La conclusione dell’ultimo Forum Anterem è stata affidata al concerto di Motocontrario Ensemble, eseguito con musiche ispirate alla poetica di Emilio Villa (1914-2003). L’evento ha potuto contare sulla presenza di Bianca Battilocchi a introdurre l’opera villiana. Grazie alla stessa studiosa, oggi possiamo leggere quattro poesie inedite di Emilio Villa, appartenenti al ciclo dei “Tarocchi”, scritte negli anni ’80.
Ancora una volta, in questo nuovo numero di “Carte nel vento”, la redazione di “Anterem” al completo è attiva nel presentare i testi di alcuni tra gli autori segnalati, finalisti e vincitori della 29^ edizione del Premio Lorenzo Montano, esattamente come avviene dal vivo nelle giornate del Forum. La 30^ edizione è ancora in corso, la storia continua... scarica il bando della 30a edizione
I Tarocchi di Emilio Villa. Giocare e sfidare l’Enigma
Il testo che qui riportiamo con l’ausilio di una nostra traduzione fa parte di un gruppo cospicuo di inediti villiani dedicati al tema dei Tarocchi. Questi sono databili agli anni Ottanta ma si consideri che l’interesse per gli arcani si mostra in Villa già molti decenni prima, grazie al contatto soprattutto con pittori come Corrado Cagli e Sebastian Matta. La nostra scelta di presentare questo testo in particolare si lega alla sua natura più didascalica di fronte al progetto stesso che non arrivò mai a una pubblicazione e di cui si conservano il taccuino illustrativo e le poesie in fase di bozza. Si nota fin da subito la preferenza per la lingua francese che dagli anni Cinquanta offre al poeta maggiori possibilità di artifici e giochi linguistici e accanto a questa si mostra qui l’italiano, il latino e, nel resto dell’opera, piccoli frammenti di greco, tedesco, inglese e sumero. La nostra traduzione che appiattisce la plurivocità linguistica dell’originale è quasi del tutto letterale poiché in queste carte di natura più introduttiva non si mostra, se non a tratti, la furia demiurgica che più si confà alla vena matura dell’autore. Nondimeno riconosciamo elementi tipicamente villiani nell’importanza grafica e sonora dell’enunciato che viene spezzato in paragrafi di diverse allineamenti, blocchi associativi, e che rivela un numero fitto di varie altre figure retoriche tra cui le amate omofonie (“revelation” / “rêve élation”). Riguardo i contenuti, Villa ci introduce qui a un ‘sistema di figure, immagini, parole e segni’ come occasione di incontro-scontro (“se retrouver/ se battre”) per il lettore-giocatore (e per il poeta stesso) il quale viene descritto anche come tentatore e istigatore (“inductus”), in quanto violatore dell’enigma. Riteniamo che questo misterioso e periglioso rendez vous equivalga a un percorso di tipo iniziatico come quello nel mondo classico attraverso le trame angosciose del labirinto. Oltre a molteplici tracce di questo archetipo negli arcani di Villa (1), che proprio negli anni Ottanta affrontò diffusamente la tematica in altri testi, sottolineiamo segnatamente l’annotazione “Quante e quali sono le carte con cui si ESCE dall’impasse, dal labirinto?" (2). L’autore sembra voler unire la valenza tragica del mito - per cui ogni carta diventa un oggetto spietato - a quella ludica più vicina al mondo moderno, palesata ad esempio nelle giocose scomposizioni e associazioni verbali oltre che nella “magia” del gioco stesso dei Tarocchi; che fa da cornice e che rende possibile la creazione di una dimensione altra, connessa con l’Enigma e dettata da Villa-medium-sibilla. In linea con il viaggio labirintico dell’antichità, Villa scrive che l’‘avventura’ nei suoi tarocchi porterà a una ‘metamorfosi’, a un “incrinamento [...] della propria esistenza" (3) rappresenta chiaramente il fine apotropaico (in senso per lui neognostico, di aiuto all’uomo e alle sue miserie mondane) negli ultimi versi del testo: “Incontro […] è legare per slegare, slogarsi per logarsi”. Eccoci di fronte a nuovi frammenti di una scrittura poetica unica, che seppur sfiorando il Nulla nella sua cripticità e glossolalia, riesce a farsi evocativa voce sibillina e arte come riproposizione instancabile dell’Enigma relativo al linguaggio e al Futuro(-Eternità).
I MIEI TAROCCHI IN GENERALE
ciascun esito di una figura
o immagine
o parola
o segno
o sistema di
figure/immagini/parole/segni
è un
incontro (casuale)
[come reincontrarsi
ritrovarsi
battersi]
è un appuntamento
segretamente prodotto-ridotto-indotto
[ductus, indutus, inductus reductus]
attraverso l’ap pa ri zione o presenza
o rivelazione
o rêve elazione
o epifania
o presenza
o astanza
del vivente tentatore
ovvero del giocatore
che tocca la (le)
carta (e)
***
l’
appuntamento
spontaneamente si offre
soffre
soffia
l’appuntamento
avviene
è
in una regione
immutabile e trepidante
nasce si sviluppa e si conclude
attraverso un esercizio cieco
e l’impatto tra
segnalazione e tentatore
produce una
metafora - metamorfosi
sono da cogliere nelle sensazioni
attraverso altri bagliori e altri
intervalli
metamitosi
fiduciosa
o in pendenza
***
a ogni incontro
bisogna pentirsi
di essere piombato
di essere magneticamente inghiottita
dall’avventura
dall’avvenire
e dunque bisogna:
determinarsi in
troposfera
dell’essere trombata
ogni incontro o urto
sarà un attentato
o aggressione
nel futuro
sarà un
incrinamento o incrinazione
o incriminazione
della propria esistenza
che si contagia di futuro
sarà un contagio reciproco
il futuro è solo una malattia
dell’enigma
***
ogni incontro con un segnale
è un mutamento nella direzione
dell’enigma
l’incontro è
legare x slegare
e insieme
slogarsi x logarsi
incontro è
violazione
dell’enigma
ciascuna carta
è un oggetto
senza pietà
traduzione di Bianca Battilocchi
© di Francesco e Stefania Villa
(1) Si veda ad esempio in E.Villa, I miei Tarocchi, materiale inedito, Archivio Villa, Museo della Carale, Ivrea: “Universo snodato”, “aggomitolati” (nb.4), “trasmissione vorticosa” (nb.9), “roteazioni”, “spirali” (nb.11), ecc.,. Sul tema del labirinto si legga Aldo Tagliaferri, Dentro e oltre i labirinti di Emilio Villa, edizioni il verri, Milano, 2013.
(2) Cfr. E. Villa, I miei Tarocchi, 9a.b.
(3) Cfr. E.Villa, I miei Tarocchi, cit., 73a.
Bianca Battilocchi si è laureata all’Università di Parma in Comunicazione letteraria moderna e contemporanea con un anno di studio presso Paris III Sorbonne Nouvelle. Nel 2013 si è diplomata in Magistrale con un’analisi completa delle Diaciassette variazioni di Emilio Villa e da quell'anno si occupa dell'opera del poeta. Oltre a presentazioni della ricerca e conferenze in Italia e Irlanda, ha pubblicato sull'autore in “Griselda online”, “Parole Rubate” e "JOLT" . Attualmente svolge un dottorato di ricerca al Department of Italian Studies del Trinity College di Dublino, concentrandosi sui Tarocchi inediti di Villa. Si interessa di poesia e arte contemporanea, italiana e internazionale, in particolare di avanguardie e sperimentalismi.
Un poesia intitolata in modo diretto con un termine in cui convivono, senza contrasto, due significati che dovrebbero opporsi – vedere nell’oscurità e il suo contrario, questo significa nyctalopia – indica immediatamente una direzione di lettura verso l’esterna formazione di un mondo e, allo stesso tempo, un’idea di scrittura verso l’interiorità del dire poetico. Un fuori e un dentro che nascono e svolgono il loro cammino rivolgendo lo sguardo con reciprocità continua: lì dove il doppio motivo della luce e del buio ingloba e determina la voce e il mutismo, la vista e la cecità. L’autrice, consapevole che il fare poetico assume su di sé, e in sé produce, un dire che non è disvelamento o nascondimento, ma indicazione di uno sguardo mobile, mostra nei suoi testi un pensiero che è ai fondamenti di un reale visionario, che segna la figura profonda di ciò che sente come un vedere. E il punto di congiunzione tra il chiaro e l’oscuro è una zona che ha certamente limiti immaginativi, ma dai bordi indeterminati. Ed è proprio su quella soglia che chi guarda non si fa “sviare dall’ombra”, ma ne perlustra la trasparenza offuscata e la dimensione ondulante: quasi un luogo di deformazioni conoscitive dove le potenzialità del senso risuonando tendono a zittire e viceversa.
Nessuna preoccupazione di evidenza o chiarezza ingenue nel pensiero poetico di Rita Florit, bensì tanta occupazione di lucidità e precisione, pur tumultuosi ma in parola essenziale nel labirinto delle emozioni. Una ricerca sostanziale, stringata ma indirizzata a una multiformità sensoriale che riverbera dal fondo e sgorga nel sentimento di una voce che “è tutte le voci”. E non può essere che così: quando la necessità preme, stringendo i sintagmi e il loro sentire selettivo, la poesia lascia intravedere, e anche prefigurare, un’alternativa all’andamento ordinario delle cose: una ex-temporaneità (per usare un termine dell’autrice) che, in un’apparente contraddizione, continuamente e ricorsivamente fluisce e si consolida. E sono le cose a trasformarsi, sia nella loro apparenza sia nel loro essere, grazie a una percezione che scombina i sensi, espande vuoto e attrito e costringe la notte a rompere la sua ossessione per inalberare i bagliori della cecità che “illumina la tenebra”.
E se a questo aggiungiamo una forma di sgretolamento del corpo che, attraverso una ritmica fisica di sonorità, vibrazioni, fremiti, tremori, che ne scandagliano e ne spezzettano le parti con precisione nominale, producendo spasmi linguistici di elevata tensione, comprendiamo bene come, per l’autrice, quello che può sembrare uno squartamento porta invece a un espansione del non-silenzio (ciò che sta tra la mancanza del suono e il suo cominciamento), anche con il rischio della frantumazione e della dissipazione. Perché è così che la parola abbagliante della poesia, nella fioca luce del mondo, rende il poeta nictalope quasi veggente (precisa in una nota Rita Florit, con evidente richiamo a Rimbaud), in modo tale da far sì che la cecità esterna del momento notturno divenga essenziale per la visione ultravedente, per poter raccogliere e accogliere una nuova conoscenza del reale.
La notte invocata quasi in preghiera è mater riparatrice: presenza di luogo e tempo che riparando protegge, riparando custodisce e riparando aggiusta e ricompone. L’oscurità, allora, non è più irraggiungibile, non è più notte-mancanza,vuoto, nulla, assenza, ma inquietudine e alterazione in sonno e veglia: dove irradiano e si riversano concretezza e trasparenza, deragliamenti e scavi, bruciori e fluorescenze, in sinestesie di musiche di porpora, visceralmente guardate. Il tutto incluso in un sentire poetico proprio dell’immensa notte che qui attraversiamo e che ciecamente intravede e versa vertigine vivifica e vortica.
Dalla sezione “imus”
***
Tu misuri la solitudine ti schernisci devii dagli
specchi l’afflizione azzera i saperi non ti fai
sviare dall’ombra, la perlustri, la porti addosso,
ricevi il suo peso, la consistenza e
l’inafferrabilità. Le bilanci. Poi prudentemente
avanzi da questa distanza inanimata ti sporgi.
***
Sotto parola vibrazione risonante chiama da
porose profondità. Mobile srotola pseudopodi,
copre distanze infinitesimali. Snida la tenebra.
Smuove, sfalda. Detriti. Affondo ai centri
innumerevoli dell’Essere, degli esseri che siamo.
Moltitudine nell’uno.
Dalla sezione “corpus”
***
Ustione interna, centrifuga dalle viscere alla
lingua uncina e stride in sabbia sete livida nel
dormiveglia. Ospitare un deserto dune articolari
in flusso, alzare la loro fiamma, ardere assenze,
allontanare lune. Sospenderne il ricordo. E
l’assetato sceglie il deserto da dove era venuto.
***
Privazione d’amore è deserto - tu vesti di sabbia
trasudi polveri vieni dal deserto. Una
città-silenzio rompe il cristallo notturno. La
reclusione più dura è una distanza, fortezza dalle
mura invalicabili - Die ganze Stadt - ossessione
reiterata percuote-ri-percuote stringe-co-stringe
asfissia, manca l’aria nella stanza. Fuori la notte
inalbera bagliori.
Dalla sezione “Memento”
***
E altre musiche oscure più del rogo sonoro del
corpo armato, più della fosfofluorica inermità di
genere, dell’inclusione della lingua madre, del
brillìo daìmon, più dell’animale attiguo che
rivesti, della bestia silenziosa che covi, più del
bosco di braci che vai a essere.
Nota dell’autrice
Nictalopia dal greco nýx nyktós notte, alaós cieco, ops vista, cecità notturna, mancata o imperfetta visione di notte ed anche buona acuità visiva nelle ore notturne; questa paradossale e affascinante duplicità di significati dal tempo ereditati ora nell’una ora nell’altra accezione, fa della cecità un chiaro vedere, un intravedere, lux in tenebris, fa del nictalope quasi un veggente.
Rita Regina Florit ha pubblicato 'Lezioni inevitabili' (Lietocolle, 2005) e 'Passo nel fuoco' (Edizioni d'if, 2010) che ha vinto il Premio Mazzacurati-Russo IV edizione. E’ presente in varie antologie tra cui Portfolio e Registro di poesia # 2, (Edizioni d’if)‘Paraboliche dell’ultimo giorno per Emilio Villa’ (Dot.comPress-Le Voci della luna, 2013). Ha co-tradotto l'antologia poetica Ghérasim Luca ‘La Fine del mondo' (Joker edizioni, 2012). Ha tradotto Benoît Gréan per l’annuario di poesia “Punto” (Puntoacapoeditrice, 2013). I suoi videopoemi compaiono in eventi e rassegne nazionali ed internazionali. Testi e traduzioni sono pubblicati in vari siti e lit-blog tra cui Anterem, Nazione Indiana,Rebstein, Il porto di Toledo, Poeziebao, Rhuthmos, Terresdesfemmes. Sul web cura il blog di letteratura e traduzione letteraria : sottopelle.wordpress.com
Una parola necessaria
Con “Global”, Stefano Della Tommasina presenta un’intensa composizione le cui vivide pronunce si susseguono secondo ritmi capaci di catturare l’attenzione e, nello stesso tempo, di lasciarla libera di proseguire.
“Se cogli al volo un dialogo di nervi l’occhio si riproduce”
dice il poeta sorprendendoci e inducendoci a riflettere.
A riflettere su un “dialogo”, ossia su un parlare, “di nervi” che, a prima vista, appare quasi enfatico nella sua propensione a meravigliare.
Ci si accorge presto, però, di non essere al cospetto di una semplice provocazione linguistica o, peggio, di un formalismo volto a stupire in maniera superficiale, bensì di essere di fronte a un’esigenza espressiva talmente intensa da non poter trovare sbocco che in certe parole.
Parole poetiche, appunto, generate da esigenze stilistiche interne a un discorso necessario la cui urgenza trova in una forma linguistica fitta ma equilibrata il suo vero e proprio modo d’essere.
Di questo, davvero si tratta: di un esserci non con le parole, ma nelle parole.
Il che non significa, ovviamente, trascurare un attento lavoro di composizione, bensì cercare e trovare il giusto tono utile a trasmettere un quid che si rende esplicito non per via di definizioni, bensì nel farsi di una sequenza espressiva.
Stefano si serve di parole di uso comune, ma il risultato al quale tende, lungi dal consistere in rigidi significati, è l’emergere di un senso che suggerisce e implica qualità e aspetti dell’esistenza vissuti in maniera davvero vivida.
Si legge, circa a metà della poesia
“Ora che le edicole si chiudono lungimiranti, i titoli di coda
minimizzano, rendono lo strabismo fatalmente estetico”.
Ecco, credo che proprio in uno “strabismo fatalmente estetico” consista l’attenzione estrema, a tratti forse perfino dolorosa, che si fa poesia in virtù di una volontà espressiva capace di diventare lingua superando, con coraggio, non pochi ostacoli.
Arduo è il lavoro del poeta.
Global
Le frontiere si dissolvono nell'afa
sono miracoli del primo pomeriggio
prima del dolore, dopo il parto
semplici regali della terra incolta,
razze incrociate nei sentieri
dove si perdono le bussole
e il seme troppo fondo si dimentica.
Non si discostano le labbra dalle gemme scure
di uno scomodo frutto. Sfidano l'aria incerta, il modo
che riporta a terra logore maturità, equilibri di colore
che rasentano il giallo e in un secondo tempo liberano
il viale, gli alberi, la neve artificiale di una realtà circense.
Se cogli al volo un dialogo di nervi l'occhio si riproduce,
i capillari rossi, come minuscole dionee, divorano
ogni fantasia possibile; le nari sembrano infette.
Ora che le edicole si chiudono lungimiranti, i titoli di coda
minimizzano, rendono lo strabismo fatalmente estetico.
Il nero dagli occhi bassi è l'unico a vedere abusi
trasversali, prove di segmenti, relazioni in vetro
e nel disgelo i figli fissano le asiatiche sui marciapiedi
tumulati, chini al davanzale come gambi decimati,
non possono implorare la moria delle uniformi bianche
per restituire un sosia al padre, quasi un capo indiano
che neppure si ricorda dove giace la sua America.
Stefano Della Tommasina è nato a Massa il 28 gennaio 1962. Nel 2015 vince il Concorso Opera Prima, iniziativa promossa dal 2012 da Poesia2punto0, con la silloge intitolata “Museo Bianco”.
Alcune sue poesie sono state pubblicate online nel sito http://www.poetastri.com/gennaio-stefano-della-tommasina.html nella rubrica "Per il verso giusto".
Con altri testi è presente in alcune antologie edite da Lietocolle: Il Segreto delle Fragole, Verba Agrestia e L'Amore al tempo della Collera.
Se la figura retorica dell’enumerazione è presente fin dalle prime pagine de La Grecia è morta di Fabio Scotto, sarà proprio scartando da tale elenco che il senso defletterà per immettersi dal mondo reale al mondo interiore: ciò consentirà l’apertura di un passaggio fra una Grecia “vittima dei raggiri delle banche” a una Grecia “che dorme fra gli abissi della Caldera / la Grecia a sera / nell’incanto dei fiori rosa / nella brezza che agita il mare”. E in un istante eccoci precipitati nel mondo mitologico, nel sogno, ma, come in una tessitura che riprenda incessantemente il suo ritmo ossessivo, siamo anche nella Grecia dei Colonnelli e delle torture. La tela di Fabio Scotto è la tela degli inestricabili conflitti, ove a poco servirà il tentativo di separare il bene dal male. Grecia, “parola dell’origine” e “assedio della lingua”, Grecia “che uccido per morire in lei / e che uccidendo salvo”. Seppure, ben si veda come persino il rovesciamento delle figure necessiti della presenza, sull’altro piatto della bilancia, del peso del suo opposto. Solo non lasciandoselo alle spalle è raggiunta la totalità, la contemplazione di tutti gli aspetti, stretti nel florilegio del racconto lirico. Il racconto, dicevamo, poiché è sempre da un luogo, da una situazione concreta che Scotto si diparte con una descrizione piana, delicata, aderente (“La vasca è vuota / Qui dov’era il canale / il freddo scheggia il marmo”) per poi, come un provetto pescatore, venuto il pesce ad abboccare, chiudere con l’immagine che si è addensata sulla superficie della mente, frutto, simile a quelli prodotti dal sonno, oracolare. Poesia, in quanto tensione a visualizzare l’inesistente, a rendere concreto ciò che è solo ideato, ma in ogni caso agganciato allo spazio-tempo esistenziale. E anche quando il flusso percettivo si fa più intenso, come nei rapporti umani, è ancora al dato geografico/naturale che il poeta fa riferimento: “Giungono a spasmi come lava / corrodono i tegumenti del cuore”. La strettissima correlazione istituita per questa via da Fabio Scotto rende la realtà esterna il correlato di quella interna, e nessuno dei due aspetti potrà mai sussistere o essere preso in considerazione da solo. L’io lirico è il termine medio, il legante che salda, ove il dato concreto si fa metafora di quello interno: “in bilico sul baratro di me / reclino”, parendo che solo per questa via il cerchio si chiuda e la Grecia ritorni a essere una.
Dalla sezione “Angelus hiroshimae” (Haiku per un film)
1.
scendo alla caccia
senza saperti ancora
preda dell’alba
2.
ruota a ritroso
nell’agonia dei passi
il tempo esploso
3.
cielo ferito
tu non fossi caduto
viso nel fango
4.
musica mia
calda notte del cuore
se apri gli occhi
5.
già olio l’arma
mangia dalle mie mani
al mio richiamo
6.
nel sonno ancora
riprendere la marcia
luna ridesta
7.
più nessuno qui
la notte chiama al volo
ogni suo figlio
8.
le ali nere
sfidavano le nubi
ardono chiare
9.
nudo a terra
ti lecchi le ferite
perduta guerra
10.
brucia la storia
fiamme sui volti arsi
quale vittoria
Fabio Scotto è nato a La Spezia nel 1959. Tra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo, per la saggistica, La voce spezzata. Il frammento poetico nella modernità francese (Donzelli, 2012), Il senso del suono. Traduzione poetica e ritmo (Donzelli, 2013), le curatele e traduzioni dei volumi Rimbaud. Speranza e lucidità (Donzelli, 2010), del Meridiano L’opera poetica (Mondadori, 2010) di Yves Bonnefoy, l’antologia Nuovi poeti francesi (Einaudi, 2011).
In poesia, il suo libro precedente è Bocca segreta (Passigli, 2008 – Premio Selezione “San Vito al Tagliamento”).
La prosa brevissima di Nuzzo rivela grande viscosità e densità non tanto nella sintassi ma nel “quadro” che, forse, intende rappresentare . Non un quadro statico, a dire il vero, ma una scena in divenire. Primordiale, biologica, fisica e sacra ad un tempo, cangiante, in continua trasformazione e in continuo rapporto con gli stati precedenti e successivi.
Minima prosa con minime, caleidoscopiche, valanghe di sensazioni visive che colpiscono con il clangore infinitesimale dello sfaldarsi di una crosta di crisalide.
I luoghi del tuo Permiano
In principio era l'isteresi, poi venne l'isteria e la fuga nel dubbio saccente, la mia larva approdava in fossili di mestizia, in vaticinati abituri d'ossa e sacrazioni, nella mirabilia dalle vaste pretese. Ero nel luogo del tuo Permiano, nell'alta stagione delle mie estinzioni, basso quanto bassa è la voracità di una clemenza ventrale; laterale e nudo come l'utopismo nella sua effusione dalla gola di vernice. Cementavo il parto col tuo ordito, ingollando la pece calda, il clangore del nero fin sotto le falangi. Dagli strati ungueali alla proteiformità della voce, fin nella falda infrangibile del verme, cadendo da crisalide come crosta sublimata, piano, come il fortunale scisso nella sentenza delle disarmonie più inquiete, amaro come il danno della peste nel sacello, libero di stare, appena estinto, vuoto nel tempo.
Marco Nuzzo, nato in provincia di Lecce nell’aprile del ’78, è recensore e collaboratore editoriale. La sua bibliografia comprende: “Ultime frontiere” - (Poesia) Aletti Editore, 2011; “Non ti piacerei, vestito dell’inverno appena trascorso” - (Poesia) Rupe Mutevole Edizioni, 2011, prefato da Emanuele Marcuccio; “Anime” – Di Gioia Lomasti e Marco Nuzzo (Poesia), Photocity Edizioni, 2012; Prefazione e revisione della raccolta "L'ora dell'Horror" (Racconti AA.VV.), Edizioni Il Foglio, 2013; “Le falene dalla luce” - Di Alessandra Molteni e Marco Nuzzo (Poesia), Matisklo Edizioni, 2014.
Nel giardino dell’esser-ci
Sono molteplici i piani che Patrizia Dughero mette in gioco con “L’ultima foglia/giustificata, interlinea singola” dove viene declinato l’esistere nelle sue dimensioni naturali e corporee, in un costante rapporto con la lingua in cerca di una sua rigenerazione.
Dalla parte dell’esser-ci, anche di “una certa felicità di esistere” raggiunta al termine di una sotterranea battaglia a partire da un lutto personale, l’autrice insegue, come ci indica, una specifica “qualità dell’esserci: il movimento dei volatili…della luce…del fogliame e degli alberi”, da assecondare con il corpo e con le parole, in una tensione onomatopeica suggerita dai versi di J.al-Dīn Rūmī, nello sforzo doloroso di uscire da “silenzio e aridità” .
In un tentativo di allontanamento dall’io, concentrando lo sguardo sul reale e consapevole comunque dello scarto tra linguaggio e realtà, il dire cerca una nuova rinascita nel prendersi cura di un giardino e di una lingua, così come nel seguire, attraverso il canto degli uccelli, la musica dell’esistere.
Tra i confini, naturali e grafici, che impone al giardino e alla scrittura, nella sofferenza sottotraccia in cerca di cura e rinascita, Patrizia Dughero mette in gioco tutto il proprio corpo nel far risorgere, nell’alterità, parole e senso, come precisa: un corpo che “vive e rivive soltanto nella parola” e in cui “le mani si sono infine congiunte / come guardando una battaglia che diventi arte”.
***
dopo la morte del padre le parole
si sono ammantate di bianco
uscendo dal fango dell’ambiguità;
per un certo tempo hanno percorso soltanto
sentieri di silenzio e aridità;
sono state le voci dei volatili, introdotte
l’anno precedente dal gracidare assordante
delle rane e dei ranocchi,
a ricondurre al volo che percepisce parole,
cercando di forare la porta
lavorando con le mani, per prima cosa,
imponendo confini secchi alle bordure:
le mani si sono infine congiunte
come guardando una battaglia che diventi arte.
***
il cancello ha inferriate grandi che si
specchiano sui muri interni, con ri-
flessi a losanghe, texture di ombre; il
bicchiere risplende di luce propria e
un incendio, fuori, avanza crepitando.
come piuma dal sacco il sale si riversa
sul fuoco, disperdendosi a mo’ di pulvi-
scolo, il fuoco s’arresta.
***
se non ci fosse il suono qui sarebbe nulla,
ma c’è una musica diegetica che impedisce
il silenzio: il silenzio del bosco ha il bianco,
essere che mostra niente.
Patrizia Dughero: Di origine friulana, sono nata a Trento il 30 aprile 1960. Mi sono laureata con una tesi in Fenomenologia degli stili (prof. Renato Barilli) presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Bologna, dove ho anche conseguito un Master, dal momento in cui Bologna diventa la mia città d’azione, avendo precedentemente vissuto in molte città d’Italia: una molteplicità di luoghi che caratterizza anche la mia professionalità. Non lontana l’esperienza come restauratrice muraria, nel campo del restauro di beni artistici e culturali, presso alcuni importanti cantieri bolognesi. Ho sempre coltivato la scrittura e le collaborazioni editoriali, negli ultimi anni ho ricevuto diversi premi letterari, sono attiva nell’organizzazione di eventi e presente in alcune antologie inizialmente di racconti brevi (Premio “Fili di parole III”, per Giulio Perrone Editore) e in seguito esclusivamente poetiche, le ultime a tema civile, Cuore di preda e Il ricatto del pane, entrambe CFR Edizioni e Sotto il cielo di Lampedusa, Rayuela Edizioni. Ho scritto articoli a tema fiabesco inseriti in blog e antologie, come Di là dal bosco, andata e ritorno nel paese delle fiabe, Dot.com Press Edizioni. Sono presente in numerosi blog con i miei articoli e con altrui recensioni sulle mie poesie, inserite in riviste letterarie sia in Italia che in Slovenia, quali “Poesia” e “Novi Glass”. Quattro le sillogi poetiche pubblicate: Luci di Ljubljana (Ibiskos Editrice Risolo - Empoli - 2009), Le Stanze del Sale, vincitrice del “Premio Giorgi” 2010 (Le Voci della Luna - Sasso Marconi - 2010); Contatti, col poemetto Canto di Sonno, in tre tempi, vincitrice del premio “Ulteriora mirari” 2011 (Edizioni Smasher - Messina - 2011); Reaparecidas (Qudulibri - Bologna - 2013). Selezionata al premio “Elsa Buiese 2013” per DARS (Donna Arte Ricerca e Sperimentazione) di Udine, con il poemetto Camera Oscura, inserito nella raccolta Reaparecidas insieme a alcuni dei Disegni sui giornali di Marcello Gentili. Nel 2014 sono stata selezionata al “Premio Montano” per la sezione “Una prosa inedita” con il componimento Dipingere non è tingere. Da qualche anno sto svolgendo studi sul linguaggio poetico dello Haiku, in particolare con tre articoli apparsi su “Le voci della Luna”, rivista d’informazione e cultura letteraria e artistica, di cui sono stata capo redattrice per diversi anni. Ho messo a punto un progetto, dal titolo “Possiamo chiamarla poesia gentile?” che fa seguito al precedente “Haiku: sulla brevità per scoprire in se stessi lo stupore”, inserito in un ampio contesto, adattato a differenti fasce d’età, svolto nelle scuole elementari e presentato ai plessi delle scuole medie della provincia di Bologna e all’Università Primo Levi di Bologna. Sono redattrice di “24marzo Onlus”, associazione che si occupa di iniziative in Italia sui desaparecidos dell’Argentina e dell’America Latina. Dal 2012 ho aperto una casa editrice, Qudulibri, che amo definire fondata sull’ “impegno del linguaggio per una militanza della Memoria”. Tra le collane di Qudulibri, la collana di poesia breve Ku. Non senza titolo di Daniel Gahnerz è uscito per Qudulibri in tre lingue, svedese-inglese-italiano e riportato successivamente nel linguaggio dei segni, con una mia nota dal titolo “Contagio haiku”. “Gli haikai dei rimorsi di Pierpaolo Pasolini” è un mio articolo apparso nel blog Cinquesettecinque a luglio del 2014.
Alessio Alessandrini costruisce i suoi versi svolgendo la narrazione di attimi di vita vissuta, scenografie minime sviscerate ossessivamente fino al minimo dettaglio, purché strettamente interiorizzate o interiorizzabili.
E non sono riferimenti alla metropoli ma sempre elementi di scenografie interiori gli accenni ai non-luoghi del nostro quotidiano: “Le autostrade agonizzano di gialli fari…” in cui oggetti della vita comune si coagulano in una rete solida cui ancorare il proprio disagio per documentarlo, smontarlo, spiegarlo, senza archiviarlo mai.
Nello stesso modo i paesaggi della consuetudine scivolano in una percezione volutamente incerta, franano nel racconto di paralleli moti dello spirito (“Lungomare disertato, deserto e desueto/solo tiepidi passaggi emozionali…”).
Nessuna pretesa di condivisione o generalità in questa poetica livida, permeata di piccoli e grandi dolori, espressa in forme regolari, dai ritmi lunghi e instabili, con frequenti intrusioni lessicali: “E poi, un incensurato rumore di orme/scalze, scadute sui parati, sul parquet…”.
L’universalità di questo sentire emerge come elemento strutturale di ogni riuscita lingua poetica.
Dalla sezione “Bianco”
Stanze d’albergo
a Remo Pagnanelli (in memoria)
L’indomani, certo, occorrerà
con deferenza e infame zelo
abbandonarla questa vacanza
di pochi metri quadri arredati
dove abbiamo gettato le ancore,
provvisorie, navigato, a volte,
perpetrato il duro inganno
di sconfiggere la sorte che
ci vuole solitari con i nostri
inciampi di pelle morta o sebo.
Dovremmo recuperare i resti umani
le tracce pelviche, il lenzuolo
affebbrato, gli asciugamani
perché nessun passo estraneo osi
sconsacrare quello che ci è stato
concesso mescolare.
Eppure resisterebbero le orme e
un battito soffice che sa di animale,
la consistenza impalpabile,
la consorteria della carne coniugata,
l’impercettibile bigiotteria del vivere
che ci conferma angeli ancora troppo
teneri: con mani e piedi e fiati piombati,
dalle ali impantanate tra il profumo
delle stelle e la moquette alluvionata
di polveri e capelli. Ma che resti
almeno il sudore o il suo alone
bianco: l’aver sfidato il cielo
in queste temporanee celle,
arnie da abitare appena e
dover maledettamente
rendere.
Dalla sezione “La panchina azzurra”
Molo sud
Noi così impudicamente scoperti,
osceni – offerti alla scena:
aperti, squarciati, indifesi
dietro tanta pigrizia:
due nuche ciondolanti
concesse alla bufera.
Inermi.
Il colpo sulla schiena.
***
Questa intramontabile fatica di distruggere ogni giorno:
vivere di scarti, liquami, decomposizioni minori,
per fecondare ventiquattro ore self service e via:
disossare porti, sfarinare templi, sciogliersi.
Alessio Alessandrini, Ascoli Piceno 1974, ha pubblicato “La vasca” (Lietocolle, 2008), vincitrice del XXII Premio Camaiore nella sezione Proposte Opera Prima. Sue poesie possono essere lette in raccolte antologiche o sul web.
Racconto epistolare
Generalmente chi scrive ama il rimando da una parola all’altra, di voce in voce, senza portarsi mai a contatto con i segni arginanti esterni. Non è così per Tiziana Colusso, cosciente com’è che fermarsi a questo reticolato verbale significherebbe aver pensato troppo poco e inadeguatamente il rapporto tra il dire e la cosa.
«Dovremmo trovare il modo di sostenere più a lungo lo sguardo sulle cose» riflette Tiziana Colusso, ed è una riflessione che è segnata da un’insuperabile necessità: cogliere gli avvenimenti, i contesti, gli incontri e le opposizioni della propria vita come una sorta di chiamata da parte dell’essenza nascosta – ma al tempo stesso inevitabile e impellente – del mondo. È un mettersi in gioco nei confronti della scrittura da una parte e rispetto agli accadimenti della vita dall’altra. Ciò determina una scelta radicale riguardo alla percorribilità o meno di certe strade: la forma epistolare della narrazione, il minuzioso racconto dei sogni, la dialettica mai deposta tra materia vivente e materia inerte.
Ciò che Tiziana Colusso scrive riguarda di fatto la nostra condizione e il nostro destino. Dice qualcosa di essenziale per noi. Dice che grande importanza ha il passaggio dallo stato di veglia alla dimensione onirica e che in questo passaggio va prestata grande attenzione al precipitare della parola nel non-detto.
Nutrimenti. Fusioni. Nascite. Ma la scrittura è una creazione o una creatura?
Cara amica, i nostri pensieri non sono mai puri. Dovremmo concentrarci, scolpire le parole ad una ad una, fino a farle vibrare. Ad un certo punto la forma si disfa e tutto eternamente ricomincia. Dovremmo trovare il modo di sostenere più a lungo lo sguardo sulle cose, sulla loro luce. La luce della rabbia è una luce elettrica, di forma netta, trascina con sé onde di detriti, polvere, cellule morte. La guerra è una luce artificiale, non vibra, forte nella sua immobilità. La luce viva la si incontra sui volti, attorno alle rughe, alle smorfie, l’ombra sulla guancia appena rosata. La luce dei volti è generata da soli interiori, che quando si spengono fanno crollare gli zigomi e gli angoli della bocca come impalcature.
A volte mi sembra che scrivere renda simili a quelle stelline fluorescenti che vendono nelle cartolerie, che durante il giorno assorbono luce solare e poi di notte la cedono a poco a poco sotto forma di una luminescenza fredda, come quella un minuscolo neon, e priva di ombra.
Ho generato bambini solo nei sogni. Una volta ho sognato di avere una bambina appena nata, attaccata al seno. Insieme a me c’erano F. - il quale non era soddisfatto di questa figlia perché eravamo poveri ed inseguiti dalla polizia e diceva che la bambina mi succhiava tutto il nutrimento - e M.T ed S., i quali mi davano consigli sull’orario delle poppate. Io credevo che la bambina dovesse mangiare solo una volta al giorno. Ricordo la sensazione piacevole di mia figlia attaccata al seno: un’impressione molto vivida, nonostante la situazione del sogno fosse tutt’altro che tranquilla.
Un’altra volta ho sognato di avere una bambina piccola e di fuggire con lei e mia suocera da mio marito che ci inseguiva, chissà perché. Io ero una madre distratta, che spesso si scordava dell’esistenza di questa figlia ma poi rimediava con slanci di affetto. Finivamo per rifugiarci in uno strano bar sotterraneo che poi scoprivamo essere un bordello. Atmosfera calda e ovattata, con camere disordinate ingombre di biancheria. Ci sedevamo nel salone della casa indossando solo la biancheria intima e la vestaglia, di fronte a noi alcuni ragazzi esaminavano le donne in offerta, io non sapevo dove tenere la bambina, non volevo lasciarla nelle stanze ma non potevo nemmeno tenerla con me in quella vetrina, che però era confortevole, un rifugio nella notte fredda. La suocera aveva preso la situazione con ironia e stava lì sul divano sotto gli sguardi degli uomini, dicendomi sottovoce "Però guarda che se lui ci trova qui ci ammazza sul serio!"
Di nuovo un sogno con un bambino piccolo, un neonato, che io dimenticavo di nutrire. Le circostanze del sogno sono svanite, ma ricordo che mi trovavo con altra gente e tornavamo a casa di corsa perché io mi accorgevo di non avere dato da mangiare al bambino per troppo tempo. Ricordo che entrando in camera da letto trovavo sul letto grande, sfatto, dei gatti addormentati e poi, su una coperta, il bambino, che nutrivo a seno. La paura mangia l’anima, diceva Fassbinder. E l’anima, cosa mangia?
Sogno di Aurelia. Voci, pesci affamati intorno al pane, si avvicinano ad un nucleo di luce che vibra appena sotto il pelo dell’acqua: quella luce è lei. Le voci-pesci discutono intorno a lei, le voci vicine si sporgono a guardare e si allontanano con uno scatto pauroso della coda quando lei muove la testa o digrigna i denti in risposta a voci cupe come ombre, che salgono dal fondo e si distinguono dalle altre per certi pungiglioni urticanti e la persistenza della loro ombra.
Mi risveglio da un sogno con un’orribile sensazione di soffocamento. Il luogo del sogno è una piscina affollata. Un uomo fa nuotare con infinito amore e con pazienza una sorta di fantoccetto alto non più di un palmo, senza braccia né gambe e con due alucce atrofiche sulle spalle. E’ sua figlia, con l’evidenza folgorante del sogno. La appoggia sul pelo dell’acqua e la bambola - che è in realtà è un pupazzo di forma indefinibile - scende verso il fondo della piscina. Lui si tuffa e la riporta a galla. Intanto una persona nuota da un bordo all’altro della piscina, e ad un certo punto una bambina cerca per scherzo di soffocarla, mettendole la mano sulla testa in modo da farla restare sotto il pelo dell’acqua. Lei le morde un dito, con forza. Si sente
scricchiolare l’osso sotto i denti. Poi il ricordo torna ancora al bagnetto del fantoccio e di suo padre. Molte persone assistono alla scena, intenerite da tanto amore nei confronti di un esserino così deforme. Il padre la deposita sull’acqua e le chiede se ha paura di andare giù. La bambina-fantoccio, con una voce saggia e pacata, risponde "no se scendi pure tu". Il padre ricomincia a tuffarsi, a prenderla e riportarla su. Fino a che in una discesa il fantoccio si incastra nella vegetazione corallina del fondale. Il padre, facendo attenzione a non rovinare le alucce, la riprende: niente panico. Il panico comincia quando si dà la spinta per risalire ed è troppo corta. Scende nuovamente sul fondo per darsi un’altra spinta, più forte, ma l’aria nei suoi polmoni si sta esaurendo. La vedo dal basso risalire a siluro, uscendo dall’acqua sotto la spinta del panico, questo stesso panico che mi fa svegliare di colpo.
In una mostra sulla Cina a Venezia, ho sostato a lungo di fronte ai corredi funebri antichi, che riproponevano una riproduzione perfetta del mondo reale, compresa una moneta coniata appositamente, una moneta in bronzo o ceramica destinata alla "circolazione nel mondo sotterraneo". Questo simulacro di realtà è insieme angosciante e consolatorio: proprio come la scrittura. Nella mia scrittura, ricorrenza quasi ossessiva della dialettica tra materia vivente e materia inerte.
La luce va via a causa del temporale, rimane acceso solo lo schermo del mio computer, che risalta nel buio come un oggetto totemico. Accendo una candela, per bilanciare le luce azzurrognola e fredda con una fiammella calda. La gatta, terrorizzata dal fuoco, scappa dietro alla cassapanca. Il ragazzo che me l’ha regalata mi ha raccontato che la gatta ha avuto una vita travagliata, tra le varie disavventure è anche scampata ad un incendio. Gattina, ti dedico un verso bellissimo di Ingeborg Bachmann. Ora al buio sarebbe complicato ritrovare il libro nel soppalco. Ti dovrai accontentare di una citazione a memoria: "Vedo la salamandra attraversare tutti i fuochi, e tuttavia...". E tuttavia?
Sequenze di parole dotate di alto tasso di informazione, come quelle dei giornali. Oppure le parole anodine della comunicazione quotidiana, familiare, che hanno il loro vero significato in un’eterna partita a scacchi emotiva che si gioca sotto e attraverso le parole. Per avere ancora voglia di scrivere si devono trovare parole dense, che salgono alla superficie da una riserva situata in un altro tempo, in un altro luogo. Altrove, altrimenti. Parole magiche: nel senso proprio del termine, dotate cioè di potere evocativo e non informativo. Parole-miracolo, nel senso in cui Wittgenstein usa questa espressione in "Lezioni e conversazioni": "E ora descriverò l’esperienza di meravigliarsi per l’esistenza del mondo, dicendo: è l’esperienza di vedere il mondo come un miracolo"
Ospite in una casa con camino, passo molte ore ad accendere e ravvivare il fuoco. Quest’attività è diventata la scansione della scrittura, anche per la somiglianza tra questi due gesti. C’è da un lato tutta la simbologia di purificazione delle scorie tramite il fuoco, di trasmutazione alchemica di una ganga di materiali disparati in una quintessenza fondata in sé stessa. C’è anche una similitudine più semplice, manuale, tra lo scrivere e il tenere acceso il fuoco con equilibrio di legna, di soffio, di carta, a volte di alcool. A volte la fiamma stenta per ore, a volte la legna è poca o poco stagionata, a volte dopo molti tentativi, quando si è già rinunciato, c’è una fiammella sotterranea che si propaga in un attimo a tutta la catasta.
Un tempo ero convinta che il salto tra la lingua d’uso e la lingua letteraria fosse in una sorta di preziosità inusuale del lessico e della situazione. In realtà è piuttosto una questione di tono, di un ritmo che sin dalle prime battute si percepisce diverso: ed anche frasi che pronunciate in altro modo scivolerebbero via senza lasciare traccia, acquistano in questo tono e ritmo una risonanza particolare, inconfondibile. La mia scrittura è stata forse originata da questo bisogno coatto di ripulire, mettere a punto, precisare, un discorso che mi sfugge dalla bocca senza alcun controllo.
Alla stazione di Nervi, appena dopo il calar del sole, nella luminosità diffusa, un treno con i finestrini accesi sfreccia rapido di fronte alla balaustra affacciata sul mare, e una volta che è passato lo sguardo scopre dietro di lui il mare immerso nella luce grigia, e davanti alla linea dell’orizzonte un traghetto con gli oblò illuminati. Lo sguardo pensa a tutte le storie che sfrecciano via dietro i finestrini del treno e gli oblò della nave e si rende conto con tristezza di non avere nessuno da rimpiangere: nessuno è partito, nessuno sta per sparire
all’orizzonte. Lo sguardo deve allora forse inventare una storia per collocarla tra quegli abitatori di luci fuggitive: inventare qualcuno che è partito, per poterlo rimpiangere.
Lo spazio è tutto, lì dove non c’è il tempo. E se non c’è il tempo non c’è neanche la fine del tempo. Lo spazio solido e immobile invade tutto di sé, e la stessa esistenza non è che una posizione in quello spazio, il quale si modella intorno all’esistenza come una presenza gelatinosa. C’è un silenzio intessuto di battiti attutiti, sciacquettii, aria smossa, fiumi sotterranei lenti e continui. Da qui, da questa dialettica tra spazio-conchiglia e spazio-infinito, ha origine il racconto
Una serie di immagini che rimandano in forme e modi diversi al binomio materia vivente/materia inerte, con i relativi passaggi di trasmutazione. Ad un certo punto avevo appuntato su uno dei quaderni una frase di Wittgenstein "Ogni mattino dobbiamo penetrare di nuovo attraverso cumuli di pietre morte per arrivare al vivo, caldo nucleo".
Questi miei quaderni, luogo insieme mobile e tangibile della scrittura, che ho trasportato in tutti i luoghi del mio pellegrinaggio di anima in pena - case, quartieri, città, bar, aeroporti, ospedali - sono stati il mio luogo privilegiato per la tessitura complessa e discontinua del mio mondo. La loro presenza mi consola, lenisce il sentimento di dispersione di me, di smarrimento. Le loro copertine lise, variegate, familiari, sono in qualche modo la conchiglia del mio mondo e del mio discorso sul mondo
E se la pietra di Sisifo fosse un’immagine della pietra filosofale? In tal caso non si tratterebbe di cercare tanto lontano, ma solo di riuscire a vedere veramente ciò a cui si aderisce con tutto il corpo e la fatica - la vita? In un libro sull’alchimia di cui ho dimenticato l’autore, si dice che "lavorando il corporeo e trasmutandolo, l’alchimista trova l’uomo autentico che non c’è ancora".
Tuttavia, mi preme dirlo: questa storia è dedicata a chi sa che le storie non si costruiscono come una casa - con una griglia di cemento armato preliminare e poi le rifiniture, gli impianti, gli infissi - ma come una tela di ragno. Costruzione paziente del discorso che filando e filando, secrezione infinita, si dispone in una forma compiuta, luccicante di geometria e di saliva.
Tiziana Colusso:
Sito internet: www.tizianacolusso.it
Autrice di narrativa, poesia, testi teatrali, fiabe, saggistica. Ha fondato nel 2009 e dirige il trimestrale telematico FORMAFLUENS - International Literary Magazine (www.formafluens.net).
Dopo la laurea in Letteratura Comparata a Roma ha vissuto a Parigi, specializzandosi all’Université Paris-Sorbonne e collaborando con “La Republique Internationale des Lettres”. È stata dal 2004 Responsabile Esteri del Sindacato Nazionale Scrittori e tra i promotori della nuova Sezione Nazionale Scrittori SLC-CGIL, creata nel 2014. Dall 2005 al 2011 è stata eletta nel Direttivo (Board) dello European Writers’ Council, Federazione delle Associazioni di autori dei paesi europei, con sede a Bruxelles.
Tra le sue pubblicazioni: La manutenzione della meraviglia. Diari e scritture di viaggio, 2013 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri; Ecofrasie, audiolibro con CD allegato. Testi di Tiziana Colusso e musiche originali di Natale Romolo e Federico Scalas. Edizioni Terre Sommerse 2012; La lingua langue (traduzioni di suoi testi poetici in dodici lingue: Arabo, Bengalese, Bulgaro, Danese, Francese, Giapponese, Lèttone, Inglese, Romeno, Slovacco, Spagnolo, Ucraino, prefazione del Prof. Jean Charles Vegliante - Université Sorbonne Nouvelle) Ed. Eurolinguistica 2010; Il sanscrito del corpo, Fermenti 2007; Italiano per straniati, Fabio D’Ambrosio Editore, 2004; La criminale sono io – ciò che è stato torna a scorrere Arlem 2002, riedizione in eBook 2011, sito letterario “La recherche.it”; La terza riva del fiume, Ed. Impronte degli Uccelli 2003; Né lisci né impeccabili, Arlem 2000, Il Paese delle Orme, Edizioni Interculturali 1999; Le avventure di Gismondo, mago trasformamondo, Edizioni Musicali, 1998. Ha partecipato a numerose antologie di prosa e poesia (tra le ultime L’amore è un topo strabico, (racconti), Robin Edizioni 2010; Poesia a comizio, Empiria 2008; Cattivissimi, racconti neonoir Stampa Alternativa 2012) e a vari Festival Letterari in Italia e all’estero. Collabora riviste, enti e istituzioni culturali.
Pratica dal 2006 il Tai Chi, e da molti anni la meditazione Vipassana.
Poesia della piena presenza, scritta da posizioni che non arretrano.
Antonino Contiliano vi instilla a piene mani tutto il sentire e insieme tutto il vedere. Al termine di ogni strofa porta il testo fino al limite del possibile, fino all’ultimo metro di terra, fino alla sporgenza che salva dal crepaccio.
Quanto del climax determina l’ascolto e la lettura, quanto della visione diventa parola che con-fonde e porta lontano, si risolve in una ridda di metafore additive proposte con ritmo serrato, per spaesamenti improvvisi, verso una gioia fra le oscillazioni in fuga e altre connotazioni tanto orientate al senso e alla sorpresa linguistica quanto al mondo emozionale.
Dal momento che morire è il futuro che ci viene incontro, Contiliano conduce tutti, noi lettori e se stesso, senza dolore, verso il fatale esilio o l’ultima stazione.
Nel buio incrollabile nessuna notte promette complicità e ripari.
Nella vita figurata dall’autore non c’è consolazione né retorica ma solo, al più, un vago rimpianto d’amore. Tutte le gioie sono passeggere.
Amour événementiel
all’ironia di un amico
incendiaria una marea questi fiori cardiaci
questi fotoni sognanti e le foglie di neve
un naviglio di onde nello spazio profumato
questo attracco di notti rotte all’addiaccio
delle mani i doni giuramenti inanellano
e le vibrazioni dei desideri ventosi e rasi
aggrappati sono carezze dell’azzurro arso
una gioia fra le oscillazioni in fuga, ça va...
svuotati del vuoto e dell’ora gli orli e in volo
ora che d’essere ventagli si posano scuciti
svelata con-tingenza di miele una scia sugli anni
un bagno événementiel di danze virali l’amour
la notte è una farfalla dai colori nucleari
e nessun infinito turba così tempestoso
una veglia dell’udito così tastiera criminale
che ogni ferita è gelo addosso al silenzio
poche sono le cose da dire e non disdire
questo nodo di primavera fuori stagione
è così sorgente emergente senza passato
che in cascata corre ragione scalarne i sorsi
nessuna notte promette complicità e ripari
o angoli occupati dal risveglio avvenire
non c’è palpebra che rosa s’abbassi e passi
se non per pazzire sì ... bruci ogni gola
ogni futuro è senza intervalli a monte
a valle per-per-tuo impulso urti e flutti
un nulla solido sbattuto dai sognatori
gli istanti radioattivi dell’amore durante
amico lascia l’ironia a chi già sa dove
morire è il futuro che gli viene incontro
e un carico d’anni gravato solo da un peso
quello degli amori non vissuti e sans dire salut!
Antonino Contiliano è nato a Marsala nel 1942. Tra gli anni ’70 e ’80 ha fatto parte dell’Antigruppo, movimento poetico e culturale siciliano, diventando anche redattore di “Impegno 80”, la rivista del gruppo. Tra le sue moltissime opere poetiche ricordiamo Il flauto del fauno (1981), L’utopia di Hanna Arendt (1991), La soglia dell’esilio (2000), ‘Elmotell blues (2007), Il tempo del poeta (2009).
Alcune sue poesie sono state tradotte in varie lingue, nonché accolte in varie antologie e riviste dagli anno Settanta a oggi. Vasta anche la sua produzione critica.
Tra le assenze e i riflessi
Sta nel gioco di specchi, la cui superficie statica riflette “quel che resta sulla faccia / inflesso dalla lunga minaccia”, e di secchi, dove il tremolio dell’acqua moltiplica le facce, la trama di maschere e riflessi che Francesco Lorusso fa vibrare in “Il Secchio e Lo Specchio” .
Sono riflessi insidiosi del tempo, poiché, scrive l’autore, “da sempre è l’imminenza che ci minaccia”, evidenziando un desiderio ribadito più volte e sempre insoddisfatto di permanere nel cuore della temporalità.
E sono riverberi dello spazio, di quello esterno che riflette inquietudini “nello specchio amaro della via”, di quello interiore messo in luce da perdite e separazioni e di un altrove che si affaccia nell’alitare di un battito, quando “ti fissa tra gli occhi l’assenza”.
E sono insieme rispecchiamenti dell’io e delle cose, dove le grinze, le fessure, le crepe disegnano i riflessi, come mette in luce Francesco Lorusso, sia dei volti, “dentro gli specchi doppi oramai grigi di luce / che sono simili alle grinze che ci cuce la sorte”, sia del mondo, poiché “dentro la grinza / ti parlano alcune cose / con un riflesso freddo / che ne sciacqua le crepe”.
E anche il dire trova i suoi riverberi, come precisa l’autore, tra le screpolature di “parole marchiate / da una balbuzie digiuna e diversa” e un suono a volte “lontano senza più luce”, a volte che “insiste… che cerca ragione”.
Dalla sezione “Il secchio e lo specchio”
***
Rapsodie diffuse silenziano la notte
ti trascinano fuori dalle acque aperte
da questo fiato inceppato nell’onda
Sono i corpi che muovono la paura
sul mare delle parole marchiate
da una balbuzie digiuna e diversa.
***
Sei aperto da fessure al vento
frutto del lavoro di chi paga
di colui che consuma il nome
sul segno certo di suole sconosciute
le voci di una prigione indistinguibile
nervo montante di finestre troppo simili
a forme fatte lunghe di luce già mozza
mantenuta meticolosamente nascosta
all’ascolto di quella parte comune di bocca.
***
Così ritorno nella stanza nuda
fra l’umore immutato dei mobili,
la sedia sperduta che non mi aspetta
e un suono lontano senza più luce.
Dalla sezione “Sette interpunzioni strette”
2.
e ci stava solo un frammento finito fra le fessure
un luogo comune che ci costava fatica e respiro
il fianco sciupato dalla piega sana del camice
e la narice sottesa sui movimenti senza suono
ad accogliere il rigore composto del nuovo corpo
il foglio buono delle figure fitte ora affastellate
3.
la festa oramai finisce nella forza fiera dei tuoi giorni
attraverso il braccio sotteso sulla tua parola perduta
ma sai che da sempre è l’imminenza che ci minaccia
ora che sono i fili oltre le finestre a gesticolare per te
sfiniti sulle vesti che non arrestano il tuo ultimo salto
ma l’istante si aggrappa al lento movimento della mano
Francesco Lorusso (Bari, 1968), dopo aver ottenuto diverse menzioni e un premio nel 2003 con una sua lirica al concorso “Città di Bari”, pubblica una corposa silloge sulla rivista “incroci” di Bari, dal titolo “Nelle nove lune e altre poesie” (2005). Esce in volume per la Cierregrafica di Verona, nella collana Opera Prima, prefato da Flavio Ermini, con la raccolta “Decodifiche” (2007). Il suo ultimo lavoro è per l’editore La Vita Felice di Milano con una prefazione di Daniele M. Pegorari e una nota critica del poeta Vittorino Curci, dal titolo “L’Ufficio del Personale” (2014).
Angela Greco sviluppa il tema con poesie dal respiro ampio e dal ritmo veloce, concitato, a tratti accanito: “ho un sospetto di sentimento che s’accorda al tuo nome/e vocali e voragini aperte nell’attesa di averti addosso…”.
Il tema è l’amore, non certo teorico, ma reale e specifico per un “altro” non generico.
Il ritmo segnala il corpo, necessariamente fisico, solido e presente, in tutte le declinazioni
che riguardano il desiderio, nello stesso modo fisico e solido, sia in assenza che in presenza dell’amato: “mi soffermo come se ancora non fossi ma già sento/diventa vero il distacco dal rumore intorno e anche tu”. La tensione verso l’oggetto d’amore, anzi, risulta essere vera sia in assenza che in presenza dell’amato.
Come afferma acutamente Rita Pacilio in premessa, “bisogna formulare in modo precisissimo gli itinerari del sublime e della sua luminescenza per rintracciare i segni del fenomeno lirico europeo nella poesia di Angela Greco: versi lunghi, arditi e dotti dall’atmosfera emotivo/sensoriale, dai toni suggestivi...”.
Così Angela Greco restituisce in versi coerenti una profonda modificazione percettiva, consentendo alla lingua poetica di superare l’aspetto particolare del sentimento per tendere verso una visione universale.
***
ho bisogno d’un passo d’apertura
da tralasciare altrove la quiete d’una notte sola
di stelle scucite di desiderio: apro mani
in contraltare al quotidiano in canto stonati
rivolti ad una terra senza fini che restituirà
il legame che riporti al di qua del silenzio
mentre muta m’accordo all’azzurro in crescendo
strappato al momento in cui si dovrebbe altro
eppure necessario a riprendere strada e incontro
ritrovando quiete e quanto sappiamo essere
e che non possiamo:
avanza allora il dire sottile e lento precipita
verso palpebre chiuse anzitempo e prima di essere
voce che ha già detto meravigliando altri scenari
volo a comporre linea testa-cardio-strada ferrata
che in punto di fuga sbiadisce impossibile contro città
in lontananza striscia d’altro colore sul foglio del sé
senza giusta ragione se non l’incomprensione
guardo immobile lo svolgersi delle ore antimeridiane
***
riprendimi esattamente da questo punto
quello in cui coloravamo il ritrovarci stretti
precisi nello sbottonare voglia e labbra:
tra le tue dita il mio dettaglio nascosto alza la voce
e fughiamo chiaroscuri di silenzi ormai altrove da qui
ché sappiamo adesso dove posare l’istinto incrollabile
ad afferrare e restituire duplicate ipotesi di paradiso:
ritrovami ancora umida meraviglia
che ho atteso leccando una ad una piaghe d’assenza
mancanza oggi risolta dalla conoscenza delle tue rughe
varchi di tempo narrato ai miei occhi e sapienza
di sapermi nell’intimo di un ancoradadire:
siamo distanti solo un bacio non di più
e questa attesa è solo il nostro abbraccio più lungo
Angela Greco è nata nel 1976 a Massafra, dove vive; occupata in poesia, con la famiglia e con il suo collettivo di poesia, arte e dintorni Il sasso nello stagno di AnGre (http://ilsassonellostagno.wordpress.com/).
Ha pubblicato:
Primerio Bellomo ci avvicina allo stupore di un sortilegio.
Al “murmure diffuso delle cose non vedute”.
L’autore si muove nell’inestricabile connubio tra pensieri e osservazioni: la natura dell’alba diventa, nello scorrere del testo, sentimento dell’alba.
Bellomo ci rende partecipi della sua visione e del suo procedere: siamo su un crinale, sospesi tra una tesa capacità di linguaggio e la sua proprietà di originaria sorgente polisemica.
Le espansioni del senso offrono la possibilità di rendere evocativo ogni sintagma, ogni singolo attimo descritto, ogni singolo frammento della vasta scena.
L’intimità indocile e vivida del cielo offre il set naturale a una tenace e insieme tenue portata poetica, misurata nelle connotazioni che scandiscono gli intervalli del tempo.
Nella “corsa senza freni delle ore”, Bellomo descrive sfumature e arabeschi, trafitture, bassorilievi d’aria, cangianti e vive risonanze in cui
“resta vera e indifferente / l’innocente durezza della pietra”.
Alba
S'attorcono i pensieri nella mente
e non slarga il giorno all'alba.
Resta basso il cielo e il murmure
diffuso delle cose non vedute
s'arresta al gelo scialbo del mattino
che la prima luce rade.
Si assottiglia silenziosa
l'onda lunga della notte
e precipita in un giorno vuoto
la corsa senza freni delle ore.
Si alza solitario
il volo non pensato di un gabbiano.
La gioia del suo arco
è abbagliante purezza e senza scopo
abbraccia intera l'etra.
Cambia il colore delle case
ma resta vera e indifferente
l'innocente durezza della pietra.
Primerio Bellomo è nato nel 1958 a Palestrina (Rm), dove risiede. E' laureato in Architettura. Volumi pubblicati:
L'ombra del dire (Cierre Grafica, 2005) )
Chorale e Al fuoco dell’origine (Manni, 2009)
Primo vere (Josef Weiss Edizioni, 2011)
Notte siriana (Ed. Il Bulino, 2013).
Suoi testi poetici in:
Roberto Almagno - non solo carte (Gangemi Editore, 2007 ), catalogo della mostra di disegni e sculture dell’artista Roberto Almagno, tenutasi a Roma, presso la Galleria Mara Coccia
Attività 2009-10 dell'Archivio Afro
Segni e parole (Ed. Il Bulino, 2011)
Yasude (Premio Haiku 2013 - Empiria).
Nel 2009 ha partecipato con testi poetici inediti alla mostra Urban Necessity dell'artista Marco Milia presso la Estile Gallery, Roma.
Finalista al Premio Haiku 2013.
Più volte finalista al Premio Montano, nel 2014 è stato finalista nella sezione “ Una poesia singola”, con il testo La rosa dell'assenza .
Recensioni:
Giorgio Bonacini, Una collana dedicata in Il Segnale, n° 72, Ottobre 2005.
Rosa Pierno, Primerio Bellomo “ Primo Vere” in Carte nel Vento, settembre 2013, n° 20. Marco Furia, “Le forme del poema” in Carte nel Vento, aprile 2015, n° 27.