscura. In un laico confondersi del fine della poesia con la fine della nostra vita.
***
Un filo si trascina la mia essenza
nel grembo interno ai segni luminosi
al suono ora inteso ora incerto a cose
che hanno la voce dell’universo.
Nel fragile nucleo di coscienza
passano e si stendono le parole
oltre le ombre del pensiero, vedo
e sento che è l’immenso d’ignoto
battersi come il remo nel suo gorgo
al vento dell’incontro dentro al tempo.
Come un soffuso richiamo su me
passa una traccia di suoni, una voce
d’altro alfabeto mi guida all’ascolto:
è l’incompreso inconosciuto “altro”:
lui m’interagisce al mistero umano
e come tessuti andiamo nel labile
confine posto in nostra carne e c’è
conoscenza d’essere ciò che siamo
come l’alloro, il vento, il fiore, il ramo
e la rondine che si posa, l’ombra
d’ogni richiamo, l’inconscio numero
dei sogni che ci fanno in noi natura
dove “io sono” siamo la stessa cosa
generati dall’imprevedibile
genitrice gelosa di sua impronta.
Lia Cucconi ha pubblicato tredici libri di cui cinque in italiano e otto in dialetto di Carpi. Con i volumi dialettali è sempre stata finalista al Premio Pascoli. Tra gli ultimi editi in italiano ricordiamo “Intrusiva” (2000) e “L’imposta” (2010). È presente in riviste e antologie.
Si sono occupati, tra gli altri, della sua poesia Giorgio Luzzi, Sandro Montalto, Giorgio Barberi Squarotti, Stefano Verdino, Manuel Cohen.
Vive a Torino.